Basilica di S.Nicola di Bari

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Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

La Basilica di S. Nicola di Bari rivela la sua storia già dall'architettura esterna, che sembra ispirata più alla struttura di un castello che di una chiesa. Non va dimenticato, infatti, che nel periodo normanno fu usata più volte come fortezza difensiva. I quattro cortili che la circondano erano anticamente chiusi e riservati al clero della Basilica, che li metteva a disposizione dei commercianti in occasione delle fiere nicolaiane di maggio e di dicembre.
Oggi vi si accede dal Lungomare, e già appena superato l'arco si ha una visione del complesso medioevale.
Nonostante la varietà e la complessità della concezione architettonica, una certa unità compositiva è innegabile. Di conseguenza, a parte qualche elaborazione secondaria successiva, possiamo tranquillamente affermare che il grosso della decorazione (architettonica e scultorea, oltre a quella pittorica scomparsa) può essere datata al periodo 1090-1125.
La vasta facciata est (verso il mare) comprende e nasconde le tre absidi interne. La sua monotonia è interrotta dal bel finestrone absidale, probabilmente di epoca bizantina. Nella fascia superiore si aprono altri otto finestroni, mentre nella parte sottostante sono disegnati vari archi ciechi con una serie di quattro monofore. In basso, perpendicolarmente al finestrone, c'è il bellissimo bassorilievo angioino (XIV secolo) con scene della vita di S. Nicola scolpite in modo plastico e robusto.
Va detto comunque che la visibilità di gran parte della facciata posteriore (e precisamente la parte sinistra) è oggi possibile grazie ai restauri avviati dall'architetto Schettini nel 1946. Prima, infatti, tutta la zona sinistra (fino al finestrone degli elefanti) era coperta da edifici aggiunti fra Sei e Settecento, adibiti fra l'altro a sacrestia e sala del Tesoro.
Intorno al 1955 fu poi demolito il costolone laterale destro, costruito per rinforzare la parete in un punto delicato (che poi era lo stesso ove fino al 1613 c'era stato uno dei due campanili posteriori). La liberazione da questi edifici posticci permette oggi di ammirare alcuni squarci dell'antico palazzo del Catepano. A questo vanno infatti connesse alcune colonne immurate sotto il passaggio verso via Palazzo di Città (l'antica Ruga Francigena), nonché la cavità all'altezza della sacrestia.
Immettendosi nel largo Urbano II, che separa la Basilica dalla scuola S. Nicola (ex Trieste) si possono ammirare le molte iscrizioni con i nomi dei marinai che nel 1087 rapirono le reliquie di S. Nicola. I loro nomi si possono riscontrare anche nella pergamena dei 62 marinai conservata nell'archivio della Basilica. Sulla facciata posteriore vi sono soltanto due marinai (Stefanus Tarantinus e Maraldus), mentre su questa facciata nord si trovano Disigius, Bisantius Saragulla, Stefanus, Topatius, Leo de Mele Sapatici, Albertus Nauclerius e Nicolaus filius Mundi. Se il criterio fu lo stesso usato per la facciata ovest, quasi certamente sotto terra, perpendicolarmente ai suddetti nomi, dovrebbero stare le rispettive tombe.
Il Portale dei Leoni.
Con la Porta dei Leoni, in prossimità della Torre delle Milizie, siamo di fronte ad un complesso scultoreo particolarmente interessante. I motivi agricoli, come la mietitura e la vendemmia, si fondono con quelli liturgici. Dovrebbe risalire alla fine dell'XI secolo o ai primissimi anni del XII come sembra indicare l'incisiva scena di guerra contenuta nella fascia interna dell'arco superiore.
Vale la pena osservare che nel 1098, dopo la strepitosa vittoria contro Kerbogha, il normanno Boemondo mandò in dono alla Basilica la lussuosa tenda di questi, e che pochi giorni dopo (3 giugno) entrava da conquistatore in Antiochia. La conquista di una città o di un castello raffigurata nella Porta dei Leoni potrebbe ricordare proprio quell'avvenimento.
Tale interpretazione si armonizza con le conclusioni di A. Kingsley Porter (Bari, Modena and St-Gilles): D'altra parte, l'influenza di Bari su Modena fu ugualmente forte. Le nuove forme architettoniche introdotte a Modena, e che poi costituirono una rivoluzione nello stile lombardo sono derivate dalla Basilica pugliese. La perfezione stilistica della scena di guerra (a confronto con la ruvidezza del Portale della Pescheria di Modena) spinge lo stesso Porter a datare all'inizio del XII secolo il Portale di Bari. Lateralmente al Portale dei leoni vi sono due sarcofaghi, ma non si conosce chi fossero i beneficiari. E' probabile, tuttavia, che il sarcofago di destra fosse la sepoltura originale di Roberto da Bari (1275 circa), quando ancora non era permesso seppellire i cadaveri all'interno della chiesa. La sua sepoltura fu più tardi trasferita all'interno, sotto il pavimento della navata di sinistra.
L'esaforato.
Ma la facciata laterale nord è notevole anche per l'esaforato, che dà sul corridoio esterno, in corrispondenza dei matronei interni. Questo esaforato nord, come l'analogo della facciata sud (= cortile interno), potrebbe far parte di quella decorazione che l'iscrizione sotto il ciborio attribuisce all'abate Eustazio. Potrebbe essere stata una tarda realizzazione dell'atelier del Maestro della cattedra di Elia, come sembra indicare il capitello a capre e racemi dell'esaforato sud.
Animali e racemi ricorrono esternamente in tutta la lunga teoria di capitelli a stampelle, sia sulla facciata nord che su quella meridionale. Per imprimere poi una maggiore varietà ornamentale, la scuola del Maestro d'Elia, sia pure con diverse qualità e livelli artistici, realizzò tutta una serie di testoline di animali, di uomini e donne. L'apparente inespressività dei volti (le labbra sono sempre chiuse e piccole) dà un tono di solennità e di energia, quasi che le mura stesse sprigionino questa forza nascosta. Ci si aspetterebbe più espressività, sia in considerazione della cattedra di Elia che per il fatto che le teste si spingono all'infuori, quasi per dire qualcosa. E, invece, sono lì come se si fossero messe d'accordo nel lasciare allo spettatore il compito di comprendere la forza del monumento.
A collegare la facciata nord con la facciata ovest (facciata principale che dà sulla piazza) è la cosiddetta Torre delle Milizie, poggiante su un vano vuoto. La notevole diversità stilistica dalla corrispondente torre sud-ovest (campanile attuale) fa pensare che questa torre, come quella campanaria, sia anteriore alla chiesa stessa. Se entrambe fossero state concepite nel progetto architettonico della chiesa certamente sarebbero state realizzate uguali o almeno simmetriche.
Dall'interno della Basilica, attraverso una stretta scala, si accede al primo vano superiore della torre, ove sono provvisoriamente depositati alcuni bassorilievi e pezzi scultorei erratici. Ancora qualche gradino e si entra nel corridoio dell'esaforato nord, il cui piano di calpestio è più basso rispetto a quello del rispettivo matroneo interno.
Il nome delle Milizie deriva forse dall'interpretazione dell'architetto Schettini che, parlando della suddetta scaletta, diceva che appare molto e notevolmente consumata dal calpestio, come se avesse sopportato un insistente passaggio per lo meno di quelle rozze milizie che potevano essere preposte al presidio della torre stessa. Secondo questo architetto, la torre doveva essere parte di un edificio di un pubblico ufficiale greco, probabilmente imparentato con la famiglia Adralisto che intorno al 1000 aveva fatto costruire l'adiacente chiesa di S Gregorio.
Lungi dall'accettare la bizantinità della torre, la Belli d'Elia ne spinge la datazione alla seconda metà del XII secolo, alla stessa epoca cioè in cui colloca cronologicamente gli esaforati. Rilevando la diversità di maestranza, repertorio decorativo e tipo di lavorazione scultorea alle giunture degli archetti, la studiosa sottolinea le sculture di piccole dimensioni, molto varie come repertorio, tra le quali compaiono, accanto alle consuete protomi umane e bestiali, piccoli elefanti, scimmie. E fra i vari ornati, a conferma della datazione tardiva, motivi affini a quelli del portale della cattedrale di Trani.
Nella Corte del Catapano c'erano varie chiesette, dedicate a S. Demetrio, S. Eustazio, S. Sofia, S. Basilio, S. Stefano e S. Gregorio. L'unica a non essere abbattuta per costruire il tempio fu S. Gregorio, edificata sul finire del X secolo. Le tre absidi in vista richiamano la sua bizantinità, che trova comunque conferma nella coeva documentazione. Il primo riferimento è costituito dalla pergamena del marzo 1015 con cui Mele, clericus et abbas, custos et rector ecclesie Sancti Gregorii, donava un'eredità da lui ricevuta a tale Simeone, in cambio della sua protezione.
Verso la metà del secolo XI la chiesa divenne proprietà della potente famiglia Adralisto, tanto che nel 1089, parlando di S. Gregorio, l'arcivescovo Elia definiva la chiesa "de Kyri Adralisto". Nei decenni successivi manteneva questa denominazione, come nel 1136, quando si parla di tale Sifanti venerabilis sacerdotis ecclesie S. Gregorii que de Adralisto dicitur, e ancora nel 1210 quando viene impiegata la variante "de Agralisto".
Sui muri perimetrali vi sono undici iscrizioni funebri che indicano come la chiesa di S. Gregorio fosse amata dalla gente del luogo. Diversi di questi nomi rievocano, infatti, i cognomi baresi più caratteristici, come Melipezza e Meliciacca, oltre al nobile Bisanzio Patrizio e al popolare Giovanni Cacatorta.
La chiesa mantenne una sua autonomia fino al 22 novembre 1308 allorché, dietro suggerimento del re, l'arcivescovo Romualdo Grisone la donava alla Basilica. Nel frattempo il legame con gli Adralisto si era dileguato e la denominazione, a partire da qualche attività nelle vicinanze, era divenuta "de Mercatello".
La facciata principale aveva tre porte, delle quali le due laterali furono murate nel '600 per costruire altari all'interno. Al di sopra di esse vi sono tre ampie monofore con le mostre a grani di rosario, come il portale della vicina S. Marco e le finestre della cattedrale. Più in alto il finestrone circondato da piccole mensole con motivi floreali e piccoli animali.
L'interno è a tre navate. Due file di quattro colonne, interrotte da pilastri con semicolonne addossate, dividono la navata centrale dalle due laterali. I capitelli appartengono a varie epoche e sono di diversa dimensione. Il primo a destra, con la base piramidale, può essere fatto risalire al VII-VIII secolo dopo Cristo. Il secondo è il più rovinato. Il terzo, di tipo corinzio (con foglie eleganti), offre dei riscontri con S. Michele di Capua, e quindi vanta anch'esso una veneranda antichità. Due ordini sovrapposti di foglie d'acanto caratterizzano l'ultimo capitello. Dal lato sinistro, il primo capitello presenta anch'esso due ordini di foglie d'acanto. Sembra che avrebbe dovuto esserci un terzo ordine, ma fu sostituito da un tassello di marmo. Il secondo capitello contiene (ed è l'unico in tal senso) figure umane. Verso la navata centrale si vede un uomo con dei grappoli d'uva, mentre verso la facciata interna nord si vede il viso di un uomo dalla capigliatura liscia e con riga al centro. Il terzo presenta in modo sobrio delle foglie acuminate. Il quarto ed ultimo capitello ad un ordine inferiore di foglie d'acanto sovrappone delle palmette che richiamano l'arte egizia e trovano delle analogie con alcuni capitelli della cripta di Otranto e di S. Basilio a Troia.
Figure leonine separate da un volto umano caratterizzano, invece, i capitelli delle semicolonne. L'analogia col capitello del triforio di S. Nicola ha suggerito alla Belli d'Elia una presenza della bottega del Maestro della cattedra d'Elia.
All'interno della facciata ovest (la principale) s'è conservato l'affresco (purtroppo l'unico del genere) di S. Antonio. Mentre un'iscrizione della facciata interna sud ci informa che per qualche tempo la chiesa fu usata come luogo di sepoltura (nel documento del 1308 si parlava già di un cimitero) dai membri della Confraternita della Passione di nostro Signore: Confratrum et benefactorum huius edis regalis Ecelesiae annexae.
Tra il XVII e il XVIII secolo la chiesa assunse le forme barocche caratteristiche del tempo. L'abside centrale ospitò l'altare maggiore con cinque nicchie, in cui più tardi si usò conservare le statue dei misteri (altre due erano collocate al di sopra delle nicchie, ai piedi del crocifisso). Sotto un arco separante la navata centrale da quella sinistra era ubicata una nicchia per conservare la statua di S. Nicola (la stessa che oggi è in Basilica). A sinistra dell'entrata principale c'era l'altare di S. Antonio. Continuando nella navata sinistra c'erano gli altari di S. Biagio e S. Vito. Nella navata di destra c'era invece quello del Carmine.
Nel 1928 la chiesa fu liberata degli edifici addossati che la collegavano posteriormente alla Torre delle Milizie, mentre con ulteriori e più radicali restauri nel 1937 l'architetto Schettini la liberava dei suddetti altari, ridando alla chiesa la sua struttura originaria.
Un bell'Arco Angioino separa la chiesa di S. Gregorio dal Portico dei Pellegrini. L'Arco immette il visitatore proveniente dalla piazza di S. Nicola nelle viuzze della Città Vecchia. Coloro che fanno il cammino inverso entrando nella piazza di S. Nicola possono scorgere in alto una piccola ma bella statua del Santo, che ricordava a tutti che si entrava in un'area protetta dal Santo e che ivi si godeva di immunità giuridica rispetto all'autorità locale, sia civile che ecclesiastica. Ai lati dell'altorilievo vi sono due stemmi, di cui uno risalente a Raimondello Orsini (fine XIV secolo).
L'edificio a fronte della Basilica è chiamato "Portico dei Pellegrini", anche se impropriamente, essendo l'ospizio ben individuato nella sua ubicazione (edifici della parte posteriore della Basilica e la scuola S. Nicola nella parte più prossima alla muraglia).
Oggi il Portico viene usato per conferenze e mostre, ma fino al 1928 era un complesso di abitazioni private, che furono liberate con non poche difficoltà. Partendo da tracce di arcaicità di alcune finestre (qualcuno pensò addirittura all'epoca longobarda), si ricostruì un edificio concepito come parte integrante della corte catepanale, e quindi in posizione frontale rispetto alla facciata principale della Basilica.
Racchiusa fra le due possenti torri, la facciata della Basilica di S. Nicola raggiunge il suo verticalismo grazie alle lesene sporgenti che la dividono in tre zone corrispondenti alle navate interne. Un senso di armonia si respira guardando i tre portali, con i due laterali più piccoli rispetto a quello centrale; dimensioni che corrispondono alla diversa altezza delle aree della facciata (e quindi dei tetti). Più basse quelle corrispondenti alle navate laterali, più alta l'area della parte centrale che in cima assume una forma cuspidata. Su ciascuna delle due porte laterali c'è un vasto arco cieco dentro al quale vi sono altri due archi ciechi la cui giuntura terminale è asimmetrica rispetto al portale sottostante (specialmente quello dì destra).
Nella fascia centrale dell'intera costruzione, al di sopra dei suddetti archi vi sono tre finestroni, in passato usati come nicchie di alcune statue. Si tratta delle statue di S. Nicola, S. Antonio e dell'Immacolata Concezione realizzate nel 1658 dallo scultore Michelangelo Costantino e collocate sul trìforio dell'iconostasi che separa la navata centrale dal transetto. Forse perché ingombranti la visione del presbiterio, nell'aprile del 1742 furono rimosse e collocate nelle tre nicchie della facciata principale.
Ancora più sopra vi sono cinque bifore, di cui due laterali addossate alle lesene e tre centrali, al di sotto del rosone. A creare un pò di movimento sta la lunga teoria di archetti (sullo stile della Torre delle Milizie) che sorreggono il cornicione sia in corrispondenza delle navate che del tetto.
Ciò che sorprende è l'eccessiva semplicità del rosone, privo di decorazioni, nonché del portone di legno (recente e senza velleità artistiche). Tuttavia, queste carenze sono abbondantemente bìlanciate dall'elevatezza artistica dalla decorazione scultorea ed architettonica che circonda il portale principale.
Gli stipiti presentano una serie di arabeschi e figurazioni simboliche di gusto musulmano. Bizantineggianti sono, invece, i due angeli alati agli angoli della riquadratura. La decorazione, ripresa analogicamente nell'archivolto del protiro, è composta di foglie di lauro, grappoli d'uva e pigne, dentelli, ovuli e rosette sporgenti, armonizzando la tradizione classica alle esigenze del simbolismo liturgico. In basso, alla base degli stipiti, vi sono due riquadri con figure umane ritratte nello sforzo di reggere tutta la fascia decorativa. Purtroppo, pessimo è il loro stato di conservazione (le teste, che dovevano essere sporgenti, sono quasi interamente scomparse), ma, anche soltanto da ciò che resta, si evince la parentela compositiva con i telamoni della cattedra dell'abate Elia.
Al centro dell'archivolto è raffigurata la quadriga del sole, con l'imperatore che regge nella destra il disco del sole e nella sinistra la palma della vittoria. Tale simbolismo imperiale ben si adatta all'atmosfera di entusiasmo creata dalla conquista normanna in chiave antigreca e soprattutto antimusulmana. E' lo stesso entusiasmo per il quale i papi Urbano II e Pasquale II, pur tanto impegnati nella lotta per le investiture, ebbero un occhio di riguardo per i principi normanni considerati gli strumenti della giustizia divina. In questo contesto ben si alternano le figure mostruose, simboli del peccato degli infedeli, ai cavalieri che le combattono restaurando il regno di Cristo.
La sfinge, fortemente aggettante sulla cuspide del protiro, sta ad indicare appunto l'imperscrutabilità del disegno divino; un disegno che, se in altre epoche è stato difficile da accogliere a causa della vittoria musulmana in Sicilia, ora è di sollievo grazie alla riconquista normanna. Il volto umano corrisponde stilisticamente a diversi capitelli degli esaforati, onde si può parlare di una notevole unità compositiva. La bottega del Maestro di Elia dovette lavorarvi nel primo ventennio del XII secolo. Unità compositiva si nota anche nelle forme di leoni e leonesse che, seppure a livelli artistici inferiori, richiamano chiaramente le leonesse della cattedra di Elia.
L'archivolto poggia su due capitelli sorretti da colonne ottagonali, rette a loro volta da due possenti buoi (ad altezza d'uomo) che sembrano uscire dal muro. Poggianti su grosse mensole, i buoi rivolgono il loro sguardo paziente e sereno verso il portone. Nonostante che il loro simbolismo sia alquanto insolito nel mondo ecclesiale, i buoi si ritrovano ancora a tirare un carro nella parte centrale dell'arco superiore. La loro presenza è tanto più strana se si pensa che i leoni si trovano scolpiti un po' ovunque nella Basilica, sui capitelli come sulla cattedra di Elia. Si potrebbe pensare che facessero parte di un edificio del palazzo del catepano, e che fossero successivamente reimpiegati per il portale della Basilica.
Sulla sinistra e sulla destra del portale si vedono due iscrizioni. La prima (orizzontale) commemora la già menzionata consacrazione della Basilica superiore il 22 giugno del 1197. La seconda (già riportata in traduzione) si riferisce ai diritti della Basilica sulle cause criminali nei suoi territori feudali di Rutigliano e Sannicandro.
Oltre a queste due, sulla facciata principale vi sono altre iscrizioni relative ai marinai della traslazione, tre a sinistra del portale (Leone Pilillo, Summissimo e Giannoccaro Nauclerio) e una a destra (Stefano). Ricorrono anche due magistri, uno sulla parte bassa dello stipite di sinistra del portale centrale ( ... istri An. de Fumarello), l'altro ad altezza d'uomo subito a destra del portale di destra (Magistri Nicolaiviti clerici). Quest'ultimo era un canonico attivo nel 1259, ma non si conosce che cosa abbia fatto per S. Nicola, al punto da godere una collocazione così importante. La particolare ubicazione del primo farebbe supporre che abbia lavorato alle sculture del portale centrale. E lo stesso vale per quell'Ansaldus d... | Filius Merli d | ta de Lu(w)ar|, del quale nulla si sa, anche perché la scritta è monca. Alcuni vi hanno voluto scorgere i nomi dei maestri comacini che, a loro avviso, avrebbero lavorato in S. Nicola. Ma i maestri comacini a S. Nicola sono, almeno per ora, una pura supposizione e l'identificazione dell'Ansaldo e del Fumarello assolutamente senza supporto documentario.
Massicciamente addossata alla facciata è la torre di destra, che svolge la funzione di campanile. Questa torre campanaria ha come fondamenta un robusto bugnato con blocchi dalle dimensioni insolite, intervallati da grossi conci lavorati. Secondo lo Schettini, che le attribuisce una primitiva funzione difensiva obsidionale, potrebbe risalire addirittura al IX secolo, in quanto la decorazione scultorea della grande monofora presenterebbe elementi di sicura arcaicità. La Belli D'Elia, invece, capovolge il rapporto delle due torri, dando priorità alla Torre delle Milizie (nord) e comunque riportando il tutto oltre la metà del XII secolo.
Tre iscrizioni si riferiscono a personaggi vissuti fra il XII e il XIII secolo.
Volendo avere un'idea adeguata del resto della torre campanaria è necessario introdursi nel cortile interno, attraverso il cancello di ferro che immette alla portineria del convento. Anche qui la torre mantiene il suo aspetto massiccio e squadrato. In alto c'è il vano delle campane (una è della seconda metà del Cinquecento), e in prossimità si scorge un piccolo fascio a ricordo dei restauri di epoca fascista. Più in basso sono incise le epigrafi di personaggi del X11-X1V secolo.
Suggestiva è la raffigurazione del mostro e della figura umana che decorano il finestrone.
La facciata sud mantiene le caratteristiche della nord, sia per gli arconi esterni che per l'esaforato. Senza un ordine specifico si vedono teste umane e leonine aggettanti, la cui fattura richiama l'unità di concezione scultorea già menzionata (non sempre è la stessa mano a lavorarci).
Anche su questa facciata c'è una specie di portale-sud dei leoni (in corrispondenza dell'altro). E' chiaramente della stessa epoca, ma per qualche motivo ha subìto più del primo i danni del tempo. I leoni stilofori di questo portale sud sono talmente consumati da rendere persino ardua la loro identificazione come leoni. L'elevatezza artistica dello scultore è però fuori di ogni dubbio. Basta guardare le poche tracce della sua opera sui due blocchi d'imposta al di sopra dei capitelli. Se, infatti, la parte frontale è divenuta irriconoscibile, le parti laterali sono davvero notevoli. Arcaicità ed armonia si riscontrano nella colonna di sinistra per la scena degli uccelli che beccano la pianta dal lungo gambo che fuoriesce da un calice. Il blocco d'imposta di destra, che presenta in un lato motivi floreali riscontrabili sui capitelli delle navate, doveva avere un bellissimo animale aggettante (forse un volatile). Se si fosse meglio conservato avrebbe potuto reggere il confronto col Portale dei Leoni. Sulla parete interna sinistra c'è l'epigrafe di Guglielmo (=W) de Comitissa, protontino (comandante del porto), di difficile identificazione, essendo noti nel XIII secolo due protontini di questo nome, uno al tempo di Federico II (1229) e l'altro di Carlo d'Angiò (1281).
Al di sopra di questa epigrafe c'è un affresco dell'Immacolata Concezione del XVII secolo. A fronte, invece, c'è l'affresco della Crocifissione, recentemente restaurato.
Diverso è l'altro portale (sud-est) ove fu sepolto il corpo di Sparano da Bari, il gran cancelliere di Carlo I e Carlo II d'Angiò (+ 1294), che dà il nome ad una delle vie più note di Bari. Sul sarcofago ricorre due volte lo stemma della famiglia Sparano (scudo con una fascia trasversale contenente tre gigli angioini, e in ciascuna delle due zone rimanenti un leone rampante). Ivi furono poi sepolti anche la moglie Flandina della Marra e il figlio Giovanni d'Altamura.
Di fronte al sarcofago degli Sparano c'è il sepolcro a baldacchino, che richiama quelli analoghi dei Falcone a Bisceglie. Dovrebbe essere stato costruito per Giovanna, contessa di Minervino, parente dello stesso Sparano. Un'altra componente della famiglia, Caterina d'Altamura, moglie di Simone di Sangro, poco dopo faceva erigere la cappella di S. Caterina sotto l'arcone attiguo.
Tracce di affresco ci portano ad un'epoca non molto antica, la stessa degli affreschi alla cappella dei Dottula, dedicata all'Annunziata, che si trova in fondo al cortile, immediatamente dietro il transetto (dalla parte esterna). A parte gli affreschi molto danneggiati, ben visibile è in quest'ultima cappella l'arma dei Dottula (campo diviso perpendicolarmente, attraversato da una fascia con tre idre).
Solitamente si entra in Basilica attraverso la porta di destra, ritrovandosi così nella navata destra. Per avere, però, una visione d'assieme conviene spostarsi verso il centro, in fondo alla navata centrale. Da qui si ha una visione delle gallerie superiori, dette matronei, che convogliano lo sguardo verso il triforio (detto anche iconostasi) oltre il quale troneggia il bellissimo ciborio.
La Basilica è a tre navate divise da dodici colonne di granito bigio di m. 0,79 di diametro. La lunghezza di ciascuna navata è di m. 58, la larghezza è diversa: la navata centrale è di m. 26, mentre le laterali sono di m. 9. Sull'abaco scorniciato, al di sopra dei capitelli, poggiano gli archi a sesto tondo che collegano una colonna all'altra. Sono proprio questi archi a reggere i matronei, vale a dire i corridoi anticamente riservati alle donne nobili (matrone) per meglio seguire le cerimonie liturgiche, ma che in epoca romanica avevano una funzione puramente ornamentale e funzionale alla statica.
La struttura, già possente di per sé, appare ancor più massiccia grazie ai tre arconi costruiti nel Quattrocento proprio allo scopo dì rinforzarla, essendo stata messa in pericolo dal forte terremoto del 1456. Visitando la Basilica è opportuno ricordare che la chiesa di oggi è molto diversa da quella che si vedeva fino al 1930, allorché furono demolite le cappelle laterali barocche e chiuse le pareti che le contenevano (ricreando così l'apertura sotto le arcate esterne). Sono scomparsi quindi lo sfarzo e i colori barocchi, e sono stati ricuperati la maestosità e la sobrietà del romanico.
La navata centrale permette uno sguardo d'assieme alla grandiosa basilica. In alto c'è il soffitto a capriate nascosto dalle tele realizzate da Carlo Rosa di Bitonto. L'insieme è però come frenato, se non spezzato, dagli arconi che congiungono le prime tre coppie di colonne.
Il primo e il terzo arcone furono costruiti fra il 1458 e il 1463 dal principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini (del quale recano lo stemma). Quello centrale fu costruito da Ludovico il Moro nel 1494. Ben visibile è il biscione degli Sforza di Milano, i quali, avendo aiutato re Ferrante a sconfiggere il principe di Taranto, ottennero il ducato di Bari (1464-1557).
I capitelli, sia dei matronei che della navata, sono quasi tutti dell'XI secolo (materiale di reimpiego dalla residenza catepanale) o dei primi anni del XII secolo, forse della stessa bottega del Maestro d'Elia, come indica il capitello del triforio con la testa leonina. La derivazione bizantina si evince dalle tipiche forme floreali e particolarmente dalla delicatezza delle foglie spinose di acanto.
Si può parlare allora di capitelli pseudo-corinzi, in quanto se mantengono la semplicità dei capitelli corinzi, inseriscono alcuni elementi provenienti dall'architettura cristiana mediorientale, specialmente siriana, come ad esempio dei gambi più o meno lunghi, oppure dei calici da cui fuoriescono delle foglie. Da notare che i capitelli più prossimi al triforio e quelli del triforio stesso hanno una maggiore nitidezza e slancio. Le foglie sembrano sprizzare da altre sottostanti dando l'impressione di fuochi d'artificio in pietra. E come se, avvicinandosi al cuore del luogo sacro, l'entusiasmo e l'intensità crescessero di tono.
Alla colonna destra successiva agli arconi è addossato il bel pulpito in legno, parte di quel programma decorativo avviato dal priore Giovanni Montero nel 1655. In realtà sembra che già nel 1652 venisse smontato il pulpito trecentesco e sostituito con uno di legno decorato, e che successivamente il Montero lo arricchisse delle pitture. Vi lavorò l'artista barese Alfonso Ferrante dal settembre 1658 alla fine dell'anno successivo. Partendo dal lato rivolto al presbiterio vi sono raffigurati S Vito (sembra), S. Domenico, S. Nicola, l'Immacolata Concezione, S. Antonio, S. Cristoforo e S. Leonardo. Da notare il S. Cristoforo, anche per il senso del movimento.
Appena si entra in Basilica si sfiora la "cappella" di San Girolamo e il sarcofago di Giacomo Bongiovanni (+ 1510), rettore delle scuole di S. Nicola e maestro di Bona Sforza nel castello di Bari. L'epigrafe dice:
Il signor Giacoino Bongiovanni, canonico di questa Chiesa insigne, prefetto della scuola di S. Girolamo, affinché le sue ossa e il ricordo di lui fossero custoditi sino al giorno del giudizio, essendo ancora tra i vivi nell'anno del Signore 1510, ordinò di costruire questo sarcofago.
Il dipinto di S. Girolamo, patrono delle scuole cattoliche e degli studi biblici, è stato a lungo attribuito al pittore veneziano Bellini, che l'avrebbe dipinto verso il 1495 di ritorno da Costantinopoli, dopo un viaggio su una nave comandata dal fratello di un canonico. Recentemente però è stato attribuito alla scuola di Costantino da Monopoli.
Sulla parete esterna della Torre campanaria, adibita a Sala del Tesoro dopo essere stata dal 1188 cimitero dei canonici e poi cappella dei Santi Pietro e Paolo, è stata apposta una lapide nel 1981 per ricordare la venuta dei Domenicani nel 1951.
Dinanzi all'arcata successiva, corrispondente alla Cappella della Madonna di Costantinopoli, vi è attualmente la statua di S. Nicola. Sul pavimento, invece, si legge ancora la lastra tombale di Bartolomeo Carducci, canonico della Basilica:
A Dio ottimo massimo. A Bartolomeo Carducci, patrizio barese, abate e personale commendatario dei santi Quirico e Giulitta, nonché di S. Maria del Niceto di Lecce, uomo integerrimo ed ascoltato consigliere dei sommi principi nelle loro scelte, morto il 20 ottobre 1571, avendo superato di tre i 70 anni, Francesco Carducci, vescovo di Lacedonia, suo erede e successore, ha voluto dedicare questa epigrafe, come a zio paterno dai grandi meriti.
Alzando gli occhi per ammirare i capitelli, si può ripetere il discorso fatto a proposito della navata centrale. Va tuttavia rilevato che, proprio sul capitello della prima colonna di sinistra è raffigurato un S. Nicola, caso unico fra i capitelli. Nella successiva arcata del portale-sud dei leoni c'è una bella e antica acquasantiera con sopra l'epigrafe della nobile milanese Beatrice Garbinati:
A Beatrice Garbinati, originaria di Milano, nata da illustri genitori, figlia di Giovanni Francesco e Ippolita Lamberti, nobile barese, nipote di Giovanni Antonio e Ippolita Carducci nobile barese, pronipote di Giovanni Battista e di Giulia Protonobilissimo, della nobiltà tarantina e napoletana, donna integerrima, che, nel fiore dell'età, lasciando una florida prole, accompagnata dalle virtù se ne è volata al cielo.
Donato Ponzi del fu Benedetto, luogotenente dell'esercito, e l'abate Carlo Ponzi, dottore in diritto civile ed ecclesiastico, protonotaio apostolico, cantore e vicario generale di questa regale Basilica, hanno posto non senza lacrime questa lapide a ricordo della moglie amatissima e della nipote dilettissima, nell'anno del Signore 1672.
Appena superato il portale, oltre l'altra bella acquasantiera, c'è l'arcata della cappella di S. Matteo (poi S. Anna). In epoca fascista vi fu apposta una lapide per i morti in guerra. Recentemente in basso è stata collocata la lastra tombale di Basilio Mersiniota, nobile greco morto a Bari nell'ottobre del 1075.
All'altezza della semicolonna che chiude questa arcata c'è un frammento di lastra tombale con dei gigli angioini sormontati da merli e da una corona, probabile sepoltura di qualche membro della famiglia regia. Nulla di particolare è rimasto nella parete successiva che ospitava la cappella di S. Caterina d'Alessandria (poi S. Lorenzo). Di fronte (al di là della scalinata che porta in cripta) c'è, ai piedi della colonna, un'altra lastra tombale molto consumata. Si tratta di un generale polacco (o russo, ma sotto il governo polacco) che, dopo aver combattuto tante battaglie contro tartari e cosacchi, venuto in pellegrinaggio a Bari, vi aveva chiuso gli occhi nel Signore (pare nel 1651).
Il discorso fatto sui capitelli della navata centrale e di destra vale ovviamente anche per la navata di sinistra. Partendo dall'ingresso principale, nell'immettersi nella navata di sinistra, appena superata la semicolonna si costeggia prima il sarcofago della famiglia della Marra che aveva il beneficio della cappella di S. Filippo Arginione. L'immagine, di sapore tizianesco, dovrebbe raffigurare questo santo siciliano del IX secolo, che ebbe in comune con S. Nicola un intervento a favore di tre fanciulle. A meno che il quadro di S. Filippo non sia andato distrutto e sia stato sostituito con un S. Nicola. Purtroppo l'iscrizione del 1554 è talmente danneggiata da non permettere più precisi riferimenti.
Oltre il portale vi sono alcune scale di accesso alla Torre delle Milizie, presso la cui porticina (ad altezza d'uomo) c'è la già menzionata lapide di Basilio Mesardonita, restauratore nel 1011/ 1013 della Corte del Catapano.
Segue un bassorilievo in bronzo di Annamaria di Terlizzi, realizzato in occasione del IX Centenario della Traslazione. In uno stile neomedioevale viene ricordata l'opera dell'abate Elia.
L'arcata successiva, che ora ospita il confessionale, era la cappella del Crocifisso (dedicata anche a S. Giorgio o al Rosario). Quindi si entra nel vano dei Portale dei Leoni, ove c'era e c'è ancora la sepoltura di Roberto da Bari, gran cancelliere di Carlo I d'Angiò, tristemente famoso per aver letto la sentenza di morte di Corradino di Svevia, decapitato a Napoli nel 1268. L'iscrizione sul pavimento fu fatta apporre, come la corrispondente di Sparano, dalla famiglia Chiurlia nel 1742. Essendoci però pervenuta, recentemente è stata ricollocata (sopra l'acquasantiera) l'epigrafe originaria che si potrebbe così rendere in italiano:
Al termine della sua vita, qui riposa Roberto Chiurlia che si è comportato con onore sino all'ultimo giorno. Egli, che tutto fece coi suoi soli meriti, fu consigliere regio, e mentre visse ne ebbero vantaggi sia gli uomini che le donne della sua famiglia. Ora, dopo la morte, i suoi fati felici riversino i favori su coloro che ne hanno ereditato i feudi.
Subito dopo la porta, nel 1949 fu collocata una lapide a ricordo del pellegrinaggio (in realtà venne due volte) di S. Brigida di Svezia:
In questo tempio nel 1366 S. Brigida di Svezia in cammino per Terra Santa ha goduto celesti rivelazioni ed ha esaltato la dignità del sacerdozio.
L'arcata successiva, che ora ospita un confessionale e il sovrastante dipinto della Madonna con tutti i Santi, sin dal 1344 era la cappella della Trinità (poi S. Marco e infine S. Gennaro). Sullo stipite prima della semicolonna, appena visibile, c'è l'antica iscrizione:
Anno del Signore 1344. Viene portata a termine questa cappella che con devozione mons. Giovanni Bonicordis ha voluto che fosse edificata a proprie spese in onore della Trinità. Egli, che era canonico di questo sacro tempio e custode dell'altare della tomba, l'ha anche dotata di notevoli rendite, di modo che quotidianamente fossero celebrate messe per la sua anima, nonché per le anime del padre, della madre, dei parenti, e di chiunque fosse sepolto in essa.
Come la corrispondente arcata di destra, anche l'ultima arcata di sinistra (già cappella di S. Maria Maddalena dal 1340) è priva di elementi particolari. Tuttavia, doveva essere imponente, almeno a giudicare dalla maestosa scultura funebre del priore Pietro de Moreriis (+ 1346) conservata provvisoriamente nei matronei. All'altezza della successiva porta nord, sul pavimento si trova la lastra tombale di un personaggio di origini regali. Sullo stemma, infatti, in cui compare un giglio angioino, si vede una corona.
Due gradini segnano il passaggio dalla navata destra al transetto di destra, da dove si può avere una buona visione di gran parte del presbiterio e dell'abside centrale.
La parete destra, ora spoglia, conteneva sotto gli archetti del ballatoio degli ovali di sante regine. In basso invece fanno bella mostra l'artistico altare d'argento del 1684 e il grande quadro dì "S. Nicola Nero", particolarmente venerato dai pellegrini. L'altare d'argento ha una sua preistoria: fu donato, infatti insieme ad una grandiosa copertura, dallo zar dì Serbia Stefano Uros II Milutin nel 1319 ed ha ricoperto la tomba di S. Nicola per vari secoli. Nel Seicento però, quando molte opere d'arte furono sostituite da altre in stile barocco, anche l'altare d'argento subì la stessa sorte.
L'iniziativa fu presa dal regio commissario Stefano Garnillo de Salzedo nel 1682. Insieme a candelieri e altri oggetti liturgici, l'altare fu fuso e completamente rifatto dagli artisti napoletani Domenico Marinelli e Ennio Avitabile. Così il capolavoro slavo bizantino scomparve e nacque un capolavoro barocco. Al centro c'è la porticina con due angeli che sorreggono bottiglie della manna, in quanto l'apertura aveva proprio la funzione di permettere il prelievo della manna (il liquido che si forma attorno alle ossa del Santo).
Tutt'intorno (procedendo verso destra) vi sono scene della vita di S. Nicola. Di fronte la Nascita, lateralmente Adeodato (il ragazzo rapito dai saraceni e da S. Nicola riportato ai genitori). Sei sono i riquadri nella parte posteriore. In alto: la Resurrezione del debitore cristiano spergiuro, la Visita in carcere di Gesù e Maria, l'abbattimento dell'Albero di Diana. In basso: il Passaggio da Bari del Santo, la Reposizione delle reliquie, l'Arrivo a Bari delle reliquie. Lateralmente, a sinistra, c'è la Leggenda dei tre bambini uccisi dall'oste e, nuovamente di fronte, la Morte del Santo. Nell'abside destra, sono stati collocati alcuni pezzi scultorei di notevole interesse. Al periodo bizantino sembrano appartenere sia l'angelo docente, che i due capitelli a stampella, di cui uno con le scimmie. In basso è stata collocata la lastra superiore del sarcofago di un personaggio ragguardevole del XIII-XIV secolo (Roberto da Bari ?), del quale è difficile determinare l'identità.
Di gran pregio sono gli affreschi del catino absidale dipinti nel 1304 da Giovanni di Taranto. Sia la data che l'autore si conoscono grazie ad una lettera al re di Napoli, in cui l'autore racconta di essere stato aggredito dai ladri sulla via per Taranto e chiede di essere almeno parzialmente risarcito. L'affresco presenta lateralmente la figura di S. Martino, vescovo di Tours, santo nazionale dei francesi, cui è dedicata la cappella. Alla sua sinistra c'è un altro santo (forse S. Ludovico, appartenente alla famiglia del re Carlo II). Nella zona centrale è raffigurata la Crocifissione. Fino al 1930 tutta la parete sovrastante conteneva l'organo settecentesco, poi demolito nel corso dei restauri. Sull'altare di questa cappella c'è oggi il trittico (1451) di Rico da Candia, pittore molto attivo nel XV secolo in varie città italiane. La Madonna della Passione qui rappresentata la si ritrova infatti a Bergamo, Firenze, Parma, ecc., inserita però in un contesto devozionale rispondente alla località in questione. Qui a Bari si trova fra S. Nicola a destra e S. Giovanni il Teologo (= Evangelista) a sinistra. Gesù volge lo sguardo all'angelo di destra che gli preannuncia la crocifissione, mentre l'angelo di sinistra porge gli strumenti della passione.
L'abside di sinistra, priva di affreschi, è stata dotata recentemente di antichi pezzi scultorei ed architettonici. Si può vedere un leone stiloforo di incerta provenienza, forse dal più volte menzionato palazzo del catepano. E stato anche ricollocato il paliotto che fino a tutto il XVI secolo ornava l'altare principale (e che fu sostituito, forse perché in cattivo stato, dalla copia oggi esposta).
Sull'altare (già dedicato a S. Sebastiano) c'è la bella pala di Bartolomeo Vivarini, pittore veneziano attivo in Puglia nella seconda metà del XV secolo. La Madonna in trono col Bambino è raffigurata fra i santi Giacomo e Ludovico da una parte, Nicola e Pietro dall'altra. Originariamente collocata nella cappella di S. Martino (ove ora è il trittico di Rico da Candia), l'opera fu commissionata dal canonico veneziano Alvise Cancho nel 1476. Secondo la Belli D'Elia si tratta di una delle più elevate opere pugliesi del pittore muranese, vera e propria Sacra Conversazione.
Per molti secoli nell'area del transetto di sinistra c'era l'altare di S. Ludovico, affiancato dalla tribuna reale, eretta da Carlo II d'Angiò e demolita nel 1741. Sulla parete retrostante sotto il ballatoio v'erano gli ovali di santi re, mentre in basso c'era l'altare del Cuore di Gesù (detto anche del SS. Sacramento). Una volta demolito questo e liberata la vasta parete, l'ampio spazio ospitata il grande organo della Basilica.
DSe volgiamo lo sguardo verso il presbiterio abbiamo di fronte l'arca artisticamente più ricca dell'intera Basilica. A cominciare da ciborio (1110-1120), vale a dire il baldacchino in pietra dai meravigliosi capitelli romanici.
Il ciborio e i suoi capitelli.
A quanto detto in precedenza va aggiunto il forte senso di arcaicità che vi si respira. In uno dei due capitelli posteriori fuoriesce dalle tradizionali foglie bizantine una testa di ariete, mentre negli angoli appaiono teste di uccelli dai becchi ricurvi. Presenta una marcata analogia con un capitello di S. Apollinare in Classe (Ravenna), il che lo spingerebbe verso una notevole antichità (V-VII secolo), a meno che l'artista barese non abbia voluto nell'XI secolo seguire quel modello.
All'elemento animale predominante nei due capitelli retrostanti, che lascia un senso di timore per il mistero nascosto sotto quei simboli, fa riscontro l'elemento angelico dei due capitelli anteriori. Tutti gli angoli sono occupati da angeli con le ali ben visibili e con oggetti liturgici nelle mani. Se un messaggio ci vuol essere è quello della serenità che nasce dal mettersi sotto le ali angeliche, e attraverso il mistero liturgico cristiano vincere le paure del mistero che potrebbe nascondere il male.
Il tutto poggia sul mosaico bizantino-musulmano (1090-1110) con al centro il capolavoro della cattedra dell'abate Elia (1098). Nel catino absidale, infine, in netta dissonanza stilistica, ma doveroso omaggio alla grande regina, c'è il mausoleo di Bona Sforza (1593). Il tutto all'ombra del grandioso soffitto di Carlo Rosa (1661).
La Cattedra dell'abate Elia (1098).
Il vertice dell'arte si raggiunge in S. Nicola con il trono episcopale dietro al ciborio, noto come cattedra dell'abate Elia. Sviluppando l'antico motivo bizantino rilevabile nelle cattedre di Massimiano a Ravenna, di Romualdus a Canosa e di Montesantangelo, il maestro della cattedra di Elia rileva una superiore maturità artistica ed un forte senso plastico. All'elemento decorativo della cattedra di Montesantangelo e alla struttura architettonica di quella di Canosa fa qui riscontro una corporeità energica ed espressiva, non più schiacciata e piatta ma densa e corposa.
Il documento classico che la concerne è un brano della cronaca dell'Anonimo Barese (1120 c.): Anno 1098. Al mattino del tre ottobre venne il papa Urbano Il con molti arcivescovi, vescovi, abati e conti. Entrarono in Bari e furono accolti con grande riverenza. Mons. Elia, nostro arcivescovo, preparò una cattedra meravigliosa (mirificam sedem) nella chiesa del beatissimo Nicola, confessore di Cristo. E il papa tenne qui un sinodo per una settimana.
Come al solito l'Anonimo, che presenta un elevato grado di affidabilità storica, usa un latino che fa i primi passi verso l'italiano e adotta il calendario bizantino che faceva cominciare l'anno al 1° settembre (e quindi ha 1099). La parte superiore, retta da cinque pilastrini riflette ancora chiaramente la civiltà bizantina da poco tramontata. In una serie di losanghe nella fascia centrale sono scolpiti un grifo alato, un leone, un pellicano, un vitello ed un'aquila araldica.. A questo ricordo del passato espresso nella parte superiore fa riscontro una ricerca del nuovo nella parte inferiore. Le tre cariatidi anteriori e le due leonesse posteriori esprimono l'energia e l'entusiasmo della nuova era, quella normanna. Le due figure laterali sembrano schiavi saraceni che finalmente si piegano alla riconquista cristiana. I loro volti sono ispirati ad un verismo spontaneo e i loro corpi alla densità dei volumi. Ciò nonostante, l'artista ha voluto rendere lo sforzo che essi stanno facendo, puntellando le ginocchia a terra, piegando le spalle, schiacciando a terra i piedi. Alla loro tensione fa da contrasto la serenità fiduciosa della figura centrale, forse un pellegrino che ora vede spianata la sua strada verso Gerusalemme.
La maturità stilistica e l'eccezionale verismo, specie se raffrontato al coevo Wiligelmo da Modena, ha spinto alcuni storici dell'arte a datare questo capolavoro a qualche decennio più tardi. Mentre lo Schultz, il Wackernagel e il Porter mantengono la datazione tradizionale (1098), altri storici, come il Toesca, il De Francovich e la Belli D'Elia collocano la cattedra di Elia nel XII secolo, successivamente cioè alle prime esperienze lombarde. A loro avviso, la mirificam sedem dell'Anonimo Barese non era altro che un trono in legno con meravigliose ornamentazioni. Una teoria che però non tiene conto della sobrietà dell'Anonimo, che difficilmente avrebbe menzionato una cattedra di legno in un testo estremamente conciso.
Sulle due fasce laterali e le due retrostanti corre questa iscrizione:
Inclitus atque bonus sedet hac in sede patronus presul barinus Helias et canusinus (Su questo trono siede l'inclito e buon patrono Elia, vescovo di Bari e di Canosa). Iscrizione che indicava, fra l'altro, come Elia avesse invertito il rapporto fra Canosa e Bari, con la menzione di Bari prima dell'antica sede di Canosa, della quale raccoglieva quindi l'eredità primaziale. Con ogni probabilità si tratta di un'iscrizione commemorativa apposta dall'abate Eustazio nel 1105, all'epoca cioè dell'epigrafe del sarcofago d'Elia.
Suggestive sono le descrizioni della Belli D'Ella, che è tornata più volte sull'argomento. Coerente con la cronologia posticipata alla seconda metà del XII secolo, questa studiosa considera la cattedra realizzata non per Elia, ma in memoria, in onore del grande fondatore e costruttore della Basilica, per affermare nel tempo la sua ideale presenza nel tempio. Giustamente essa vede nella cattedra il significato di un documento ideale dei diritti vescovili accampati dalla Basilica in nome di Elia: Questo il messaggio .fondamentale affidato al prezioso oggetto, cui l'apparato figurale e decorativo doveva fare da cassa di risonanza. In realtà, attraverso le forme fortemente plastiche ed espressive degli schiavi schiacciati dal trono che sembrano reggere, divincolandosi sotto il suo peso, e delle leonesse che, sovrastate dal sedile, azzannano, a tergo, due vittime urlanti, noi tentiamo di entrare in contatto, al di là dei secoli, con lo sconosciuto autore, che probabilmente si è ritratto nella piccola figura che sembra sostenere il sedile, rivolgendo idealmente lo sguardo in atteggiamento supplice verso il personaggio su di esso insediato. Interpretazione che ci trova pienamente d'accordo, eccetto che per la cronologia per la quale, come dice Cesare Brandì, è preferibile attenersi a quella tradizionale del 1098.
Il capolavoro barese rivela una grande singolarità rispetto all'arte aquitanica e a Wiligelmo. Mentre quest'ultimo, infatti, tende a dare compattezza alla scultura e ad iscriverla su di un fondo, il Maestro di Elia predilige la densità dei volumi e la libertà dei movimenti, in un'atmosfera di spontaneo verismo espressivo. In considerazione di questa originalità e pugliesità dell'opera, spostarne la datazione, anche di un secolo, non aiuta a risolvere il problema dei rapporti con le altre esperienze artistiche.
Il Mausoleo di Bona Sforza (1593).
L'alterazione più notevole avvenuta nella Basilica nel XVI secolo fu l'inserimento nell'abside centrale del mausoleo di Bona Sforza (1494-1557). Educata nel castello di Bari, Bona divenne nel 1517 regina di Polonia, moglie del vecchio re Sigismondo I. Gli storici polacchi vicini alla nobiltà (che Bona sempre combatté) diffusero la cosiddetta Leggenda Nera, secondo la quale Bona era una donna avida e senza scrupoli. In realtà, Bonal fu una donna che sembrava nata per regnare, facendo vivere alla Polonia l'epoca d'oro che precedette l'era del figlio Sigismondo II Augusto. Le più importanti scelte politiche fu lei a prenderle, ed erano tutte dirette al rafforzamento dell'unità del regno.
Impresse alla vita sociale polacca delle svolte fondamentali nel campo del diritto, della libertà religiosa e delle riforme agrarie, specialmente nei suoi feudi della Russia occidentale. Sospettata di aver fatto avvelenare le nuore, fu poi dal figlio estromessa dal potere (1548). Tornò a Bari nel 1556, andando ad abitare nel castello, ove morì nel 1557.
Fu sepolta in Cattedrale, ma più tardi nel 1589 la regina Anna, sua figlia riuscì ad ottenere dal pontefice il trasferimento in S. Nicola. Quindi incaricò i suoi internunzi a Napoli di realizzare il mausoleo. Il progetto generale fu ideato dal polacco Tommaso Treter (attivo a Roma), mentre le sculture furono realizzate da Andrea Sarti di Carrara, Francesco Zagarella e Francesco Bernucci.
Anche se non di elevate qualità artistiche, il Sarti era uno degli scultori più richiesti del regno di Napoli. Il complesso fu trasportato a Bari e fu collocato nell'abside centrale. Bona, in età avanzata, è ritratta mentre prega in ginocchio. I due vescovi sono S. Nicola, patrono di Bari, e S. Stanislao, patrono della Polonia. Le due allegorie femminili reggono lo stemma del regno di Polonia (a sinistra) e del ducato di Bari (a destra).
L'epigrafe latina sul marmo nero dice:
A Dio Ottimo Massimo. In memoria di Bona, regina di Polonia, moglie dilettissima di Sigismondo I potentissimo re di Polonia, granduca di Lituania, Russia, Prussia, Masovia e Samogizia, duchessa di Bari, principessa di Rossano, la quale, figlia di Gian Galeazzo Sforza, duca di Milano, e di Isabella d'Aragona, illustrò con le sue altissime doti lo splendore della stirpe di Alfonso II re di Napoli nonché la dignità della regia Maestà, questo monumento della pietà pose per la madre amatissima Anna Jagiellona, regina di Polonia, moglie di Stefano 1, dopo aver sepolto i re, suo padre, suo fratello e suo marito, e le tre sorelle, fornendo anche la dote per messe perpetue di suffragio nell'anno del Signore 1593. Visse 65 anni, sette mesi e dieci giorni.
Nel 1594 l'artista lucchese Orazio Vannucci cominciò ad affrescare la parete absidale, ove trovò posto anche l'altorilievo della Risurrezione (ora nella Torre delle Milizie). All'altezza del finestrone absidale, nella parte esterna il Vannucci dipinse S. Casimiro Jagiellone (sinistra) e S. Edvige di Slesia (destra). I corrispondenti ovali superiori raffiguravano S. Stanislao Kostka e S. Luigi Gonzaga. Lateralmente al finestrone dello Spirito Santo (ma internamente rispetto ai precedenti affreschi) v'erano S. Pietro e S. Paolo, con al di sopra gli stemmi di Bona Sforza e Sigismondo il Vecchio. Nel complesso sottostante, all'altezza della statua di Bona, erano affrescati i ritratti dinastici di Anna Jagiellona e di Sigismondo III Waza, mentre ai lati del rilievo della Risurrezione c'erano Maria Ludovica Gonzaga e Giovanni Casimiro IV.
Nel 1928 tutta la decorazione inneggiante alla casa regale di Polonia fu distrutta come non corrispondente allo stile della chiesa. Per il mausoleo di Bona fu proposto il trasferimento al castello (Calzecchi) o in una parete laterale del transetto (Nitti di Vito), ma poi il senso della storia prevalse su quello artistico-liturgico.
Riparazioni al tetto furono frequenti nella storia della chiesa, anche se la documentazione inizia dal 1487-1491. L'incarico in quell'occasione fu affidato a tre maistri de Juvenaczio che avrebbero dovuto conzar lo ticto sopra lo coro. Altre riparazioni ebbero luogo nel 1547-1549 in corrispondenza delle torri, e nel 1560 per la copertura del Tesoro. Danni alle capriate provocava l'acqua piovana intorno al 1648, forse per la cattiva realizzazione o applicazione delle lastre di copertura in piombo.
Ai lavori di riparazione il priore Giovanni Montero volle fare seguire quelli di una efficace decorazione. Nel 1661 assegnava al pittore Carlo Rosa di Bitonto l'incarico di dipingere una serie di tele che avrebbero dovuto ricoprire il soffitto. L'artista bitontino vi lavorò da quella data sino al 1673, terminando con le due allegorie sul triforio.
Dapprima (1661-1662), per iniziativa e a spese di Gaspare de Bracamonte, conte di Penoranda, Carlo Rosa dipinse le tele del transetto, coadiuvato per l'intaglio e la doratura delle cornici dai maestri napoletani Michele Morenzio e Cesare Villani e dal materano Catarino Casavecchia. Il Paradiso con l'Eterno Padre forma il tema del transetto centrale, ove nei vari riquadri dell'ottagono sono raffigurati la Madonna, i Martiri, le Martiri, gli Apostoli, i fondatori di ordini religiosi.
Temi nicolaiani (tratti per lo più dallo scrittore barese Antonio Beatillo) sono quelli del transetto di sinistra e del transetto di destra. Al centro del riquadro di sinistra si vede S. Nicola che, passando da Bari, profetizza: Qui riposeranno le mie ossa. Le quattro scene intorno rappresentano la leggenda dei due asinelli, la visita al papa Silvestro, la colonna spinta nel Tevere, la rimunerazione dei contadini di Calista, presso Rodi. Al centro del transetto di destra il papa Urbano II si reca processionalmente a reporre le reliquie sotto l'altare centrale della cripta. Le quattro scene intorno raffigurano S. Nicola che pone la colonna mancante, la consacrazione della Basilica superiore nel 1197, il concilio del 1098, la risurrezione del pellegrino lusitano caduto da un albero.
Il risultato spettacolare spinse i canonici a continuare l'opera nella navata centrale.
Furono perciò venduti gli argenti donati al Santo in occasione della peste del 1656, e Carlo Rosa si rimise all'opera, questa volta coadiuvato per gli ornati da Alfonso Ferenti, per la doratura dal leccese Giovanni Frisardi e per gli intagli da Francesco Scassamacchia.
Grandioso è il soffitto di questa navata centrale, recentemente restaurato. Dato il suo significato per il barocco pugliese, non fu coinvolto nelle roventi polemiche del 1927/28 intorno alle parti della chiesa che andavano rimosse perché non in sintonia con lo stile romanico primitivo.
Tutta la navata è divisa in tre grandi riquadri, il primo dei quali ottagonale (il più vicino all'entrata della Chiesa) rappresenta l'episodio di Adeodato (nella tradizione greca è chiamato Basilio).
E' la storia di un ragazzo che nel IX secolo era stato rapito dai Saraceni e portato a Creta per servire alla tavola dell'emiro. In occasione della festa di S. Nicola, pensando al dolore dei genitori, scoppiò a piangere. L'emiro gli fece notare l'inutilità delle lacrime e delle preghiere. Improvvisamente si levò un vento impetuoso e il ragazzo, scomparso alla vista dei commensali, si ritrovò coi genitori. Nell'iconografia l'episodio è raffigurato come qui (con Nicola che afferra il ragazzo per i capelli) oppure col ragazzo che regge una caraffa ai piedi del Santo.
Tre delle quattro scene intorno si riferiscono a momenti dello stesso episodio, la quarta, all'abbattimento dell'albero di Diana posseduto dal demonio.
Il secondo riquadro, quello centrale, è rettangolare e rappresenta una scena composita: S. Nicola salva dei pescatori la cui vita era stata messa in pericolo dalla comparsa di un grosso cetaceo. Si tratta di un episodio che non si trova nelle Vite del Santo, ma aveva fatto molto scalpore nel XVII secolo, e che i fedeli conoscevano bene in quanto una grossa costola (detta della balena) restò ancorata come ex voto alla parete della Chiesa. Lo sguardo di S. Nicola non è rivolto però al cetaceo, bensì alla Madonna in alto, ritratta già con i simboli dell'Immacolata Concezione , vale a dire la luna e un serpente sotto i piedi. Non va dimenticato, infatti, che il dogma dell'Immacolata Concezione, anche se promulgato ufficialmente soltanto nel 1854 già dai primi anni del Seicento trovò nei sovrani spagnoli dei forti fautori. Essendo la Basilica di regio patronato, il suo clero si attestò presto sulle posizioni dei re di Spagna.
Dei quattro riquadri intorno, due riguardano donne dell'Antico Testamento (Rahab ed Esther) e due richiamano citazioni a favore dell'Immacolata Concezione prese da S. Agostino e S. Tommaso d'Aquino.
Il terzo riquadro a forma ottagonale (prima del triforio) riproduce la classica scena di S. Nicola al concilio di Nicea in atto di dimostrare il dogma della Trinità alla presenza dell'imperatore Costantino. Nelle mani regge un mattone dal quale fuoriesce una fiamma. Il mattone sta a dimostrare che in una realtà unica (il mattone) possono coesistere tre diverse realtà (acqua, terra e fuoco). Lo sprigionamento della fiamma fu il miracolo che doveva convincere gli astanti della bontà del ragionamento.
I quattro riquadri intorno raffigurano rispettivamente lo schiaffo all'eretico Ario da parte di S. Nicola, la conseguente incarcerazione e affronto della barba bruciata, Gesù e la Madonna che durante la messa gli restituiscono la mitra e il pallio, quindi Nicola liberato dagli angeli.
Sull'arco al di sopra del triforio, oltre allo stemma dei re di Spagna (al centro), sono raffigurate le allegorie della Fede (col calice e l'ostia sul palmo della mano) e della Giustizia (che brandisce la spada per atterrare i nemici).
Nel 1756 ebbe luogo la sostituzione delle capriate con 82 precchioni di quercia lunghi palmi 18 (circa 4 metri e mezzo) e grossi palmi uno (circa 25 cm). Per questi lavori, 3000 profili vennero da Vieste, 1.000 tavole dalla Toscana e 15.000 chiodi da Siena.
Fra il 1850 ed il 1852 furono riparate le coperture su progetto di Ignazio Milone, che ridusse le capriate della navata centrale da 40 a 14, alleggerendo il peso mediante la sostituzione delle chianchette calcaree con tegole d'argilla poggianti su un pianellato di laterizio. Furono poi ricostruite le tettoie delle cappelle laterali.
1 restauri del 1918-34 non apportarono modifiche sostanziali alle tettoie, mentre nel 1945 (dopo lo scoppio della nave ancorata nel porto) l'architetto Schettini volle completare i restauri nello spirito dei precedenti, vale a dire col criterio di salvare l'unità dello stile originario. Eresse impalcature che rafforzassero le strutture delle coperture e fece ancorare con staffe di ottone gran parte del soffitto.
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Esempio



  


  1. Beatrice

    Vorrei sapere le dimensioni, in metri, della facciata e delle parti laterali della Basilica di San Nicola di Bari, per una mia ricerca personale. Le descrizioni, su internet, non fanno minimamente accenno alle dimensioni. Il mio indirizzo e-mail è: [email protected]. Grazie