Materie: | Appunti |
Categoria: | Storia Dell'arte |
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Data: | 06.09.2001 |
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Testo
Piero Della Francesca
La vita di Piero della Francesca ci appare dai contorni sfumati e comunque del tutto priva di eventi memorabili, quasi interamente consacrata al mestiere della pittura. Sappiamo che Piero è nato nella cittadina di Borgo San Sepolcro da una famiglia di artigiani e commercianti probabilmente fra il 1415 e il 1420.
La tappa fondamentale della sua giovinezza è la sua presenza a Firenze, ad un’età forse ancora inferiore ai venti anni. L’unica certezza documentaria che abbiamo è la notizia che nel settembre del 1439 Piero si trova a Firenze, dove collabora con Domenico Veneziano all’esecuzione degli affreschi nel coro della chiesa di Sant’ Egidio dei quali nulla ci resta. Probabilmente proprio a questi anni del soggiorno fiorentino e della vicinanza col Veneziano risale la prima opera che conosciamo di Piero: la Madonna col Bambino, già appartenuta alla collezione Contini- Bonaccossi. In questo dipinto, si avverte già da parte dell’artista l’interesse per l’impianto prospettico, nella finestra entro cui la Vergine pare come inserirsi per incastro. Già nei primissimi anni ’40 Piero dovette tornare a Borgo San Sepolcro, dove nel 1442 è documentato come consigliere comunale. Risale a questo periodo la sua prima e importante commissione, quella per il Battesimo di Cristo, oggi alla National Gallery di Londra e collocato in origine probabilmente nella cappella di S. Giovanni della pieve cittadina. Un dipinto in cui risalta la straordinaria luminosità zenitale calibrata su tonalità delicate, colori chiari, tenui ombre che torniscono i corpi e ne risaltano i volumi.
Nel 1445 la compagnia della Misericordia di Borgo San Sepolcro affida a Piero l’incarico di dipingere, di lì a tre anni, un polittico, prescrivendo l’uso di colori preziosi e dell’oro zecchino per il fondo. L’artista non si atterrà ai tempi imposti dal contratto: alternerà l’esecuzione del polittico con altre commissioni più pressanti e impegnative. Porterà a termine questo lavoro solo dopo il 1460. Le parti più antiche del polittico sono certamente due scomparti con i Santi Sebastiano e Giovanni Battista. Certamente solo Masaccio prima di Piero era riuscito a creare sul fondo piatto ed astratto dell’oro uno spazio reale ove situare figure di carne e ossa. Il borghigiano va oltre: colloca di scorcio i piedi dei santi, come aggravati dal peso del corpo, sopra piedistalli dove si proiettano ombre delicate. Poco più tardi Piero esegue gli scomparti del coronamento con la Crocifissione al centro e, ai lati, San Benedetto, l’ Angelo Annunziante, la Madonna Annunziata e San Francesco. Durante i lavori per il polittico della Misericordia Piero intraprende alcuni viaggi tra la Marche e l’ Emilia-Romagna. Nel 1451 l’ artista è a Rimini, dove firma l’ affresco con Sigismondo Malatesta davanti a San Sigismondo nella chiesa di San Francesco. In poche altre opere di Piero si avverte, come in questa, la vicinanza dell’Alberti architetto e teorico, che proprio in quegli stessi mesi operava anche lui nella medesima chiesa di Rimini per trasformarla in Tempio Malatestiano. Al momento del soggiorno riminese risale anche il ritratto di Sigismondo Malatesta, oggi al Louvre. Prima di rientrare a Borgo San Sepolcro, dove è documentato nel 1453, Piero deve avere sostato ad Urbino, dove dovrebbe avere eseguito uno dei suoi dipinti più celebri: la Flagellazione di Cristo, oggi nella Galleria Nazionale di Urbino. Successivamente l’artista si trova ripetutamente ad Arezzo, impegnato nella realizzazione del ciclo di affreschi nella Cappella Maggiore della chiesa di San Francesco. Il soggetto delle storie deriva dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, risalente al XIII sec., che narra la storia miracolosa del legno e della Croce di Cristo. Si tratta di una leggenda dal sapore popolare, ricca di spunti narrativi e caratteristica di certo gusto miracolistico-medioevale .Durante il periodo in cui esegue gli affreschi aretini, Piero è impegnato anche in diverse altre commissioni che lo obbligano a spostarsi in varie località dell’Italia centrale. All’epoca delle prime storie di San Francesco di Arezzo si data l’affresco con la Madonna del parto, realizzato per la cappella del cimitero di Monterchi. La figura di questa Vergine protettrice delle partorienti risalta entro il baldacchino damascato, aperto lateralmente da due angeli.
Di qualche anno più tardi è l’unico frammento conservatoci di una decorazione ad affresco nella chiesa di Sant’ Agostino a Borgo San Sepolcro, raffigurante il busto di un San Giuliano
Ancora nella città natale, e probabilmente ormai in prossimità del viaggio a Roma (1458), Piero lascia un altro dei suoi massimi capolavori, la Resurrezione di Cristo nel Palazzo comunale. Si tratta di una delle opere dove meglio si osserva la capacità dell’artista di recuperare motivi iconografici anche molto arcaici e come circondati da un’aura di popolare sacralità. Purtroppo nessuna traccia ci resta delle opere eseguite da Piero della Francesca a Roma ove, come si diceva, tra il 1458 e il 1459 lavora in Vaticano al servizio di Pio II. I suoi affreschi, forse per rilievo pari a quelli di Arezzo, andarono presto distrutti e l’importanza di questo momento romano di Piero è confermata soltanto dalla traccia profonda che la sua visione prospettica ha lasciato, già negli anni ’60, in artisti come Antoniazzo Romano, Lorenzo da Viterbo e lo stesso Melozzo da Forlì. Alcuni anni più tardi Piero della Francesca termina il polittico di Perugia dipingendo, al di sopra della fiorita carpenteria ancora gotica, la straordinaria scena dell’Annunciazione. Tutto è sintetizzato in uno spazio unitario e organico. Le lontananze, così ben calibrate, nulla hanno di studiato o di artificioso: sono suggerite dalla luce vera e dall’atmosfera, come era avvenuto anche quasi vent’anni prima nella Flagellazione di Urbino. Nel 1454 Piero della Francesca s’impegna con gli Agostiniani di Borgo San Sepolcro a eseguire entro otto anni un polittico per il loro convento. La conclusione del dipinto si protrarrà, come al solito, ben oltre i termini pattuiti.
Opere
La Città Ideale
Si tratta di una tempera su tavola di pioppo che, insieme ad altri due soggetti analoghi, sarebbe servita da inserto nel rivestimento ligneo di una stanza. Di autore ignoto se ne ipotizza la paternità a Piero della Francesca per i legami con la città di Urbino e le rigide regole prospettiche. In essa é rappresentato un ambiente urbano: un edificio a pianta circolare si erge sulla piazza fiancheggiata da nobili palazzi, una chiesa sullo sfondo e in primo piano due vere di pozzo contrapposte in modo simmetrico. Oltre gli edifici si intravvedono verdi colline in lontananza. Nella tavola il volume e la solidità delle strutture vengono messi in risalto. Il centro della scena é dominato dal volume cilindrico della rotonda collocato sulla griglia grigia e bianca del pavimento disegnato in rombi e ottagoni.
Le semicolonne color crema dell'ordine inferiore e di quello superiore della struttura sono solide e contrastano con le lastre di porfido scuro delle pareti. A destra e a sinistra le lunghe schiere di palazzi e case variano in disegno, altezza e colore, recedendo in profondità. Colonnati si ergono contro solide facciate, il profilo delle strutture a sinistra alterna una costruzione bassa, un alto palazzo tra case più piccole, tutto sotto un cielo azzurro oltremarino. Una loggia a colonne trabeate circonda l'attico del palazzo a sinistra in primo piano. Finestre, rettangolari o centinate, sono messe in rilievo da cornici profilate. La pavimentazione della piazza è formata da marmi colorati disposti in grandi schemi geometrici.
Tale schema di città ideale rimase, però, inattuabile per le limitazioni finanziarie, tecniche ed organizzative imposte dalle condizioni e realtà urbane dell'epoca. Nella nuova concezione rinascimentale, il tema centrale della riforma della città diventa la piazza, centro culturale, politico e sociale, così come l'uomo si colloca al centro dell'universo. In quest'opera non compare alcuna figura umana dal momento che l'intera scena si carica di valori simbolici senza una precisa valenza pratica. Rimane tuttavia una visione, un regno fuori dal tempo e dallo spazio, anche se l'immaginazione architettonica del disegnatore si è concretizzata in una chiarezza di rapporti spaziali e di interazione di spazio e volumi, nella precisione di calcoli prospettici, nei minuziosi dettagli di ordini, capitelli e profili.
La Sacra Conversazione
Il dipinto rivela un carattere votivo e poté essere stato commissionato da Federico da Montefeltro in occasione della nascita di suo figlio Guidobaldo; infatti si presume che il Bambino sia Guidobaldo e la Vergine, dal volto poco caratterizzato, sia la duchessa di Montefeltro, Battista Sforza, morta nel 1472 poco dopo la nascita del figlio.
L’opera fu dipinta tra il 1470 e il 1474, non si può oltrepassare quest’ultima data poiché il duca non portava le insegne della Giarrettiera, conferitegli quell’anno. Comunque il dipinto giunse nella sua sede odierna nel 1810 dalla chiesa di San Bernardino ad Urbino, dove la sua presenza sull’altare maggiore risulta documentata almeno dal 1700 e dove fu seppellita Battista Sforza.
La tavola è organizzata in modo simmetrico con al centro la Madonna, in atteggiamento di preghiera mentre tiene il Bambino sulle ginocchia, e ai lati alcuni santi: Giovanni Battista, Bernardino da Siena e Gerolamo a sinistra; Francesco, Pietro martire e Andrea dall’altra parte. Inoltre a destra appare il committente raffigurato in ginocchio con l’armatura, il simbolo della sua posizione sociale.
I personaggi hanno un atteggiamento maestoso ed equilibrato.
Tuttavia, secondo Raggianti, la pala avrebbe subito una mutilazione su tutti i lati e, nella sua forma originaria, “sarebbe apparsa incorniciata in primo piano da pilastri laterali (di cui si scorgono ancora i cornicioni terminali) e da un arcone in controluce”. Perciò le vere dimensioni sarebbero 345x190 cm e il semicerchio era situato entro una struttura architettonica più compiutamente definita.
L’attendibilità dello schema così individuato trova sostegno nel fatto che l’uovo di struzzo, appeso sopra il trono nella cavità absidale (costituita da una volta a botte cassettonata), si qualifica come centro geometrico della composizione completa nel punto d’incrocio delle due diagonali che possiamo tracciare unendo gli angoli della tavola idealmente riportata alle dimensioni originali.
L’uovo sarebbe da intendere come simbolo cristiano dei quattro elementi (secondo vari accenni nella letteratura medievale) e simbolo della creazione (con questo valore viene usualmente appeso nelle chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano). Inoltre esso richiama l’idea rinascimentale dello spazio centralizzato, perfettamente armonico e simmetrico.
L’uovo, nel candore e nell’immobilità assoluta della sua forma chiusa, riassume il carattere e la dimensione del mondo costantemente vagheggiato e costruito da Piero della Francesca nei suoi dipinti; un mondo privo d’ombre e di movimento, dove ogni elemento si colloca secondo esatte relazioni reciproche e rispondenze armoniche, bloccato dall’uniforme diffondersi di una luce limpida che elimina i contorni, collega le figure ed evidenzia anche gli oggetti più minuti. Essa infatti esalta lo splendore delle superfici colorate: marmi tagliati ed intarsiati, stoffe preziose (quasi sempre di raso), collane e fermagli in cui predominano le perle, capigliature lucenti dai riccioli regolari avvolti come lamine metalliche.
Oltre alla luce per l’autore è molto importante anche il colore: infatti sono presenti accordi cromatici per similitudine e per contrasto seguendo i canoni caldo-freddo tra le vesti dei personaggi e i marmi delle pareti. Ad esempio l’armatura di Federico da Montefeltro è in equilibrio con la veste del santo a sinistra e con i marmi azzurri dello sfondo, per quanto riguarda i colori freddi.
Nel dipinto sono presenti anche riferimenti alla pittura fiamminga per quanto riguarda i colori, la cura dei dettagli e l’utilizzo della luce come elemento unificatore.