Il 600: Caravaggio; Bernini, Borromini

Materie:Tesina
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

Tesi sul’600
Approfondimento su
Caravaggio
Bernini
Borromini

L’architettura del Seicento
Gli artisti del Seicento vogliono stupire con la grandiosità e lo sforzo, vogliono esprimere il moto, la passione e la vita. Il prevalere delle linee curve su quelle rette, che è una delle caratteristiche dello stile barocco, è effetto appunto di questo sforzo degli artisti per rappresentare nella materia inerte il movimento.
Le condizioni politiche dell’Italia favorivano questa tendenza degli artisti verso la magnificenza e lo sfarzo: la Spagna, all’apogèo della sua prosperità, dominava il nostro paese; la Chiesa cattolica usciva proprio allora rinvigorita dalla Controriforma.
Gli architetti del Seicento trovarono campo aperto alla loro attività o nell’ampliamento e rifacimento di vecchi edifici. Quanti puri e modesti templi romanici e gotici furono ricoperti da una pomposa facciata barocca! Quante cappelle semplici e nude si rivestirono di stucchi e d’affreschi smaglinti! Non vi è paese in cui non esistano edifici sacri o profani fatti o rifatti nel Seicento, sicchè ad ognuno sono familiari le chiese dalle facciate ornate di pilastri e di colonne, di volute e di nicchie, tutte coperte internamente dal fasto di affreschi, di stucchi, di monumenti grandiosi; né meno noti sono i palazzi fastosi che ci parlano di splendori oramai tramontati, e le fontane monumentali ricche di statue e bizzarre di forma.
L’arte del Seicento è soprattutto luministica, cioè fondata sui contrasti di luci e di ombre. La lotta della luce con l’ombra, ora drammatica, teatrale o cupa, ora brillante e festosa, si svolge sulle facciate e negli interni degli edifici barocchi, come nelle sculture e nelle pitture, naturalmente in modo diverso e con diversi effitti nelle varie arti. Nell’architettura barocca, c’è un alternarsi di parti sporgenti con parti profondamente rientranti, un’abbondanza di fregi e modanature, di robuste cornici e frontoni che circondano le finestre; un altro elemento caro agli architetti barocchi è l’effetto scenografico dei palazzi, dei giardini, delle ville e delle scalinate: effetto ben visibile nel colonnato della Piazza San Pietro.

Gianlorenzo Bernini
Figlio di Pietro, scultore fiorentino che dal 1584 era attivo a Napoli, Gianlorenzo Bernini nacque in questa città il 7-10-1598.
Fin dall’infanzia ebbe dimestichezza con la pratica della scultura, assistendo alla lenta evoluzione del padre dai modi ispirati alla tradizione rinascimentale toscana a invenzioni che approdavano alla patetica serietà della”riforma cattolica”: una evoluzione che dalle statue di San Lorenzo e di Santo Stefano nel duomo di Amalfi (1602) e a quelle di altri santi nella cappella Ruffo della chiesa dei Gerolamini a Napoli sapeva svolgersi sino alla grandiosa Madonna con il Bambino e San Giovannino nella Certosa di San Martino, pure a Napoli.
La sua formazione si compirà nell’ambito paterno, a Roma, ove la Famiglia si era trasferita nel 1605-1606.
Il rapporto tra Gianlorenzo e il padre si trsformava intanto da un discepolato a una fattiva collaborazione. Nel 1620 gli sarà affidato un ermafrodito e la sua aggiunta d’un materassino marmoreo inserirà un accento di illusionistico verismo. Più tardi, nel 1627, egli interverrà sul grande Ares(fig.1) della collezione Ludovisi che praticamente abbisognava soltanto di riparazioni: Gianlorenzo rifece un braccio, un piede e la testa del Puttino.
Tranite il padre Gianlorenzo entrò in rapporto con i sui primi committenti: i Borghese e i Barberini principalmente, e gli Aldobrandini.
L’incarico più importante che ebbe Gianlorenzo fu quello delle quattro grandi sculture destinate a ornare le sale della galleria Borghese che tennero occupato Bernini per più di un lustro. Tra il 1618 e il 1619 fu realizzato il gruppo di Enea, Anchise e Ascanio fuggitivi da Troia (fig.3); tra il 1621 e il 1622 fu scolpito il Ratto di Prosperina (fig.4), e nello stesso anno fu iniziato il gruppo di Apollo e Dafne (fig.2) che, salvo un’interruzione dalla metà del 1623 ai primi del 1624 dedicata alla esecuzione del David (fig.5), fu completato a cavallo del 1624-25. Sono dunque opere di soggetto profano, anche il David che è piuttosto una allegoria della virtù eroica. Il Bernini aveva previsto una collocazione di queste statue della villa diversa dall’attuale, intesa a determinare punti di vista ed effetti d’illuminazione dalle finestre che esaltassero proprio il senso del movimento nello spazio.
Nel 1623 Urbano VIII chiamò il Bernini presso di sé e ordinò grandi lavori per due importanti sedi: la nuova facciata della chiesa di Santa Bibiana e la statua della Santa sull’altare, e il baldacchino in San Pietro (fig.6).
Il baldacchino verrà completato nel 1633, il Bernini dovette affrontare ingenti problemi tecnici in specie per la fusione delle colonne tortili per le quali si utilizzò il bronzo asportato dal portico del Pantheon. Era ancora in corso la costruzione del baldacchino quando Bernini cominciò a creare un’ambientazione anche teologicamente complementare, aprendo nei quattro immensi piloni che reggono la cupola della basilica le “logge” sovrastanti gli altari dedicati ai santi : Elena, Veronica, Longino e Andrea apostolo.
Grazie all’appoggio del principe Nicolò Ludovisi ottenne l’incarico di realizzare la fontana dei Fiumi a Piazza Navona (fig.7), nel cuore di quella che era divenuta “l’insula Pamphilia”. La geniale soluzione della roccia cava che sostiene l’alto obelisco egizio e il “concetto” dei quattro fiumi rappresentativi dei quattro continenti, che versano l’Acqua Vergine fatta portare dal papa e implicitamente alludono ai fiumi del Paradiso che spandono la grazia divina, riaccesero l’entusiasmo generale.
Il clima culturale della Roma Pontificia mutò di nuovo con l’elezione, nel 1655, di Fabio Chigi che prese il nome di Alessandro VII.
Alessandro VII fu l’ultimo grande pontefice-mecenate del Seicento.
Il papa stesso aveva commissionato il proprio monumento funebre (fig.8) per il quale Bernini dette disegni e bozzetti, lasciandone l’esecuzione materiale ai sui alievi (1676-1678).
L’ultuma grande impresa era stata l’ideazione, su commissione di papa Clemente IX Rospigliosi, della teoria degli Angeli con i simboli della Passione che, su ponte Sant’Angelo, compongono come un “iter” penitenziale.
Bernini scolpì le figure dell’Angelo con la corona di spine e dell’Angelo con l’Inri (1668-1671) (fig.9): il papa ritenne queste staatue troppo delle per poter essere esposte alle interperie e le fece collocare a Sant’Andrea delle Fratte.
Lo scultore rifece quindi, con l’aiuto di Giulio Cartari, l’Angelo con l’Inri e fece copiare da Pietro Nardini l’Angelo con la corona di spine e dette ai suoi “giovani” disegni e bozzetti per le altre statue.
Il 28 novembre 1680 Gianlorenzo Bernini morì; non gli ordinò nulla ma nel 1689 ebbe in eredità da Cristina di Svezia l’ultimo lavoro di lui, il busto del Salvatore.

Caravaggio
Michelangelo Merisi nasce a Milano da Fermo e Lucia Aratori il 29 settembre 1571, morto nel 1610, fu chiamato “il Caravaggio” dal nome della piccola cittadina in provincia di Bergamo, dove si era trasferito nel 1577 per fuggire la peste.
Il Caravaggio inizia il suo apprendistato a Milano, presso il pittore Simone Peterzano. La sua pittura è una delle più alte espressioni dell’arte di ogni tempo; e forse la più sconvolgente e appassionante. Ma anche la più dibattuta.
Fin dai suoi tempi, del resto, questo pittore fu “discusso” e fatto oggetto, persino, di accuse spietate. Si è creduto davvero che fosse non solo un ribelle e un violento, come in certa misura è indubbiamente stato, ma anche un contestatore delle dottrine religiose, o un indifferente ai loro valori, un “laico” e inoltre uno stravagante ai limiti della pazzia e, secondo alcuni un epicureo.
Verso la fine del 1592, rimasto orfano, vendette subito prima di partire per Roma alcuni terreni. Un fratello, Giovanbattista, divenne sacerdote, e sacerdote era anche la zio Ludovico Merisi, che dopo la morte dei genitori assunse la tutela di Michelangelo e lo precedette a Roma di qualche mese.
I documenti confermano l’irrequietezza dell’artista. Il 19 novembre del 1600, Girolamo Stampa querela il Caravaggio per averlo aggredito a bastonate; il 24 aprile 1604 un garzone d’osteria accusa di avergli tirato in faccia un piatto; nell’ottobre e nel novembre dello stesso anno il Caravaggio è incarcerato per avere ingiuriato li sbirri; nel 1605 è arrestato per perto d’armi abusivo; e viene denunciato perché ha aggredito e ferito un notaio. Il 24 ottobre è degente per una ferita, che dice di essersi procurato da solo cadendo sulla propria spada. Il 28 maggio 1606, il Caravaggio uccide Ranuccio Tomassoni da Terni in seguito a un litegio durante un incontro di pallacorta. Il Caravaggio fu ritenuto colpevole, tanto da essere condannato a morte in contumacia.
Qualcuno, a Roma, si adoperava per la grazia. Raggiunto dal perdono papale, il Caravaggio si reca nel luglio del 1610 a Port’Ercole per il rilascio; ma mentre vaga sulla spiaggia alla ricerca del vascello che doveva portarlo a Roma muore il 18 luglio.
Nel 1600 circa il Caravaggio dipinge la Cena in Emmaus (fig.1) contemporaneamente al San Giovannino (fig.2), attesta inconfondibilmente la pratica carevaggesca del simbolo: il pane benedetto dal Cristo allude al suo corpo e il vino al suo sangue. Il discepolo a braccia aperte, quasi a misurare lo spazio, nel riconoscere il Signore compie un gesto che mima il modello della croce.
La canestra di frutta contiene uva e melograni, emblemi del martirio di Cristo e pomi, allusivi tanto ai frutti della Grazia da lui portata, quanto al peccato originale.
Tra i primi dipinti eseguiti dal Caravaggio dopo il suo arrivo a Roma, incontriamo il Fanciullo della Galleria Borghese (fig.4), che reca tra le braccia una canestra di frutta analoga a quella della Cena di Emmaus, benchè contenga un maggior numero di frutti. Proprio in questa più svariata e analitica descrittività si coglie la misura del tempo che separa i due dipinti e la minore capacità di sintesi che caratterizza il primo Caravaggio. Anche la luce non è altrettanto definita volumetricamente, ma sfiora la figura con chiaroscuri di minor forza invocativa e senza decisione di contrasti. L’opera è già tuttavia straordinaria, per la sensibilità di notazioni naturalistiche con cui è evocata la vita silenziosa dei magnifici frutti, per la sapienza delle penombre che graduano la posizione delle foglie nello spazio, per la squisita intensità dei rimandi di colore, dal morbido nero delle chiome e degli occhi a quello più lucido dei chicchi, dai bianchi toccati di grigio ai verdi pallidi, alle varie tonalità di rosso.
Nel 1600 cica il Caravaggio dipinse la Canestra di frutta (fig.3). Il dipinto apparteneva fin dal 1607 al cardinale Federico Borromeo, per il quale fu quasi certamente eseguito. Egli prediligeva le nature morte, genere allora nascente, e per lui il fiammingo Jan Brueghel eseguiva quadri di fiori. Al senso di crescita regogliosa, nell’agetto “a tutto tondo”, s’accoppia la grazia della disposizione, la misura che contiene il rigoglio e che ha qualcosa, ancora, della calibratura rinascimentale e del luminismo plastico di un Antonello da Messina. La luce che sembra innaturalmente provenire da più fonti è come alito vivificante, che muove le foglie ed i tralci, e il colore è anche profumo.
Nel 1602 intraprese per la chiesa di Santa Maria in Vallicella la Deposizione (fig.5): una delle sue prime pale d’altare. Le rughe che solcano il volto della Vergine manifestano il realismo con cui il pittore rappresenta i suoi umili personaggi. In quest’opera, fatta per la pubblica devozione, è evidente lo sbalzo dai soavi dipinti eseguiti per commissioni private. Il contrasto tra la luce e l’ombra è divenuto oramai drammatico, interpretando un soggetto che evoca la passione di Cristo.
Un’accusa di poco decoro era stata rivolta dagli ambienti ecclesiastici al Caravaggio, per le storie di San Matteo in San Luigi de’ Francesi. Probabilmente, a seguito di queste critiche, il pittore fu costretto a rifare il quadro d’altare. La prima versione, bellissima, rappresentava San Matteo (fig.6) nelle ruvide fattezze di un contadino analfabeta che guarda con meraviglia la propria scrittura guidata dalla mano dell’Angelo. La seconda versione del San Matteo (fig.7) che scrive il Vangelo è quella visibile sull’altare della cappella Contarelli. Il Santo ha assunto l’apetto di un dotto, ispirato ma non materialmente condotto dall’Angelo.
Nella Crocefissione di San Pietro (fig.8) la luce segue la linea serpentina lungo la quale, con solennità, la Croce viene eretta: simbolicamente è l’erezione stessa della Chiesa, che Cristo ha fondato in Pietro e che il suo martirio feconda. Con i ceffi oscuri e adusti dei carnefici dai capelli corvini contrasta il volto sereno del Santo alonato dalle canizie, stoicamente partecipe del proprio supplizio, cui guarda con forza orgogliosa.
Giunto a Napoli dopo la sua fuga da Roma il Caravaggio dipinse la Madonna del Rosario (fig.9) con i Santi Domenico e Pietro Martire, molto probabilmente per Luigi Caraffa Colonna con destinazione alla cappella di famiglia in San Domenico Maggiore. Il soggetto intendeva celebrare la vittoria di Lepanto contro i Turchi(1571) e i suoi vincitori: il padre e il nonno del committente, il famoso Marcantonio Colonna.
Il suo canto d’addio è un’opera situabile negli stessi mesi o poco prima della Sant’Orsola, il David con la testa di Golia (fig.10), ricordato fin dal 1613 nella Galleria Borghese.
La densità di dell’ombra, che quasi nasconde il braccio destro della spalla alla mano e riduce la consistenza plastica del corpo, escude che si tratti di un opera romana e l’avvicina invece alla produzione estema. Il Caravaggio la spedì dunque a Roma al Cardinale Scipione Borghese, nipote del papa, e con ogni probabilità a corredo o a seguito della domanda di grazia. Anche se non è il suo ultimo dipinto, ne fa un canto d’addio il tragico autoritratto sotto le forme di Golia decapitato: era la sorte che sarebbe toccata al Caravaggio se la grazia non fosse stata concessa.
David, secondo il commento dei padri, è figura del Cristo, e il sottointeso è avvalorato dall’espressione di cristiana pietà con cui il fanciullo guarda al capo mozzo del “peccatore”, centrato in fronte da una sassata che ha lasciato la sua traccia sanguinosa. Identificandosi in questa immagine, il Caravaggio riconosceva le proprie colpe ma voleva forse anche ricordare al pontefice, di cui invoca la misericordia e il perdono, che nello sciagurato scontro del 1606 era stato ferito alla testa, quasi ad invocare un’attenuante.
La grazia fu concessa ma il destino presagito ebbe il suo puntuale esito, forse per un peggioramento delle condizioni di salute, già messe a dura prova dall’aggressione armata di qualche mese prima; a dare il “colpo di grazia” fu il solleone, sulla spiaggia della Feniglia nei pressi di Port’Ercole, il 18 di Luglio.

Francesco Borromini
Francesco Borromini nasce a Bissone nel 1599. È figlio di Giovanni Domenico Castelli, un tecnico a lungo al servizio dei conti Visconti Borromeo, specializzato in idraulica. La madre, Anastasia Garvo, proviene da una famiglia agiata, i cui membri sono spesso attivi nei settori dell’edilizia e della lavorazione lapidea.
Nel 1608, lascia Bissone, per volontà del padre e Francesco si reca a Milano a soli nove anni a fare apprendistato. Quello milanese è un ambiente dalle molteplici sollecitazioni: la presenza dal 1610 del grande matematico e teorico urbinate Muzio Oddi non sarà, per esempio, priva di conseguenze.
Nel 1613, Oddi collabora con la Fabbrica del Duomo nella formazione dei suoi operatori. Il giovane Francesco sembra intessere relazioni importanti, probabilmente avendo accesso ad alcuni disegni originali di Leonardo, in particolare al codice Trigulziano, infatti c’è il noto schizzo dell’“Arco rivescio” a contrasto, per fare “ ispalla”, per il tiburio del Duomo, che Borromini ricorderà nella cupola di Sant’Ivo (fig.1).
Verso il 1612, a Milano, Francesco impara “ l’arte d’intagliatore in pietra”.
Nel 1619, Francesco matura la convinzione di avere poco spazio a Milano: le opere di scalpello per il Duomo sono in contrazione. Nel breve volgere di un paio di mese Borromini passa dalla fabbrica metropolitana milanese al cantiere di San Pietro. L’abilità nel disegno tecnico lo fa subito notare e l’anno seguente, morto Leone Garvo in un incidente di cantiere, Francesco passa alle dipendenze di Maderno e nel giro di trè, quattro anni diventa il primo aiutante.
Il Borromini fu un grande architetto pieno di idee nuove e geniali, che seppe mirabilmente realizzare con libertà sconfinata. Il Borromini ebbe solo la sventura di vivere contemporaneamente al Bernini: ciascuno dei due grandi artisti si sentì minacciato e avversato dall’altro, e scoppiò tra loro un’inimicizia feroce e implacabile, che procurò ad entrambi amarezze e dispiaceri.
Ebbe la peggio il Borromini, che visse solitario e incompreso, deriso come un pazzo, finchè la disperazione lo portò al suicidio. Eppure la sua arte è tra le più vive e scapigliate, piena di brio e di fantasia spavalda e insieme sempre aggraziata. Egli inventò le facciate ondulate, i fregi e timpani curvi e serpeggianti, i timpani spezzati, le piante e le cupole più bizzarre: c’è in lui qualcosa di gotico, nello slancio con cui le sue costruzioni salgono verso il cielo; ma non verticalmente, come nelle antiche cattedrali nordiche, bensi con moti contorti e a spirale.
Nel 1626, risulta scalpellino nel cantiere di San Pietro. Costituisce una nuova società di lavori di scalpellino, legandosi a Battista Castelli, Carlo Fancelli e Agostino Radi.
Nel 1634, gli giunge la prima commissione architettonica in proprio: San Carlo alle Quattro Fontane (San Carlino) (fig.2).
Il suo capolavoro è la chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza (fig.3), la più audace creazione del barocco romano, nuovissima in ogni particolare, fino alla stravaganza. La prima pietra è posta nel gennaio del 1643, la struttura al rustico è pronta nel 1648, la palla e la croce del coronamento sono dorate, ma la decorazione interna è più tarda, con emblemi di Alessandro VII Chigi, papa dal 1655: la consacrazione è del 1660.
Nel 1642, hanno inzio i lavori della chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori (fig.4), patrocinati dalla duchessa di Latera, Camilla Virginia Savelli. La struttura è completata entro il 1646, ma la decorazione interna terminerà nel 1667 e la facciata, prevista in stucco, resta non finita.
Negli anni Quaranta Francesco lavora per alcuni privati, ristrutturando con originalità le case Falconieri a Strada Giulia e progettando il palazzo in Trevi del conte Ambrogio Carpegna.
Borromini diventa architetto dell’importante istituzione nel 1646, e subito esordisce facendo “tabula rasa”, della cappella realizzata da Bernini.
Ne recupera lo schema ovato, ruotandolo e dinamizzandolo come sotto la spinta divaricatrice dei due fuochi, poi passa allo schema rettangolare con angoli smussati. La cappella dei re (fig.5-6) detta dei Magi ha una dimensione raccolta e accentua il gioco lineare dei costoloni a fascia intrecciati sulla volta, le “costole a uso di cuppola” non portanti delle volte intelaiate d’ascendenza gotica, a prosecuzione dei sostegni verticali proiezioni verso l’alto dell’ordine.
Un notevole saggio della sua abilità ottico-prospettica è il colonnato di palazzo Spada (fig.7), nell’ambito di lavori di risistemazione del cinquecentesco palazzo Capodiferro voluti dal cardinal Bernardino.

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