Dimensione tempo

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Testo

Dimensione Tempo

“DIMENSIONE TEMPO”
“Die gestundete Zeit” (Il tempo dilazionato) 1953
tempo concesso ad ore → tempo precario “La persistenza della memoria” 1931
“Scioglimento della persistenza della
memoria” 1952-54
Orologi che si stanno sciogliendo; ore diverse perché per lui non
ha significato il tempo lineare ed il passato è racchiuso
nella MEMORIA “Gli non sono altro
che il camambert paranoico- critico,
molle, stravagante ed unico dello
Madeleine riporta alla mente un intero periodo spazio e del tempo”
della sua vita
flusso del tempo come vissuto psicologico senza
normale successione cronologica
“Alla ricerca del tempo perduto”, I 1913
LIBERA SUCCESSIONE orologi e clessidre usati per misurare
gli intervalli

“La coscienza di Zeno” 1923
passato e presente si fondono; procede per argomenti “universo ad orologeria” ed il
così come ritornano in mente al protagonista tempo ne è l’ordinatore
DUE PIANI TEMPORALI attualità “L’adesso che scrivo” meccanismo retto
redazione memorie e dall’intervento di Dio
cura psicoanalitica (=orologiaio) che ne
esperienze e fatti evocati, regola il MOVIMENTO
riportati al momento attuale
alla narrazione da parte di Zeno
“Saggio sui dati immediati della coscienza” 1899
sviluppati tecnologicamente
tra ‘600 e ‘700, ma diffusi
nell’800
prodotto di ciò che ogni momento della scienza, ~ anno 1000: segna- tempo
ci dà, non è misurabile cronologico, religiosi
matematicamente oggettivo poi: scandiscono tempo città
→ tempo della MEMORIA XV sec: nelle case→ tempo
famiglie
del tempo 1800: da tasca→ vita di tutti
soggettivo i giorni ↓
“La durata interiore” da movimenti sempre più precisi
“L’evoluzione creatrice” 1907 “L’orologio non è solo una che indica il
passare delle ore, ma un mezzo per sincronizzare le azioni
degli uomini” Lewis Manford, “Tecnica e Civiltà”
accidente delle cose che essendo
eventi nel loro succedersi ci danno
l’idea della durata evoluzione delle cose da
“De Rerum Natura”, I, 459 passato a presente

ETERNO RITORNO Teoria della relatività 1905
ciclicità tempo = deriva dalla religione ebraica, dipende dallo stato di moto
ereditato dal Cristianesimo e dall’Islam dell’osservatore→ tempo
influenza la filosofia ognuno ha un suo tempo che non si
classica→Stoici ↓ accettata da Platone misura con gli orologi
Seneca “De brevitate vitae” (ciclicità cosmica)
“DIMENSIONE TEMPO”
Nel nostro secolo il rapporto dell’uomo col tempo assume una particolare e nuova importanza: cambia radicalmente infatti il modo di concepire la “dimensione del tempo”, che si identifica col tempo che trapassa di momento in momento, con quello che è già trascorso in un passato più o meno vicino o più o meno remoto, e con quello che sarà. In un’epoca di cambiamento come il nostro secolo tutto è rimesso in discussione per tutti i fatti e le scoperte che rendono superato ciò che è accaduto il giorno prima.
Il tempo rimane sicuramente uno dei punti di riferimento fondamentale: fuori di noi tutto cambia perché quello che era prima non è più adesso e non sarà più domani. Il punto di riferimento dato dal tempo continua però a modificarsi insieme agli sforzi per misurarlo, controllarlo ed adeguarlo alle varie esigenze: questi sforzi però non sarebbero mai stati compresi dai nostri antenati, che lavoravano nei campi e vivevano secondo i cicli della natura; il loro riferimento sicuro infatti era la ciclicità del sorgere e tramontare del sole e delle stagioni dell’anno ed il tempo della loro esistenza era legato al succedersi dei fenomeni della natura. Oggi queste certezze, per rapportarsi col tempo della nostra vita, sono venute a mancare: il tempo ha ritmi e modalità diversi che difficilmente possono essere riferiti soltanto al tempo astronomico.
Il tempo è diventato un sistema relazionale al quale ci dobbiamo adeguare: siamo talmente precisi a tal punto da misurare con orologi atomici il milionesimo di miliardesimo di secondo e la nostra giornata è condizionata dalla logica del tempo della nostra civiltà (ora legale, sistemi di telecomunicazioni e computer che hanno trasformato in pochi anni il nostro modo di vivere il rapporto col tempo) tanto che è difficile rendersi conto nei ritmi della nostra vita quotidiana che, illudendoci di imprigionare il tempo alle esigenze della nostra civiltà, siamo finiti in catene noi.
Nella nostra società del cambiamento però il problema di rapportarci col tempo è soprattutto vivere la libertà del tempo interiore, cioè la durata qualitativa del tempo vissuto nella nostra coscienza con le sensazioni, le passioni, le emozioni attraverso le quali certi secondi sembrano durare alcune ore e certi giorni volano via come secondi.
Questo problema del tempo è stato sempre uno dei motivi principali affrontato dalla filosofia ed ogni corrente di pensiero ne ha proposto svariate interpretazioni e soluzioni. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la coscienza, cioè l’esperienza interiore, ritorna come valore primario e dato essenziale per una conoscenza autentica e profonda della realtà, in alternativa alla dottrina positivista che riponeva sui dati della scienza l’unica conoscenza possibile della realtà. E’ proprio con Bergson che si apre la strada ad un’interpretazione radicalmente antiscientifica della “dimensione tempo”, introdotta nell’opera “Saggio sui dati immediati della coscienza” (1899). La nuova concezione del tempo, elaborata dal filosofo francese, propone una distinzione tra tempo esteriore, cioè della scienza, che è puramente cronologico ed è il tempo della durata quantitativa, e tempo interiore, cioè della coscienza, che è il tempo della durata qualitativa. Il tempo interiore annulla tutte le strutture ed al prima ed al dopo si sostituisce la durata. La nostra coscienza è vista come presente e passata ed il tempo non è più sentito come principio di logoramento e dissoluzione, perché non siamo sola la somma dei singoli momenti della nostra vita, ma il prodotto di ciò che ogni momento ci dà. Nelle formule fisiche il tempo appare come una quantità vettoriale matematicamente misurabile.
Al tempo oggettivo, che secondo gli intellettuali del Novecento è un’astrazione vuota, perché non è formato da istanti quantitativamente uguali, si oppone il tempo della memoria, come appunto dice Bergson: una durata qualitativa, non misurabile matematicamente. L’essere umano vive dalla nascita immerso nel “fiume” del tempo soggettivo. La stessa percezione di noi stessi è legata a ciò: noi siamo in quanto possiamo pensare, ma il nostro pensiero non potrebbe esistere se non fosse collegato alla continuità dell’esperienza. La memoria quindi, sia soggettiva che affidata a scritti od altro, è la base che garantisce questa continuità. “La Ricerca del Tempo Perduto” di Proust è la ricostruzione proprio di una vita (quella del narratore) intesa come scoperta graduale del significato della realtà attraverso la memoria a partire da un evento minimo e casuale: il romanzo si apre con l’episodio di un dolce chiamato madeleine, che il protagonista riassapora per la prima volta dopo gli anni dell’infanzia e che gli riporta alla mente un intero periodo della sua vita. Solo nella memoria, secondo Proust, l’uomo può cogliere con un unico sguardo le incessanti trasformazioni alle quali il tempo sottopone fatti, persone e sentimenti. Questa concezione che matura via via si può accostare nell’ultima parte intitolata “Il tempo ritrovato” alla teoria del “tempo creativo” di Bergson. Anche i suoi periodi sono quasi sempre lunghi, lenti, ricchi di incisi e di subordinate, tanto che anche il ritmo corrisponde al flusso continuo e dilagante del ricordo. La “dimensione del tempo” acquista quindi una indeterminatezza che lo scrittore o l’artista coglie in chiave soggettiva mostrando il flusso del tempo come vissuto psicologico dei propri personaggi senza legami con la normale successione cronologica. Come testimonianza di ciò possiamo prendere in considerazione un ulteriore testo: “La coscienza di Zeno” di Svevo. La costruzione del racconto non è un’autobiografia compiuta, ma un’analisi retrospettiva di episodi della vita del protagonista. La trama narrativa infatti procede su due distinti piani temporali: uno è quello dell’attualità (“L’adesso che scrivo” come dice Zeno) nel quale si svolgono la redazione delle memorie e la cura psicoanalitica e l’altro riguarda esperienze e fatti evocati, risalenti a 25 anni prima, e riportati al momento attuale della narrazione da parte di Zeno. La trama si articola quindi in capitoli, ciascuno dei quali ha al centro un tema che ripercorre un evento del vissuto del protagonista. Sono capitoli in cui scompaiono la struttura e le sequenze temporali del romanzo tradizionale (non c’è storia da narrare e non c’è una successione logica-temporale da seguire), ma che procedono per argomento nel susseguirsi di eventi che il protagonista rivive in libera successione con il fluire dei ricordi, che riescono a dominare la “dimensione del tempo” fondendo passato e presente in libera successione cronologica.
Definire cosa sia il tempo è quindi piuttosto difficile: Lucrezio lo vede come un accidente delle cose, che essendo eventi nel loro succedersi ci danno l’idea della durata (“De Rerum Natura”, I, 459): Pochi secoli dopo Agostino all’eterna domanda “Cos’è il tempo” dà una risposta più umile: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”.
Le culture tradizionali hanno ipotizzato una ciclicità del tempo, che si riassume nell’Eterno Ritorno. Questo concetto, accettato anche da Platone, che ipotizzava una ciclicità cosmica, ha molto influenzato la filosofia classica, in particolare gli Stoici, che credevano in una periodica rigenerazione dell’universo. Ciclo dopo ciclo si sarebbero ripetuti gli stessi eventi, sarebbero rivissute le stesse persone. Ma il concetto attuale del tempo, almeno per la cultura occidentale, non è quello dell’Eterno Ritorno, ma quello del tempo lineare, derivato dalla religione ebraica e poi ereditato dal Cristianesimo e dall’Islam. Il piano che Dio ha stabilito per l’universo è un preciso processo storico, si svolge con una sequenza temporale ben definita.
Se guardiamo l’ingresso del tempo nella fisica, vediamo che per Aristotele il tempo era movimento e molti secoli dopo Galileo vide che non si poteva fondare nulla della nuova meccanica se non trovando la misura dello scorrere del tempo. Fino ad allora l’unità del tempo più piccola che veniva misurata con precisione era il giorno. Ma per descrivere il moto di un grave su un piano inclinato occorreva misurare intervalli di tempo ben più piccoli e con buona precisione. Fin dall’antichità esistevano clessidre ed orologi ad acqua, ma Galileo le usò per uno scopo ben diverso da quello a cui erano servite in genere fino ad allora: non per segnare l’ora del giorno, ma per misurare intervalli. Il tempo entrava prepotentemente quindi nella nuova fisica.
La precisione raggiungibile con tali strumenti era purtroppo molto scarsa; oggi invece questi strumenti sono diventati molto precisi, tanto da estendere le conoscenze geografiche e da assicurare una possibile e sicura navigazione anche in pieno oceano. Infatti per determinare la posizione di un qualsiasi punto sulla superficie della terra occorre conoscere con precisione l’ora riferita ad esempio al meridiano di Greenwich. In questo modo, misurando l’altezza delle stelle o del sole sull’orizzonte, diventa possibile determinare la latitudine e la longitudine.
Le leggi della meccanica formulate avendo come variabile indipendente il tempo, descrivevano bene i fenomeni sia terrestri che celesti tanto da suggerire una loro applicabilità a tutta la realtà fisica dell’universo. Da questa convinzione nacque l’idea di un “universo ad orologeria”, ed il tempo, che ne era l’ordinatore, sembrò simboleggiarne la profonda razionalità. Newton era convinto che questo meraviglioso meccanismo, anche se perfetto, che si potesse reggere stabilmente solo con un intervento del Dio che, come buon orologiaio, dopo averlo costruito, si prendeva cura di regolarne il movimento.
E’ proprio nell’Ottocento che avvenne la diffusione di questi strumenti che scandivano il trascorrere del tempo, gli orologi, pur avendo avuto un grande sviluppo tecnologico tra il Seicento ed il Settecento. Oggi non si può immaginare di vivere senza, ma prima l’orologio era un oggetto di lusso riservato a pochi, anche se l’uomo sin dalle epoche più remote aveva avvertito la necessità di misurare il tempo. Per farlo si era rivolto alla Natura: al sole, alle stelle, al ciclo delle stagioni.
E’ l’orologio l’oggetto simbolo della modernità, vista con gli occhi del mondo occidentale e soprattutto di civiltà industriale. La sua evoluzione ha dato una svolta come l’informatica nel XXI secolo o l’invenzione dei caratteri mobili per la stampa nel XV secolo. Da quando però l’orologio è entrato nella disponibilità dell’uomo è cambiata la percezione che l’uomo stesso ha nei confronti del Tempo. Da quando ha potuto essere misurata con esattezza, questa entità astratta ha aperto nuove frontiere alle attività ed al modo di ragionare dell’uomo; solo con esso si è potuta affermare una vita urbana e civile così come la intende il mondo occidentale (Lewis Manford, “Tecnica e Civiltà”).
L’orologio in questione è quello meccanico il cui funzionamento anche se ha bisogno di energia per la ricarica non ha nulla a che vedere con gli strumenti del tempo che lo hanno preceduto, come meridiane e clessidre che dipendono dalla luce o dal continuo travaso di sabbia. L’orologio acquista importanza nella comunità in quanto indirizza e regola la vita di ogni componente della comunità stessa. Prima dell’anno Mille erano collocati solo nei conventi e nelle abbazie di tutta Europa per segnalare con la campana i vari momenti di preghiera e lavoro che scandivano la giornata dei religiosi. Più che di un orologio si trattava di un segna- tempo che funzionava grazie ad un vero e proprio meccanismo a pesi, anche se rudimentale. Intorno all’anno Mille cominciò a farsi sentire la necessità di strumenti che contribuissero all’organizzazione della vita sociale sempre più complessa. I primi orologi furono quelli di grandi dimensioni, posti su torri e campanili, in modo che si potessero vedere e sentire anche a distanza: erano comunque gli edifici del potere che scandivano il Tempo. (Inghilterra, Francia ed Italia sono i luoghi in cui troviamo i primi monumentali orologi pubblici: all’epoca apparivano come macchine straordinarie e rappresentavano la potenza di una città). Successivamente nel XV secolo si sostituirono i pesi che facevano muovere il meccanismo con una molla; questo rese possibile costruire orologi di più piccole dimensioni che potevano essere collocati anche in casa, dove scandivano i tempi e gli impegni della famiglia. Nell’Ottocento furono ridotte le loro dimensioni fino a diventare orologi da tasca ed iniziarono a diffondersi ampiamente sia perché scandivano la vita di tutti i giorni, sia perché venivano ormai prodotti da vere e proprie industrie manifatturiere. Con il passare degli anni l’orologio è diventato sempre più importante: l’uomo è diventato sempre più “schiavo” del tempo per i propri impegni e si è arrivati a movimenti sempre più precisi.
Verso la seconda metà dell’Ottocento, con la scoperta del secondo principio della termodinamica, in fisica entrò a far parte il concetto di “freccia del tempo”, cioè di un’evoluzione delle cose dal passato verso il futuro. Analogo problema della freccia del tempo si riscontra nelle equazioni di Maxwell, cioè nelle equazioni che governano l’elettromagnetismo. Anch’esse risalgono alla metà del XIX secolo ed ammettono per le onde elettromagnetiche due solu8zioni: le onde che vanno avanti nel tempo (onde ritardate) e le onde che vanno indietro (onde anticipate).
All’inizio del secolo scorso, nel 1905, Einstein capì che il tempo non era più qualcosa di uguale per tutti, assoluto ed imperturbabile, ma che dipendeva dallo stato di moto dell’osservatore. Einstein quindi con questa teoria, detta della relatività, rendeva il concetto di tempo da rigido ed immutabile a “relativo”.

Bachmann, Die gestundete Zeit Il tempo dilazionato
Es kommen härtere Tage. S’avanzano giorni più duri.
Die auf Wiederruf gestundete Zeit Il tempo dilazionato e revocabile
Wird sichtbar am Horizont. già appare all’orizzonte.
Bald mußt du den Schuh schnüren Presto dovrai allacciare le scarpe
Und die Hunde zurückjagen in die Marschhöfe. e ricacciare i cani ai cascinali:
Denn die Eingeweide der Fische le viscere dei pesci nel vento
Sind kalt geworden im Wind. si sono fatte fredde.
Ärmlich brennt das Licht der Lupinen. Brucia a stento la luce dei lupini.
Dein Blick spurt im Nebel: Lo sguardo tuo la nebbia esplora:
die auf Wiederruf gestundete Zeit il tempo dilazionato e revocabile
wird sichtbar am Horizont. già appare all’orizzonte.
Drüben versinkt dir die Geliebte im Sand, Laggiù l’amata ti sprofonda nella nebbia,
er steigt um ihr wehendes Haar, che le sale ai capelli tesi al vento,
er fällt ihr ins Wort, le tronca la parola,
er befiehlt ihr zu schweigen, le comanda di tacere,
er findet sie sterblich la trova mortale
und willig dem Abschied e proclive all’addio
nach jeder Umarmung. dopo ogni amplesso.

Sieh dich nicht um. Non ti guardare intorno.
Schnür deinen Schuh. Allacciati le scarpe.
Jag die Hunde zurück. Rimanda indietro i cani.
Wirf die Fische ins Meer. Getta in mare i pesci.
Lösch die Lupinen! Spengi i lupini!
Es kommen härtere Tage. S’avanzano giorni più duri.
Das Thema ist die Vergänglichkeit des Lebens, der Zeit und von allen Dingen. Der Mensch ist einsam und seine Einsamkeit verbindet sich mit dem Krieg, mit der Gewalt, mit der Sinnlosigkeit der Geschichte. Die Hunde stellen die Leben dar, die Horizont ist die Zukunft, aber die Zukunft ist sehr finster: alles verlassen und fliehen. Es gibt die Gefahr des Krieges, die Angst von einen neuer Katastrophe, Kalter Krieg. Es gibt Endzeitstimmung. Der Mensch kann nichts dagegen tun. Es gibt die Idee von Allaarm: es gibt keine Zeit mehr, wir müssen schnell.

La persistenza della memoria (o Gli orologi molli, o Il tempo che si scioglie), 1931
Olio su tela
New York, The Museum of Modern Art
Scioglimento della persistenza della memoria, 1952-1954
Olio su tela
St. Petersburg (Florida), The Salvador Dalì Museum
Proust, Dalla parte di Swann
…Così per il nostro passato. E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. […] un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano petites madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove era potuta giungermi una cosa così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. E’ tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco ad interpretare e che vorrei almeno poterle chiedere di nuovo ritrovandola subito intatta, a mia disposizione, per un chiarimento successivo. Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo.[…] Retrocedo col pensiero al momento in cui ho sorbito il primo cucchiaio di tè. Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova. Chiedo al mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge. […] tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea, metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma quando m’accorgo che il mio spirito s’affatica senza successo, lo riduco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo […] Per la seconda volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora recente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente; avverto la resistenza, percepisco il rumore delle distanze attraversate.
A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l’immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte […] E ogni volta la viltà che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mi ha indotto a lasciar perdere, a bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani che si lasciano rimasticare senza troppa fatica.
E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. […] La vista della piccola madeleine non m’aveva ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore […] forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato […] con ogni sorta di tempo […] ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco della casa di Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè. […]
Svevo, La coscienza di Zeno
2. Preambolo
Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora. […]
Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa… ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato. […]
Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui! […]
3. Il fumo
[…]
Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette ch’io fumai non esistono più in commercio. Intorno al ’70 se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle scatole s’aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi per l’immenso incontro. Tento di ottenere di più e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo. […]
8. Psico-analisi
[…] Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso. […]
Non solo il dottore ma anch’io avrei desiderato di esser visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventù, autentiche o meno, ma che io non avevo mai avuto bisogno di costruire. Visto che accanto al dottore non venivano più, tentai di evocarle da lontano da lui. Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica ad una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre. Le avevo già avute; perché non avrei potuto riaverle? […]

Bergson, La durata interiore
L’esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è, senza dubbio, la nostra. Di tutti gli altri oggetti abbiamo, infatti, solo nozioni che si possono giudicare estrinseche e superficiali, mentre la conoscenza di noi stessi è interiore, profonda. Ora, che cosa osserviamo in noi? […] Io constato anzitutto che passo di stato in stato […] Sensazioni, sentimenti, volizioni, rappresentazioni: ecco le modificazioni tra cui si divide la mia esistenza e che a volte la colorano di sé. Io cangio dunque incessantemente. Ma non basta dir questo: il cangiamento è più radicale che a prima vista non sembri. Di ciascuno dei miei stati psichici parlo, infatti, come se esso costituisse un blocco […]. Eppure, un piccolo sforzo di attenzione basterebbe a rivelarmi che non c’è affermazione, rappresentazione o volizione che non si modifichi di continuo […] Il mio stato d’animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con sé medesimo […].
Ora, degli stati così intensi son tutt’altro che elementi distinti: si continuano gli uni negli altri in un fluire senza fine […] Invano si allineeranno questi stati gli uni sugli altri sopra l’Io che li sostiene: mai tali solidi posti sopra un solido formeranno una durata che scorra. In tal modo si otterrà soltanto un’imitazione artificiale della vita interiore: un equivalente statico che soddisferà meglio le esistenze della logica e del linguaggio, precisamente perché ne sarà stato eliminato il tempo reale. Ma chi esamini la vita psichica della sua effettualità, quale si svolge sotto i simboli che la ricoprono, si accorgerà subito che il tempo ne è la stoffa stessa.
Non c’è, del resto, stoffa più resistente o più stanziale. Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante a un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. E perché si accresca continuamente, il passato si conserva indefinitamente. La memoria non è la facoltà di classificare ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro. Non c’è registro, non c’è cassetto; anzi, a rigor di termini, non si può parlare di essa come di una : giacchè una facoltà funziona in modo intermittente, quando vuole o quando può, mentre l’accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua. In realtà si conserva da se stesso automaticamente. Esso ci segue tutt’intero, in ogni momento […]. Che cosa siamo, infatti, che cos’è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita […]? Certo noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato: ma desideriamo, vogliamo, agiamo con tutto il nostro passato […].
Conseguenza di questa sopravvivenza del passato è l’impossibilità, per una coscienza, di passare per due volte per l’identico stato, […] nessun stato di coscienza anche se resta identico alla superficie, si ripete mai in profondità. Questo perché la nostra durata è irreversibile […].
Ciascuno dei suoi momenti è qualcosa di nuovo che si aggiunge a ciò che c’era prima. Anzi, non è solo qualcosa di nuovo: è qualcosa d’imprevedibile.

Lucrezio, De rerum natura, I, 459:

Traduzione:

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