Abbazia San Benedetto

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Testo

L'Abbazia di San Benedetto

La Fondazione del Monastero

Il monastero di San Benedetto sorse nel dodicesimo secolo nel territorio del Comune di Albino, racchiuso tra i monti Misma e Altino, nel territorio detto “Valle del Lujo” dal nome del torrente che vi scorre.
Tutta questa terra dell’Oltreserio, denominata allora “Vallis Alta”, era di proprietà della Chiesa di Bergamo, alla quale era stata donata dall’imperatore Ottone II nell’anno 973, insieme con tutto il distretto della Valle Seriana. Pertanto il vescovo di Bergamo ne aveva piena giurisdizione , podestà e dominio.
Nel 1135 reggeva la Chiesa di Bergamo il vescovo benedettino Gregorio. Egli si adoperò perché nella sua diocesi sorgessero nuovi monasteri e per questo assegnò le terre ai monaci.
Dopo aver avuto l’autorizzazione del pontefice Innocenzo II e il parere dei Canonici della Cattedrale, dell’avvocato vescovile e dei rettori della città, il vescovo Gregorio, il 24 febbraio 1135, disponeva l’inizio della costruzione del monastero.
Poco più di un anno dopo era già ultimata la costruzione della chiesa e della casa per i monaci.


La Costruzione del Monastero e della Chiesa

Il breve tempo impiegato per la realizzazione, considerando l’epoca in cui sorse, il luogo selvaggio e le difficoltà finanziarie, fanno pensare che agli inizi doveva trattarsi di una costruzione povera e di piccole dimensioni.
La chiesa era infatti di una navata con le mura schiette e lisce, ma tutta di vive pietre senza intonaco né dentro né fuori e forti pilastri sporgevano nell’interno e nell’esterno delle pareti.
L’altare era collocato in un’abside semicircolare nella quale si aprivano tre aperture strette e dinanzi, coperto a tetto, comunicava mediante due spaziose arcate con due cappellette terminate verso oriente da due absidi simili, ma più piccole della centrale.
La facciata della chiesa pare fosse munita di un portico, chiuso da una cancellata e sormontato, secondo la tradizione dei monaci, da un piccolo campanile.
Esistevano inoltre due chiostri, uno, ora completamente scomparso, situato a fianco dell’abside di sud-est e l’altro ancora parzialmente visibile anche se completamente rifatto nel corso dei secoli.
Il monastero era circondato da una cinta di mura molto estesa, completa di torrette di osservazione.
Di tutto il cenobio, l’unica parte originaria ancora visibile oggi è costituita dell’abside centrale e da quello di sud-est; tutto il resto è il risultato delle trasformazioni edilizie operate in conseguenza di incendi, crolli, distruzioni, abbandoni e manomissioni subite nei secoli.
All’arrivo dei monaci il terreno non era ancora dissodato ed era ricoperto di vecchi abeti, faggi, querce, ontani, larici e castagni. I benedettini avevano però qualche programma: oltre alla preghiera anche il lavoro.
In molti luoghi avevano portato al massimo splendore terre prima selvagge ed improduttive aiutati dai pochi abitanti.
Il 24 maggio 1142, il vescovo Gregorio, assistito dai vescovi di Brescia e Lodi, consacrò solennemente il tempio, dedicandolo a “Dio Ottimo Massimo e a San Benedetto Abbate”.
Il vescovo Gregorio morì nell’anno 1146, il 19 giugno.

I Monaci

I monaci, praticando per secoli il loro “Ora et Labora” nel monastero di San Benedetto, contribuirono in maniera determinante allo sviluppo spirituale e materiale di questa zona.
I monaci dell’abbazia di San Benedetto furono cistercensi(Ordine che risale al ceppo benedettino) e inviati direttamente in questa località direttamente dal grande diffusore del loro Ordine in Italia, San Bernardo, su richiesta del vescovo Gregorio.
Questi praticarono, come già detto, la “Regula Sancta”, che è il codice della vita monastica; essa rappresenta l’espressione più completa dell’ideale monastico.
Ritenendo la preghiera indispensabile, ma insufficiente da sola alla salvezza dell’anima, San Benedetto prescrisse ai suoi discepoli la pratica del lavoro, nelle sue diverse forme, come mezzo di santità e di crescita morale.
La preghiera doveva essere recitata sempre in chiesa, con dispensa per i monaci che si trovavano a lavorare nei campi, ai quali era fatto obbligo di inginocchiarsi sulla terra per la recita delle ore liturgiche di Terza, Sesta, Nona.
La giornata era quindi divisa nelle ore canoniche, a partire dalla levata del sole e fino al riposo notturno. Si aveva: Matutino, tra le cinque e le sei di mattina; Prima, poco prima dell’alba; Terza, verso le nove; Sesta, mezzogiorno e l’ora del pasto; Nona, tra le quattordici e le quindici; Vespro, verso le sedici e trenta e ora di cena; Compieta, vero le diciotto con l’accesa dei lucernari e la conclusione giornata.
L’abate aveva il compito di distribuire il lavoro dando a ciascun monaco un mestiere che non lasciasse nell’ozio.
Egli rappresentava anche la massima autorità all’interno dell’abbazia. Non era soggetto a nessun altro monaco, ma direttamente al vescovo di Bergamo dal quale aveva la solenne benedizione abbaziale.
Pur rappresentando la massima autorità, l’abate non era esentato dall’obbligo di consultare l’intera comunità prima di prendere importanti decisioni.
La riunione della comunità monastica era detta “Capitolo”. Dalle pergamene redatte nei vari Capitoli, è stato possibile ricostruire quanti monaci abitarono l’abbazia nei diversi periodi: nel 1220 c’erano un abate, 6 monaci e 16 conversi(monaci laici), col passare dei secoli diminuirono fino ad arrivare al 1518 quando nell’abbazia c’era un solo monaco.
Secondo San Benedetto le occupazioni monastiche possono essere riunite in tre gruppi principali: “Opus Dei”, opera di Dio; “Lectio Divina”, studio delle cose divine; “Opus Manuum”, lavoro manuale.
L’opera di Dio rimane l’impegno primario della vita cenobica; lo studio delle cose divine, come attività dello spirito, comprendeva lo studio della Sacra Scrittura e delle formule liturgiche.
Infine il lavoro manuale, visto come impegno culturale e fisico, era concepito come un servizio reso all’uomo stesso, oltre che come mezzo pratico per mantenere il monastero.
I letti dei monaci consistevano in un pagliericcio, una coperta e un semplice guanciale; non avevano lenzuola e si riposavano vestiti per essere pronti ad alzarsi a cantare l’Ufficio notturno ed anche per fare penitenza; facevano eccezione a questa regola i monaci infermi o ammalati.
Per cibo avevano 350 gr. di pane, due vivande cotte; la carne era proibita, così pure ogni materia grassa, uova e formaggio.
Il loro abito consisteva in un tonaca bianca, cinta ai fianchi, con sopra una cappa ed uno scapolare nero. I piedi erano nudi e calzavano i sandali.

Il Complesso Monastico
Il monastero doveva avere tutto il necessario: acqua, mulino, orto e tutto quanto necessita per l’esercizio delle diverse arti, affinché i monaci non debbano vagare all’esterno.
Il complesso monastico era quindi concepito come un’entità autosufficiente e completamente autonoma, all’interno della quale i monaci dovevano provvedere ai bisogni della comunità e alle necessità dei poveri.
All’interno vi era anche un ricovero per gli animali e un deposito per gli attrezzi di lavoro.
Vi era anche una palazzina per il controllo dell’accesso al monastero, con il quale si poteva anche comunicare di notte tramite segnalazioni luminose.

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