Restaurazione e congresso Vienna

Materie:Appunti
Categoria:Storia

Voto:

2 (2)
Download:595
Data:27.06.2005
Numero di pagine:21
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
restaurazione-congresso-vienna_2.zip (Dimensione: 17.82 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_restaurazione-e-congresso-vienna.doc     57 Kb


Testo

12. Restaurazione in generale e congresso di Vienna.
Con la sconfitta di napoleone a Waterloo si chiudeva definitivamente la lunga stagione delle guerre che avevano opposto la Francia rivoluzionaria e la napoleonica. Cominciava l’età della Restaurazione, ossia della ricostituzione del vecchio ordine europeo. Restaurazione in toto dell’ancien regime. Ma si trattava di un programma irrealizzabile nella sua interezza. Troppi erano i mutamenti intervenuti nella società e nelle istituzioni, le ideologie e i modelli di governo derivati dalle esperienza rivoluzionarie si erano troppo radicati nella coscienza di molti intellettuali per poter essere cancellati d’un colpo. Ancor più difficile da rimuovere era l’eredità rivoluzionaria per quanto riguarda le istituzioni politiche e gli ordinamenti giuridici; la dominazione napoleonica aveva portato la certezza del diritto e dell’uguaglianza fra i cittadini e tutto ciò corrispondeva alle aspirazioni e ai bisogno di una borghesia che aveva acquisito la consapevolezza del suo ruolo nella società. In molti stati la restaurazione si risolse in un compromesso fra antico e nuovo, in un tentativo, non sempre riuscito, di adattare le vecchie strutture a una realtà sociale mutata.
Il congresso di Vienna, apertosi ufficialmente il 1 novembre 1814 e conclusosi il 9 giugno 1815, fu il più importante e affollato consesso di sovrani e governanti mai visto in Europa. Ma le decisioni più importanti vennero prese all’interno di un gruppo ristretto, di cui facevano parte i delegati delle quattro maggiori potenze vincitrici, fra i quali il ministro degli esteri Metternich e il rappresentante della Francia sconfitta Talleyrand che riuscì a diventare addirittura uno dei protagonisti del congresso, sfruttando i contrasti tra i vincitori e facendo valere a vantaggio del suo paese il principio di legittimità: il principio in base al quale dovevano essere restaurati i diritti “legittimi” violati dalla rivoluzione. Era del resto interesse delle stesse potenze vincitrici fare della Francia un pilastro del nuovo equilibrio conservatore, la maggiore precauzione presa dei vincitori consistette nel costruire una barriera protettiva ai confini della Francia, rafforzando gli stati vicini. Lo scopo degli statisti di Vienna infatti era non solo cancellare le conseguenze degli eventi rivoluzionari dell’ultimo venticinquennio ma anche evitarne il ripetersi costruendo un equilibrio più solido e duraturo. Il nuovo equilibrio fu creato in base a criteri tipicamente settecenteschi. Intere regioni passarono da uno stato all’altro senza il minimo riguardo per i principi di nazionalità o per la volontà delle popolazioni interessate; gli stati si ridussero di numero e i maggiori fra essi si vennero avvicinando al modello dello stato moderno caratterizzato dalla continuità territoriale e dall’uniformità degli ordinamenti. I mutamenti più importanti riguardarono la Russia e la Prussia; la prima si espanse verso occidente inglobando buona parte della Polonia mentre la Prussia acquistò buona parte della Sassonia. Gli stati di lingua tedesca si ridussero drasticamente di numero e furono riuniti in una “Confederazione Germanica”, la cui presidenza era tenuta dall’imperatore d’Austria. L’impero asburgico, grazie all’azione di Metternich, uscì dal congresso più forte e più compatto e si impose come il fulcro dell’equilibrio continentale. Belgio, Lussemburgo e Olanda formarono il “Regno dei Paesi Bassi”. L’Italia fu riportata, con poche varianti, alle condizioni precedenti alle guerre napoleoniche. La maggiore novità era il rafforzamento dell’egemonia austriaca; gli austriaci erano infatti presenti nel regno Lombardo-Veneto, nel Granducato di Toscana, nel Ducato di Parma e Piacenza, nel Ducato di Modena e Reggio mentre il Regno di Napoli, sotto la dinastia dei Borboni, era legato agli austriaci da un trattato di alleanza militare. Anche lo Stato pontificio dovette consentire all’Austria di mantenere guarnigioni a Ferrara e a Comacchio. L’unico stato italiano a mantenere una certa autonomia rispetto all’impero asburgico era il Regno di Sardegna, ingranditosi con l’acquisto di alcuni territori della Savoia e con la Liguria. La Gran Bretagna non ebbe pretese territoriali sul continente ma si preoccupò, invece, di assicurare in Europa un equilibrio tale da impedire l’emergere di nuove ambizioni egemoniche oltre che consolidare la sua posizione di massima potenza marittima. Restaurato l’ordine in Europa, i capi delle grandi potenze cercarono di approntare gli strumenti militari e diplomatici per garantire la conservazione di equilibri interni. Il più importante di questi strumenti fu la Santa Alleanza, nata dallo zar Alessandro I, cui aderirono anche l’imperatore d’Austria e il re di Prussia: un alleanza intessuta di riferimenti alla religione cristiana. Alla Santa Alleanza aderirono successivamente altri Stati europei, fra cui la Francia. Non aderì la Gran Bretagna, che giudicò il contenuto inconsistente agli effetti pratici, che si fece promotrice di un secondo trattato, la “Quadruplice alleanza”, firmato fra Gran Bretagna, Austria, Russia e Prussia e che impegnava i continenti a vigilare contro possibili ritentativi di rivincita da parte della Francia e a intervenire contro ogni sommovimento rivoluzionario. Nasceva così quello che fu chiamato il “concerto europeo” ossia un continuo dialogo fra le grandi potenze che contribuì certamente a ridurre le tensioni e ad assicurare un quarantennio di pace.

12.3 La restaurazione politica
Sul piano politico e istituzionale, la Restaurazione ebbe caratteri e intensità diversi a seconda dei paesi. Ovunque, però, si ebbe un assestamento degli equilibri interni in senso conservatore. Anche in Gran Bretagna gli anni successivi al 1815 videro la schiacciante prevalenza dell’ala destra del partito conservatore. Il dominio della destra tory si tradusse in una politica tutta rivolta a favorire gli interessi della grande proprietà terriera, attraverso l’imposizione di un forte dazio di importazione sul grano, che manteneva elevati i prezzi interni. Questa politica inaspriva le tensioni sociali, spingendo in alto il costo della vita; si ebbero infatti in questi anni numerose agitazioni operaie, sempre duramente represse. Un parziale correzione di rotta si ebbe nei primi anni ’20, quando si venne affermando un’ala liberal-moderata che faceva capo a George Canning, diventato ministro degli esteri. Nei più importanti stati dell’Europa, la Restaurazione si risolse nella conferma del vecchio assolutismo settecentesco e nel blocco di ogni evoluzione in senso liberale. La Restaurazione assunse forme particolarmente dure in Spagna, dove il re Ferdinando VII si affrettò ad abrogare la “costituzione di Cadice” e mise in atto una dura repressione nei confronti delle correnti liberali. Regimi a base parzialmente rappresentativa, ossia con parlamenti eletti a suffragio ridotto e dotati di poteri assai limitati, furono invece mantenuti nel regno dei Paesi bassi, in alcuni stati della Confederazione Germanica oltre che in Svezia, Danimarca e Svizzera. Ma il caso più significativo di Restaurazione “morbida” fu certamente quello della Francia: appena insediato sul trono il nuovo re Luigi XVIII promulgò una costituzione (ma preferì chiamarla “carta”) che proclamava l’uguaglianza di tutti i francesi davanti alla legge, garantiva le libertà fondamentali (di opinione, di stampa e di culto) e prevedeva un Parlamento bicamerale, composto da una “Camera dei pari” di nomina regia e una “Camera dei deputati” elettiva. La carta era presentata come una graziosa concessione da parte del re ai suoi sudditi (per questo fu chiamata Charte octroyée, ossia elargita). Il suo contenuto liberale era però limitato sia dagli scarsi poteri di cui godeva la Camera dei deputati, sia dal carattere restrittivo della legge elettorale, che legava il diritto di voto all’età e al reddito. Fu inoltre garantita l’inviolabilità di tutte le proprietà vecchie e nuove e si rinunciò a qualsiasi misura punitiva per i sostenitori dell’antico regime. Una simile moderazione scontentava però i legittimisti più intransigenti e soprattutto gli emigrati che, rientrati in patria, si aspettavano di rientrare pienamente in possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi feudali: in generale, tutti coloro che sognavano il ritorno puro e semplice all’ancien regime furono definiti ultrarealisti o “ultras”. Nelle elezioni dell’agosto 1815 gli “ultras” riuscirono a conquistare una larga maggioranza creando non pochi intralci e causando lo scioglimento della camera. Nel 1816, però gli ultras furono fortemente ridimensionati; prevalsero i costituzionali moderati e fecero la loro comparsa un’opposizione di sinistra che si batteva per l’allargamento delle libertà politiche, successivamente la ripresa dell’attività rivoluzionaria ad opera dei gruppi clandestini di ispirazione repubblicana e giacobina che si manifestò in Francia mise in crisi il gruppo dirigente moderato e restituì spazio alla destra legittimista. Questa segnò un punto a suo favore con la morte di Luigi XVIII e l’avvento di Carlo X, capo riconosciuto degli ultras. In Italia, la restaurazione dei vecchi stati e delle vecchie dinastie comportò un arresto e un rallentamento dello sviluppo civile che si stava avviando durante il periodo francese: nel Regno di Sardegna il re Vittorio Emanuele I abrogò la legislazione napoleonica, ristabilì il controllo della Chiesa sull’istruzione e riportò in vigore le discriminazioni contro le minoranze religiose; nello Stato della Chiesa, la relativa moderazione del papa Pio VII e del segretario di stato cardinal Consalvi si scontrava con la linea di restaurazione teocratica sostenuta dall’ala intransigente del collegio cardinalizio e dalla ricostituita Compagnia di Gesù. La linea intransigente finì col prevalere soprattutto dopo la morte di Pio VII e quando Consalvi fu allontanato; il Regno di Napoli aveva una situazione simile a quella dello stato pontificio, la linea moderata del primo ministro Luigi de Medici dovette misurarsi con le tendenze reazionarie del re Ferdinando I ma grazie soprattutto al governo austriaco il primo ministro riuscì a portare avanti la sua politica ispirata i principi del dispotismo illuminato, lo stato fu unificato dal punto di vista amministrativo quando assunse il nome di Regno delle due Sicilie (1816); le cose andavano meglio negli stati direttamente amministrati dall’Austria: in Toscana il granduca Ferdinando III e i suoi ministri si riallacciarono alla miglior tradizione dell’assolutismo illuminato; nel Lombardo-Veneto era presente una miscela di autoritarismo e buona amministrazione, la lombardia continuò ad essere la regione economicamente più avanzata d’Italia ed era sviluppata da un punto di vista sociale e per quanto riguarda la comunicazione e l’istruzione e per quanto riguarda le tecniche agricole e industriali.

Restaurazione:aspetti sociali
Sul pino dei rapporti sociali, la Restaurazione non interruppe completamente quel processo di crescita della borghesia e di emancipazione dei vincoli feudali che la rivoluzione francese aveva accelerato, ma questo processo divenne più lento e contrastato. Nei paesi che avevano conosciuto la dominazione napoleonica, le aristocrazie tornarono ad occupare tutti i posti chiave nei governi, nelle forze armate, nella diplomazia anche se non avevano recuperato completamente il loro ruolo sociale (e le proprietà) dell’ancien regime. La borghesia dell’industria e del commercio fu danneggiata dalle politiche dei governi volte a favorire la proprietà terriera e dal ristabilimento delle antiche barriere doganali che ostacolavano gli scambi. I diritti feudali erano stati aboliti in gran parte d’Europa e salvo accezioni, non furono ripristinati; ma in vaste aree del continente i contadini erano ancora legati a vincoli nei confronti dei signori, che rappresentavano a livello locale la principale autorità: questa era la situazione di gran parte dell’Europa dell’est. Nelle zone della confederazione germanica l’emancipazione si ottenne gradualmente con una serie di riforme. Nell’impero asburgico il processo fu ancora più lento e si compì soltanto nel 1848. Nell’Europa del Sud (penisola iberica, Italia) la defeudalizzazione fu più rapida, ma non intaccò se non in minima parte le tradizionali gerarchie sociali ne modificò la struttura della proprietà terriera, caratterizzata dalla persistenza del latifondo e della grande proprietà ecclesiastica. Molto diversa, da questo punto di vista, era la situazione in Francia e nei paesi vicini: le regioni occidentali della Germania, i Paesi bassi, l’Italia settentrionale: in queste aree la rivoluzione antifeudale si era compiuta in maniera irreversibile e la borghesia aveva aumentato la sua quota di partecipazione alla proprietà della terra. La vendita delle terre appartenenti al clero e alla nobiltà non aveva avvantaggiato i piccoli coltivatori, ma era servita soprattutto a incrementare la grande proprietà borghese. La piccola proprietà contadina fu invece complessivamente danneggiata dalla legislazione napoleonica.

12.5 La cultura del Romanticismo
Il periodo che comunemente si definisce come “età della Restaurazione” fu anche quello che vide l’affermazione e la diffusione in tutta Europa della cultura romantica. Una cultura che si contrapponeva al razionalismo settecentesco, all’universalismo illuminista, agli schemi del classicismo. Una cultura che cercava nella storia la fonte di una nuova e più profonda razionalità e vedeva in tutte le epoche storiche l’espressione di uno spirito universale o la manifestazione di un disegno divino. Come corrente letteraria, artistica e filosofica, il Romanticismo era nato in Germania negli ultimi decenni del ‘700. Aveva avuto i suoi primi assertori nei filosofi Hamann e Herder e il suo nucleo originario nello Sturm und Drang. Una più organica sistemazione teorica venne con l’opera critica dei fratelli von Schlegel e con la filosofia idealista di Fichte e Schelling. Romanticismo e idealismo fornirono allora la base culturale a quel movimento di riscoperta della nazione e di riscossa patriottica. In quegli stessi anni il Romanticismo si affermò in Inghilterra e cominciò a diffondersi in Francia, nella versione cattolica e tradizionalista di Chateaubriand. Un contributo decisivo all’affermazione delle nuove tendenze lo diede Madame de Stael e da questa derivarono numerose discussioni che videro la penetrazione dell’ideale romantico in Italia. Ma l’importanza del romanticismo non si limitò al mondo delle lettere e delle arti; quella romantica fu una cultura nel senso più ampio del termine: fu una mentalità diffusa, un fenomeno che influenzò in modo decisivo il modo di pensare, di agire e di apparire della minoranza colta. Ciò che era sempre presente nell’ideale romantico era la sensibilità, una sensibilità legata anche ai dettagli esteriori che diventavano connotati e segni di riconoscimento di una nuova spiritualità. Nella cultura romantica c’erano molti elementi che si prestavano a essere fatti propri fai fautori della Restaurazione, continui rimandi alla critica del razionalismo, le tradizioni storiche e le peculiarità nazionali, la riscoperta della dimensione religiosa. Romanticismo però significava anche libertà, rottura di norme consolidate, affermazione dell’individuo.

12.6 Cospirazioni e società segrete
A partire dall’inizio degli anni ’20, l’ordine imposto dall’Europa e al mondo dal congresso di Vienna fu seriamente minacciato da una successione di moti insurrezionali che si propagavano con grande facilità da un paese all’altro: un meccanismo di reazione a catena facilitato da un comune stato di malessere economico ma determinato soprattutto da una fitta rete di collegamenti internazionali fra i diversi centri rivoluzionari. Dal momento che in quasi tutti i paesi europei l’espressione del dissenso politico era impedita, o gravemente limitata, sette e società segrete divennero nell’età della Restaurazione il principale strumento di lotta politica. Gli stessi legittimisti se ne servirono per combattere più efficacemente i loro avversari e per meglio condizionare i governi (in Francia coi Cavalieri della fede e in Italia con le Amicizie cristiane). Più numerose e importanti erano però le sette di tendenza democratica e liberale. Alcune di esse traevano ispirazione dalla Massoneria, la più antica fra le società segrete. Le società segrete poggiavano tutte su una base sociale molto ristretta e ruolo importantissimo assumevano i militari perché erano gli unici strumenti di minaccia nei confronti della stabilità dei troni e del governo.

16. Società borghese e movimento operaio
Al conservatorismo politico che, dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48-49, caratterizzava la situazione europea, faceva riscontro un processo di profondo mutamento sociale. Il ventennio successivo al ’48 vide la crescita della borghesia: un ceto sociale attraversato da notevoli differenziazioni interne e tuttavia portatore di uno stile di vita e di un insieme di valori sostanzialmente unitari. Centrale, tra questi valori era la fede nel progresso generale dell’umanità, che poggiava sull’imponente sviluppo economico e scientifico della seconda metà dell’800. Sul piano culturale, il progresso scientifico diede origine a una nuova corrente filosofica, il positivismo, che diventò l’ideologia della borghesia in ascesa e influenzò tutta la mentalità dell’epoca. Il rappresentante più noto del nuovo spirito “positivo” fu Darwin, cui si deve la teoria dell’evoluzione e della selezione naturale. Dalla fine degli anni ’40, l’economia europea conobbe una fase di forte sviluppo durata quasi un quarto di secolo. Lo sviluppo interessò innanzitutto l’industria, principalmente i settori siderurgico e meccanico. Si generalizzò in quest’epoca l’impiego delle macchine a vapore e del combustibile minerale. I fattori principali del boom industriale del ’50 e ’60 furono: la rimozione dei vincoli giuridici che ostacolavano le attività economiche, l’affermarsi del libero scambio, la disponibilità di materie prime, la diminuzione dei tassi di interesse e l’espansione del credito a favore degli impieghi industriali; lo sviluppo di nuovi mezzi di trasporto (navi a vapore e ferrovie) e di comunicazione (telegrafo). Quest’ultimo fattore mutava per alcuni aspetti essenziali la vita dell’epoca e l’immagine stessa che la gente aveva del mondo: esso appariva ed era effettivamente sempre più unito. Cambiava anche, in relazione alla rivoluzione dei trasporti e alle nuove opportunità di lavoro, il volto delle città, che diventavano sempre più grandi e più complesse, anche se la loro trasformazione non apportava a tutti i ceti sociali i medesimi vantaggi (nascevano allora le grandi periferie operaie). Lo sviluppo economico successivo alla metà del secolo toccò in misura minore l’agricoltura europea, dove era impiegato il grosso della popolazione attiva, e dove le condizioni economiche e le forme di proprietà variavano sensibilmente da una zona all’altra del continente. In generale, però, restavano disagiate le condizioni di vita dei contadini, che in numero sempre crescente erano spinti a scegliere la via dell’emigrazione. Si diffondeva, nello stesso periodo, la figura dell’operaio di fabbrica, le cui dure condizioni di vita e di lavoro favorivano il formarsi di una coscienza di classe e delle prime associazioni operaie (soprattutto in Gran Bretagna, Germania e Francia). La teoria socialista assunse, con l’opera di Marx, il carattere di teoria “scientifica” contenente un’indicazione di superamento del capitalismo. Progressivamente il marxismo si sarebbe affermato quale dottrina ufficiale del movimento operaio. Nel 1864 venne fondata la prima internazionale, la cui storia fu caratterizzata dai contrasti fra le varie correnti – principalmente tra marxisti e anarchici – che avrebbero presto condotto alla sua dissoluzione. Il maggior teorico dell’anarchismo fu Bakunin, le cui teorie si distinguevano per alcuni aspetti sostanziali da quelle di Marx. Bakunin, tra l’altro, riteneva che, una volta abbattuto il potere statale, il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente, senza dunque la fase di “dittatura del proletariato” prevista da Marx. Egli considerava, inoltre le masse diseredate (e non il proletariato industriale) il soggetto della rivoluzione. Per quest’ultimo motivo il bakuninismo si diffuse soprattutto nei paesi più arretrati. Di fronte alla società borghese, il mondo cattolico da un lato assunse un atteggiamento di dura condanna, dall’altro, si fece promotore, con i movimenti cristiano-sociali, di un intervento dello Stato a favore dei lavoratori e di un associazionismo cattolico.

Marx e “Il Capitale”
Pubblicando il “Manifesto dei comunisti”, Marx ed Engels non solo avevano gettato le basi per una nuova concezione del socialismo, ma avevano anche indicato al proletariato europeo un programma rivoluzionario da attuarsi a breve scadenza. Lontano in esilio a Londra, Marx dedicò gran parte del suo tempo allo studio dell’economia politica: l’analisi economica divenne sempre più la base fondamentale del suo “socialismo scientifico”. Il frutto più maturo di questa fase del pensiero marxiano fu “Il Capitale” che era innanzitutto una minuziosa descrizione delle leggi e dei meccanismo su cui si fonda il mondo di produzione capitalistico. Ma al tempo stesso contiene anche una storia del capitalismo, una previsione circa i suoi futuri sviluppi e un’indicazione dei compiti che spettano al nuovo soggetto rivoluzionario: il proletariato industriale. Fondamento principale della costruzione di Marx è la teoria del valore-lavoro: la teoria cioè per cui il valore di scambio di una merce è dato dalla quantità di lavoro mediamente impiegata per produrla. Il lavoro stesso è una merce e come tale viene comprato e venduto. Ma la caratteristica della merce-lavoro è di produrre un valore superiore ai propri costi di produzione, di rendere più di quanto non costi. La differenza fra il valore del lavoro e il valore del prodotto – differenza di cui si appropria il capitalista – è detta da Marx plusvalore. L’imprenditore che, assumendo salariati, acquista sul mercato il lavoro e vende il prodotto di questo lavoro, realizza così un profitto. Da esso si forma il capitale che si accumula e cresce. Secondo Marx, man mano che si sviluppa, il capitalismo produce i germi della sua dissoluzione. La concentrazione del capitale in poche mani si accompagna alla formazione di una massa proletaria sempre più numerosa e sempre più misera; quindi si allarga l’incapacità di assorbimento dei prodotti. La pubblicazione del “Capitale” segnò una data fondamentale nella storia del movimento operaio e della cultura occidentale. Per la prima volta il socialismo non era presentato come un sogno. L’utopia diventava necessità, la profezia acquistava il fascino della previsione scientifica. Marx non era più soltanto il teorico del materialismo storico, ma era colui che aveva individuato nel proletariato di fabbrica il protagonista del processo rivoluzionario. Il marxismo divenne alla fine del secolo la dottrina “ufficiale” del movimento operaio e rimase tale per molto tempo.

16.9 L’internazionale dei lavoratori: marxisti e anarchici
Il movimento operaio avvertì preso l’esigenza di un collegamento internazionale. La prima occasione si presentò nel 1862 quando una delegazione di lavoratori francesi incontrò i dirigenti delle Trade Unions britanniche e stabilirono di dar vita a un organizzazione permanente di coordinamento aperta ai rappresentanti di altri paesi. Questa nuova organizzazione prese il nome di Associazione Internazionale dei Lavoratori. Marx di assunse il compito di redigere lo statuto provvisorio, e riuscì ad inserire nel documento alcuni punti che qualificavano l’Associazione in senso classista, nonostante l’opposizione del rappresentante italiano. Ciò che risultava più evidente era l’affermazione dell’autonomia del proletariato e la priorità data alla lotta contro lo sfruttamento. La fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (o Prima Internazionale) fu senza dubbio un evento capitale nella storia del movimento operaio. Questa costituì subito un punto di riferimento per i lavoratori di tutta Europa, oltre che uno spauracchio per i governi conservatori. Fino alla fine degli anni ’60, il dibattito ai vertici dell’Internazionale vide contrapposti da un lato i socialisti e dall’altro i proudhoniani, fautori di un sistema fondato sulle cooperative e sulle autonomie locali. Nei primi congressi le tesi dei proudhoniani furono ripetutamente sconfitte. Ma gli ideali libertari e federalisti esercitavano ancora un fascino notevole sul proletariato rivoluzionario: una volta tramontata la stella del proudhonismo, essi conobbero nuova fortuna nella versione assai più radicalmente rivoluzionaria che ne diede il russo Bakunin, massimo teorico dell’anarchismo moderno. Per Bakunin l’ostacolo principale che impediva all’uomo il conseguimento della piena libertà era costituito non tanto dai rapporti di produzione, quanto dall’esistenza dello Stato stesso. Lo Stato era, insieme alla religione, lo strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la stragrande maggioranza della popolazione in condizioni di inferiorità economica e intellettuale. Compito prioritario dei rivoluzionari era quindi liberare le masse dall’influenza della religione, abbattuto questo il sistema di sfruttamento economico basato sulla proprietà privata sarebbe inevitabilmente caduto. E’ evidente quanto queste concezioni fossero distanti da quelle di Marx. Anche Marx vedeva nella religione e nello stato degli strumenti al servizio delle classi dominanti; ma collocava l’uno e l’altra nella sfera della sovrastruttura. Per Marx inoltre il protagonista del processo rivoluzionario non poteva essere che il proletariato industriale; per Bakunin invece il vero soggetto della rivoluzione erano le masse diseredate in quanto tali. La lotta fra marxisti e bukininiani si sviluppò agli inizi degli anni ’70, soprattutto sui problemi riguardanti i compiti e la struttura dell’Internazionale. Marx riuscì a mettere in minoranza i seguaci di bakunin e spostò la sede dell’Internazionale da Londra a New York, avendo consapevolmente decretato la morte dell’Internazionale.

La seconda rivoluzione industriale
L’ultimo trentennio dell’800 vide una profonda trasformazione economica (“seconda rivoluzione industriale”). La crisi di sovrapproduzione del 1873 dette inizio a una fase di rallentamento dello sviluppo durata oltre un ventennio. La prolungata caduta dei prezzi che le si accompagnò era però conseguenza soprattutto di profonde trasformazioni organizzative e innovazioni tecnologiche. Vari fattori – tra cui la diminuzione dei prezzi e l’acuirsi della concorrenza internazionale – portarono allo sviluppo delle grandi concentrazioni produttive e finanziarie e a una stretta compenetrazione tra banche e industrie. Si affermava contemporaneamente nei vari Stati una politica di appoggio all’economia nazionale attraverso il protezionismo e una maggiore aggressività sul piano dell’affermazione economica all’estero, che fu tra le principali cause della politica di espansione coloniale seguita dalle maggiori potenze. Gli effetti più gravi della caduta dei prezzi si ebbero nell’agricoltura. Qui i progressi tecnici rimasero limitati ad alcune aree europee più sviluppate. Diverso, invece, perché privo di tali squilibri, il rilevante sviluppo agricolo degli Stati Uniti, i cui prodotti a buon mercato inflissero un colpo durissimo alla più arretrata agricoltura europea. Di conseguenza nelle campagne d’Europa aumentarono la conflittualità sociale e l’emigrazione (soprattutto quella transoceanica, che conobbe un vero e proprio boom). Anche la crisi agraria spinse in direzione di politiche doganali che proteggessero la produzione nazionale delle concorrenza estera. Nel complesso, comunque, il calo dell’agricoltura in rapporto al complesso delle attività economiche fu comune a tutti i paesi industrializzati. Caratteristica fondamentale della seconda rivoluzione industriale fu la stretta integrazione fra scienza e tecnologia e fra tecnologia e attività produttive. Il rinnovamento tecnologico si concentrò nelle industrie giovani: chimica, elettrica, dell’acciaio (la prima rivoluzione industriale del secolo precedente era stata invece dominata dal cotone e dal ferro). Soprattutto gli sviluppi della chimica aprirono nuove prospettive un po’ in tutti i settori produttivi: dalla produzione di alluminio a quella di prodotti “intermedi” (come acido solforico e soda) con impieghi estesissimi, dalle fibre tessili artificiali ai nuovi metodi di conservazione degli alimenti. L’invenzione del motore a scoppio e la produzione di energia elettrica furono le caratteristiche salienti della seconda rivoluzione industriale. L’energia elettrica, in particolare, forniva una nuova importante forza motrice per gli usi industriali, e rivoluzionava – anzitutto con l’illuminazione – la vita quotidiana. Questo periodo vide anche la trasformazione scientifica della medicina, dovuta a quattro fattori: prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche attraverso la diffusione delle pratiche igieniste; identificazione dei microrganismi; progressi della farmacologia; nuova ingegneria ospedaliera. I progressi della medicina e dell’igiene, sommandosi allo sviluppo dell’industria alimentare, determinarono in Europa una riduzione della mortalità. Nonostante il calo delle nascite verificatosi nei paesi economicamente più avanzati (dovuto alla diffusione dei metodi contraccettivi e a una nuova mentalità tesa a programmare razionalmente la famiglia), si ebbe così un sensibile aumento della popolazione.

LIBERISMO/PROTEZIONISMO
Liberismo è quella dottrina che affida al mercato il compito di regolare l’attività economica, che si oppone all’intervento dello Stato nel mondo della produzione e del commercio, che sostiene il principio del libero scambio nei traffici fra paese e paese. In quest’ultimo senso il liberismo si oppone al “protezionismo”:ossia al quella pratica che tende a proteggere la produzione nazionale imponendo sui prodotti di importazione dazi doganali così elevati da scoraggiarne l’acquisto. Al contrario del protezionismo – che è solo una prassi adottabile, e adottata, da regimi diversi per motivazioni diverse – il liberismo è anche un’ideologia a sfondo ottimistico che ha il suo fondamento nelle teorie di Adam Smith. Un’ideologia che vede nella libertà economica non solo il mezzo più sicuro per ottenere il maggior benessere possibile per l’intera collettività (attraverso il perseguimento del benessere privato da parte dei singoli soggetti), ma anche il complemento indispensabile della libertà politica. Il momento di maggior fortuna del liberismo si può collocare attorno alla meta del secolo XIX: in particolare nel periodo che seguì l’abolizione del dazio sul grano in Gran Bretagna. In questo periodo il liberismo fu, non solo in Inghilterra, l’ideologia delle correnti progressiste (che vedevano in esso anche un mezzo per sconfiggere i privilegi dell’aristocrazia terriera); e finì quasi con l’identificarsi col liberalismo politico. Successivamente, a partire dagli anni ’70 dell’800, le fortune del liberismo andarono declinando in tutti i paesi, salvo che in Gran Bretagna. Negli ultimi decenni del secolo si assisté ovunque all’imposizione di elevati dazi protezionistici e, più in generale, a un intervento crescente dei poteri pubblici nelle vicende economiche (sotto forma sia di leggi sociali, sia di provvedimenti a favore di singoli comparti produttivi). Nel corso del XX secolo, l’intervento statale si è andato continuamente sviluppando in quantità e in qualità, anche all’interno dei sistemi economici fondati sulla proprietà privata e sulla libera impresa. Soprattutto negli anni della grande depressione seguita alla crisi del ’29 l’era del laissez-faire sembro definitivamente conclusa. Tuttavia, anche nel nostro secolo, le teorie liberiste hanno trovato numerosi e autorevoli sostenitori, soprattutto fra gli economisti. Nel secondo dopoguerra, il liberismo ha conosciuto una fase di rilancio, grazie anche alle opere di economisti come Hayek e Friedman. Alle loro teorie si sono in parte ispirate le politiche “neoliberiste” affermatesi verso la fine degli anni ’70 come reazione alla crisi dello “stato sociale” e applicate nei decenni successivi soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

2. Verso la società di massa
Alla fine dell’800 cominciarono a delinearsi, nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, i caratteri della moderna società di massa. La maggioranza della popolazione viveva ormai nei centri urbani ed era inserita nel circolo dell’economia di mercato; i rapporti sociali si facevano più intensi e si basavano non più sulle comunità tradizionali, bensì sulle grandi istituzioni nazionali (apparati statali e organizzazioni di massa). Gli anni 1896-1913 furono, per i paesi industrializzati, un periodo di intensa espansione economica, cui si accompagnò, tra l’altro, un aumento del reddito pro-capite che determinò un allargamento del mercato. Le dimensioni di massa assunte dalla domanda stimolarono la produzione in serie, nonché la diffusione di processi di meccanizzazione e razionalizzazione produttiva (catena di montaggio, taylorismo). Mutava, parallelamente, la stratificazione sociale. Se nella classe operaia si accentuò la distinzione fra lavoratori generici e qualificati, la maggiore novità fu il crescere dei nuovi strati del ceto medio. Di fondamentale importanza nel determinare i caratteri della nuova società di massa fu il diretto impegno dello Stato nel campo dell’istruzione, che ebbe per conseguenza una drastica diminuzione dell’analfabetismo in tutta l’Europa. Si allargava, anche per l’incremento nella diffusione dei giornali, l’area dell’opinione pubblica. Anche l’introduzione generalizzata del servizio militare obbligatorio e la creazione di eserciti di massa (imposta dell’evoluzione della strategie e delle tecniche militari) contribuirono ad accelerare i processi di socializzazione. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si ebbe un processo di allargamento della partecipazione alla vita politica determinato dall’estensione del diritto di voto, dall’affermarsi di un nuovo modello di partito (il partito di massa) e della crescita di grandi organismi sindacali nazionali. Parallelamente, la politica delle classi dirigenti tenne in maggior conto le esigenze delle classi lavoratrici (legislazione sociale, servizi pubblici urbani, aumento della tassazione diretta). I primi albori della società di massa segnarono il manifestarsi di una questione femminile, anche per le conseguenze dell’industrializzazione sull’assetto della famiglia e il ruolo della donna. I primi movimenti di emancipazione femminile, all’epoca nettamente minoritari, concentrarono la loro azione nella lotta per il suffragio alle donne. Alla fine dell’800 sorsero nei principali paesi europei dei partiti socialisti che si ispiravano per lo più al modello della socialdemocrazia tedesca e facevano a capo della Seconda Internazionale, fondata nel 1889. Nella maggioranza di questi partiti il marxismo fu assunto come dottrina ufficiale; si affacciarono presto, tuttavia, contrasti fra il revisionismo riformista di Bernstein, gli esponenti dell’ortodossia marxista e le nuove correnti rivoluzionarie, tra le quali va ricordata quella “sindacalista rivoluzionaria” che aveva il suo maggior inspiratore in Georges Sorel. L’ascesa al soglio pontificio di Leone XIII se non mitigò l’intransigenza dottrinaria della Chiesa favorì però l’impegno dei cattolici in campo sociale, stimolato soprattutto dall’enciclica “Rerum novarum”. Significativa espressione dei fermenti in atto nel mondo cattolico fu l’emergere, soprattutto in Francia e Italia, di movimenti democratico-cristiani e, sul piano più strettamente religioso, del modernismo. Sul piano delle ideologie politiche, nell’Europa di fine ‘800 trovò larga diffusione il nazionalismo, ormai divenuto una corrente nettamente conservatrice. In varia commistione con esso si diffusero tendenze apertamente razziste e antisemite. In Germania e nell’Europa orientale il nazionalismo prese anche la forma, rispettivamente, di pangermanesimo e panslavismo. Espressione particolare del generale risveglio nazionalistico, ma anche reazione contro l’antisemitismo, fu il sionismo. Sul piano culturale, la fine del secolo vide la crisi del positivismo, a favore del diffondersi di nuove correnti che ponevano l’accento sul ruolo del soggetto, considerando elementi costitutivi dell’attività umana fattori quali l’istinto e la volontà. Le certezze del positivismo in campo scientifico entrarono in crisi anche per le riscoperte della fisica contemporanea. [1919 3^ internazionale con Lenin che bolla i social-democratici come traditori perché collaborano con la borghesia e verranno chiamati social-fascisti.]
[Nel 1921 nasce il partito comuniste italiano con Gramsci, Bordiga, Toglietti, Filippo Tirati fu colui che divulgò le idee di Marx in Italia][Nel partito democratico russo c’è Lenin che diceva che la Russia non poteva passare ad un regime borghese siccome la borghesia non era molto sviluppata per cui si deve passare ad una fase rivoluzionaria con i contadini che erano visto come coloro che volevano la proprietà privata della terra. Lenin fu accusato perché diede troppa importanza al partito con una burocratizzazione. Trosky lo accusò di aver creato una dittatura sul proletariato.]

Esempio



  


  1. elena

    liceo classico dante alighieri