Torino 1706

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Testo

Torino, 1706

Il 7 settembre 1706 nei campi tra Lucento e Madonna di Campagna si fronteggiarono i due eserciti francesi e austro-piemontesi, in una delle battaglie più importanti della Guerra di Successione Spagnola. Alla fine della battaglia si conteranno circa seimila caduti d’oltralpe contro i tremila piemontesi. La vittoria del duca Vittorio Amedeo II e del Principe Eugenio di Savoia fu essenziale per la futura creazione del Regno di Sicilia (e Sardegna) e l’inizio della potenza sabauda nella penisola.

Per capire come si è arrivati a questo scontro, è essenziale comprendere la situazione politica del Piemonte di quegli anni. Dall’epoca della morte di Carlo Emanuele I, il Ducato di Savoia gravitava intorno alla Francia, poiché Vittorio Amedeo I sposò Cristina, duchessa di Borbone, che non soltanto fece orbitare il piccolo Stato intorno alla corte di Versailles, ma mantenne la reggenza anche sui due figli (Francesco Giacinto e Carlo Emanuele II), governando per quasi un ventennio. Bisogna anche ricordare i numerosi matrimoni con la Corona di Francia dei figli di Carlo Emanuele II e di Vittorio Amedeo II, oltre che la presenza sul suolo sabaudo di guarnigioni franche e l’acquisto di Milano da parte dei Valois, che rendeva quasi nulle le prospettive di espansione per i signori di Torino: non a caso le uniche estensioni territoriali le ebbe Carlo Emanuele I alla fine del XVI secolo, ed erano dirette al Monferrato e a Saluzzo (Trattato di Lione, 1601).

Un periodo quindi di estrema sudditanza alla Corte di Francia, che fece inizialmente schierare Vittorio Amedeo II con Luigi XIV nella Guerra di Successione Spagnola. Da una parte questi aveva la prospettiva di nessun espansione e di molte perdite umane, dall’altra, ovverosia dall’Austria, la possibilità della regia corona di Sicilia. Nonostante le vicinanze con le forze francesi, dopo oltretutto un periodo tra il 1691 e il 1696 in cui forti erano stati i contrasti militari e le sconfitte (Battaglie di Marsaglia e Staffarda) con la Francia, il giovane Duca, brillante uomo politico, decise di aderire alla lega di Augusta contro il Re Sole.

La mossa era stata però prevista da Luigi XIV, che aveva fatto anche occupare il Forte di Torino dai suoi uomini e aveva repentinamente inviato in Piemonte un forte esercito capitanato dal conte Luois de Vendome. Questi era un brillante generale che aveva più volte comandato le spedizioni nella regione settentrionale, tra il 1701 e il 1702, sul Reno, e aveva un’ottima esperienza: attaccò Pinerolo, che cadde, assediò e prese Bard e, dopo un lunghissimo assedio di sette mesi, conquistò Verrua. Per togliere i rinforzi inglesi di cui era privilegiato il Duca, annesse alla Francia i due porti sabaudi, Villafranca e Nizza. Sembrava che tutto fosse perduto, anche perché i rinforzi imperiali erano stati sconfitti a Cassano d’Adda.
Nel 1705 il Vendome giunse a prevedere un assedio a Torino, ma le scarse forze e l’approssimarsi della brutta stagione gli sconsigliarono l’impresa, ritirando l’esercito ai quartieri d’inverno. Venne nel mentre sostituito nell’impresa con il Conte Luois de la Fauillade, un giovane ed inesperto capitano che aveva poca pratica di assedi.

Vittorio Amedeo II richiese l’aiuto del cugino Eugenio e si chiuse nella Cittadella di Torino, un complesso militare di elevatissimo rilievo, tanto da essere annoverata, insieme a quella di Anversa, come la migliore fortezza d’Europa. Il progettista delle due era Francesco Pacciotto. Fa quindi aumentare le difese sotterranee, ideate da quando i turchi attaccarono con le mine nel sottosuolo la città di Famagosta (1571). Le gallerie costituiscono la principale difesa della città, strutturate su due livelli e alla cui sorveglianza e difesa provvedono 4 compagnie di 51 minatori più 350 manovali.

Il Fauillade attacca Torino il 12 maggio 1706. In quella data, una eclissi totale oscurò il sole, per antonomasia simbolo di Luigi XIV, e fece brillare la costellazione del Toro, il che diede grande forza ai torinesi.
Bisogna dire che nei primi periodi dell’assedio non ci furono grandi difficoltà: i piemontesi potevano liberamente entrare e uscire, e lo stesso Vittorio Amedeo aveva possibilità di fare quel che voleva. Astuto come una Volpe, da qui il suo soprannome, il Duca si fece inseguire per giorni e giorni dal conte Fauillade insieme ai suoi uomini migliori, mentre egli raggiungeva a Cuneo altre truppe e le portava così senza problemi a Torino.
Da giugno iniziarono i problemi. I rifornimenti giungevano ai torinesi via Po, ma presto i francesi si accorsero dello stratagemma e raccoglievano vettovaglie ed armi a monte. Per l’acqua si faceva bastare quella dei pozzi, per il cibo si allestirono orti. Dal sottosuolo, i minatori facevano saltare le guarnigioni francesi utilizzando le gallerie di Contromina.
Lo stratagemma era semplice: si posizionavano, avuta conferma della posizione nemica, una dozzina di barili di esplosivo (un barile= 2 rubbi, cioè 9 chili) e, isolati con terra dalla restante galleria, si dava fuoco alla miccia a loro collegata. I francesi subirono, con questo fuoco sotterraneo, quasi 15.000 morti nel corso dei 117 giorni di assedio. Il numero complessivo delle loro forze era 44.000 uomini.

Va detto che la gente diventava sempre più sfiduciata della vittoria: ogni torre era stata abbattuta, compresi i campanili (distrutti dalle bombe o dagli stessi torinesi, poiché erano un bersaglio per l’artiglieria), le mura erano ridotte a un colabrodo. La famiglia reale era a Genova, insieme alla Sindone, e rimaneva solo il Duca e il generale brandeburghese Virico Daun, capitano della cittadella. A rincuorare gli animi ci pensava il Beato Sebastiano Valfré, con la sua opera caritatevole di soccorso a soldati e feriti. I cronisti del tempo si meravigliano che in quel trambusto l’opera dei ladri non abbia trovato incremento: un solo malfattore fu scoperto ed impiccato, per tutta la durata dei 117 giorni.
Tra il 13 e il 14 agosto i francesi scoprirono l’imbocco di una galleria sotterranea, conducente alla Mezzaluna di Soccorso, il principale ramo delle gallerie, e vi penetrarono dopo una furibonda battaglia con i minatori piemontesi: furono fermati solo facendo saltare il tunnel, ma nei giorni successivi furono furibondi gli scontri per entrare nelle gallerie: trentotto compagnie francesi tentarono l’assalto alla Mezzaluna e ai condotto sotterranei, il 24 agosto, venendo respinte solo in tarda giornata e a carissimo prezzo: i piemontesi lasciarono sul campo 400 uomini e trentotto ufficiali. Il fossato intorno all’entrata sotterranea era talmente ingombro di vittime che il conte Daun, temendo l’insorgere di un’epidemia, fece bruciare le vittime.

Quel sinistro rogo salutò l’arrivo del conte d’Orléans, capitano francese, che aveva tentato di respingere le forze di Eugenio di Savoia in Lombardia e che adesso cercava di scagliare contro Torino l’ultimo assalto prima che alla città giungesse l’aiuto imperiale.

Nella notte tra il 29 e il 30 agosto, un gruppo di dodici granatieri francesi, cui si aggiunse poi un intero battaglione, discese nella Mezzaluna di Soccorso, e trovò poca resistenza. Il principe Eugenio stava arrivando, ma se fossero riusciti a proseguire avrebbero potuto chiamare rinforzi e occupare la Cittadella.
L’eroico sacrificio di Pietro Micca, un soldato minatore di Andorno, riuscì a fermarli. Accortosi dell’arrivo dei francesi, cercò di accendere una miccia collegata ad un barilotto da 20 kg, ma essa era bagnata e non s’accese. Nota è la frase con cui si rivolse al suo compagno: «Vai via, sei più lungo di una giornata senza pane!» e si fece esplodere insieme ai nemici, utilizzando una miccia molto più corta. Il suo cadavere non venne più ritrovato per secoli: solo nel 1954 il generale Guido Amoretti, scavando in un tratto non convenzionale della gallerie, ritrovò il luogo dell’esplosione e il presunto cadavere di Pietro Micca, scagliato ad oltre quaranta passi dalla scalinata che doveva difendere.

Torino era allo stremo. Vittorio Amedeo, saputo che Eugenio stava arrivando, gli diede appuntamento a Carmagnola per il primo di settembre, uscendo di nascosto dalla città ingannando nuovamente i nemici. L’incontro tra i due reparti fu salutato con un grido di esultanza: Eugenio arrivava forte di 30.000 uomini, che andavano ad aggiungersi a quelli rimasti a difendere Torino (erano 10.500 a inizio assedio).
A Superga Vittorio Amedeo ed Eugenio osservarono, l’alba del 2 settembre, la posizione francese. «Quelli là sono già sconfitti!» avrebbe detto Eugenio, e il Duca, inchinatosi a terra davanti ad un pilone votivo, promise che, se avesse trionfato in battaglia, avrebbe fatto costruire, su quel pilone, una splendida basilica.

Il sei settembre gli austo-piemontesi si spostano da Moncalieri, ove avevano la loro base, diretti a Torino, per ricevere i rinforzi del Conte Daun. Il Fauillade, l’alba del sette settembre, si sposta in direzione di Lucento da Pianezza e Venaria, sue basi.
Lo scontro è decisivo: Vittorio Amedeo combatte in prima linea con strenuo coraggio, mentre l’ala sinistra, comandata dal tedesco principe d’Anhalt, cerca di accerchiare i nemici. Dal centro, la carica di cavalleria capitanata dal principe Eugenio crea sconcerto nelle fila nemiche, che iniziano a vacillare. Quando, dopo forti bombardamenti, cade anche il castello di Lucento, i francesi ripiegano disordinatamente verso Po, trovando altri soldati piemontesi pronti ad attenderli vero Madonna di Campagna. Il disastro è totale: il Fauillade ordina la ritirata verso Susa e il Moncenisio, mentre gli imperiali inseguono le truppe nemiche e nei tre giorni successivi infliggeranno altre 7.700 vittime ai francesi.

Vittorio Amedeo entra in città sfilando insieme ad Eugenio e ai soldati dopo la vittoria. Si fermano davanti al Duomo e, alla presenza del Vescovo, si tiene un solenne Te Deum: ancora oggi, a Superga ogni 7 settembre viene ripetuto l’inno di lode.

In seguito a questo scontro, si ebbero altri sette anni di guerra. I piemontesi avanzano vittoriosi in Borgogna e nell’Alta Savoia, riprendendola ai francesi, ma non possono avanzare oltre Lione. Eugenio militerà in altre battaglie al soldo dell’Austria. Tra il 1713-14, nei trattati di pace, ai Savoia verrà consegnato il regio titolo di Sicilia, poi commutato per le avverse circostanze con la corona di Sardegna.

In ricordo della battaglia, che venne da subito celebrata come la principale vittoria fin ora compiuta contro i francesi, vennero posizionati piccoli piloni nei punti ove più sanguinoso fu lo scontro. Sulla collina, la Basilica di Superga celebra la vittoria, eretta in pochi anni con il disegno dello Juvarra, chiamato a ridisegnare Torino in un nuovo, elegante, gusto barocco. La cittadella, monumento all’assedio e alla battaglia, venne col tempo demolita lasciando soltanto il maschio, l’elemento centrale, alla memoria delle future generazioni, come a ricordare quando un piccolo manipolo di piemontesi mise in scacco il più potente Stato del mondo.

Bibliografia.
Guido Amoretti. Torino 1706, cronache e memorie della città assediata. Torino, 2006

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