Storia, riforme e avvenimenti principali

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Testo

La Rivoluzione Francese
Durante il lungo regno di Luigi XV (1723-74) la situazione economica della Francia era andata progressivamente peggiorando: la guerra e i crescenti bisogni della vita di corte (Versailles) richiedevano l’imposizione di continue tasse. Per accrescere il gettito delle imposte e contenere il deficit di bilancio, il governo era ricorso a manovre finanziarie assai pericolose: concessione di alti tassi d’interesse sui prestiti dei cittadini, indiscriminata vendita di uffici pubblici, alterazioni del valore della moneta, riduzione arbitraria dei debiti dello Stato (bancarotta). Tutto questo perché le classi privilegiate (nobiltà e clero) erano riuscite, per interi decenni, a bloccare ogni provvedimento fiscale che estendesse anche a loro il peso tributario.
Le tasse erano prevalentemente pagate dai contadini e dalla borghesia. Nelle campagne il diritto di proprietà spettava ancora quasi interamente alla Corona, alla nobiltà e al clero. I contadini non erano più servi della gleba, come nel Medioevo, perché disponevano della libertà personale, però, non essendo proprietari di nulla, erano costretti a versare al clero le decime (cioè una parte dei prodotti dei campi), pagavano imposte e gabelle regie, erano obbligati dallo Stato a prestazioni di lavoro gratuite (corvées) per la costruzione di strade e caserme, ecc. Gli stessi nobili li obbligavano a pagare tasse sul commercio al minuto, pedaggi per l’uso di strade e ponti, tributi in natura, in denaro, in corvées.
La borghesia si era arricchita notevolmente, ma non aveva alcun potere politico. Solo una piccola parte s’era procurata titoli nobiliari ereditari mediante l’acquisto degli uffici pubblici. Le piccole aziende manifatturiere si erano trasformate in opifici di vaste dimensioni. La ricchezza dovuta ai commerci, all’industria, alle società per azioni e agli istituti bancari aveva indotto la borghesia a chiedere la fine del regime del privilegio di clero e nobiltà, la libera disponibilità della terra, la piena libertà dei commerci (senza vincoli doganali e corporativi).
L’incapacità della monarchia (Luigi XVI) a dirigere dall’alto le istanze di rinnovamento dei ceti borghesi (dispotismo illuminato) rese inevitabile la convocazione degli Stati Generali, non convocati dal 1614 (non avevano potere legislativo ma solo consultivo). Il ministro delle finanze Necker si batté perché la borghesia (Terzo stato) mandasse all’Assemblea più delegati di quanti non potessero disporre nobiltà e clero messi insieme, di contro alla consuetudine che prevedeva invece, per ogni circoscrizione elettorale, la designazione di un candidato per ciascun ordine sociale. Nell’Assemblea la borghesia propose che il voto non fosse dato per ordine ma per testa (per avere la maggioranza) e che i lavori non si svolgessero in camere separate secondo gli ordini, ma in un’unica assemblea (per affermare la parità sociale dei delegati). Di fronte al rifiuto di nobiltà e clero, la borghesia si costituì in Assemblea Nazionale, proclamandosi rappresentante della volontà nazionale (giugno 1789).
La maggioranza dei delegati del clero, che provenivano da parrocchie rurali, decise di unirsi alla borghesia. Il re fece chiudere la Camera delle riunioni, ma il Terzo stato si trasferì in una sala adibita dalla Corte al gioco della pallacorda, giurando di riunirsi finché la Costituzione non fosse stabilita (Giuramento della Pallacorda). Il re ingiunse agli eletti di sciogliersi e di tornare a riunirsi l’indomani separatamente nelle sale assegnate a ciascun ordine. La borghesia non obbedì. Evitando di usare la forza, il re invitò clero e nobiltà a unirsi alla borghesia: l’assemblea così si proclamò Assemblea Nazionale Costituente.
Sospinto dagli aristocratici, Luigi XVI licenziò il Necker e ammassò truppe mercenarie svizzere e tedesche nei pressi di Parigi. Il popolo di Parigi rispose occupando la Bastiglia, cioè la prigione per i condannati politici, simbolo dell’autorità assoluta del monarca. Il popolo creò nuovi organi di governo (a Parigi) e di difesa (la Guardia Nazionale, capeggiata da La Fayette, che già aveva combattuto a fianco degli insorti americani). Compaiono diversi clubs politici (giacobini, cordiglieri, girondini...) e il tricolore. I nobili più intransigenti emigrano all’estero. L’esempio di Parigi viene seguito da altre città, che considerano la Costituente come l’unica vera fonte d’autorità. Nelle campagne si diffonde la “Grande Paura” dei nobili, che vedono le loro proprietà saccheggiate o espropriate dai contadini. Nell’agosto ‘89 l’Assemblea dichiara abolito il sistema feudale (corvées, decime...), anche se vincola questa abolizione all’indennità che i contadini devono pagare ai nobili per le proprietà requisite.
L’atto di morte dell’ancien régime viene ratificato con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Principi fondamentali: sovranità popolare, diritti di libertà (opinione, stampa, religione, riunione), uguaglianza giuridica, tutela della sicurezza personale e della proprietà individuale. La Costituente si preoccupò non solo di convogliare le forze popolari contro i ceti privilegiati, ma anche d’impedire che queste forze potessero dirigere il corso della rivoluzione. Venne perciò introdotto il principio della separazione dei poteri dello Stato: quello esecutivo spettava al re, che aveva il diritto di veto, col quale poteva bloccare per 4 anni le decisioni dei rappresentanti eletti; la borghesia inoltre si riservava l’assoluta preminenza nella funzione legislativa. Fu approvato il sistema monocamerale (cioè senza una Camera Alta da riservare alla nobiltà) e viene sancito il criterio censitario come condizione per l’esercizio dei diritti politici (solo i cittadini, cioè i maschi con almeno 25 anni di età, che pagassero un’imposta diretta pari a 3 giornate lavorative, potevano votare ed essere eletti). Il re rifiutò l’abolizione dei diritti feudali, la suddetta Dichiarazione e la Monarchia costituzionale, ma una folla affamata si recò a Versailles per costringerlo ad approvvigionare la capitale, a ratificare le decisioni della Costituente e a trasferire la corte a Parigi. Questa parte di popolazione venne sempre più definendosi come Quarto Stato o Sanculotti, e i due circoli politici che esprimevano di più le sue esigenze erano i giacobini e i cordiglieri.
Intanto, la Costituente, per fronteggiare la grave situazione finanziaria, prese la decisione d’incamerare i beni degli ordini religiosi a favore del demanio statale. L’esecuzione della vendita dei latifondi ecclesiastici fu affidata ai Comuni, ma, siccome l’operazione era lunga e complessa, e l’erario aveva bisogno di soldi, l’Assemblea autorizzò il Tesoro ad emettere dei titoli di stato (assegnati) col valore di cartamoneta, garantiti dai beni espropriati. In tal modo chi comprava gli assegnati si sentiva strettamente legato agli esiti della rivoluzione. L’Assemblea inoltre abolì il clero regolare, trasformò quello secolare in funzionari stipendiati dallo Stato mediante la Costituzione civile del clero, la quale prevedeva il principio elettivo per tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica, senza diritto di conferma canonica da parte del papa. Il clero si divise in due parti: costituzionali e refrattari (quest’ultimi favorevoli al papa, che condannò sia la Dichiarazione che la Costituzione del clero).
Luigi XVI, dopo essere stato costretto a ratificare la Costituzione del clero, decide di fuggire dalla Francia, ma alla frontiera belga viene riconosciuto e arrestato. Il sistema della monarchia costituzionale entra in crisi: il re passa per un traditore della nazione, fomentatore di guerra civile e alleato delle potenze straniere antifrancesi. Cordiglieri e giacobini ne approfittano per rivendicare maggiori poteri in seno all’Assemblea, la quale però al Campo di Marte (Parigi) fa sparare sulla folla, sospende la libertà di stampa e di riunione. L’Assemblea (ove dominano i girondini) cerca di superare la paralisi del movimento democratico in 3 modi: 1) fa credere all’opinione pubblica che la fuga del re era un rapimento tramato da controrivoluzionari; 2) si scioglie, trasformandosi in Assemblea Legislativa, eletta a suffragio censitario (impedisce a tutti quanti avevano fatto parte della Costituente di poter partecipare anche alla Legislativa); 3) dichiara una guerra preventiva all’imperatore d’Austria e Prussia.
Alla guerra contro Austria-Prussia si giunse per una serie di ragioni: 1) fame e disoccupazione dilagavano nel Paese; 2) gli ambienti di corte erano convinti che la Francia rivoluzionaria ne sarebbe uscita sconfitta; 3) gli ambienti rivoluzionari volevano esportare all’estero i loro principi politici. Solo Robespierre e pochi giacobini erano contrari, temendo che la guerra segnasse la fine della rivoluzione. All’inizio, in effetti, il conflitto fu disastroso per la Francia: esercito male organizzato, ufficiali aristocratici non disposti a combattere con impegno, tradimenti continui della corte che complottava col nemico... La prima grande sconfitta fu quella di Verdun, che ebbe come effetto le stragi di settembre nelle carceri parigine: almeno 1300 detenuti politici conservatori vennero uccisi dalla folla in tumulto.
Intanto la Comune insurrezionale di Parigi obbliga la Legislativa ad arrestare il re. La stessa Legislativa convoca una nuova Assemblea, la Convenzione Nazionale, che avrebbe dovuto trasformare il Paese in una Repubblica. La monarchia era finita. La Fayette si era consegnato agli austriaci. Pochi giorni dopo il massacro di settembre vi fu la grande vittoria francese a Valmy e la conquista del Belgio. Nella Convenzione, i girondini, che rappresentavano la medio-alta borghesia progressista, conservano il governo del Paese (sostenevano la tesi federalista); a sinistra erano i giacobini (detti montagnardi), rappresentanti della piccola borghesia: essi riusciranno a far proclamare la Repubblica una e indivisibile, ed anche a far condannare a morte il re.
Nel ‘93 la Convenzione votò la Costituzione dell’Anno I della Repubblica: per la prima volta in Europa s’introdusse il principio del suffragio universale, sopprimendo la discriminazione censitaria dei cittadini in attivi e passivi, e attribuì il diritto’ di voto (segreto e diretto) a tutti i francesi maschi maggiorenni; prevede anche l’intervento assistenziale dello Stato a favore dei ceti indigenti. Questi principi non furono però applicati perché gli eventi internazionali favorirono l’avvento di una dittatura politica. Infatti, avendo occupato Belgio, Olanda, Savoia e altri territori, la Francia si vide coalizzare contro moltissimi paesi europei: Austria, Prussia, Inghilterra, Olanda, Spagna, Portogallo, Russia, Piemonte, Stato Pontificio, ecc. La Francia deve ritirarsi un po’ ovunque. All’interno scoppia la guerra civile in Vandea: alla miseria si era aggiunta la coscrizione obbligatoria che colpiva soprattutto i contadini più poveri.
Nella Convenzione i montagnardi imposero ai girondini leggi di emergenza: 1) attribuire alla Convenzione tutti i poteri; 2) dittatura rivoluzionaria; 3) organo collegiale di controllo sul governo (Comitato di salute pubblica); 4) Tribunale rivoluzionario; 5) politica economica rigidamente centralizzata (blocco dei salari e dei prezzi). I giacobini, con un colpo di stato, s’impadroniscono del potere e condannano a morte 21 deputati girondini. Cala il prestigio di Danton e sale quello di Robespierre e Saint-Just. I girondini rispondono scatenando varie insurrezioni nei dipartimenti e nelle grandi città; uccidono Marat. I giacobini rispondono con la politica del Terrore: 1) contro gli accaparratori di derrate; per il controllo della distribuzione dei generi alimentari di largo consumo; legge del Maximum, cioè un calmiere dei prezzi; imposto il corso forzoso degli assegnati, la cui continua emissione li aveva fortemente svalutati; 2) soppressa stampa dissidente, chiusi i club antigiacobini, promulgata la legge dei sospetti, giustiziati la regina, repressa rivolta vandeana e tutte le rivolte girondine.
Il governo giacobino eliminò il gruppo di Danton, accusato di eccessivo moderatismo, e il gruppo di Hébert, accusato di eccessivo estremismo; impose come religione di stato il culto dell’Essere Supremo; non riuscì a impedire il mercato nero né a garantire sufficienti salari al proletariato delle città. Le vittorie militari francesi fecero capire alla borghesia che non c’era più bisogno di una dittatura rivoluzionaria. La borghesia approfittò del fatto che i giacobini, eliminando i seguaci di Danton ed Hébert, si erano inimicati le masse popolari, per compiere un colpo di stato e rovesciare Robespierre e Saint-Just, accusati di voler imporre una tirannia personale (reazione termidoriana). La Convenzione Termidoriana abolì subito il calmiere dei prezzi e scatenò il terrore bianco contro i giacobini. Per evitare che i realisti riprendessero il potere, la Convenzione affida il governo a un Direttorio, dal quale emergerà la dittatura militare di Napoleone Bonaparte. L’ultima battaglia della sinistra rivoluzionaria fu quella di Babeuf e Buonarroti, che però ebbe esito fallimentare.

Le riforme Religiose

Nel maggio 1789, sotto la pressione del deficit finanziario dello Stato e per la difficoltà d'imporre nuove tasse senza consultare l'intera nazione, vennero convocati gli Stati generali, su proposta dell'arcivescovo Loménie de Brienne. Il primo problema da risolvere era quale sistema di votazione da adottare: se per ordine o nominale, come reclamava il Terzo stato, il quale, avendo ottenuto dal ministro Necker un numero doppio di rappresentanti, poteva disporre da solo della metà dei voti. Il regolamento regio per l'elezione dei deputati del clero aveva finito col favorire i parroci (che avrebbero votato personalmente), mentre i conventi e i capitoli erano soltanto rappresentati da delegati. Nell'ambito dell'Assemblea, e di fronte al re, preti e vescovi risultavano giuridicamente paritetici, anzi i primi superavano i secondi di molte unità (208 su 296). Il 13 giugno tre curati decisero di trasferirsi dalla sala del loro ordine a quella del Terzo stato. Le defezioni, col passare dei giorni, si moltiplicarono. Finché, dopo l'autoproclamazione in Assemblea nazionale proposta dal prete Sieyès, il clero, con pochi voti di maggioranza, deliberò di unirsi alla borghesia.
Su questa decisione due cose almeno vanno dette: anzitutto non è vero -come sostiene in genere la storiografia cattolica- ch'essa risultò decisiva ai fini dell'istituzione dell'Assemblea costituente, avendo fatto acquisire alla borghesia la maggioranza. In realtà avvenne proprio il contrario: l'ordine del clero decise di unirsi al Terzo stato solo dopo che questo aveva manifestato la chiara intenzione di opporsi al re e alla nobiltà. Senza la volontà politica della borghesia, il basso clero, che pur apparteneva per origine sociale al Terzo stato, difficilmente sarebbe arrivato alla rottura con i prelati, o forse vi sarebbe arrivato seguendo altre strade (ad es. l'eresia. Qui anzi ci si può chiedere se non sia stata proprio la mancata realizzazione di una riforma protestante francese a impedire il formarsi di una valvola di sfogo per le acutissime comntraddizioni sociali che travagliavano l'intera nazione: forse che tale riforma non si ebbe proprio perchè l'autonomia gallicana la rese per così dire meno urgente?)
In secondo luogo è senza dubbio limitativo sostenere, come vuole ad es. Dansette, che il basso clero si unì al Terzo stato "per gelosia verso l'alto clero". Basta leggersi alcuni brani dei famosi 60.000 cahiers de doléances per convincersi di come e quanto i problemi si ponessero più sul terreno sociale e meno su quello personale. "Di tutti gli abusi che esistono in Francia -viene detto nel cahier del visconte di Mirabeau, militante del Terzo stato- quello che maggiormente affligge il popolo e più fa disperare i poveri è l'immensa ricchezza, l'oziosità, le esenzioni [fiscali], il lusso inaudito dell'alto clero. Queste ricchezze si sono in gran parte formate col sudore dei popoli, sui quali il clero percepisce un'orribile imposta che va sotto il nome di decima; essa assorbe ogni dieci anni a vantaggio di illustri fannulloni la totalità del reddito agricolo [annuale] del regno". E più avanti: "Le spese per le chiese, i presbiteri, i cimiteri sono a carico delle comunità, che tuttavia continuano a pagare per battesimi, matrimoni, sepolture, senza che la decima venga diminuita. I poveri non sono più soccorsi e pagano la decima"(vedi il libro di D. Menozzi, Cristianesimo e rivoluzione francese, ed. Queriniana. Ora anche la Cinque lune ha pubblicato qualche brano dei cahiers). Sotto accusa anche i monaci e il seminario locale, che percepiscono una decima in covoni di grano dalla comunità, mentre in cambio non danno nulla. Il canonico, dal canto suo, si differenzia solo perchè la percepisce in moneta.
Non si chiedeva solo la soppressione degli abusi del sistema beneficiario, il miglioramento delle condizioni dei curati a congrua, il divieto di cumulare più benefici, l'obbligo di residenza dei vescovi nella diocesi e la loro elezione da parte del capitolo (contro il Concordato del 1516), e poi il conferimento delle cariche ecclesiastiche in base ai meriti e all'anzianità, la soppressione delle tasse per matrimoni e sepolture e delle annate (quelle pagate al papa), la fine della decima e delle sperequazioni fiscali che dividevano i tre ordini dello Stato, e poi ancora lo scioglimento delle congregazioni religiose, la diffusione di centri d'istruzione per i giovani: non si chiedeva solo tutto questo e altre cose ancora direttamente collegate alle discriminazioni di carattere sociale; si chiedeva anche di modificare alcune tradizioni di vita ecclesiale che ancora oggi permangono immutate nell'ambito del cattolicesimo. Si legge, p.es., nel quaderno di Chalais: "Che tutti i preti si sposin. La tenerezza delle loro spose risveglierebbe nei loro cuori la sensibilità, la riconoscenza, la pietà -così naturali per l'uomo- che i voti di castità e di solitudine hanno spento in quasi tutti coloro che li hanno pronunciati".
Proprio queste rimostranze hanno indotto certa storiografia cattolica, meno conservatrice di quella che nella rivoluzione francese (si pensi a Taparelli d'Azeglio o a Del Noce) vede il culmine di una 'disgrazia' cominciata col Rinascimento e la Riforma protestante, una disgrazia dilatatasi a macchia d'olio con la società capitalistica ed esplosa, assumendo un'espressione 'demoniaca' nei paesi comunisti; si diceva, proprio le doglianze dei cahiers hanno indotto storici e intellettuali come Burke e Taine (per l'Italia bisogna pensare a Papi, Cuoco, Botta, Manzoni...) a riconoscere l'esigenza di un 'riformismo forte' nell'ambito della chiesa settecentesca. Ma la tesi fondamentale di questa corrente liberal-utopistica fu quella che vedeva nella rivoluzione un serio ostacolo al processo di graduale evoluzione verso il superamento del vecchio regime: processo che - a suo giudizio- era stato inaugurato dai sovrani 'illuminati' e che sicuramente avrebbe reso inutile qualunque rivolgimento traumatico.
Pur di ridimensionare l'importanza della rivoluzione francese, certi storici cattolici (si pensi p.es. a V.Giuntella) sono addirittura propensi a considerare la rivoluzione americana o anche quella inglese del secolo precedente, molto più democratiche nei contenuti e nei metodi (il termine più usato qui è 'non violenza' ovvero 'rivoluzione incruenta'. Vedi anche le tesi dell'ultraconservatore F. Furet). Eppure tutti sanno che la Costituzione americana del 1787, al pari della rivoluzione 'parlamentare' inglese, fu soltanto il frutto di un compromesso fra la borghesia e i latifondisti (negli Usa c'erano i piantatori del sud), cui le masse popolari cercarono di porre rimedio rivendicando l'importante Bill of rights. Se poi si vuole sostenere che i principi democratici della borghesia trovarono una loro prima applicazione nella Dichiarazione americana d'indipendenza del 1776, ebbene allora si deve aggiungere che tale Dichiarazione, per quanto non permettesse politicamente la formazione d'uno Stato unitario dell'America (in questo senso era meno avanzata della Costituzione del 1787), rifletteva le posizioni più progressiste proprio della filosofia francese (specie la linea di Rousseau), per cui l'avversione al regime di privilegio risultava superiore a quella della stessa Dichiarazione francese dei diritti umani (ad es.non si prevedeva la proprietà come diritto 'naturale' ma solo come diritto 'civile' connesso al lavoro). Oltre a ciò bisogna precisare che se nelle colonie americane la rivoluzione non sviluppò una particolare ostilità nei confronti della religione, fu proprio a causa del pluralismo delle confessioni qui largamente rappresentato, frutto della rottura dell'unità cattolica europea.
I chierici collaborarono con entusiasmo all'interno della Costituente: forti delle loro tradizioni gallicane, neppure per un istante si chiesero in che misura Roma avrebbe approvato il loro comportamento. Dall'agosto al novembre del 1789, dopo la presa della Bastiglia, la rivoltà delle città e delle campagne (la cd. 'grande paura'), l'Assemblea prenderà tre decisioni fondamentali: 1) l'abolizione di tutti i privilegi feudali (decime, annate1, franchigie ecclesiastiche in materia d'imposte, diritti signorili, ecc.); 2) la nazionalizzazione delle proprietà immobiliari della chiesa (terre, foreste, beni derivanti da fondazioni, ospedali, scuole ecc.); 3) il sostentamento del clero da parte dello Stato per l'esercizio del ministero. Provvedimenti, questi, assolutamente rivoluzionari rispetto all'epoca in cui vennero adottati.
Il primo incontrò il consenso di tutti i cittadini e di tutti i cattolici non privilegiati, cioè della stragrande maggioranza della nazione. Anche molti vescovi vi acconsentirono: un po' per convinzione, un po' perchè impauriti dall'assalto della Bastiglia. Si noti, in questo senso, come la storiografia cattolica, messa alle strette, si faccia vanto del fatto che "le teorie che la rivoluzione francese ha cercato di mettere in pratica nei confronti dela chiesa e della religione non sono nate nel cervello di uomini di Stato bensì di uomini di chiesa, di teologi"(cfr L. Rogier e altri, che ovviamente danno un giudizio molto pesante su questi ecclesiastici, nella loro Nuova storia della chiesa, ed. Marietti 1976). Ciò tuttavia non dimostra la superiorità della religione in generale o del cattolicesimo in particolare, quanto semmai la dipendenza dell'ideologia religiosa dalle concrete esigenze degli uomini, morali e materiali, nonché dall'evoluzione dominante del pensiero laico prograssista.
Il secondo provvedimento -resosi necessario a causa della crescente crisi finanziaria, dovuta all'impossibilità di riscuotere le tasse dopo i disordini di luglio- venne naturalmente accettato con molte riserve, ma grazie alla mediazione del vescovo di Autun, Talleyrand -che Dansette, con molta superficialità e pregiudizio, qualifica come "il più empio, il più corrotto, il più cinico fra tutti quelli dell'antico regime" -si riuscirono ad ottenere 568 voti contro 346. A tale proposito ci pare alquanto riduttivo sostenere che "l'Assemblea era assillata dallo spettro del fallimento più che dall'ideale della laicizzazione" (vedi l'opera citata dello Jedin). Se gli ideali vengono realizzati dietro la spinta di esigenze concrete, ciò non significa ch'essi siano poco importanti o poco sentiti dagli uomini che li manifestano. Il fatto è che per realizzare determinati ideali rivoluzionari (e questo della confisca era avvertito in Francia ben prima dell'89) occorre la volontà e la partecipazione democratica delle masse. Altrimenti gli ideali sono soltanto, nel migliore dei casi, il frutto della elaborazione teorica di qualche intellettuale progressista, cioè un'utopia. Non è forse significativo che nell'Assemblea la proposta della confisca sia stata avanzata da nobili di idee liberali, e che i vescovi non abbiano fatto alcun obbligo di coscienza ai fedeli di opporvisi, e che persino i semplici sacerdoti si siano sentiti in dovere di rinunciare ai loro diritti casuali o di stola? Se non fosse esistito un forte movimento spontaneo di protesta, protrattosi per anni e anni, avrebbero gli ordini al potere rinunciato con così relativa facilità ai loro privilegi e immunità?
Il terzo provvedimento rappresentava la contropartita all'incorporazione coatta delle proprietà ecclesiastiche. Sostenuto dalla stragrande maggioranza del basso clero, che così poteva percepire un reddito di molto superiore a quello pre-rivoluzionario, il compromesso trovava consenzienti anche le frange meno conservatrici dell'alto clero, le quali in ogni caso riuscivano ad ottenere che il cattolicesimo, pur nel riconoscimento giuridico della libertà di religione, sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (votata il 26 agosto), costituisse l'unica religione i cui ministri erano stipendiati dallo Stato. Dal canto suo quest'ultimo s'incaricava di provvedere all'assistenza dei poveri, degli ammalati e all'insegnamento (ivi incluso il sostegno finanziario a quello dei seminari diocesani).
A ben guardare però lo Stato non trasse un vero vantaggio economico da questa nazionalizzazione, a motivo del fatto che l'immissione contemporanea sul mercato di una così grande quantità di terre ne fece rapidamente precipitare il valore. Correlato a questo fatto è l'altro, quello degli 'assegnati': una sorta di 'buoni del tesoro' il cui valore -secondo il governo- doveva essere equivalente a quello delle proprietà ecclesiastiche confiscate. In pratica lo Stato li emise fingendo di aver già incamerato l'importo complessivo delle terre: il che presupponeva, ovviamente, un reciproco rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Tuttavia, essendo una cartamoneta convertibile solo in terre a un tasso del 5%, il suo abuso portò subito a una violenta inflazione, al punto che il prezzo del pane aumentò di mille volte in 4 anni! Nel contempo però l'operazione fece ottenere al governo un vantaggio politico: "borghesi e contadini, indipendentemente dai loro sentimenti religiosi -come vuole Dansette-, diventarono alleati della rivoluzione: e reagiranno contro tutti i tentativi di ritorno al passato che potessero compromettere i loro interessi"(naturalmente col termine 'contadini' va qui intesa la borghesia rurale). La vendita dei cosiddetti 'beni neri' finirà solo alla vigilia del Concordato del 1801.
Altri decreti molto importanti furono quello emanato il 22 dicembre 1789, col quale si secolarizzò la direzione generale dell'insegnamento, togliendo ai vescovi, per affidarla alle amministrazioni dipartimentali, la sorveglianza dell'educazione pubblica; nonché quello del 24 settembre 1789, col quale si ammisero ai pubblici uffici tutti i protestanti. Due anni dopo quest'ultimo provvedimento venne esteso anche agli ebrei. A favore dell'emancipazione politico-giuridica degli ebrei s'impegnò assiduamente l'abbé Grégoire (cfr. il Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei, 1788)
Si è detto della Dichiarazione dei diritti. L'art. 10 prevedeva la piena libertà di religione (non però anche quella 'dalla' religione). Il decreto del 13 aprile 1790 che definisce il criterio interpretativo del suddetto art. 10, precisa che l'Assemblea nazionale non poteva riconoscere esplicitamente il cattolicesimo come "religione della nazione" e il suo culto come "il solo culto pubblico autorizzato", per quanto -si aggiunge- la devozione dell'Assemblea a tale culto "non può essere messa in dubbio, dal momento in cui questo culto sta per diventare il più rilevante capitolo della spesa pubblica". In pratica il legislatore, subito dopo aver messo sullo stesso piano giuridico tutte le religioni, le distingue su quello politico. Questa ambiguità, tipica dell'ideologia borghese, sarà alla fonte di tutte le future contraddizioni nel rapporto fra Stato e chiesa: non solo perchè la rivoluzione troverà sempre grandissima difficoltà ad affermare un proprio carattere laico e aconfessionale, ma anche perchè i cattolici faranno di tutto per non perdere quei pochi privilegi che l'Assemblea aveva loro in un primo momento concesso.
Va detto tuttavia, con A. Soboul, che i costituenti, quali rappresentanti della nazione, si ritenevano autorizzati a riformare in modo democratico la chiesa e non pensavano a costruire un regime di separazione vero e proprio, che in quel momento sarebbe apparso come un'idea blasfema e anticristiana. Tanto è vero che nella commissione per redigere la Costituzione e la Dichiarazione dei diritti erano presenti non pochi prelati: dagli abati Sieyès e Grégoire ai vescovi Talleyrand, de Lubersac, de la Luzerne, ecc. Resta comumque significativo che, nonostante una semplice allusione all'Essere supremo, non si faccia alcun riferimento, nel preambolo della Dichiarazione, ai "diritti di dio". Lo storico Mathiez l'ha giustamente sottolineato dicendo: "I principi del 1789 si presentano come un corpo di dottrina autosufficiente, che trae il proprio valore dall'evidenza razionale e non dalla rivelazione. Così l'umanità pone se stessa come suo proprio dio".

Il desiderio di 'riformare' il cristianesimo spiega anche la decisione di sospendere l'emissione dei voti (giudicati contrari ai diritti umani) in tutti i monasteri, nonché quella del 13 febbraio 1790 di sopprimere tutti gli ordini che pronunciavano voti solenni. Sin dall'inizio la rivoluzione si caratterizzerà per un marcato accento 'confessionale', che si presumeva alternativo all'ideologia cattolica ufficiale. Non voleva certo essere una rivoluzione anticristiana o antireligiosa, ma anticlericale sì. Una cosa infatti è l'esproprio dei beni del clero, secolare e regolare, un'altra è la soppressione d'ufficio dei voti e degli stessi ordini: qui l'ingerenza è netta. Evidentemente il governo, forte dell'ostilità cui i regolari erano oggetto da parte del laicato cattolico, ritenne opportuno colpire questa categoria di agiati ecclesiastici sul piano sia economico che politico, impedendo il formarsi di trame e collegamenti nazionali ed europei di tipo eversivo (gli ordini regolari facilmente si prestavano a questo utilizzo; forte peraltro era il loro legame con la curia romana). Ciò non toglie tuttavia la particolare drasticità del provvedimento, sebbene sulle prime venissero risparmiati gli ordini femminili e gli istituti maschili esercitanti attività ospedaliera e/o scolastica.
In altre parole, si sarebbe dovuto puntare su una lenta e graduale estinzione degli ordini, prescindendo da pressioni amministrative, che spesso rischiano di sortire l'effetto contrario, oppure di costituire un pericoloso precedente per Sulteriori vessazioni. Né serve, a titolo di giustificazione del provvedimento, sottolineare il fatto che la fine del valore legale dei voti non comportò praticamente alcuna resistenza, determinando anzi il subitaneo spopolamento della maggior parte dei monasteri (a Parigi ad es. i religiosi favorevoli alla secolarizzazione raggiungevano il 48%). Qui ha ragione il Dansette, quando afferma che l'Assemblea impediva ai monaci di restare nei conventi "così come il re ne sbarrava le porte impedendo loro d'uscirne". Va poi detto, in definitiva, che l'Assemblea, con tale provvedimento, non potè vantare alcuna particolare coerenza. Essa infatti volle assicurare a quegli ex-monaci ricondotti allo stato civile, che avevano rifiutato di continuare la vita monastica in conventi appositamente adibiti, una sorta di pensione statale, come indennizzo per l'esproprio causato. Col che, in pratica, si permetteva loro di continuare a fare quello che avevano sempre fatto, cioè i rentiers.

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