Sviluppo economico, età dell'Imperialismo

Materie:Riassunto
Categoria:Storia

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Testo

Sviluppo industriale e Età dell’Imperialismo
Tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento assistiamo in Europa e in alcune parti del mondo, come negli USA e in Giappone, ad un forte sviluppo del sistema industriale favorito anche dal clima europeo di relativa stabilità. Gli scontri militari che avvenivano principalmente per la conquista o per il possesso di territori nuovi da colonizzare, si svolgevano principalmente nei territori stessi o venivano sedati da buone azioni diplomatiche. Altro fattore era la formazione di regimi liberali che garantivano lo sviluppo.
Il processo d’industrializzazione si consolidò o decollò e permise di intensificare i contatti e i rapporti tra i vari stati.
Purtroppo però tra il 1873 e il 1896 assistiamo alla fase buia dell’economia europea, con la depressione economica dovuta alla crisi di sovrapproduzione, c’era un pesante squilibrio tra la capacità del sistema industriale di produrre merci e l’impossibilità dei consumatori di assorbirle. Questa crisi colpì soprattutto l’agricoltura e portò i governi ad attuare una politica protezionistica. La depressione comunque rappresentava l’andamento ciclico dell’economia capitalistica.
Il crollo economico influenzò anche l’atteggiamento delle popolazioni nei confronti dello sviluppo, si passò da una fase di piena fiducia a una di incertezza e inquietudine. Si sentiva il bisogno di accaparrarsi ne necessarie materie prime e risorse e di disporre di strumenti per sostenere la nazione. Così gli stati iniziarono a cercare nuovi mercati, non solo per rafforzare il proprio potere economico ma anche quello politico e il loro prestigio. Il periodo della corsa alla conquista delle colonie fu chiamato età dell’imperialismo.
Con la crisi economica la produzione aumentò perché ci fu una selezione delle imprese, le più piccole furono eliminate o inglobate a quelle più grandi. La Gran Bretagna diminuì il suo prestigio ma mantenne comunque una posizione di supremazia. Accanto alla quale arrivarono gli Stati Uniti che però ben presto divennero la potenza mondiale più importante, grazie alle loro condizioni favorevoli, come l’abbondanza di risorse, la florida economia agricola, enormi spazi disponibili per il popolamento.
Il sistema industriale e tutto quello collegato subirono profonde trasformazioni. Furono favoriti i processi di fusione, a svantaggio della libera concorrenza, e le imprese più importanti studiarono strategie comuni per creare colossi produttivi. Tre furono i processi di fusione. I Trust, concentrazioni di imprese, potevano essere orizzontali o verticali; i cartelli erano unioni di imprese che decidevano i prezzi e la spartizione del mercato; infine le holdings, società che detenevano e controllavano i capitali di aziende da loro autonome. L’obbiettivo era quello di formare un monopolio di determinati settori produttivi ma in realtà si era andato formando un oligopolio.
La produzione che più contribuì alla trasformazione industriale fu la produzione di acciaio, materiale adatto a diversi usi, alla costruzione di macchine per l’industria alla produzione di mezzi durevoli di consumo.
La trasformazione industriale comportò anche un ammodernamento del sistema produttivo e lavorativo. Si vedeva la necessità di un miglioramento nell’organizzazione scientifica del lavoro e nell’introduzione della catena di montaggio. Un contributo fondamentale arrivò dall’ingegnere Taylor, il quale elaborò un sistema teorico basandosi sull’esame della giornata lavorativa tipo con l’obbiettivo di ottenere migliori prestazioni e migliore resa delle energie disponibili. Il lavoro umano quindi cambiò radicalmente. Le macchine avevano un ruolo centrale e quindi all’operaio non erano richieste particolari qualifiche perché il lavoratore doveva svolgere per l’intero orario sempre la stessa azione.
Il primo impulso all’ammodernamento arrivò dall’industria bellica con l’intenzione di intensificare la produzione. E la svolta decisiva arrivò dall’avvio di un grande mercato. Successivamente anche i progressi dei settori chimico ed elettrico.
Dal punto di vista finanziario le banche miste (con più di una attività su più livelli) ebbero un ruolo fondamentale, con i finanziamenti alle imprese e il successivo controllo sulle linee di politica industriale.
La crisi agricola avvenne anche per l’innovazione dei trasporti e quindi alla loro facilità che comportò la presenza di grandi quantità di prodotti agricoli sui mercati. La caduta successiva dei prezzi ebbe effetti diversi da paese a paese. In Gran Bretagna ci fu la modernizzazione del settore mentre in Francia, Italia e Germania si avviò una politica protezionistica.
Con la crisi agraria una delle conseguenze più sostanziali fu il fenomeno della migrazione dall’Europa al continente americano. Il primo periodo di questo fenomeno ebbe come protagonisti irlandesi, inglesi e tedeschi che diminuirono la loro presenza invece nella seconda fase con emigranti dall’est e dal sud dell’Europa. La fasi si differenziarono per mete, provenienze e propositi. Nella prima fase i lavoratori volevano accumulare denaro per poi tornane in patria, nella seconda invece i protagonisti venivano raggiunti dai parenti quando la loro situazione era stabile, creando poi a lungo andare dei veri e propri quartieri occupati da persone della stessa nazione. Gli stati reagirono in maniera diversa, quelli ospitanti, come quelli del nord America o l’Australia, misero in atto misure per arginare o addirittura vietare l’entrata di certe nazionalità (come i cinesi), altri come quelli del Sudamerica cautelarono gli immigrati. L’emigrazione fu resa possibile anche perché gli stati di provenienza attenuarono o abrogarono i divieti di emigrazione perché avrebbero potuto riceverne vantaggio, come dall’arrivo delle rimesse o dall’abbassamento del livello di disoccupazione; anche l’abbassamento delle tariffe marittime fu importante.
Il processo d’industrializzazione in certi casi si rafforzò mentre in altri decollò, come per l’Italia, il Giappone e la Russia. Il loro ingresso nel circuito internazionale fu molto difficile ma l’aumento dei prodotti fu uno stimolo per le popolazioni ad elevare il loro tenore di vita. La Russia si sviluppo economicamente grazie all’apporto di capitali stranieri tra il 1890 e il 1900, ma creando una diffusione a macchia di leopardo.
Con lo sviluppo del sistema industriale si sviluppano anche i movimenti operai d’ispirazione marxista. Le teorie di Marx facevano da base a questi movimenti e quella che aveva riscosso più successo era quella sul plusvalore. I socialisti ribadivano il concetto di plusvalore come causa principale allo sfruttamento operaio. Man mano dal 1972, a conclusione di due importanti congressi a Parigi, si svilupparono partiti operai ad ispirazione marxista in tutta Europa. In Russia le idee furono riprese da Lenin, il quale riteneva che era possibile un moto rivoluzionario, e da Martov che invece riteneva necessaria una graduale trasformazione.
Quando la tesi base iniziale marxista fu messa in crisi gli studiosi socialisti ebbero la necessità di ripensare i loro fondamenti, di rivedere la dottrina di Marx. Uno di questi fu Bernstein, il quale pubblicò “i presupposti del socialismo e i compiti della democrazia”, le ipotesi catastrofiche sugli effetti del capitalismo previste dai marxisti non si realizzarono e la polarizzazione tra proletariato e borghesia non avvenne e quindi i nuovi obbiettivi si concentravano sulle condizioni dei lavoratori, sul suffragio universale. Era importante per Bernstein che la classe operaia rinnovasse il proprio patrimonio dottrinale e proporsi una realistica strategia di riforme, rendendo più democratiche le istituzioni.
Un dibattito fu scaturito sull’atteggiamento dei socialisti nei confronti delle istituzioni e dei governi democratici. Ci fu una divisione, da una parte i riformisti che vedevano la soluzione in un processo graduale e dall’altra i rivoluzionari che invece pensavano a un mutamento rapido, una violenta rottura della continuità, senza considerare possibili accordi.
I nuovi temi in discussione per i socialisti erano lo sciopero politico generale, la battaglia contro l’espansionismo e il ruolo del movimento.
Si formarono o si consolidarono, a questo punto, le associazioni sindacali con forme e modalità diverse da paese a paese. Nacquero i contratti collettivi di lavoro e i partiti e i sindacati s’impegnavano nelle lotte per migliorare le condizioni economiche, lavorative e politiche, creando però tensioni politico-sociali. L’elemento comune era l’ampia partecipazione dei lavoratori alla vita politico-sociale che portò alla progressiva estensione del diritto di voto. Si affermò il nuovo modello del partito di massa, che sia organizzava con sedi territoriali, adottava una disciplina di partito e con a capo un gruppo dirigente.
Anche la Chiesa e i cattolici ebbero la loro parte. Questo gruppo sentiva i problemi lavorativi dei fedeli e per questo aveva un atteggiamento ostile nei confronti del processo di modernizzazione, della nascita di nuove ideologie e dei mutamenti nella vita quotidiana. La prima azione importante la compie papa Pio IX quando, nel 1864, emana un’enciclica nella quale condanna le basi della società moderna. Pubblica anche un elenco di proposizioni condannate del pensiero moderno, che chiama “il sillabo”. Si attuò promovendo attività concrete a sostegno e per l’assistenza dei lavoratori, attraverso la fondazione di associazioni o circoli che si ispiravano al cattolicesimo sociale. L’ambiente cattolico era in vigorosa polemica con la visione liberale che escludeva la possibilità di prospettive di solidarietà. Vedeva nelle corporazioni di mestiere un sicuro antidoto.
Altra azione importante promossa dalla Chiesa fu la pubblicazione dell’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII, la quale doveva essere orientamento per la condotta cattolica e metteva l’accento sul disagio sociale. Dichiarava nuovamente le posizioni polemiche contro il socialismo e il liberalismo e diceva ai cattolici di affrontare i problemi dei lavoratori nella prospettiva cristiana.
I cattolici dovevano promuovere il confronto e la cooperazione, chiedere allo stato di vigilare. L’enciclica, infine, invitava a dar evita ad esperienze associative di ispirazione cristiana.
Assieme alla questione dei lavoratori in generale, questo fu un periodo di rivendicazione anche per le donne che si battevano per la loro parità. Alle lotte parteciparono le donne di estrazione borghese che affermavano che il sesso femminile era assai svantaggiato nei confronti di quello maschile, non c’era parità di diritti e avevano un ruolo subordinato della famiglia. Con il processo d’industrializzazione si erano messi in discussione i rapporti familiari e sociali e le donne borghesi attuarono un’ampia rivendicazione, però trovarono differenze d’opinione per le loro aspirazioni. I temi comuni erano: la tutela della maternità, la parità dei sessi e il diritto di voto. Ruolo fondamentale, su questo punto, nelle lotte lo ebbero le suffragiste.
Per avere nuove sicurezze gli Stati cercavano di espandere i loro possedimenti oltre le terre europee per essere più competitivi sul piano economico e politico. Questo però portò all’aumento di tensioni fra gli stati per l’acquisizione di domini coloniali. Si spinsero in zone dell’Africa e dell’Asia mai esplorate fino a quel momento e le fecero entrare nel circuito internazionale tenendolo sotto il loro dominio, trasformando le loro realtà locali, asservendole al mercato planetario e servendosi della giustificazione data da Kliping.
Data l’importanza del fenomeno molti studiosi si concentrarono sui motivi della conquista. Come, ad esempio, Marx e Engles che individuavano la ricerca di nuovi mercati, oppure Hobson che ebbe un ruolo fondamentale nelle studio sull’imperialismo. Vedeva all’origine gli interessi industriali che volevano sviluppare dei mercati privati per il surplus delle loro merci e del loro capitale. La causa era una cattiva distribuzione della ricchezza per i bassi consumi. Gli accordi imperialistici tra i ceti finanziari e i governi erano un complotto che danneggiava i lavoratori e le popolazioni conquistate.
Dopo queste prime letture se ne svilupparono delle altre. Come per Schumpeter, l’imperialismo era dovuto alla sete di dominio irrazionale che aveva animato i popoli fin dall’antichità. Altri studiosi furono Mommsen (forza esplosiva del nazionalismo), Fielhouse (questione di opportunità) e Headrick (grazie alle innovazioni nei vari ambiti).
L’imperialismo si diresse in buona parte verso l’Africa. Questo fu possibile per l’assenza di governi e legislazioni scritte. Le maggiori potenze europee protagoniste furono l’Inghilterra (con Egitto, Nigeria, Kenya, Uganda e Sud Africa), la Francia (Tunisia, nella parte orientale, occidentale e equatoriale, parte del Sahara), la Germania (Camerun, Togo e Africa orientale), il Belgio (Congo), il Portogallo (Angola) e Italia (Somalia orientale e meridionale, Eritrea). Questi stati fecero di queste zone i loro protettorati o i loro possessi, per sfruttare le loro risorse e la manodopera, incrementare la loro ricchezza, potenza e fama. L’occupazione coloniale fu sancita alla conferenza di Berlino, nella quale fu approvato il principio di effettiva occupazione e quindi l’unico titolo di legittimazione. Tra Francia e Inghilterra ci fu una grave tensione diplomatica dovuta ad una temporanea occupazione francese in una parte del territorio controllato dagli inglesi, che fu risolta con il ritiro dell’esercito della Francia dalla zona.
Anche in Africa meridionale ci fu un sanguinoso scontro tra Gran Bretagna e i Boeri, popolazione di origine olandese insediata nella zona sud del continente. I britannici si insediarono prima grazie al controllo economico e poi con l’occupazione commerciale. Lo scontro si risolse con l’annessione di due repubbliche alla colonia del capo che diede poi origine all’unione sudafricana.
Anche l’Italia fece la sua parte in Africa, dove fu spinta per offrire terre e lavoro ai disoccupati e per stimolare le imprese a produrre di più per le colonie. Quest’operazione fu sostenuta da più ambienti sociali, specialmente da quelli più ricchi. Ma non si ottennero i risultati sperati.
Gli Stati Uniti s’imposero economicamente, in questo periodo, in tutto il mondo. Dopo aver concluso l’annessione degli stati dell’Ovest, vollero spostare la loro frontiera verso l’arcipelago caraibico e l’oceano Pacifico. Il territorio centro-americano fu sottoposto a protettorato.
L’azione politica di tutti i presidenti successivi a Roosvelt venne chiamata del “grosso bastone”, con la quale soppiantarono la Gran Bretagna.

Crispi diventa presidente del consiglio nel 1887 a seguito di Depretis. È un esponente della sinistra parlamentare e gode delle simpatie sia dei garibaldini e dei mazziniane, sia dei conservatori per il suo apprezzamento per Bismark.
Come presidente ha due mandati, il primo dal 1887 al 1891 e il secondo dal 1893 al 1896. Cerca di rafforzare il potere esecutivo per toglierlo dalla dipendenza del parlamento, aumentare il controllo del governo accentrando su di se altre due cariche, quelle di presidente del consiglio, ministero degli interni e degli esteri. Fa delle importanti riforme per razionalizzare la legislazione e riordinare la pubblica amministrazione. Queste furono: l’emanazione del codice Zanardelli (1890) nel quale affermava il diritto allo sciopero e sopprimeva la pena di morte, l’approvazione di una nuova legge sulla pubblica sicurezza che aumentava il potere discrezionale della polizia e limitava le libertà dei cittadini, infine l’attuazione della riforma degli enti locali che stabiliva l’elezione del sindaco ma dava più controllo dei prefetti. Queste riforme erano evidente contraddizione del suo progetto di democrazia e del suo concetto di autorità.
Se nella prima presidenza Crispi dimostra un orientamento liberale nella seconda è più autoritario. Questo si dimostra nel momento in cui ha dovuto far fronte alle rivolte popolari dovute al malcontento e alla rabbia dei contadini organizzatesi in leghe di lavoratori, detti fasci. Per la loro complessità e per le varie matrici ideologiche i fasci non furono molto sostenuti dagli intellettuali socialisti, che li ritenevano movimenti anarchici e contraddittori, preferendo seguire una linea riformista. Il movimento siciliano si diffuse presso i ceti popolari che non avevano alcuna formazione politica e l’obbiettivo era quello di ottenere la riforma dei patti agrari e la concessione di un miglioramento salariale. Crispi risponde con un atteggiamento intransigente, proclamando lo stato d’assedio dell’isola e volendo l’intervento dell’esercito.
Ribadisce la sua linea dura con l’approvazione di leggi, nel 1894, che restringevano la libertà di stampa, riunione e associazione, sciogliendo il partito socialista, senza però riuscirci formalmente perché la rete organizzativa del partito non venne indebolita. Anzi le simpatie nei confronti del socialismo aumentarono presso gli intellettuali e i socialisti si avvicinarono ai partiti d’opposizione, favorendo così poi le dimissioni Crispi, successive alla sconfitta di Adua.
Per la grave situazione economica dell’Italia il malcontento popolare si acuì portando alla formazione di nuove forme di associazionismo dei lavoratori, come ad esempio le società di mutuo soccorso, le cooperative o le camere di lavoro. Queste erano diffuse in modo irregolare, erano prive di coordinamento nazionale e avevano diverse matrici ideologiche, come la dottrina socialista e avevano come principi la lotta di classe e lo sciopero, oppure il solidarismo mazziniano o il cattolicesimo liberale che rifiutavano gli ideali di classe.
Queste venivano considerate minaccia all’ordine e alla stabilità polico-sociale, in particolare quelle che seguivano l’internazionalismo anarchico, diffuse tra il proletariato agricolo (Bakunin e Malatesta), e quello ispirate dal cattolicesimo intransigente che rifiutavano lo stato usurpatore, appoggiate da parrocchie e diocesi.
Si sentiva l’esigenza di coordinare queste forze diverse per l’assistenza e la difesa dei lavoratori. Di andarono così fondando i primi partiti d’ispirazione socialista. Il primo fu quello di Romagna con Costa, che s’impegnò nella preparazione di una rivoluzione socialista, poi, nel 1882, il partito operaio italiano, nel 1892 il partito dei lavoratori italiani fondato da Turati e la compagna Anna Kuliscioff e che poi prenderà il nome di partito socialista. Quest’ultimo si prefiggeva come strumento la lotta del proletariato e la socializzazione dei mezzi di produzione. Nel partito poi ci fu uno scontro travagliato tra riformisti e rivoluzionari. I primi sono sostenitori del programma di riforme proposto da Turati attraverso la realizzazione di battaglie parlamentari. I secondi invece non credono ci sia spazio per il dialogo o la collaborazione e puntano al crollo del sistema economico-sociale del capitalismo.
Nel 1906 viene fondata la CGL, sindacato riformista, che vedeva la necessità per i lavoratori di spazi e forme di tutela dei diritti. Nel 1912 venne costituita l’USI, organizzazione rivoluzionaria, fautrice di forme di sabotaggio e boicottaggio delle attività industriali e sostenitrice dello sciopero generale.
Anche le forze cattoliche fecero la loro parte nell’impegno sociale per arginare il diffondersi degli ideali socialisti e laici e contribuire al rinnovamento della legislazione e delle istituzioni. Fu fondata da Murri, la lega democratico-cristiana le cui priorità erano le riforme sociali, l’estensione del suffragio e il decentramento amministrativo.
Negli ultimi anni dell’800 assistiamo ad una crisi politico-istituzionale che mostrò le debolezze dello stato liberale. Si espressero tentazioni illiberali che trovarono espressione in un aprovovatoria di Sonnino intitolata “torniamo allo statuto”, nella quale propone l’abbandono del regime parlamentare e il ripristino di quello costituzionale per porre fine all’instabilità del governo. Le dimissioni di alcuni capi di stato avevano dimostrato che il sovrano non poteva eleggere chi non aveva la maggioranza in parlamento e come questo era diventato sede degli interessi individuali dei deputati e non sede di discussione per la direzione del paese. La monarchia costituzionale era diventata parlamentare. Sonnino quindi propose di restituire al re il potere esecutivo e di rendere i ministri responsabili solo davanti al sovrano.
Questa crisi sociale sfociò, durante il governo di Rudinì nel 1898, in spontanee manifestazioni popolari contro l’aumento del prezzo del pane. Queste furono duramente represse con l’intervento dell’esercito e la dichiarazione dello stato d’assedio. A Milano si arrivò all’estremo, il generale Bava Beccarsi, ordinò alle proprie truppe di fare fuoco contro i dimostranti provocando un centinaio di morti, arrestando e condannando esponenti socialisti, radicali, cattolici e chiudendo circoli, associazioni, giornali.
A Rudinì susseguì il piemontese Pelloux il quale presentò un pacchetto di riforme per limitare il diritto di sciopero, la libertà di stampa e di associazione, ma fu presto messo in difficoltà da un’opposizione compatta e dalle elezioni del 1900, che indebolirono la sua forza.
Il piemontese fu sostituito da Saraccolo e poi il nuovo re Vittorio Emanuele III diede l’incarico a politici della sinistra liberale come Zanardelli e Giolitti.

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