Materie: | Appunti |
Categoria: | Storia Dell'arte |
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GIORGIONE
Giorgione viene posto da Vasari tra gli artisti della maniera moderna e viene collegato a Leonardo. Vasari, che ha una visione fiorentino-centrica dice che Giorgione in vita aveva veduto molte cose di sicuro di Leonardo e sta cosa gli piacque e nel colore lo imitò da dio. Insomma l’incipit della fortuna/la questione di Giorgione è stato aver trovato Leonardo. Poi sviluppa la pittura in modo originale e tipicamente veneto (dipingeva senza il disegno).
Giorgio da Castelfranco (forse) nasce a Castelfranco nel 1478, ma, figura ormai leggendaria, ha perso i contorni storici. C’è stato un periodo in cui gli venivano attribuite tantissime opere, e un altro in cui tutte gli erano negate. Per ora le opere attribuite con buona sicurezza a Giorgione sono sei o sette. Il concerto campestre, creduto suo per molto tempo, è ora attribuito a Tiziano. In effetti tra i moltissimi dipinti che in epoche successive gli sono stati attribuiti, la maggior parte è poi risultata essere del giovane Tiziano, la cui tecnica inizialmente era così simile a quella del maestro da potersi verosimilmente scambiare con la sua.
Giorgione era detto così essendo grande e imponente, nome adatto anche per la grandezza d’animo. Era di umili origini. Venne allevato a Venezia, era un grande amatore, gli piaceva suonare il liuto (era dunque anche musico). Suonava così bene che spesso era chiamato anche dai nobili. Come mai un umile introdotto tra i nobili? Giorgione lavora per i privati, non per le chiese, tranne l’opera per la cappella del duomo. In genere ha una produzione con oggetti profani, o sacri destinati alla devozione personale. Un’altra commissione pubblica fu il fondaco dei tedeschi, del 1508, l’emporio prospiciente il Canal Grande all’altezza di Rialto. Frequentava gli aristocratici veneziani, dove c’è una ripresa dei temi e dei significati neoplatonici, con i significati chiari solamente per chi è in questi circoli e basta. Fa quadri emblematici, come la tempesta, o i tre filosofi, che non hanno ancora trovato un’adeguata interpretazione. Giorgione è un mondano. Partecipa a queste riunione per il suo piacere, ama. La sua morte accrebbe il mito: Vasari ci dice che s’innamorò di una donna e molto goderono l’uno e l’altra. Nel 1511 (dice Vasari, ma in realtà Giorgione muore nel 1510) ella si ammala, ma non sapendo niente, lei gli appiccica la peste e a 34 anni, con dolore di chi lo amava Giorgione muore. Non si preoccupa di una riproduzione del dato, ma di uno stile con la deroga di alcune regole.
Va a Venezia come allievo di Giovanni Bellini da cui prende soprattutto il gusto per il colore e l’attenzione per i paesaggi; Vasari dice che “nel colorito ad olio e di affresco fece cosa morbide e sfumate negli scuri che molti bravissimi confessarono che lui era mosso per metter lo spirito nelle figure, contraffare la carne viva”. Ha dolcezza, c’è un aprirsi all’aspetto sfumato. Leonardo passa per Venezia quando torna da Milano, nel 1500, indi Giorgione riesce a vedere qualcosa. C’è un grande cambiamento: nel 1507 Giorgione da una nuova maniera, “il dipingere solo con i colori stessi fosse il migliore modo e vero disegno” (Vasari).
Bisogna pensare all’Adorazione dei magi incompiuta di Leonardo, in lui il disegno è importantissimo; le fasi di Leonardo sono: 1) disegno, 2) rapporto luci ombre sfumate, 3) colore.
Giorgione invece col colore costruisce la forma: non c’è disegno. La progettazione e la realizzazione coincidono. La sua modalità è procedere senza tutti questi passaggi, e l’opera diventa ricca. “Macchie crude e dolci” sono, secondo il Vasari. Inoltre c’è una fusione cromatica, pur macchiando c’è la capacità di fondere l’immagine; da alle sue opere più morbidezza: è la cosiddetta pittura tonale, portata in Giorgione alle estreme conseguenze.
PITTURA TONALE = fondere i colori, anche contrastanti, creando un aspetto quasi atmosferico di coinvolgimento. Le distanze vengono rese con i colori freddi mentre con i caldi le cose vicine. Fusione cromatica.
Pala di Castelfranco:
C’è la riflessione del motivo iconografico della sacra conversazione. Viene commissionata da Tuzio Costanzo, potestà di Castelfranco, per la morte del figlio Matteo e posta poi nella cappella dei Costanzo, demolita con la costruzione del nuovo duomo. È realizzata tra il 1504 e il 1505.
C’è un ripensamento della sacra conversazione. Qui manca l’architettura (che perfino Bellini manteneva nella Pala Colla con l’introduzione della natura tramite i due archi laterali). La Vergine sopra elevata è proiettata nel paesaggio. Il rapporto con la natura non è più una citazione, diventa protagonista. Il paesaggio è verosimile, non d’invenzione. La campagna che si stende all’orizzonte, i monti che si intravedono nella nebbia azzurrognola della lontananza, il castello che si erge sulla collina di sinistra, non sono più considerati un sfondo accessorio, ma fanno parte integrante del dipinto al quale, anzi, sono indispensabili per creare quell’effetto di sfondamento prospettico, cioè di illusione di profondità, che avvertiamo fin dal primo sguardo. Questo effetto di profondità è dovuto anche alla collocazione della Vergine e del trono che sovrasta la recinzione dello spazio, sia grazie all’uso della pittura tonale, con il profilo azzurro dei colli all’orizzonte che allontanano rispetto al verde (che è più caldo), in più la mattonella che allontana il nostro sguardo in un’unione tra sacro e (profano) naturale mai tentato prima. I personaggi sono parte di una dimensione lirica. La Vergine ha lo sguardo rivolto verso il basso, quasi mesto. Per alcuni c’è una relazione con la parte bassa di quest’architettura semplificata; essendo la parte bassa in porfido e in più essendoci lo stemma dei Costanzo (il campo con le coste e il leone), si è supposto che la Vergine guardi in direzione di questo elemento, che sarebbe il sarcofago di Matteo Costanzo. I personaggi sono modellati per masse di colori, i santi alla base sono S. Francesco e S. Liberale (ma per alcuni questi è san Nicasio), per via del vessillo con la croce, il protettore dell’ordine dei Cavalieri di Malta cui apparteneva Matteo; invece S. Francesco è inequivocabile e presenta anche le stimmate. I personaggi poi sono modellati per masse di colore.
La prospettiva di Giorgione non è comunque disegnata, costruita secondo regole, ma è piuttosto suggerita attraverso il colore.
Il rapporto con la natura è qualcosa che interessa Giorgione e quindi è presente anche nei Tre filosofi o nella Venere.
Questi quadri sono certamente di Giorgione perché è stato trovato dall’abate Morelli un libricino del ‘500 in cui c’erano descritte le collezioni degli aristocratici veneziani. L’autore, prima chiamato Anonimo Morelliano, si è poi scoperto essere Marcantonio Michiel, un nobile veneziano che tra il 1521 e il 1543 ci descrive in una specie di diario le principali collezioni private del tempo. Dunque si sa per esempio che La tempesta era presso Gabriele Vendramin, i Tre Filosofi (interpretati anche come i tre magi) erano invece presso Matteo Contarini, mentre la Venere in casa di Gerolamo Marcello. Pertanto la paternità è sicurissima.
I Tre Filosofi:
Questo quadro ha scatenato un altro tentativo rivoluzionario di interpretazione. Realizzato tra il 1508 e il 1509.
Il titolo riportato dal Michiel è “I tre filosofi”, ma per alcuni rappresenta o i tre magi o le tre età della vita.
La prima dice che sono i tre filosofi che racchiudono i tre saperi:
1. Classico, ossia l’uomo barbuto con la pergamena
2. Arabo-medievale, quello col turbante
3. Moderno, il giovane seduto.
Ha un suo fascino: la sapienza non è precostituita ma è quella che si misura con la natura. I tre sono immersi in un paesaggio straordinario, con le cose anche umanizzate. C’è l’avvicinarsi dei colori. Inoltre il taglio compositivo può essere ricondotto a una diagonale dal basso a sinistra alla destra in alto.
PITTURA TONALE = avvicendarsi dei colori per piani diversi: giallo della pietra scheggiata, verde della natura azzurra del cielo => profondità e avvolgimento atmosferico.
Il quadro lo si può leggere da basso a sinistra (in basso a destra c’è una piattaforma rocciosa che ospita i tre stagliati su macchie verdi scure) in alto a destra (infatti a sinistra si intravede, attraverso l’aprirsi di un varco, il paesaggio).
Secondo la seconda interpretazione si tratterebbe dei tre magi che, secondo una leggenda medievale scrutano gli astri per scoprire un indizio sulla venuta del messia.
Ci fa pensare a ciò il fatto che il più vecchio dei tre tenga in mano una pergamena con dei simboli astrologici, e loro in effetti erano astrologi guidati in questo cammino dalla cometa. Il senso di sospensione ed intimismo è magico e fa parte del linguaggio giorgionesco; tutto il resto dell’opera, è per noi un interrogativo.
21.09.05
La tempesta:
È fatta risalire da Vasari al secondo periodo, quindi dopo il 1507, e anche le radiografie lo dimostrano. Probabilmente tra il 1506 e il 1508.
Il Michiel ci dice che fu realizzato per Gabriele Vendramin “el paesetto in tela cun la tempesta cun la cingara et soldato”. Dalle parole di Michiel, si nota come possa essere chiaro e importante il ruolo del paesaggio, che si comporta da protagonista in un brano assolutamente stupefacente; i componenti minori sono la giovane che allatta e il soldato con l’asta. La pittura tonale esalta in modo incredibile il paesaggio: il corso d’acqua e le piante recuperano il colore del cielo, le foglie e le facciate si caratterizzano per i riflessi dovuti al fulmine. I colori fondono l’immagine creando un’atmosfera unificata. Attraverso questa dolce modulazione dei toni del colore, Giorgione riesce a dare l’illusione di uno spazio prospetticamente infinito.
Dal 1850 ci furono molte interpretazioni:
1. Alcuni sostengono che il quadro ricordasse la famiglia umilissima di Giorgione
2. Il Wickoff vi da una lettura mitologica, recuperata dalla Tebaide di Stazio: Adrasto scopre in un bosco Ipsipile che allatta Ofelte, figlio di Licurgo.
3. Schreyk dalla Metamorfosi di Ovidio vi riconosce Eucalione e Pirra, progenitori dell’umanità scampati al diluvio universale.
4. Wind da una lettura allegorica: l’uomo simbolo della fortezza, la donna della carità; riescono a vincere la sorte, rappresentata dal fulmine.
5. Maurizio Calvesi vi legge l’allegoria dell’unione tra cielo e terra, basandosi su uno scritto di Leone Ebreo.
6. Settis identifica un precedente dell’opera in un rilievo dell’Amadeo sulla facciata della cappella Corleoni a Bergamo, raffigurante “la condanna divina ed il destino dei progenitori dopo il peccato”. Lo sfondo è di alberi e casamenti, Eva è seduta a terra che allatta Caino, Adamo è in piedi a sinistra appoggiato ad una verga; dio irrompe tra loro annunciando il destino di fatica che li toccherà; dunque il paesaggio sarebbe il paradiso terrestre mentre il fulmine, dio. La tempesta è metafora della condizione umana dopo il peccato. Il paragone c’è a livello formale, pur un po’ traballato.
Vendramin era tanto legato alle sue opere che raccomandò agli eredi di non smembrarne la raccolta.
Venere Dormiente:
Dipinta circa nel 1508. Apparteneva a Gerolamo Marcello e sembra possa essere un’allusione alla pretesa discendenza da parte della usa famiglia da Marcello, genero di Augusto, e quindi alla parentela con la Gens Julia, discendente nell’Eneide dalla dea Venere.
La dea dell’amore è colta in un momento di abbandono. Adagiata su soffici coltri gettate in mezzo a un prato. C’è innocenza del volto e languida rilassatezza delle membra.
La lettura è in chiave neo platonica: la Venere, abbandonata al sonno, si fa portatrice di una bellezza terrena, riflessa dalle idee; è perfetta e ne è consapevole, lo si vede dalla postura indifferente nonostante scopra le nudità.
C’è un sottile accordo tra il corpo nudo disteso e l’ondulazione delle colline sullo sfondo. Il prato fiorito e il cespuglio dietro a Venere sembrano volerle rendere più tranquillo il riposo, e anche il villaggio deserto che si staglia sulla destra, contro le nuvole bianche del cielo, sta a sottolineare il dolce torpore del pomeriggio estivo. Più lontano, tra la campagna punteggiata di alberi, si indovina la sagoma di un altro borgo, forse un castello, e in fondo, al filo dell’orizzonte, emerge dalle nebbie grigio azzurre anche un imponente massiccio montuoso.
Pare che l’opera fosse stata conclusa da Tiziano che vi aggiunse un cupido poi cancellato, allo scopo di smorzare l’effetto ermetico. La stoffa su cui si stende il corpo sempre inoltre troppo insistita per l’arte di Giorgione.
Giovane Ignuda (Fondaco dei Tedeschi):
Fa parte delle incisioni tratte da Zanetti nel ‘700 e racchiuse in alcune nicchie dove le immagini rappresentate si riempivano di significati allegorici. Dipinta nel 1508.
Vasari dice di non capirne il significato, pur siano passati 42 anni ormai. Gli incarnati rosso fiammeggiano e il rapporto uomo - architettura sembra però che abbia influenzato Michelangelo per la successiva decorazione della Sistina.
Ritratto di Vecchia:
Dipinto tra il 1508 e il 1510. Rappresenta, secondo alcuni, la madre di Giorgione: in questo caso si ricollegherebbe al ritratto che Protopene, pittore greco del IV d.C. avrebbe fatto della madre. La donna infatti assomiglia molto per aspetto fisico, posa e drappo bianco sul braccio alla giovane madre della Tempesta. Giorgione ricerca puntualmente l’individuazione della psicologia del personaggio. Il cartellino con scritto “col tempo” può stare per: 1) la bellezza che col tempo sfiorisce e 2) la saggezza col tempo acquistata.