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Categoria: | Storia |
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Testo
IL FASCISMO
La parola “fascismo” nasce con il regime instaurato da Mussolini nel 1922 e deriva da “fascio”, emblema dei littori dell’antica Roma, ad un tempo simbolo di un passato glorioso, della forza e dell’unione. L’epiteto di fascista qualifica ogni forma di dittatura o di autoritarismo ai quali conferisce, se possibile, un senso peggiorativo; ma l’estensione del termine è storicamente errata poiché non tutti i sistemi dittatoriali sono riconducibili al modello fascista che ha avuto un percorso e caratteri propri.
Il fascismo rappresenta una sorta di anomalia morale nell’evoluzione della società occidentale: un’astuta minoranza convince le masse a rinunciare alla libertà e a raccogliersi in un nuovo ordine sociale capace di affrontare e superare le difficoltà del momento. Per alcuni esso rappresenta una parentesi nel corso della storia, senza richiamare in causa le responsabilità delle classi dirigenti nella formazione dei regimi mussoliano e hitleriano. I sociologi pongono sullo stesso piano il fascismo ed il comunismo: entrambi i sistemi mobilitano l’apatia delle masse dello Stato totalitario visto come organizzazione tipica del XX secolo. Altri sottolineano come esso costituisca la tradizione perfetta delle aspirazioni della classe media (al tempo stesso impaurita), del grande capitale e del socialismo. Il fascismo è considerato anche una conseguenza delle repressioni a cui le masse stesse sono soggette: esse, quindi cercano e amano la violenza, le armi, le uniformi, la musica marziale e quant’altro richiami la perduta virilità; e si abbandonano al sadismo aggressivo che dà loro l’illusione della potenza.
LA DOTTRINA FASCISTA
Al fascismo non interessava darsi una sua dottrina. Mussolini, profondamente opportunista, amava ripetere: “La nostra dottrina sono i fatti”; aspettò fin quasi al 1930 per indicare i princìpi ispiratori della sua azione, e anche allora la sua esposizione non brillò per precisione. Ma, tuttavia, è possibile rintracciare alcuni tratti caratteristici che conferiscono al fascismo i suoi contorni ideologici.
• Sconfitta della ragione e primato. Innanzi tutto, il fascismo era fondamentalmente irrazionale, reagiva contro il razionalismo ereditato dal XIX secolo, un razionalismo consustanziale alla democrazia poiché cercava di persuadere con la forza della dimostrazione logica rivolgendosi allo spirito dell’individuo. Esso faceva appello non all’intelletto, ma a forze oscure considerate come “naturali”: l’istinto, la razza, il sangue, la tradizione. Cercava di risvegliare sentimenti primari come l’entusiasmo delle folle, la collera dei vinti, l’indignazione delle vittime, la paura, il disprezzo, il rifiuto della diversità; voleva che tutto il popolo vibrasse di un medesimo slancio e, per spingervelo, gridava il ricordo del glorioso passato dell’Impero romano o i cupi eroi della mitologia germanica, organizzava grandiose e impressionanti cerimonie scandite dal passo delle parate militari, da canti guerreschi, fra fasci di luce nel cielo notturno, sfilate di fiaccole e discorsi esaltanti. Rifiutando la ragione, il pensiero e la parola, il fascismo si diede come propulsore l’azione. Agli sconfitti e alle vittime delle crisi promise fatti concreti, gli esercizi fisici, la sana vita all’aria aperta, l’avventura, il pericolo e infine la guerra, che rivelava l‘uomo a se stesso. Il suo nazionalismo era aggressivo; dileggiava il pacifismo delle istituzioni internazionali, a cominciare dalla Società delle Nazioni. Mussolini esclamava: “Non è a caso che ho scelto a motto della mia vita - vivere pericolosamente”; e poco più tardi, “che il mondo veda questa selva di baionette e oda il palpito dei nostri cuori invincibili e risoluti”. Questa violenza di accenti conferì al fascismo, a detta dei suoi apologeti, un tono di forte virilità e insieme di poesia selvaggia, una dimensione esaltante e mobilizzatrice delle coscienze.
• L’esaltazione dell’élite. Il fascismo si fondava, inoltre, su una concezione non ugualitaria dell’uomo. Accettava come un fatto naturale l’esistenza delle élite, senza porsi alcun interrogativo sulle loro origini e sulle giustificazioni della loro funzione storica; del resto era inevitabile, necessario e benefico che alcuni uomini fossero venuti al mondo per comandare, altri per obbedire. La massa, ignorante per natura, accecata dalla soddisfazione dei soli bisogni materiali, incapace di discernere dove siano i suoi veri interessi, doveva piegarsi alle scelte operate dai migliori, pena la sconfitta dello Stato: “La scomparsa delle gerarchia significa decadenza dello Stato” scriveva Mussolini nella rivista Gerarchia del giugno 1922. Il concetto di gerarchia rivestiva un carattere politico nel pensiero del Duce, mentre pareva eminentemente razziale in quello di Hitler. L’idea di una disuguaglianza naturale e feconda sfociò nella condanna formale delle dottrine ugualitarie, della democrazia, del suffragio universale, che diedero il potere al numero, alla massa incompetente e cieca. L’individuo, secondo uno degli slogan preferiti nell’Italia mussoliniana e soprattutto dalla sua propaganda, dove solo “credere, obbedire, combattere”.
• Il totalitarismo. Altro carattere essenziale. Il fascismo era totalitario e faceva dello Stato l’assoluto che domina e soverchia l’individuo: “Tutto nello stato, nulla contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato”, proclamava Mussolini in un discorso del 26 maggio 1926.Era un totalitarismo prima di tutto politico, ovviamente, che nel ribadire l’onnipotenza e l’unità dello stato, rinnegava la separazione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, e dunque, ancora una volta, condannava la democrazia e le libertà; rigettava tutto quanto potesse indebolire, contestare, dividere lo Stato, come il sistema parlamentare, la pluralità dei partiti, dei sindacati, le organizzazioni sociali e volontaristiche, che altro non erano che testimonianze di impotenza, lascito di un passato ormai tramontato, oggetto di discussioni inutili e di inutili dissensi. Lo Stato aveva bisogno, al contrario di un solo partito, organizzato su un modello più o meno militare che necessitava di disciplina, di uniformi, di insegne, di gente che sfili a passo cadenzato sotto le bandiere. Il totalitarismo vantava anche una sua dimensione per così dire intellettuale. La verità promanava esclusivamente dalle più alte autorità statuali: “Mussolini ha sempre ragione”, ripetevano molti italiani. Attraverso la stampa, la radio, il cinema e manifesti e pubblicità d’ogni genere, la propaganda di regime era onnipresente; non meno intensa era la formazione ideologica della gioventù per mezzo di organizzazioni appositamente create. Il sistema doveva funzionare anche nel sociale. Per il fascismo l’individuo non contava nulla, essendo totalmente subordinato alla collettività ai cui interessi poteva essere chiamato a sacrificarsi; la singola esistenza acquistava un senso solo attraverso la partecipazione ad un gruppo: era l’esaltazione della mistica della comunità e dell’adesione a ideali e comportamenti uniformi, della disciplina, del canto corale.. Ancora una volta il fascismo si rivelava nemico acerrimo della democrazia che, individualmente stava per sua natura, esaltava la dignità della persona umana e ne garantiva tutti i diritti, e non poteva accettare quanto- libertà d’associazione, di insegnamento, perfino d’autonoma gestione comunale o provinciale – potesse portare alla disgregazione sociale o attentare alla stabilità dello Stato. Lo stato totalitario intervenne infine nella vita privata, familiare, religiosa, sanzionando chi vedeva come deviante, indesiderabile, inutile come i celibi che non procreano per il bene della nazione, gli omosessuali, perturbatori della morale, i malati mentali che costano caro all’erario, gli appartenenti ad alcuni gruppi etnico-religiosi evidentemente nocivi.
• L’autorità del capo. Lo Stato onnipotente si incarnava in un capo carismatico e infallibile, provvidenziale guida della nazione e titolare dell’autorità assoluta. Il Duce aveva nelle sue mani tutti i meccanismi del potere e strinse con il popolo un rapporto quasi personale, si potrebbe dire di tipo mistico e religioso; le sue apparizioni, in occasione delle grandiose cerimonie come quella di Piazza Venezia a Roma, suscitavano una sorta di estasi mistica o di isteria collettiva. Venerato fino a tale punto, il dittatore sembrava credere per davvero alla propria soprannaturale missione per il bene della nazione.
• Una facciata ingannevole. Artefice dell’instaurazione di una dittatura totalitaria, il fascismo teneva tuttavia a darsi un aspetto democratico e progressista; ad esempio, nonostante la costante critica del suffragio universale e del parlamentarismo, almeno in apparenza non rinunciò del tutto alle elezioni ed al sistema rappresentativo. Il Parlamento italiano sopravvisse ma non contava più nulla; le elezioni erano sorvegliate con estrema attenzione e, ad evitare sorprese, si svolgevano su liste uniche. Il fascismo fece anche ricorso al plebiscito, destinato però a sanzionare l’accordo fondamentale fra il popolo e il suo capo. Esso ribadiva che il popolo delegasse liberamente il potere al capo, ciò che gli conferiva ogni legittimità. Il regime si giustificava inoltre proclamando di difendere i veri interessi della nazione con l’instaurazione di una società più giusta, facendo anche ricorso ad un vocabolario rivoluzionario e socialista. I programmi ufficiali parlavano di uguaglianza, di misure anticapitaliste, di sindacati e di interventi sociali, ma nei fatti si incoraggiava la concentrazione delle imprese e le nuove istituzioni annunciate in favore dei lavoratori servivano solo a irregimentarli e controllarli più da vicino. Il socialismo di cui si ammantava il fascismo si definiva autentico, vale a dire nazionale, liberato dal marxismo, e il cui materialismo venne sostituito dall’idealismo e la lotta di classe dalla cooperazione. Non fu prevista alcuna forma di collettivizzazione; tale socialismo, in pratica, si limitava a sottomettere i grandi interessi al fine comune, a imporre alla produzione una certa pianificazione, a dare più spazio ai quadri tecnici, a decretare un buon numero di leggi sociali che migliorassero le condizioni materiali dei lavoratori. La mano di vernice progressista era dunque molto sottile, ma conferì al fascismo quell’apparenza di dinamismo quell’apertura al progresso ed alla modernità, quella vistosa dimensione popolare che mancavano alle dittature reazionarie.
Razzismo ed antisemitismo non trovarono spazio nel fascismo italiano degli inizi: vi erano ebrei perfino all’interno del partito nazionale fascista. Con molto ritardo, Mussolini, nel 1938, per opportunismo politico e per compiacere all’alleato nazista, introdusse in Italia una legislazione antisemita che tuttavia, per quanto odiosa, non assunse mai l’implacabile e violento rigore di quella tedesca. Le differenze sulla questione razziale fecero dei due imperialismi, italiano e tedesco, due cose diverse. La volontà di grandezza e di espansione orchestrata da Mussolini rivestiva una dimensione essenzialmente storica e politica. Gli italiani si rifacevano all’orgoglioso ricordo della Roma antica ed imperiale: all’interno della penisola riportarono alla luce, e restaurarono, i monumentali reperti archeologici; all’esterno rammentarono il genio civilizzatore e universale della loro patria e, quali eredi di un passato tanto grandiosi, sognarono di poter ricostruire l’impero dei loro antenati.
ORIGINI E D EVOLUZIONE DEL FASCISMO CON BENITO MUSSOLINI
Le origini del fascismo sono inscindibilmente connesse alle trasformazioni ed alla crisi determinate dalla I guerra mondiale a livello economico, sociale, etico-culturale e politico ed al processo di intensa mobilitazione, primaria e secondaria, da esse provocato.
Fondati da Benito Mussolini a Milano il 23 marzo 1919, i Fasci di combattimento si riconnettevano sostanzialmente ad alcune esperienze minoritarie del sovversivismo irregolare prebellico, quali erano maturate tra la crisi determinata dal fallimento della “settimana rossa”, la sua proiezione nell’interventismo rivoluzionario” e le sue trasformazioni in senso sempre più nazionalista determinate a loro volta dalle vicende successive a Caporetto. Sino verso la fine del 1920 essi vissero di vita grama e furono un fenomeno - essenzialmente urbano - politicamente quasi irrilevante, partecipe di una serie di ambigui e contraddittori caratteri di “destra” e di “sinistra”.
Con la fine del 1920 e con il 1921, il fascismo si sviluppò però con ritmo crescente, così da diventare una forza reale: da qui la sua partecipazione ai “blocchi nazionali” in occasione delle elezioni politiche del 1921, il suo ingresso in parlamento (con 35 deputati) e, dopo l’estate 1922, il diffondersi della convinzione che per risolvere la crisi politica italiana fosse necessario che le forze liberal-democratiche lo integrassero nel sistema e gli facessero posto al governo. Peculiarità di questo sviluppo furono:
1. Una sua sempre maggiore presenza nelle zone agricole del centro-sud;
2. La costituzione di una forza armata (le “squadre d’azione”) che si impose con violenza (soprattutto nella pianura padana, in Toscana e in Puglia) sulle organizzazioni socialiste e popolari;
3. L’accentuazione – a livello politico ma non psicologico – dei suoi caratteri di “destra” rispetto a quelli di “sinistra”;
4. Una sua netta qualificazione. A livello riorganizzativo e del consenso ideologico- in senso piccolo-borghese.
In pratica, i Fasci di combattimento e il successivo partito nazionale fascista (PNF, novembre 1921) si vennero caratterizzando nel 1921-22 come l’espressione politica della crisi di larghi settori – tradizionali ed emergenti – piccolo e medio borghesi ed, in particolare dell’esigenza, per una parte di essi, di sfuggire al pericolo della proletarizzazione e di difendere il proprio mondo di valori dalla minaccia che a esso veniva dalla massificazione della società e, per un’altra parte, di ottenere quella partecipazione e quel potere, corrispondenti al ruolo economico e sociale che avevano raggiunto, che non trovavano canali adeguati per realizzare entro il sistema. Da qui la novità che il fascismo costituì rispetto alle altre forze politiche e il carattere “rivoluzionario” (almeno quanto ad aspirazioni) che contraddistinse in questo periodo buona parte della base organizzata: entrambi elementi essenziali del suo successi e, in specie, della capacità che esso dimostrò di preservare la propria autonomia politica, pur addivenendo ad una serie di compromessi con larghi settori del modo economico e della classe politica burocratica tradizionale che, invano, credettero che, facendogli la carica eversiva, lo avrebbero “costituzionalizzato” e integrato nel sistema. In realtà l’abilita politica di Mussolini, la crisi dei partiti di sinistra, le divisioni tra quelli liberal-democratici e le preoccupazioni del re – che, dopo l’esperienza fiumana, non voleva mettere a repentaglio l’unità dell’esercito, sicché rifiutò di reagire con la forza alla “marcia su Roma” portarono alla costituzione (30 ottobre 1922) di un governo di coalizione, ma presieduto da Mussolini.
Il compromesso realizzato nell’ottobre 1922 da Mussolini tra fascismo e classe dirigente tradizionale fu ribadito e rafforzato ai primi del 1925, quando – dopo la crisi determinata dal delitto Matteotti – il grosso della classe dirigente tradizionale, pur cominciando a rendersi conto della natura del fascismo, continuò a sostenere Mussolini pur di evitare i rischi di un “salto nel buio” e di una serie di imprevedibili reazioni a catena. Per i cosiddetti “fiancheggiatori” (esterni ed interni al PNF) il fascismo avrebbe dovuto innovare ben poco il sistema: doveva soprattutto ridinamizzarlo, non sovvertirlo, rafforzare l’esecutivo e depotenziare le forme di democrazia realizzate negli anni a cavallo della guerra. Questa prospettiva era però inaccettabile per una parte del vecchio fascismo, che aspirava a un proprio ruolo politico e contestava, sia pur confusamente, molti aspetti (anche sociali) del sistema. Da qui, in questo primo periodo, una sorda contrapposizione tra “intransigenti” e “fiancheggiatori” che creò molte difficoltà a Mussolini, ma finì per salvarlo, dato che in occasione della crisi Matteotti l’intrangentismo fu la sola forza reale che gli rimase fedele e – rendendo così difficile e pericoloso per le forze liberal-democratiche (ormai passate decisamente all’opposizione) assumere la successione – indusse gran parte della classe dirigente tradizionale a continuare sulla strada del compromesso realizzato nel 1922, ritenendo prioritario per essa il fatto di potere in questo modo salvare le strutture essenziali del sistema e del proprio potere reale, in cambio della rinuncia alla gestione immediatamente politica del potere.
Con il 1925 si avviò così la costruzione del “regime” fascista, i cui momenti essenziali furono lo scioglimento di tutti i partiti e organizzazioni non fascisti, le “leggi eccezionali”, l’istituzione del Tribunale speciale, la “costituzionalizzazione” del Gran consiglio del fascismo, l’introduzione del sistema elettorale a collegio unico nazionale e a lista unica, i provvedimenti in materia sindacale e corporativa e la conclusione dei trattati del Laterano con la Santa Sede (patti lateranensi); altrettanto essenziali furono però anche l’epurazione e la liquidazione politica del PNF, che fu rigidamente sottoposto allo stato e trasformato in un canale di trasmissione a senso unico della sua politica e della sua concezione, lo “sbloccamento” dei sindacati fascisti e la politica di stabilizzazione economica (“quota novanta”). Fu attraverso questi provvedimenti che Mussolini riuscì a stabilizzare il compromesso con la classe dirigente tradizionale, pensando di poterlo modificare a proprio vantaggio allorché lo stato fascista fosse riuscito a creare una propria classe dirigente e attraverso l’educazione e la formazione politica delle nuove generazioni, il nuovo “italiano del littorio”. I risultati conseguiti in questa direzione furono però minimi: ridotto ad un corpo elefantiaco senza vera anima propria, sempre più burocratizzato (lo staracismo) ed incapace dei soddisfare le esigenze di rinnovamento sia del vecchio fascismo sia delle nuove generazioni (che finirono in gran parte per assumere verso il “regime” un atteggiamento di delusione e di critica, via via spesso sfociato in posizioni più o meno apertamente antifasciste), il fascismo finì, infatti, per diventare la mera sovrastruttura di un regime conservatore autoritario ( di un autoritarismo a lungo per molti aspetti di tipo classico, nel quale gli innesti demagogico-sociali più tipicamente moderni non sarebbero stati sin quasi alla sua fine sufficienti a caratterizzarlo come un vero totalitarismo) largamente fondato sul personale carisma di Mussolini. Sicché, in pratica, chi dal rinnovato e rafforzato compromesso finì per trarre i maggiori vantaggi furono i “fiancheggiatori”, la vecchia classe dirigente e i ceti sociali che la esprimevano ( entrati in massa nel PNF), mentre per il fascismo l’operazione si ridusse in gran parte alla gestione per la sua élite dell’equilibrio di una serie di interessi conservatori ( quelli contro i quali all’inizio si era appuntata la rivolta piccolo-borghese del fascismo). Una gestione, certo, dorata sotto tutti i punti di vista, ma estremamente precaria, sia per la spinta che veniva dal basso, dai ceti sociali esclusi dalla gestione del potere e condannati a pagare le spese della conservazione del vecchio sistema, sia per la difficoltà di dare al fascismo una ragione e una sostanza di sopravvivenza al di là della vita fisica di Mussolini ( l’unico uomo politico del fascismo in grado di giustificare e gestire il compromesso e di assicurare, con il suo prestigio personale, l’accettazione di esso da parte delle masse), sia, infine, per l’instabilità dell’equilibrio non poteva non diventare via via sempre più difficile e non rivelare in sé contraddizioni e scontri di interessi sempre più difficili a sanarsi con il sistema del compromesso o, addirittura, del mero rinvio; specie se fosse venuto meno il superficiale cemento che teneva insieme tutto il laborioso ma vieppiù debole edificio del “regime”: il mito-abitudine del capo e la fiducia (alla quale contribuiva largamente l’ancor viva tradizione patriottica risorgimentale) nella capacità del “duce” a conseguire la “grandezza” dell’Italia.
Non a caso gli anni del maggior consenso del “regime” furono quelli della “grande crisi” ( che l’Italia superò relativamente meglio di altri paesi europei e della guerra d’Etiopia ( che trovò nel paese larghi e sinceri consensi), mentre gli anni successivi videro un crescente declino di esso, dovuto alle preoccupazioni per l’isolamento internazionale dell’Italia e per i rischi di guerra che la politica fascista andava accumulando, prima con l’intervento nella guerra civile spagnola, poi con l’avvicinamento ed infine con l’alleanza con la Germania nazista e le sue conseguenze anche interne ( una eco profondamente negativa ebbe in particolare l’adozione, nel 1938, della politica razziale). Co queste premesse, l’entrata dell’Italia in guerra a fianco della Germania ( 10 giugno 1940) e, ancora più, il successivo andamento sempre più sfavorevole delle operazioni belliche ebbero come conseguenza un rapido crollo del prestigio di Mussolini, una ripresa dell’antifascismo attivo e l’incrinarsi prima e il rompersi poi del compromesso sociale che era alla base del “regime”.
Il 25 luglio 1943 quando, di fronte alla sconfitta militare, il “regime” fascista crollò d’un colpo a opera dell’azione congiunta di una parte dello stesso gruppo dirigente fascista, della monarchia e dell’esercito, ciò che a esso sopravvisse fu, da un lato, con la Repubblica sociale italiana, il vecchio fascismo rivoluzionario ed intransigente che si illuse di tornare alla ribalta riallacciandosi al programma sociale del 1919 e che cercò di vendicarsi dei suoi nemici “fiancheggiatori” e, da un altro lato, buona parte del vecchio regime che, toltasi la camicia nera, cercò, ed in parte riuscì, a scaricare le proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue vittime.