Leonardo

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Testo

Le grandi linee della storia italiana dalla fine dei Quattrocento al Cinquecento
Alla metà del Quattrocento i cinque stati italiani più potenti — il ducato di Milano che ha raggiunto lo apogeo del suo splendore con gli Sforza, la Repubblica di Venezia, Firenze governata da Lorenzo il Magnifico, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli (che nel 1443 Alfonso d'Aragona aveva unito alla Sicilia sotto il dominio della sua casa) — trovano il loro equilibrio nella pace di Lodi, firmata il 9 aprile 1454 da Milano e Venezia al termine di una guerra fra di loro, ma a cui in seguito aderiscono anche gli altri tre grandi. Per quarant'anni questo trattato avrebbe mantenuto l'equilibrio in Italia, un po' come due secoli dopo i trattati di Westfalia avrebbero regolato l'equilibrio europeo e nel 1944 gli accordi di Yalta quello dei mondo moderno.
È questo il periodo più luminoso della cultura italiana, il periodo di Leonardo da Vinci e di Botticelli, di Donatelle e del Brunelleschi. È il Rinascimento, la cui arte (insieme alla concezione filosofica che ne è alla base, che consiste in una rivalutazione pagana dell'uomo e della sua volontà, contro il misticismo medioevale) avrebbe varcato le Alpi e provocato il grandioso fiorire delle letterature francese, inglese e spagnola, proprio mentre gli stranieri le varcavano in senso inverso, per imporre a noi il dominio delle loro armi. Si ripete per l'Italia ciò che successe per la Grecia nel II secolo a.C., che, conquistata dai Romani, li civilizzò con la sua cultura superiore.
Nel 1494 il re di Francia Carlo Vili scese in Italia per ristabilire il dominio della casa d'Angiò sul Regno di Napoli, e soprattutto perché gli facevano gola le ricchezze italiane. Egli trovò aiuto nelle discordie esterne ed interne dei signori italiani, specialmente in Lodovico il Moro, adirato perché alla morte del fratello, il duca di Milano Galeazze Maria Sforza, il titolo era passato al figlio di costui Gian Galeazze, invece che a lui. Infatti poco dopo il passaggio di Carlo Vili da Milano, Lodovico fece uccidere Gian Galeazze e divenne duca. Intanto Carlo Vili — passando da Firenze, da cui si fece consegnare Pisa e Livorno, e da Roma, dove si accordò col papa Alessandro VI Borgia — entrò solennemente a Napoli il 22 febbraio 1495, essendo fuggito il re Ferdinando II. Ma il Papa, invece di dargli l'investitura del regno, formò contro di lui una coalizione (Lega santa) insieme con Lodovico il Moro — che, ottenuto il potere, adesso lo voleva mantenere — Venezia, l'Imperatore e il re di Spagna Ferdinando il Cattolico, che lo sconfisse costringendolo a rientrare in Francia nel 1496.
Intanto a Firenze nel 1494 il popolo aveva cacciato i Medici che erano stati troppo condiscendenti con Carlo Vili, e creato una repubblica su cui dominava l'autorità morale del frate domenicano Domenico Savonarola, che la trasformò in una specie di stato teocratico, basato sull'austerità dei costumi (si facevano processioni in cui si bruciavano gli oggetti da toeletta femminili e i libri considerati peccaminosi). Dal pulpito fra Gerolamo tuonava contro il Papa, che conduceva una vita dissipata e una politica nepotistica, specialmente nei riguardi dei figli Cesare e Lucrezia. Il Papa allora lo scomunicò, e ciò fece rialzare la testa ai suoi avversari, che erano sia i partigiani dei Medici sia i Francescani, tradizionali rivali dei Domenicani: il Savonarola fu fatto prigioniero, processato e messo al rogo il 23 maggio 1498 in Piazza della Signoria.
Il nuovo re di Francia, Luigi XII, volle ritentare la conquista dell'Italia, e, alleato a Venezia, nel 1500 tolse Milano a Lodovico il Moro, quindi, per conquistare il Regno delle Due Sicilie (che si chiamava così da quando gli Aragonesi, che già erano re di Sicilia, erano diventati padroni anche del Regno di Napoli) s'alleò con Ferdinando il Cattolico. I due re sconfissero nel 1501 Federico d'Aragona e si spartirono il Regno: Napoli e gli Abruzzi ai Francesi, la Sicilia, la Calabria e la Puglia agli Spagnoli. Per impadronirsi anche dell'Italia centrale Luigi XII sostenne Cesare Borgia, che in poco tempo conquistò tutta la Romagna, Urbino, Camerino, Perugia e Città di Castello, aiutato da suo padre Alessandro VI. Ma quando questi morì nel 1503, e Papa divenne Giulio II della Rovere, acerrimo nemico dei Borgia, Cesare (che era detto il Valentino, perché Luigi XII l'aveva fatto duca di Valenza), combattuto anche dagli Spagnoli, perdette tutti i suoi domini e fu fatto prigioniero in Spagna.
Gli Spagnoli avevano intanto sconfitto i Francesi (giacché le due potenze che s'erano spartite il Meridione si erano subito fatte la guerra per averlo tutto intero) e nel gennaio 1504 il Regno di Napoli diventò un vicereame spagnolo, formalmente separato dalla Sicilia che costituiva un altro vicereame. Alla Francia rimaneva quello che continuava a chiamarsi il Ducato di Milano, ma anche di questo gli Spagnoli s'impadronirono nel 1525, dopo la battaglia di Pavia. Il re di Francia Francesco I non si rassegnò tanto presto alla perdita, per cui altre guerre insanguinarono l'Italia: e adesso non erano più le guerricciole quasi incruente del tempo dei Comuni, ma guerre devastatrici, poiché verso la fine del Quattrocento alle milizie cittadine s'erano sostituite le Compagnie di ventura, cioè eserciti mercenari formati per lo più da rifiuti della società, che saccheggiavano e violentavano senza scrupolo alcuno (in questo mestiere della guerra s'erano specializzati gli Svizzeri). Inoltre la guerra aveva perduto l'aspetto cavalleresco che aveva nel Medio Evo da quando, sempre verso la fine del Quattrocento, si era generalizzato l'uso delle armi da fuoco. Nel 1527 i più crudeli fra i soldati mercenari, i Lanzichenecchi, tedeschi fanaticamente luterani, scesi in Italia a combattere contro il Papa per l'imperatore (che, guarda un po', era il cattolicissimo Carlo V) giunsero fino a Roma e la saccheggiarono orribilmente (Sacco di Roma, maggio 1527). Nel 1530 l'imperatore s'impadronì anche di Firenze (difesa invano dalle fortificazioni create da Michelangelo e dal valore di Francesco Ferrucci), a cui impose il ritorno dei Medici, che divennero duchi e governarono sotto la sua tutela.
La situazione si stabilizzò col trattato di Cateau Cambresis (1559) che sanzionò definitivamente il dominio spagnolo in Italia, che sarebbe continuato per tutto il Seicento: e possiamo ben dire che tutta l'Italia era spagnola, giacché anche lo Stato della Chiesa — che più che un vero stato era un insieme di staterelli più o meno indipendenti, vassalli del Papa — politicamente era un satellite del re di Spagna. Veramente libere rimasero soltanto Genova (che possedeva tutta la Liguria, Nizza e la Corsica) e Venezia, il cui dominio si estendeva oltre mare sull'Istria e la Dalmazia, sulle isole dello Jonio, su Creta e su Cipro, e in Italia fino all'Adda. E c'era pure una moltitudine di staterelli come Mantova, Lucca, Parma, Modena, ecc. che per superficie e importanza politica erano paragonabili agli attuali Monaco o San Marino. Quanto al Piemonte, i duchi di Savoia facevano ancora una politica ai margini dell'area italiana, destreggiandosi tra Francia e Spagna.

Alcuni problemi
La Controriforma. L'Italia è uno dei pochi paesi europei che quasi non si accorse delle tempeste della Riforma protestante e della Controriforma cattolica (cioè il Concilio di Trento, 1545-1563), e rimase fedele alla Chiesa di Roma senza le stragi di protestanti che insanguinarono la Boemia e l'Ungheria, senza le guerre di religione e le dragonate della Francia, e senza gli orrori dell'Inquisizione spagnola: gli episodi di Giordano Bruno, di Galileo, di Campanella e di pochi altri fanno tanta impressione proprio perché sono casi isolati. Ma ciò non avvenne non perché le autorità religiose italiane fossero particolarmente tolleranti, ne perché gli Italiani fossero più sinceramente cattolici degli altri, ma anzi proprio perché in fatto di religione essi erano essenzialmente scettici — o se mai soltanto superstiziosi, specie nei ceti inferiori — e perciò per loro era inconcepibile prendersela tanto per astruse questioni teologiche. E del resto lo spettacolo di corruzione e di venalità che il clero aveva continuato a dare per secoli non contribuiva certo a rafforzare la fede. Anzi, l'incontestabile merito del Concilio di Trento è proprio di aver posto un argine a questa corruzione, ridando alla figura del prete la dignità morale che aveva perduto. Ma sul piano del costume, in Italia il rigore teologico e morale delle costituzioni tridentine subito si trasformò in « deviazione » superstiziosa nei ceti inferiori, e ipocrisia farisaica in quelli superiori. E ciò ebbe effetti negativi sulla cultura e sulla politica italiane. Per la cultura basta pensare alla decadenza della letteratura (dove l'arte è essenzialmente libera creazione, sincera e spontanea) e a come le arti figurative si volsero alla vuota grandiosità: vedi le messe del Palestrina e la spettacolare architettura barocca (Bernini, Vanvitelli). Per farla breve, l'Italia dopo il Concilio di Trento perde quel primato culturale che aveva avuto per tre secoli, e che ora passa alla Francia.
Assai più gravi sono gli effetti della Controriforma sulla politica, perché l'ipocrisia imparata nei riguardi della religione, la si usava naturalmente anche verso il potere politico (che era confessionale, nel senso soprattutto che si serviva della religione come strumento per rafforzare l'assolutismo). Insomma gli Italiani impararono l'arte — purtroppo non ancora dimenticata — di adulare i potenti e di ossequiarli per il proprio tornaconto personale. Per questo in Italia non vi furono ne la rivoluzione democratica del popolo inglese ne quella specie di « rivoluzione culturale » che in Francia maturò le coscienze preparando la Rivoluzione vera e propria. Gli uomini di cultura illuminati e i « giacobini », non saranno che sparute minoranze, spesso malviste dal popolo preoccupato del suo quieto vivere.
La decadenza economica. Bastano poche parole. per dire che le favolose ricchezze italiane del Trecento e Quattrocento adesso non sono più che un lontano ricordo: le spoliazioni e devastazioni compiute dalle soldataglie straniere (a cui si aggiunsero flagelli naturali come siccità e pestilenze) e la politica economica della Spagna e dell'Austria — che proteggono le 5 proprie industrie soffocando quelle italiane con dazi pesantissimi (così per esempio l'industria milanese delle armi, un tempo floridissima, è costretta a chiudere per favorire quella di Toledo) — trasformano l'Italia in un paese sottosviluppato che conoscerà la rivoluzione industriale un secolo dopo gli altri maggiori paesi europei.

Caratteri artistici generali del Cinquecento
Il Cinquecento è il secolo di Raffaello Sanzio (1483-1520), di Leonardo da Vinci e di Michelangelo e dei grandi maestri veneti: Tiziano (1485 circa - 1576), Giorgione (1477-1510), Tintoretto (1518-1594) e Veronese (1528-1588).
La prima caratteristica del Cinquecento è di ordine politico e geografico. La supremazia fiorentina decade, ed è Roma che diventa la capitale delle arti, la Roma dei papi mecenati, umanisti e munifici come Giulio II (divenuto papa nel 1503), Leone X (nel 1513), Clemente VII (nel 1523). Detto questo, occorre precisare che l'arte del Cinquecento è romana solo perché le commissioni provengono dal papa, il quale fa venire a Roma gli artisti da tutte le parti d'Italia, ma di questi artisti nessuno è romano: sono nati in Toscana, nelle Marche, in Lombardia.
La seconda caratteristica è l'abisso esistente tra il messaggio ufficiale che gli artisti sono incaricati di esprimere e le loro opinioni personali. Mentre degli artisti del Trecento e Quattrocento (o almeno di molti di essi) si può dire che avevano il cuore cristiano e l'immaginazione pagana, per il Cinquecento è vero il contrario: l'immaginazione è cristiana, perché il papa commissiona Madonne, Giudizi finali e Annunciazioni, ma l'anima di Leonardo, Raffaello e altri (per Michelangelo il discorso è più complesso) è francamente, coscientemente pagana. Mai forse nella storia dell'arte ci fu così poca sincerità estetica che nelle magnifiche opere del Cinquecento italiano.
Da qui discende la terza caratteristica del Cinquecento: la ricerca formale. Gli artisti italiani sono i maestri della scienza della prospettiva, l'anatomia del corpo umano non ha più segreti per loro, e le loro conoscenze archeologiche sono le più approfondite che si potessero avere a quei tempi. Le ricerche che erano tanto originali e difficili, per Paolo Uccello o Mantegna, all'età di Leonardo sono diventate esercizi scolastici. Già alla fine del Quattrocento il Perugino aveva aperto, a Firenze e a Perugia, delle « botteghe » dove formava intere équipes di « garzoni », con l'aiuto dei quali per una quarantina d'anni produsse in serie Madonne e Gesù Bambini per accontentare una clientela poco esigente quanto all'originalità. Il grande Raffaello fu pure lui uno di questi garzoni. Così dunque, poiché ormai non è più un segreto per nessuno come ottenere un sorriso o uno scorcio, le ricerche dei pittori si orientano verso nuove direzioni, soprattutto verso nuove tecniche pittoriche. Si comincia a usare la pittura a olio, fino allora mal conosciuta, si fa a gara a chi è il più abile nel lavorare alla modellatura o ad ottenere lo sfumato, il graduale passaggio dalla luce all'oscurità attraverso un'ombreggiatura evanescente, in cui Leonardo fu l'incontestato maestro.

Vita
LEONARDO da Vinci, pittore/scultore, scienziato, scrittore, architetto italiano nato a Vinci, presso Firenze nel 1452. Apprende la pittura e il disegno alla scuola del Verocchio verso il 1470 e coltiva, allo stesso tempo, la matematica e la musica. Nel decennio passato a Firenze lavora all'Angelo e al paesaggio nel Battesimo del Verrocchio, dipinge due Annunciazioni, Madame Dreyfus, San Cimiamo (non terminato, alla Vaticana), l'Adorazione dei Magi (solo abbozzo). Ma lavora poco a Firenze: nel 1482, Leonardo parte per Milano e offre a Lodovico il Moro i suoi servigi d'ingegnere militare, d'architetto, di scultore e di pittore. Inizia la statua equestre di Francesco Sforza, decora una sala del castello Sforzesco, organizza le feste a corte, disegna il modello del tiburio del Duomo e s'impegna in lavori d'idraulica e di bonifica. Risalgono a quest'epoca la Vergine delle rocce, il Cenacolo (murale del convento di Santa Maria delle Grazie), la Dama dell’ermellino, il Musicista. Quando Lodovico è cacciato dai Francesi, Leonardo si trasferisce a Mantova (1499), a Venezia, a Roma e poi, nel 1503, rientra a Firenze dove inizia la Gioconda e si misura con Michelangelo nel dipinto al palazzo della Signoria (cartoni della Battaglia d'Anghiari). Dopo aver soggiornato ancora a Milano, dove è consigliere di Carlo d'Amboise e dove si cimenta in studi scientifici, matematici, anatomici, biologici, si trasferisce a Roma dove incontra Raffaello, da lui influenzato, ed è occupato nel San Giovanni Battista. Ha la fama di filosofo utopistico e di instabile, estraneo al mondo reale. Disilluso, nel 1516 accetta l'invito di Francesco I, che gli permetterà di trascorrere serenamente gli ultimi anni di vita nel suo soggiorno a Cloux, dove morirà nel 1519.

Opere
Leonardo, iniziatore del secondo Rinascimento, è molto più del grande pittore che hanno visto in lui i suoi contemporanei: inventore dello sfumato (combinazione di luce e ombra che elimina la nitidezza dei contorni delle figure) è autore di alcuni dei più celebri archetipi pittorici dell'Occidente. Dotato anche per la ricerca scientifica e appassionato della ricerca intellettuale e dell'osservazione dei fenomeni naturali mostra, nei suoi numerosi taccuini (Milano, Parigi, Londra, Madrid), la vasta conoscenza enciclopedica generata dalla sua curiosità: anatomia, geologia e paesaggi, studi di animali e vegetali, meccanica, idraulica, architettura e fortificazioni, matematica, prospettiva, ottica ecc. I suoi numerosi interessi lo portano alla progettazione in diversi campi che, per la mancanza di strumenti necessari, rimane in gran parte allo stato di idea o abbozzo: nell'idraulica, l'interesse per l'ingegneria si mostra nella progettazione di macchine (draghe, scavatrici) per la bonifica; nella meccanica, il tecnico si risveglia nei progetti di rulli, torni, segatrici, perforatrici, macchine da guerra (carri d'assalto, cannoni a retrocarica); nell'aerodinamica, l'ingegnere progetta alianti, paracaduti e un elicottero, dopo un accurato studio sul volo degli uccelli (Codice sul volo degli uccelli); annuncia il principio d'inerzia; è il precursore nelle scienze naturali e biologiche anche se le sue tecniche e produzioni, rimaste ignote ai contemporanei, sono usate solo più tardi. Considera la matematica alla base di ogni scienza, e scienza e arte, complementari tra loro, vengono concepite come intermediari tra natura e uomo; esse danno l'opportunità all'uomo stesso di dominare le forze naturali. Ogni suo disegno, progetto, o pensiero rivela la minuziosa e acuta attenzione e lo stimolo alla continua osservazione; Leonardo non usa la ricerca scientifica per le sue rappresentazioni, ma il disegno lo aiuta nelle sue ricerche: attraverso lo studio dei fenomeni della natura, egli cerca di trovare la vera essenza e la vita segreta che ogni fenomeno racchiude.

Attività artistica
Leonardo è un genio complesso e multiforme, considerato il più tipico rappresentante dell'enciclopedismo rinascimentale. La sua attività si può dividere in vari periodi. Visse prima a Firenze, poi a Milano, che lasciò alla caduta di Lodovico, poi peregrinò per varie città d'Italia: Mantova, Venezia, Firenze, la Romagna, dove fu al servizio di Cesare Borgia, Roma. La sua attività artistica è contrassegnata da poche opere pittoriche e da sempre nuove ricerche estetiche. I suoi molti progetti di ingegneria spesso non videro la luce, di essi ci rimangono solo degli appunti nei suoi numerosi manoscritti (circa quattromila fogli finora ritrovati). Leonardo rimase in un certo senso estraneo al grande movimento scientifico e filosofico che cominciava a muovere le acque della cultura europea: suoi contemporanei furono infatti Erasmo da Rotterdam (che scrisse l'Elogio della pazzia nel 1511) e Tommaso Moro (l'Utopia è del 1516). La sua naturale scontrosità e il suo cupo pessimismo portavano Leonardo ad essere agli antipodi di qualsiasi sistema filosofico tendente al miglioramento dell'uomo, ma d'altra parte la sua mentalità rigorosamente scientifica era più vicina a quella di un tecnocrate del nostro tempo che a quella, ancora impastata da molti residui di pregiudizi medioevali, di quei suoi illustri contemporanei.
Le poche opere pittoriche che ci ha lasciato ci fanno rimpiangere le molte che non ebbe il tempo di realizzare o che furono distrutte, come la Battaglia di Anghiarc (1504), conosciuta solo attraverso i suoi disegni. Tra le poche opere sicuramente sue citiamo:
➢ per il periodo milanese: la Vergine delle Rocce (1483, Louvre), che mostra già la padronanza della tecnica dello sfumato e il Cenacolo, del 1499, il famoso affresco del refettorio di Santa Maria delle Grazie, dipinto a olio in cattive condizioni, e oggi molto deteriorato;
➢ dopo la caduta di Lodovico il Moro: il cartone di Sant'Anna (1501) e la Gioconda (1505-6, al Louvre come il precedente), in cui Leonardo enuncia non solo la sua poetica, ma anche la sua concezione della natura, nello strano paesaggio che sta dietro la figura, e nel quale è quasi sintetizzato il continuo evolversi della natura stessa. Quanto poi alla celeberrima figura della donna, alcuni vi vedono un affascinante enigma, per altri invece essa sarebbe fin troppo esplicita, come simbolo della concezione leonardesca della bellezza. Lasciando libero ognuno di aderire all'una o all'altra di queste tesi, dato che la soluzione del problema dipende soprattutto dalla sensibilità personale di ciascuno, è opportuno limitiarsi a notare lo stupendo gioco della luce che, giungendo dal basso, lascia nella semioscurità le mani e le vesti per illuminare pienamente solo il volto.

La Vergine delle rocce (Olio su tavola trasportato su tela, 198x123 cm , ca. 1483-1486)
Le figure sono alla soglia di una grotta, quasi di una cripta naturale, che riceve luce dall'alto e dalle aperture del fondo. Contro ogni consuetudine, le figure sono disposte in croce, all'incontro di quattro direttrici di spazio: Gesù s'inclina, in primo piano, verso lo spazio esterno, il Battista e l'angelo suggeriscono l'espansione laterale dello spazio, la Madonna, che sovrasta il gruppo, sembra accennare a una «cupola» da cui scenda la luce. È la stessa struttura di spazio «centrale» su cui Bramante lavora in Santa Maria presso San Satiro e su cui ritorna, con maggior chiarezza, nel coro delle Grazie, raccordando alla grande cupola la navata longitudinale, i due bracci del transetto, il coro. E’ anche lo stesso modo di illuminazione: dall'alto e dalle aperture del fondo. Si osservi ora che la grotta è una vasta cavità in cui s'addensa un'atmosfera umida e densa, mentre le erbe e i fiori sono descritti con estrema cura fin nei minimi particolari, con un'attenzione fiamminga che Leonardo ha imparato a Firenze da Hugo van der Goes.
La «caverna», come risulta anche da vari passi degli scritti, era un motivo che affascinava Leonardo: dal punto di vista scientifico o geologico, ma soprattutto come «interiora» della terra, natura sotterranea o subnatura, «ricettacolo della vita geologica, dei movimenti enormi nello spazio e nel tempo che costituiscono il suo segreto» (Chastel). Forse i lontani ghiacciai alludono al remoto passato del mondo, ad una sterminata preistoria, che finisce con la nascita di Cristo, quando natura e storia si schiudono ed illuminano (Leonardo è il solo artista del Quattrocento che non creda nel «ritorno all'antico» e non consigli l'imitazione dei classici) e il mistero imperscrutabile del reale diventa un segreto che l'indagine umana può svelare. Le pareti e le volte della spelonca crollano e dalle fenditure irrompe la luce: l'èra della vita sotterranea è finita, comincia l'èra dell'esperienza. Le quattro figure sono sulla soglia, su di loro è già la volta del ciclo. Fin qui tutto, o quasi tutto, è chiaro. Ma perché l'incontro di Cristo e del Battista bambini? perché c'è un angelo che indica col dito il Battista? Forse è lo stesso angelo che aveva portato l'annuncio a Maria; ma la sua missione mistica è finita, Cristo è nato, ora toccherà ad un uomo dare l'annuncio agli uomini. Quella del Battista non è una rivelazione ne una profezia, ma un'intuizione. L'intuizione ispirata che precede e stimola l'esperienza, l'ipotesi che sarà verificata. Questa potrebbe essere una spiegazione del quadro (Leonardo tornerà sul tema del Battista, come figura «ispirata» nella natura) e collimerebbe con le premesse neoplatoniche, benché non ortodosse, della cultura dell'artista.
Ciò che chiamerà «prospettiva aerea» non è altro che la misura delle distanze in profondità secondo la densità e il colore dell'atmosfera interposta: sicché tutte le cose ci appariranno avvolte, velate, sfumate. Questa morbidezza, ariosità, fusione impalpabile di luce e ombra è il bello di Leonardo: un bello che non ha una forma costante, ma nasce dalla ispirazione o dall’impulso interiore a indagare e conoscere, a mettersi in rapporto o all'unisono con la natura, e perciò dipende così dall'attitudine dell'animo che dal luogo, dall'ora, dalla luce. Le quattro figure non hanno gesti definiti, moti precisi: l'angelo addita, Gesù si raccoglie in se stesso, quasi ritraendosi da uno spazio che non è il suo, il Battista si protende, la Vergine ha un atto e un sorriso pieni di comprensione e di «malinconia», come se sapesse o prevedesse l'inevitabile pena dell'esperienza. Sono forse le immagini dei moventi, delle spinte spirituali profonde: anche perciò sono ancora nella spelonca sotterranea, benché sulla soglia.

Monna Lisa
Per Leonardo, invece, tutto è immanenza. L'esperienza della realtà deve essere diretta, non pregiudicata da alcuna certezza a priori, non l'autorità del dogma e delle scritture, non la logica dei sistemi filosofici, non la «perfezione» degli antichi. Ma la realtà è immensa, possiamo coglierla solo nei fenomeni particolari. L'arte è la ricerca del valore dell'esperienza che si fa della realtà visibile, del fenomeno; e il fenomeno vale quando, nel particolare, manifesta la totalità del reale. E strano che sia stata considerata ermetica un'opera come la Gioconda, che è forse il quadro più chiaramente esplicativo della poetica di Leonardo:
cioè del rapporto ch'egli stabilisce tra particolare e universale, tra fenomeno singolo e realtà tutta, e che avrà un'importanza fondamentale anche per la scienza, il cui nuovo compito sarà appunto, da Galileo in poi, di dedurre dai fenomeni particolari principi generali. Ed è significativo che Leonardo enunci la sua poetica proprio in un ritratto: un tipo d'immagine che, riferendosi necessariamente a un oggetto particolare, il modello, decisamente ripugnava a Michelangiolo. Dietro la figura v'è uno strano paesaggio, infinitamente profondo, fatto di rocce corrose e sfaldate tra corsi d'acqua, come un'atmosfera satura di vapori in cui si rifrange e filtra la luce. Non è un paesaggio veduto ne un paesaggio fantastico: è l'immagine della natura naturans del farsi e disfarsi, del ciclico trapasso della materia dallo stato solido al liquido, all'atmosferico: la figura non è più l'opposto della natura, ma il termine ultimo del suo continuo evolvere. In questa unità o armonia profonda di tutti i suoi aspetti la natura si da come fenomeno universale, come bellezza: ciò spiega perché i contemporanei abbiano veduto in Leonardo, più che lo scienziato, il creatore di una nuova concezione del bello, non più legata a canoni o leggi proporzionali e quindi infinitamente più libera. La figura della donna, infatti, è tutta costruita dalla luce che l'investe, l'avvolge, la penetra: progredisce dal fondo, la luce, via via rallentando il ritmo della sua vibrazione, si concreta nella trasparenza dei veli, nell'increspatura della veste, tra i fili dei capelli, e infine dilaga sul viso e sulle mani, facendo sentire, sotto la pelle diafana, il pulsare caldo e segreto del sangue. E inutile interrogare il famoso sorriso della donna per sapere quali sentimenti abbia nell'animo: nessuno in particolare, ma il sentimento diffuso del proprio essere, pienamente essere e in una condizione di perfetto equilibrio, nel mondo naturale. Allora i termini della relazione e della antitesi tra i due maestri si fanno anche più chiari:
Leonardo o il sentimento della natura, quello per cui sentiamo il ritmo della nostra vita pulsare all'unisono con quello del cosmo; Michelangiolo o il sentimento morale, quello per cui cerchiamo di riscattare dalla natura un'esistenza spirituale che è soltanto nostra e che ci lega a Dio. Ma, come si vede, non sono due diverse concezioni del mondo, bensì due diverse concezioni dell'animo umano, della vita ulteriore o, piuttosto, due momenti distinti e complementari dell'esistenza umana, quello che ci porta a confonderci con la natura e quello che ci spinge a separarcene e a trascenderla.

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