Teano e l'Unità d'Italia

Materie:Riassunto
Categoria:Storia
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Testo

TEANO

La prima misura presa da Garibaldi fu l’ordine alla flotta napoletana d’integrarsi con quella piemontese comandata da Persano, e fu da questa fusione che nacque la Marina italiana.
Dopodichè formò un governo, composto in maggioranza di moderati già guadagnati alla causa piemontese e ne affidò la Segreteria a Bertani. E infine spedì a Vittorio Emanuele due lettere. In una gli chiedeva di mandargli come profittatore Pallavicino e nell’altra di allontanare Cavour, Farini, ecc. per il bene del Paese.
Tre giorni prima dell’arrivo della lettera il Primo Ministro era andato dal Re a dirgli che se voleva cambiare Ministero per compiacere Garibaldi, lo facesse pure, ma prima che il contrasto fosse reso di pubblica ragione; e il Re, messo con le spalle al muro, aveva dovuto rispondere che non ci pensava nemmeno anche se non era vero.
Dopo lo sbarco di Garibaldi in Calabria, Cavour aveva rinunciato all’idea di prevenire la sua conquista provocando un colpo di Stato a Napoli che conducesse al potere dei moderati in grado di decretare l’annessione prima del suo arrivo. E aveva pensato a un altro piano: battere Garibaldi sul tempo, mandando l’esercito piemontese in suo “soccorso”, in realtà a fermarlo, prima che potesse intraprendere la marcia sugli Stati pontifici.
In seguito Cavour si presentò dal Re mettendolo alla scelta fra lui e Garibaldi, cioè togliendoli la possibilità di scegliere. Quando la lettera del Generale arrivò, il Re rispose che il progetto del Ministero è impossibile e contrario al bene della causa comune e mandò una copia della missiva anche a Cavour.
In quel momento Fanti e Cialdini erano già penetrati negli Stati pontifici e Cavour aveva fatto precedere l’invasione da un ultimatum ad Antonelli che portava la data del 7 Settembre, ma in realtà era stato spedito l’11. La campagna durò in tutto diciotto giorni e fu risolta in una sola battaglia a Castelfidardo, dove le truppe di Cialdini batterono quelle di Lamoricière, vecchio arnese del reazionarismo. Così l’iniziativa tornava nelle mani dei piemontesi e dei moderati.
Infastidito dalla risposta del Re, Garibaldi fece pubblicare sui giornali una sua lettera a un amico di Genova, ma fu una mossa malaccorta che gli attirò le critiche di tutta la stampa moderata.
Il Generale si trovava nell’occhio di un ciclone che metteva a dura prova le sue scarse qualità politiche. A Palermo, Depretis stava lavorando per affettare l’annessione, e Garibaldi gli aveva dato il suo consenso. Ma Bertani lo persuase che, rinunciando alla Dittatura in Sicilia, avrebbe dovuto rinunciarvi anche a Napoli. E questo portò a un conflitto fra Depretis e Crispi, che si concluse con le dimissioni di Depretis. Il Generale nominò al suo posto Mordini, corse a Palermo, riaffermò in un pubblico discorso la sua intenzione di marciare su Roma, e rientrò a Napoli dove si profilava lo stesso problema.
Cavour, quando lo seppe, disse subito al Re che lo aveva chiamato Garibaldi per fare la Repubblica. In realtà i due non ebbero che un paio di colloqui nei quali Garibaldi cercava di convincere il Re di sbarazzarsi di Cavour.
Il Generale scrisse un’altra lettera a Vittorio Emanuele che sembrava contenesse la sua rinuncia alla spedizione su Roma purchè il Primo Ministro venisse licenziato. Il Re se la mise in tasca senza leggerla e rispose al messaggero: “Faccia subito l’annessione, o si ritiri”.
Garibaldi era dunque alla scelta: o l’annessione, che lo avrebbe privato di tutti i poteri, o l’insubordinazione per il proseguimento di una guerra di popolo fino a Roma contro la Francia e a Venezia contro l’Austria, così come suggeriva Mazzini. Pur non avendo grandi capacità politiche egli capì che la seconda possibilità, democratica e rivoluzionaria, aveva pochissime probabilità di successo, anche perché la situazione militare non era delle migliori dato che i garibaldini erano stati attaccati dai borbonici.
L’unico attacco contro il progetto di annessione immediata lo fece Ferrari, ma fu inutile. Alla votazione, la Camera diede l’unanimità a un ordine del giorno di ringraziamento a Garibaldi e 290 si contro 6 no al disegno di legge sull’annessione, che di Garibaldi comportava il licenziamento.
In seguito l’11 ottobre Garibaldi convocò a Caserta Pallavicino che rassegno le sue dimissioni. Contemporaneamente Vittorio Emanuele si dirigeva a Volturno, e Garibaldi già in contatto con lui lo aveva invitato a venire a fare “una passeggiata” a Napoli.
Il 25 ottobre, saputo che il re era in arrivo gli andò in contro. Centinaia di oleografie hanno riprodotto lo storico incontro, ma tutto è falso, a cominciare dalla località che non fu Teano, ma Taverna di Catena. Le raffigurazioni mostrano un Vittorio Emanuele che, in un’aria di festa, quasi abbraccia Garibaldi a sancire il matrimonio fra l’Italia del Re e quella del popolo. In realtà le cose si svolsero in tutt’altro modo. Il Generale cavalcando a fianco del Re gli chiese l’onore di partecipare all’attacco contro le ultime posizioni borboniche, ma il Re rifiutò. Egli voleva entrare a Napoli sulle ali di una vittoria tutta sua. All’ingresso di Teano, il Re invitò Garibaldi a colazione ma Garibaldi rifiutò.
Il bombardamento di Capua, ultima piazzaforte borbonica, cominciò il 1 novembre e fece più vittime tra la popolazione che fra le truppe. Il 7 il Re fece il suo ingresso a Napoli e diede al Generale un titolo di Duca, un castello e una pensione. Garibaldi disse: “Sono qui per fare l’Italia, non una carriera” e come ricompensa chiese solo che il Re partecipasse alla rivista di addio con cui si sarebbe accomiatato dai suoi volontari. Il Re promise, ma poi non mantenne. L’8 il Generale si congedò dai suoi uomini e per quell’ultima notte andò ad alloggiare all’Albergo d’Inghilterra.
Farini vietò al Giornale officiale di dare notizia della partenza di Garibaldi per Caprera e l’unico che ne diede conto fu L’indipendente di Dumas.

L’UNITÀ

L’incontro del Re con Napoli non fu dei più fortunai e Cavour venne avvertito che quanto prima il Re fosse tornato a Torino, tanto meglio sarebbe stato per tutti. Il pretsto per richiamarvelo fu l’inaugurazione della nuova Legislatura dopo le elezioni del gennaio ’61.
In ottobre egli aveva fatto approvare una legge elettorale che portava le circoscrizioni da 30 a 50 mila abitanti, in modo da ridurre il numero dei deputati.
La campagna elettorale fu condotta dal governo con mezzi massicci e non sempre leali.
A giocare in favore dei moderati fu anzitutto il fatto che essi detenevano dovunque il potere e avevano preso la mano ad usarlo. I democratici del Partito d’Azione, invece, non avevano uno strumento organizzativo che potesse far fronte alla Società Nazionale e dovettero subirne l’iniziativa.
Il successo governativo fu trionfale. I deputati dell’opposizione democratica non superavano gli 80 e grazie alla diserzione dei cattolici, scompariva quasi del tutto l’opposizione della destra reazionaria, molto legata alla Chiesa. Questo provocò un’autentica rivoluzione sia nella topografia del Palamento che nella sua nomenclatura.
Esso diventò praticamente bipartitico e i liberali moderati di Cavour, che fin allora si erano atteggiati a partito di centro, diventarono “la Destra”.
La legge che sanzionava la proclamazione dell’unità e la consacrazione di Vittorio Emanuele si componeva di un solo articolo: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia”.
Mazzini e i suoi seguaci chiedevano che quel primo Parlamento funzionasse da Costituente e redigesse un solenne patto fra la Corona e la Nazione, il Re e il Popolo.
L’impostazione mentale del Re restava quella di un uomo di Stato piemontese, che concepiva l’Italia come una conquista del Piemonte e all’idea unitaria si era convertito solo negli ultimi tempi e spintovi dalle circostanze.
Qualcuno lo criticò per i suoi accenti trionfalistici, ma bisogna riconoscere che ne aveva qualche diritto. In meno di due anni aveva formato una sola Nazione. Mancavano solo Roma e Venezia al compimento dell’unità nazionale ed il Primo Ministro si era impegnato ad affrontare immediatamente questi due problemi. Per quanto riguarda Venezia presupponeva una impossibile guerra con l’Austria, mentre per Roma aveva avviato con la Santa Sede delle trattative, di cui non erano al corrente nemmeno i suoi colleghi di governo, salvo Minghetti.
Egli aveva fatto una precisa proposta: rinuncia della Chiesa al potere temporale su Roma e impegno dello Stato italiano alla salvaguardia dell’indipendenza del Papato e al ripristino di molti poteri e privilegi del clero che gli erano stati confiscati. Il Papa, come al solito, fin allora aveva tergiversato. Ma proprio in quel momento gli arrivò in casa il “figlio della Santa” Francesco di Borbone. Impressionabile com’era, si commosse al racconto delle sue sventure, e da allora non volle più sentir parlare di negoziati con coloro che avevano cacciato dal trono quel povero ragazzo. Proprio il giorno in cui a Torino veniva promulgata la legge che conferiva a Vittorio Emanuele il titolo di Re d’Italia egli dichiarò guerra non solo allo Stato italiano ma a tutta la civiltà moderna.
Era appena nata, che già l’Italia cominciava a contestare se stessa, e non ha più smesso di farlo.

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