Borromini Francesco

Materie:Appunti
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

Francesco Borromini. I biografi narrano dell’irriducibile contrasto che, sulla scena artistica romana, oppose al Bernini il quasi coetaneo FRANCESCO BORROMINI (Francesco Castelli, detto, 1599-1667) giunto a Roma dal Canton Ticino poco prima dei 1620. Al di là dei motivi immediati, probabilmente economici, che poterono averla originata (connessi alle imprese del Baldacchino di San Pietro e soprattutto di Palazzo Barberini, cui il lombardo aveva partecipato quale collaboratore del Bernini), l’incompatibilità aveva motivi profondi, di temperamento umano e di sensibilità artistica. Il successo subito raggiunto da Bernini col favore di Urbano VIII venne conquistato dal Borromini solo faticosamente, dopo un umile apprendistato come scalpellino al seguito di Carlo Maderno, e non poté mai dirsi definitivo. Il suicidio che concluse la carriera dell’artista (1667), caduto in uno stato di prostrazione ipocondriaca, sancì drammaticamente il progressivo isolamento a cui il prevalere del “partito” berniniano finì per condannarlo negli ultimi anni.
Dopo gli interventi a Palazzo Barberini (1625-33), ove gli spetterebbe l’ideazione dell’interessante scalone elicoidale, l’occasione decisiva è per il giovane architetto la costruzione della chiesa e del convento di San Carlino alle Quattro Fontane (1634-41), su commissione dell’Ordine dei Trinitari. Un’estrema perizia tecnica acquisita in anni di paziente tirocinio “sul campo”, prima in Lombardia e poi a Roma, lo mette in grado di attuare un progetto che al suo stesso committente, il priore dei Trinitari, appariva “artificioso, capriccioso e raro”. Costretto dall’esiguità degli spazi a pensare in piccolo, Borromini organizza gli ambienti del convento attorno ad un chiostro rettangolare ove l’elemento nuovo degli angoli smussati e leggermente convessi fa perdere alle strutture la loro rigidità, integrandole in un più articolato e mosso rapporto reciproco. Rivoluzionaria è la soluzione adottata per l’interno della chiesa: attorno al vano ellittico, l’architetto apre, infatti, quattro grandi nicchie creando un continuo trapasso dalle superfici concave alle convesse in un’ondulazione plasticamente ritmata dalle colonne addossate alle pareti. Nella cupola ovale (fig. 36), raccordata mediante pennacchi alle quattro arcate absidali, culmina l’ingegnosità del Borromini che plasma e quasi cesella le strutture con una dedizione ai dettagli ereditata dagli scalpellini e dai lapicidi lombardi. La superficie concava è rivestita da cassettoni di complicato disegno, che ricordano le cellette di un alveare e vanno rimpicciolendo verso la sommità con un inganno ottico destinato ad aumentare l’impressione di altezza. La raffinatezza dell’invenzione è esaltata dall’illuminazione uniforme, ottenuta facendo filtrare la luce, non solo dalla lanterna, ma anche dalle finestrelle che si aprono dietro il delicato fregio in stucco sopra l’imposta della cupola.
Successivamente l’architetto venne scelto per costruire la casa professa e l’Oratorio dei Filippini presso la Chiesa Nuova. Nella facciata (1637-40, fig. 37), la novità sta nel misurato contrapporsi degli elementi curvilinei in un sottile ritmo dialettico. Alla convessità della campata centrale dell’ordine inferiore corrisponde non solo la sequenza lievemente concava delle altre campate, ma anche la profonda inflessione della nicchia al centro dell’ordine superiore, col motivo a cassettoni di lontana derivazione bramantesca (fig. 38). L’inedito coronamento dal profilo mistilineo e il serrato gioco delle modanature e delle cornici di vivo risalto plastico (si osservino i timpani delle finestre che nell’ordine inferiore s’incuneano nella trabeazione e s’incastrano tra i capitelli dei pilastri) valorizzano il gioco delle superfici, equivalendo al “tocco di pennello dell’artista” (J. Connors). Attraverso l’ingegnosa definizione di ogni dettaglio decorativo, l’architetto esemplifica un repertorio destinato a grande fortuna negli sviluppi dell’architettura barocca.
A Bernini, che aveva tentato di fondere architettura e scultura in una nuova unità, Borromini oppone un discorso rigorosamente architettonico: egli punta alla scomposizione del linguaggio rinascimentale e al recupero dei singoli elementi, nitidamente enucleati con raffinata sensibilità formale, entro un diverso ordine di rapporti, il traguardo più significativo è, sotto questo profilo, la chiesa di Sant’Ivo annessa al Palazzo della Sapienza (fig. 39), cioè l’antico studio romano promosso poi ad università. La nomina ad architetto della Sapienza risaliva al 1632, ma la commissione della nuova cappella gli fu affidata solo dieci anni più tardi. Ragioni simboliche e celebrative devono avere suggerito la forma mistilinea e stellare della pianta, ispirata all’emblema barberiniano dell’ape e ottenuta fondendo due triangoli equilateri. Rispetto alla continuità curvilinea di San Carlino, l’interno di Sant’Ivo si caratterizza per il ritmo spezzato del perimetro ove angoli vivi e segmenti rettilinei interrompono il fluire concavo-convesso delle pareti. Sui muri perimetrali s’innesta direttamente l’alta cupola (fig. 40), il cui invaso sembra espandersi e contrarsi secondo il ritmo alterno delle sporgenze e delle rientranze in un’accelerazione dinamica verso l’alto che ha potuto far pensare allo slancio dell’architettura gotica. La luce che inonda la chiesa piovendo dalla lanterna e dalle alte finestre tagliate sopra la trabeazione, esalta la progressione dinamica delle strutture, impreziosite da un’astratta decorazione a motivi dorati sul fondo bianco (così lontani dalla plastica esuberanza berniniana!) con gli emblemi chigiani della stella e dei monti (l’opera trovò, infatti, compimento sotto il pontificato di papa Alessandro VII). L’elaborazione esterna della cupola passa attraverso una serie di imprevedibili sviluppi. L’imponente tamburo che domina il cortile del Palazzo della Sapienza, controbilanciandone col volume convesso lo sfondo concavo, maschera la complessità della struttura interna mentre la sovrastante copertura a gradini, l’altissima lanterna e il coronamento a spirale, forse ispirato al mitico modello elicoidale della Torre di Babilonia, equivalgono a spericolate improvvisazioni che solo lo straordinario talento borrominiano riesce a dominare e collegare organicamente, senza sacrificarne l’immediatezza (fig. 41). Allo stesso modo il tiburio e il campanile di Sant’Andrea delle Fratte (fig. 42), iniziati nel 1653, fissano il gioco delle associazioni inventive, ricco di risvolti simbolici ed evocativi, nella salda sequenza dei trapassi strutturali.
Da papa Innocenzo X Pamphili, suo principale protettore, l’architetto ottenne il prestigioso incarico del rinnovamento interno di San Giovanni in Laterano (1646-49, fig. 43). La volontà del pontefice di non abbattere le antiche strutture basilicali e di conservare anche il soffitto ligneo cinquecentesco impose a Borromini precise limitazioni, ma il risultato attesta l’estrema flessibilità del suo genio. Le colonne vennero ingabbiate, due a due, entro grandi pilastri e le antiche pareti racchiuse entro muri doppi aperti internamente da finestre ovali che, come reliquiari, avrebbero dovuto consentirne la visione. Se nella navata principale, trasformata in luminosa aula rettangolare, le edicole addossate ai pilastri e fortemente incurvate verso l’esterno rappresentano in certo modo una concessione al gusto del Bernini, assolutamente personale è il trattamento degli spazi nelle navate minori, variamente coperti da cupolette, volte a botte e volte ribassate. L’esigenza di salvare, nella ristrutturazione, le lapidi e i sepolcri medievali disseminati nella basilica, impegnò l’architetto nella creazione di una serie di monumenti commemorativi (fig. 44) che assembrano parti antiche e moderne: splendide variazioni su tema fisso, in equilibrio tra la pietas per il passato e la volontà di trarre nuove suggestioni da accostamenti imprevisti.
Le opere realizzate negli ultimi decenni sono caratterizzate da maggiore larghezza di accenti e da una forte tensione strutturale. La facciata del collegio di Propaganda Fide, eretto per i Gesuiti (1644-62), presenta un’articolazione serrata che culmina nella brusca inflessione della campata centrale, con finestre inquadrate da plastiche modanature e pilastri giganti. Lo stesso rigore torna nella chiesa dei Re Magi, all’interno del palazzo (fig. 45), ove la volta ribassata è percorsa da larghe costole a rilievo che s’incrociano diagonalmente inquadrando l’esagono centrale con l’emblema dello Spirito Santo. Il motivo era già stato affrontato nella biblioteca della Casa dei Filippini, ma appare ora trattato con maggiore decisione e coerenza. Nella chiesa di Sant’Agnese in piazza Navona, impostata già dal Rainaldi, ma affidata al Borromini da Innocenzo X (1652, fig. 46), l’architetto modifica la struttura preesistente a croce greca trasformandola in un ottagono sfondato da cappelle che si alternano a larghi pilastri. Su di esso egli imposta, raccordandola mediante un altissimo tamburo, la cupola che, esternamente, viene a sovrastare col suo volume slanciato l’ampia curvatura della facciata. Benché concava, quest’ultima appare esemplata sul modello maderniano di San Pietro ed è serrata tra due campanili simili a quelli che il Bernini avrebbe dovuto realizzare ai lati della basilica vaticana. L’allontanamento dell’architetto dai lavori (1657), per contrasti con gli eredi di papa Pamphili, provocò varie modifiche che non snaturarono tuttavia il progetto originario, impostato sul possente sviluppo verticale delle strutture riequilibrato dall’eespansione orizzontale della facciata e sul rapporto dialettico che oppone alla convessità del tamburo e della cupola la concavità del prospetto.
Nell’ultima opera, e cioè la fronte di San Carlino alle Quattro Fontane (fig. 47), aggiunta all’organismo costruito circa trent’anni prima, i grandi temi dell’architettura borrominiana si fondono in un’orchestrazione di consumata perizia (1665-67). L’ondulazione delle superfici acquista incredibile complessità anche per lo scomporsi dei muri in piani stratificati secondo un gioco d’incastri, rientri, partizioni e sporgenze che hanno il ritmo metodico e strutturato di una variazione musicale. Ma è nella decorazione plastica e soprattutto negli splendidi cherubini attorno alla nicchia con la statua di san Carlo che sembra affiorare il risvolto più personale e inquietante dell’arte borrominiana, già chiaramente prefigurato per esempio nel campanile di Sant’Andrea delle Fratte. Al programma berniniano che punta all’epifania sensibile del divino, egli sembra reagire con fastidio preferendo servirsi di allusioni evocative, più consone alla reticenza del suo temperamento, ma giungendo egualmente a schiudere, entro il linguaggio delle pure forme architettoniche, cauti spiragli sull’invisibile.

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