La moneta greca

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Testo

Monete greco-romane
Inventata probabilmente in Lidia tra il VI e il VI secolo a.C. per semplificare le operazioni di pagamento dei mercenari, la moneta coniata divenne subito in Grecia uno splendido segnale dell’esistenza e dell’autonomia della polis. Questo legame ideologico fra la comunità e la sua moneta, che limitò fortemente la circolazione di quest’ultima al di fuori delle singole poleis, fu un fenomeno di lungo periodo, in un mondo in cui permanevano altre forme di moneta e gran parte dell’attività economica non era ancora gestita in termini monetari. Fu però soprattutto nel mondo romano che la moneta coniata svolse un ruolo di rilievo come mezzo di scambio, anche se questa funzione non divenne mai prevalente rispetto agli usi tradizionali come deposito di ricchezza e misura del valore.
Moneta giudaica
La moneta greca era la dracma il cui nome deriva dalla possibilità di impugnare nella mano i 6 oboli, in origine in forma di spiedo, che ne costituivano i sottomultipli. Ciascuna dracma comprendeva 6 oboli e aveva per multipli il didrachmon (o statere), pari a 2 dracme, la mina, pari a 100 dracme, e il talento, pari a 6000 dracme. Le due unità maggiori non furono mai coniate, ma furono utilizzate solo come unità di conto. Attraverso lo statere il sistema basato sulla dracma euboica si agganciava all’unità base del sistema ponderale babilonese, il siclo, di 8,70 grammi. Altri multipli della dracma non frequentemente coniati erano il tetradrachmon (4 dracme), l’hexadrachmon (6 dracme) e il dekadrachmon (10 dracme).

Monete da 1 dracma della Grecia antica
La dracma era correntemente coniata in argento e raramente in oro; nell’Egitto tolemaico era in uso anche una dracma di bronzo. Nelle varie zone del mondo ellenistico la dracma assume pesi diversi, che col tempo vanno man mano diminuendo; in età romana viene assimilata prima a tre quarti del denario, poi al denario neroniano, di 3,4 grammi. Ha conservato il nome dracma la moneta in uso nella Grecia moderna, sostituita nel 2002 dall’euro.
La moneta non fu inventata, ma fu il punto di arrivo di una evoluzione dei mezzi di scambio durata millenni che, a partire dal semplice baratto di merce contro merce, ha toccato svariate tappe, andando via via sempre più perfezionandosi. Nessun popolo antico, per quel che ci risulta dalle fonti, ha saputo sottrarsi, nella prima fase della sua esistenza, alla legge naturale del baratto. Ma questa forma di commercio presentava grossi inconvenienti per quelle popolazioni stanziali che non erano solite intraprendere lunghi viaggi a fini commerciali. Tali popoli si trovavano spesso a disporre di una derrata sovrabbondante che sarebbero stati ben lieti di scambiare con i propri vicini, ma questi a loro volta ne possedevano altrettanta; capitava quindi di dover rinunciare, da un lato, a merci senza dubbio necessarie ma che non potevano essere pagate, dall’altro di dover conservare la propria derrata, ormai di nessuna utilità, col rischio che si potesse deteriorare o distruggere. Per ovviare a tale inconveniente, si stabilì una derrata particolare che servisse al tempo stesso da mezzo di scambio e da scala comparativa del valore delle merci.
Si decise cioè di scegliere una merce che svolgesse le funzioni proprie della moneta. E’ questa la cosiddetta "moneta naturale", primo esempio di quel fenomeno che gli studiosi moderni chiamano col nome di "premoneta". La scelta della derrata da usarsi come "moneta naturale" è variata secondo i luoghi e i tempi, ma si è sempre orientata su un prodotto a un tempo ricercato e abbondante. Gli antichi abitatori del Mediterraneo si sono rivolti con preferenza al bestiame, il quale per la sua utilità e, ad un tempo, per la sua abbondanza, ha riscosso ovunque ampio favore. Testimonianze dell’uso del bestiame come moneta ci vengono dalle più antiche legislazioni (che fissano le multe da pagare in buoi e pecore), ma soprattutto dal linguaggio.
A questo antichissimo uso si fanno risalire parole quali pecunia, ossia denaro, che deriva dal latino pecus (gregge), termine dal quale deriva anche la parola peculato (che in latino significa furto di armenti prima che concussione). Dall’uso di calcolare la ricchezza in capi di bestiame (capita) è derivato poi il termine capitale, mentre Polluce ci ricorda che nel linguaggio popolare della Grecia antica per indicare un uomo di cui si era comprato il silenzio si diceva che gli era passato un bue sopra la lingua. Il bestiame rappresentò dunque la prima moneta dell’ uomo, ma presto ci si accorse che qualcosa non andava: tutto procedeva bene se un tale acquistava (ad esempio) tanto grano quanto ne poteva valere un bue. Ma se quel tale ne voleva di meno? C’erano, questo è vero, alcune corrispondenze fisse (ad esempio nella Roma arcaica dieci pecore equivalevano a un bue), ma sta di fatto che non era possibile dividere una pecora senza che perdesse valore (una pecora morta vale decisamente meno di una viva). Ci si accorse allora, quando l’industria iniziò a lavorarli per farne utensili e armi, che i metalli presentavano, rispetto al bestiame, notevoli vantaggi come mezzi di scambio. Non solo erano più facili da trasportare, ma le loro qualità intrinseche ne determinarono il primato su qualsiasi altra merce-tipo: essi infatti si potevano ridurre in frammenti senza che perdessero valore; erano inalterabili e non richiedevano manutenzione (non si deterioravano quindi in seguito a lungo immagazzinamento); erano facilmente riconoscibili dall’ aspetto, dal suono e dal peso; infine erano utili a tutti. Una volta scelto il materiale (che rimarrà lo stesso fino alla comparsa della moneta vera e propria) si cercò la forma che ne rendesse più comodo l’ utilizzo.
La forma più antica è senza dubbio quella dell’anello, la cui fortuna è dovuta non tanto alla sua funzione ornamentale, quanto al foro che ne facilita la tesaurizzazione e il trasporto. Una pittura murale del XV secolo a.C. ci testimonia l’utilizzo dell’anello come mezzo di scambio in Egitto, ma questa forma è attestata anche altrove (ad esempio nello stesso periodo gli Ebrei creano un’ unità pondometrica che chiamano "kikkar", che significa appunto anello). In seguito (seconda metà del II millennio a.C.) fanno la loro comparsa in tutto il Mediterraneo i cosiddetti pani di rame egeo-cretesi. Si tratta di grossi rettangoli del peso variante tra i 10 e i 36 chilogrammi e dello spessore di circa 6 centimetri. I più antichi fra questi pani presentano una forma quasi perfettamente rettangolare, mentre i più recenti sono caratterizzati dai quattro angoli molto sviluppati.

Questa forma, che in origine era stata interpretata come la stilizzazione di una pelle di bue o la rappresentazione di un’ascia bipenne (entrambi simboli legati al mondo sacrale e religioso), è dovuta in realtà a motivi tecnici: questa forma è infatti l’unica che consenta di colare in un piano più pani contigui per separarli poi più facilmente fratturando le giunzioni negli apici. Si tratta quindi del risultato di una fusione in serie, fatto che denota una evoluzione tecnica notevolissima. Questi pani ebbero grande diffusione per circa quattro secoli, fino al X a.C., e li ritroviamo pressoché in tutti i luoghi toccati dai Micenei. Infine, a partire dal IX secolo a.C., appare quella che gli studiosi chiamano moneta utensile. Si tratta di strumenti della vita quotidiana che vengono utilizzati come moneta pur mantenendo, almeno in origine, la loro funzione pratica.
Tale funzione sarà in seguito solo ricordata dalla forma dell’ oggetto, che di fatto non verrà più utilizzato per la sua funzione originaria. Le asce bipenni ritrovate in Europa centrale, ad esempio, hanno avuto senza dubbio esclusivamente funzione monetaria, dal momento che lo spessore assai ridotto della lama e il diametro del foro che non consente l’immanicamento, il che le rende praticamente inutilizzabili come attrezzi. La funzione di moneta utensile viene invece ricoperta nel Mediterraneo, e in particolare in ambiente greco, da tre tipi di utensili: gli obeloi (spiedi per cucina e per sacrifici religiosi), i lebeti (specie di pentole, anche queste usate sia in cucina che in ambito religioso) e infine i tripodi. L’ utilizzo di questi strumenti come moneta è attestata da numerose fonti scritte, primo fra tutti Omero che ricorda tripodi e lebeti come regali, premi di gare e prezzi di riscatti. Una serie di rinvenimenti nei santuari ha inoltre confermato questo uso e la tradizione ricorda che il già citato Fidone d’ Argo smonetizzò durante il suo regno gli spiedi di ferro e, dopo averli sostituiti con monete vere e proprie, li dedicò al tempio di Hera. Siamo ormai a un passo dalla nascita della moneta.
Con la moneta utensile arriviamo al VII secolo a.C. In questo periodo le coste dell’ Asia Minore sono abitate da Greci dediti per la maggior parte al commercio marittimo. La situazione degli scambi doveva essere pressappoco la seguente: per gli scambi quotidiani di piccola entità si ricorreva, oltre che al baratto, alla moneta utensile, mentre per i pagamenti più consistenti e per i traffici internazionali si ricorreva all’oro e all’ argento in anelli oppure in lingotti fusi. Nel corso della prima metà del VII secolo anelli e lingotti vanno via via scomparendo per lasciare il campo a piccoli pezzi di metallo prezioso (che hanno forma di goccia e sono costituiti da elettro, una lega naturale di argento e oro). Intorno alla metà dello stesso secolo alcuni mercanti e alcuni santuari (che hanno all’epoca funzione di banche) cominciano a contrassegnare questi pezzi con una loro impronta, con il loro sigillo. Apponendo questo sigillo, il mercante e la banca garantiscono che il peso del pezzo è esatto e che la sua lega è buona. Il privato è, beninteso, libero di accettare o meno la garanzia, di accordare o meno la sua fiducia; ma se accorda questa fiducia, se accetta la garanzia rappresentata dal punzone, è dispensato dal ricorrere ogni volta, in occasione di ogni pagamento, alla verifica del titolo e del peso, alla bilancia ed alla pietra di paragone.

Ci troviamo dunque in presenza di una vera e propria moneta privata. Ci si accorge che la "goccia" di metallo prezioso viene accettata proprio in virtù del sigillo che reca e in base alla fiducia che tale sigillo ispira. A questo punto interviene lo Stato, la cui garanzia è senza dubbio superiore a quella di qualsiasi mercante, ed avoca a sè il diritto di battere moneta, vietando ogni ulteriore emissione da parte di privati. Imprime il proprio simbolo (generalmente il dio protettore della città) sulle "gocce" e con esse paga i servizi resi alla comunità e al tempo stesso incamera le tasse: era nata la moneta. Dalle coste dell’ Asia Minore la moneta si diffuse repentinamente nella Grecia continentale e nelle colonie dell’Italia meridionale.
Già nel secolo successivo ogni polis aveva una propria moneta caratterizzata da un peso e da una figurazione particolare. Ogni città batteva dunque la propria moneta cercando di caratterizzarla e di renderla immediatamente riconoscibile a chi la teneva in mano. Nascono così figurazioni che resteranno per secoli caratteristiche di una città: la civetta sulle monete di Atene, la tartaruga su quelle di Egina e il cavallo alato su quelle di Corinto sono solo gli esempi più illustri. Altre città ricorsero ad altri metodi per rendere peculiare la propria moneta. E’ il caso di alcune città della Magna Grecia che realizzarono le cosiddette monete incuse. Si tratta di monete che anziché avere una raffigurazione in rilievo su entrambe le facce, la presentano solo al dritto, trovandosi al rovescio una raffigurazione (generalmente la stessa del diritto) in incavo. Ogni polis, inoltre, mantenne il proprio sistema di pesi: la dracma, unità base della moneta greca, aveva quindi un peso diverso a seconda della città che la emetteva.

E’ curiosa l’origine del nome: la dracma, sottomultiplo del talento (letteralmente "il peso che un uomo può portare"), deriva da drax (manciata) e fa riferimento con ogni probabilità alla moneta utensile; drax, in altre parole, indica tanti spiedi quanti ne può portare una mano, e difatti il sottomultiplo della dracma si chiama obelos (che in greco significa appunto spiedo). Nonostante questa repentina diffusione, tuttavia, la moneta rimase a lungo un fenomeno propriamente ed esclusivamente greco. I popoli che di volta in volta venivano a contatto col mondo greco, infatti, non adottarono, se non in parte, la nuova "invenzione".

Furono necessari molti anni e la formazione di due grandi imperi prima che la moneta si imponesse in tutto il mondo conosciuto: l’ impero di Alessandro Magno e, ovviamente, l’ Impero Romano. Proprio grazie a quest’ ultimo la moneta si impose in ogni angolo d’ Europa giungendo, attraverso i secoli, fino a noi. E proprio ai Romani siamo debitori per il termine che ancor oggi la designa: la zecca di Roma era difatti situata all’ interno del tempio di Giunone Moneta, tempio fondato in memoria dell’ invasione gallica del 390 a.C.. Narra la leggenda che i Romani riuscirono a sventare un attacco notturno dei Galli perchè svegliati dallo starnazzare delle oche: a loro volta le oche erano state destate da Giunone, che quindi fu designata con l’appellativo di Moneta (che significa appunto ammonitrice, avvisatrice). Di qui il nome passò alla zecca, ospitata nel tempio, e in seguito alla moneta stessa.
Con l’avvento dell’Impero Romano, comunque, possiamo considerare conclusa la lunga fase dello sviluppo della moneta: Augusto e i suoi successori instaureranno un sistema basato sulla monetazione di più metalli (oro, argento, bronzo e oricalco) che durerà per secoli e influenzerà in maniera determinante le prime monetazioni barbariche. I re barbari, infatti, compresero la grandezza del sistema romano e cercarono di mantenerlo anche dopo la caduta dell’Impero. A dimostrazione di questo fatto ci rimangono monete barbariche che non sono altro che un’ imitazione mal riuscita di monete romane: di queste ultime mantengono infatti l’aspetto formale,ma la parte figurativa e la parte scritta perdono completamente significato (spesso al posto di titolature imperiali troviamo delle lettere accostate senza alcun senso e il ritratto del re barbaro il più delle volte non è altro che l’immagine di un imperatore romano).
Col passare dei secoli la moneta rimarrà, se si eccettuano alcune piccole innovazioni, sostanzialmente identica a quella del modello romano. La più importante fra queste innovazioni può essere considerata la "zigrinatura": con questo termine si intendono quelle incisioni trasversali che ancor oggi si trovano lungo il bordo delle monete. Questo stratagemma volle porre rimedio, nel XVI secolo, al dilagante fenomeno della "tosatura": era infatti abitudine, per ottenere polvere di metallo prezioso, raschiare le monete d’ oro lungo il bordo, causando di fatto una diminuzione del peso delle monete stesse. Con la zigrinatura questa operazione divenne impraticabile, ed ancor oggi rimane sulle nostre monete una traccia di quel periodo in cui il valore delle monete era dato dal materiale di cui erano fatte.
Moneta siracusiana ai tempi
della Magna Grecia

Francesco Comand, 1F

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