Tito

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Testo

TITO

Tito, che aveva lo stesso cognome del padre, tanto eccelse, durante il suo impero, nella difficilissima arte di ingraziarsi tutti per intelligenza, per carattere e per fortuna.
Nacque a Roma; figlio di Vespasiano, generale e poi imperatore romano, e di Flavia Domitilla. Fu educato a corte assieme a Britannico e segui’ con lui gli stessi studi e gli stessi maestri. Erano tanto amici che si crede che Tito, che trovandosi a tavola accanto a lui, abbia assaggiando la bevanda per cui Britannico morì e ne sia rimasto ammalato a lungo. Più tardi, memore di questi fatti, dedico’ a Britannico una statua d’oro nel palazzo e anche un' equestre in avorio.
Fin da bambino si mostrarono in lui quelle qualità’ di corpo e di mente che sempre più’ si fecero vive con il passare degli anni fu di bellezza notevole ed ebbe una robustezza eccezionale per quanto non fosse alto.
Era abilissimo nel maneggiare le armi e i cavalli, nel comporre discorsi e poesie sia in latino che in greco e cantava piacevolmente e suonava la lira a regola d’arte.
Prestò servizio militare sia in Germania sia in Britannia, lasciando il ricordo di bravissime capacità e di uguale modestia. Dopo il servizio sposò Arrecina Tertulla, figlia di una cavigliere romano che era stato, in passato, prefetto delle coorti pretorie. Dopo la morte di lei sposò Marcia Furnilla, di ottima famigli; avutane una figlia, divorziò.
Nel luglio del 69 Vespasiano fu acclamato a sua volta imperatore dalle sue regioni, con a fianco i suoi due figli Tito e Domiziano. Avviandosi a Roma, Vespasiano affido’ a Tito il comando in Giudea per concludere la guerra Giudaica con la presa di Gerusalemme. La condotta bellica con i giudei rivelò Tito valente generale dalla mente acuta, conoscitore psicologico dei soldati e stratega accorto e audace. Concepì il piano d’attacco contro Gerusalemme in modo semplice e l’attuò con metodo in varie fasi successive premeditate. Le truppe acclamarono Tito imperator. Secondo Flavio Giuseppe, Tito aveva ordinato ai soldati di risparmiare il tempio alle fiamme, o di salvarne almeno l’interno; ma il fuoco distrusse ogni cosa mentre infuriava la carneficina dei difensori. Secondo un'altra tradizione tramandata da Suplicio Severo, il tempio sarebbe stato incendiato dietro il parere dello stesso Tito, in odio alle due religioni ebraica e cristiana. La popolazione della città fu fortemente decimata, durante l’assedio, dai combattimenti e dalla fame.
Dopo la distruzione di Gerusalemme Tito rimase ancora nella Palestina per provvedere alla riorganizzazione del territorio, soggiornando a Cesarea, Berito, Antiochia, Zeuma ecc., e infine passò in Egitto donde si avvio’ a Roma.
Alcuni avevano diffuso il sospetto che l’acclamazione di Tito a imperatore dopo la conquista di Gerusalemme fosse una prova che egli volesse ribellarsi contro il padre; ma Vespasiano non diede ascolto alla maldicenza ed insieme con il figlio celebrò un magnifico trionfo per la vittoria.
Vespasiano fece Tito partecipe delle cure del governo, come lo aveva fatto di quelle della guerra. Gli confermò il titolo di imperator designatus, come si vede da alcune monete, lo proclamò particeps, consors, tutor Imperii, gli concesse il potere consolare maggiore e la potestà’ tribunzia, lo nominò unico prefectus praetoriu, lo ebbe come collega al consolato negli anni 70, 72, dal 74 al 77, nel 79 e collega nella censura. Tutti questi elementi dimostrano infondata la tradizione che la famiglia Flavia sarebbe stata divisa da ambizioni, profondi odi, fino a supporre Tito avvelenatore di Vespasiano. Certamente qualche divergenza e qualche dissidio non mancarono tra padre e figlio e tra i due fratelli, perché Vespasiano dimostrava interesse maggiore per l’occidente dell’impero, mentre Tito inclinava all’Oriente e preferiva vivere secondo i costumi orientali. Questa inclinazione era approvata da rapporti di Tito con la principessa ebrea Berenice, sorella di marco Giulio Agrippa, re vassallo di un dominio nella Palestina. Durante la guerra giudaica Tito si era invaghito di Berenice, e quando ritornò a Roma, anche Berenice insieme con il fratello, venne a stabilirsi a Roma, ove prese a convivere maritalmente con Tito sul Palatino. Questa convivenza a corte della principessa asmonea provocava l’ostilità dei circoli conservatori romani, e doveva suscitare rammarico in Vespasiano, in Domiziano, nel senato, sia perché principessa di un popolo vinto e di religione avversata, sia per la potenza che essa aveva acquistato nella città. Cedendo alle rimostranze, ai rimproveri del padre e del fratello e all’opposizione del senato, Tito nel 79 si staccò da lei e la rimando’ in Oriente; né volle accoglierla quando, diventato imperatore, Berenice tornò a Roma, sperando di riconquistarlo.
Oltre alla crudeltà, era sospetta la sua dissolutezza, poiché assieme agli amici più prodighi si dedicava a orge che duravano fino a notte fonda e non era meno sospetta la lussuria per la sua abitudine di circondarsi di un branco di pederasti.
Insomma, tutti lo credevano, e apertamente lo dicevano, un secondo Nerone.
Ma questa nomea gli si voltò in bene e in sommi elogi quando dimostrò poi di non avere nessun vizio e, anzi, le più nobili virtù.
Offrì dei convitti più cordiali che dispendiosi e si scelse amici che, dopo di lui, i principi continuarono a tenersi accanto. Non portò mai via nulla a nessuno e si astenne dai beni altrui più che nessun altro mai, e non accetto nemmeno i regali tradizionali e legittimi. Eppure non fu inferiore in munificenza a nessuno dei suoi predecessori. Nell’inaugurare l’anfiteatro, fattevi costruire rapidamente vicino le terme, offrì uno spettacolo meraviglioso; diede anche una battaglia navale dove offrì anche uno spettacolo di gladiatori e una caccia di cinquemila fiere di ogni razza, fatte scendere dall’arena in un solo giorno.
Soprattutto, trattò con ogni riguardo, in ogni occasione il popolo intero tanto che, avendo annunciato uno spettacolo di gladiatori, dichiarò: “Non lo offrirò’ secondo il mio gusto, ma secondo quello degli spettatori!”. Infatti, non solo non rifiutò mai quanto gli veniva richiesto dal pubblico, ma spesso lo invitava a formulare le richieste.
Sotto il suo principato accaddero alcune sciagure: l’eruzione del Vesuvio in Campania, un incendio durato tre giorni e tre notti a Roma, e anche un'epidemia, più grave di quante ve ne fossero state fino ad allora. In tutte quelle calamità non dimostrò soltanto una sollecitudine di principe, ma un affetto di padre. Sorteggio’ dai consolari gli incaricati di soccorrere la Campania, e assegnò alla ricostruzione della città danneggiate i beni di coloro che erano morti eruzione del Vesuvio senza lasciare eredi.
Durante l’incendio di Roma proclamò con un editto che la città non avrebbe dovuto soffrire nessun danno.
Per curare il morbo e arginare le malattie non trascurò nessun mezzo né umano né divino.
Tra i flagelli del tempo, c’erano anche i delatori. Tito, senza stancarsene, ordinava che fossero fustigati nel Foro, con verghe e bastoni, e quindi fatti sfilare nell’arena.
Aveva dichiarato che accettava il pontificato massimo solo per conservare monde le mani, e mantenne la promessa. Infatti quando due patrizi furono riconosciuti colpevoli di aspirare all’impero, si accontentò di ammonirli a desistere dicendo: “Il principato è un dono del destino”.
Benché suo fratello non smettesse di insidiarlo, e spingesse quasi apertamente l’esercito a ribellarsi non consentì né che fosse ucciso né che fosse arrestato né che gli fossero tolti gli onori, ma continuò a dichiararlo partecipe e successore del suo regno.
Mentre si comportava in questo modo fu prevenuto dalla morte, con maggior danno per l’umanità che per lui stesso. Uscito da uno spettacolo, alla fine del quale aveva pianto copiosamente in presenza del popolo, partì per la Sabina. Alla prima tappa fu colpito da febbre e quindi, mentre proseguiva il viaggio in lettiga, si dice che aprisse un po’ le tendine e guardasse il cielo lamentandosi per il malanno.
Morì nella stessa villa del padre, alle idi di settembre, dopo due anni, due mesi e venti giorni che il padre era succeduto, nel quarantunesimo anno di età.
Appena si diffuse la notizia, tutti i cittadini piansero non meno che se avessero avuto un lutto nella propria famiglia.

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