Scienza, etica e società.

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Testo

SCIENZA, ETICA E SOCIETÀ
Nel corso della storia la vocazione della scienza è stata spesso quella di andare contro natura. Nell’ultimo mezzo secolo la medicina, ad esempio, ha fatto progressi che sembravano impossibili. Le utopie di ieri oggi si acquistano in farmacia; basti pensare al Viagra, reclamizzatissima pillola contro l’impotenza.
In questo secolo l’uomo in campo scientifico e tecnologico ha compiuto un gran numero di scoperte, come forse non era mai accaduto prima in tutta la storia dell’umanità, che hanno contribuito ad aumentare il benessere e la qualità della vita.
La scienza e lo sviluppo tecnologico hanno, però, spesso prodotto mostri come Iroshima, Seveso o Chernobyl, come le malattie del lavoro o la degradazione dell’ambiente naturale, come l’ermafrodita prodotto da un’applicazione sbagliata delle tecnologie dell’ingegneria genetica, come i pericoli che dai laboratori che applicano le tecnologie della biologia molecolare possa uscire qualche germe infettivo incontrollabile o che si possa concepire e realizzare la modificazione del patrimonio genetico dell’umanità per produrre super-individui o sub-individui.
Lo spettro più spaventoso prodotto dalla scienza, oggi, è quello della clonazione applicata all’uomo, ossia la riproduzione in fotocopia degli esseri umani. La pecorella "clonata" è diventata il simbolo di un futuro pericoloso che potrebbe modificare radicalmente, e in maniera imprevedibile, la vita stessa dell'uomo e il patrimonio genetico dell'umanità.
Viene spontaneo il parallelo con la bomba atomica: si scopre d'un tratto che dalla ricerca scientifica, che allarga le conoscenze dell'uomo, si può passare rapidamente ad un'applicazione tecnologica che sconvolge la realtà. Dal laboratorio dell'apprendista stregone nasce una potenza devastante, un mostro incontrollabile, l'incubo di Jurassic Park. Chi manterrà il timone della navicella impazzita?
Poi, nel giro di pochi giorni, le pagine dei giornali si sono riempite di altre notizie sconcertanti: gli uteri trasformati in incubatrici, le nascite programmate, l'ingegneria molecolare, il trapianto di cellule cerebrali da un embrione all'altro, il commercio di cellule germinali maschili e femminili, le fecondazioni spesso più artificiali che assistite; il concepimento, che pur è voluto per amore, risulta però staccato da quell'insostituibile atto di amore che è alla sorgente della vita nascente secondo natura.
Certo, la clonazione, cioè la riproduzione di un essere vivente non attraverso la complementarità dei due sessi ma tramite la moltiplicazione di cellule che contengono le stesse informazioni genetiche e dunque possono dar luogo a individui-fotocopia, i “cloni”, stavolta è stata compiuta su mammiferi, ma sappiamo che potrebbe esser realizzata sull'uomo, se qualcosa del genere già non è accaduto. E in molti laboratori del mondo avvengono probabilmente esperimenti che nessuno conosce e controlla realmente, finché qualcuno non deciderà di renderli pubblici.
L'ultimo brivido, quindi, è il fantasma dell'uomo clonato, dell'identità replicante, della vita fotocopiata. In America, qualche scienziato giura che lo si può fare e che lui lo farà; e se qualcuno vorrà impedirglielo andrà a farlo altrove. Vero o falso che sia, è certo che la scienza continua a spostare ogni giorno un po' più in là il limite di ciò che è tecnicamente possibile. Qualcosa sta scappando di mano al mondo, qualcosa che ha preso a correre lungo una discesa senza barriere, mentre la legge, almeno in Italia, rimane ferma: alla Camera, infatti, giace da tempo un testo unificato sulla materia. In che modo il diritto può, o deve, regolamentare la scienza? Indugiare ancora, dopo vent'anni di “provetta", di fronte al panorama selvaggio di ciò che si pratica nell'ombra dei laboratori, non è più possibile. Anche la cronaca si è a lungo confinata tra i muri del silenzio, sporgendo gli occhi solo per annunciare, e quasi celebrare, gli spostamenti progressivi della frontiera dell'impossibile.
L'uomo, secondo alcuni, sta espugnando se stesso, sta sfigurando il suo proprio profilo, strappandolo dalla cornice del cosmo e della sua sapiente bellezza; e la sua "fabbrica" della vita assomiglia sempre più a una decomposizione della vita stessa. Una simile deriva, nella quale i filosofi più accorti, credenti e non credenti, vedono l'impronta di un nichilismo impazzito, oggi è chiamata a fare i suoi conti non solo con le istanze etiche, ma con quel minimo indefettibile di "regola" senza il quale la società umana non consiste, o non può più dirsi umana.
Ma, ci si chiede, tutto quel che è tecnicamente possibile è moralmente lecito? La domanda vede una larga fascia dell’opinione pubblica unita nella risposta: certamente no. Basti pensare al fermo atteggiamento della Chiesa cattolica. Tuttavia, per chi condivide questa linea di pensiero, passare dalle affermazioni di principio alla determinazione dei limiti precisi, legali e morali, è un cammino non facile. Il ministro Bindi bloccò nel 1997 tutti gli esperimenti di clonazione e il commercio di materiale genetico fino al varo di nuove leggi. La posizione della Chiesa è stata ribadita con grande chiarezza da Giovanni Paolo II e dal cardinale Ratzinger, il quale ha ammonito che «fabbricare l'uomo è un attacco fondamentale alla dignità della persona, che non viene più considerata creatura immediata di Dio». E ha soggiunto: «Con la vita dell'uomo non si scherza. Negli studi e nella ricerca scientifica c'è un limite invalicabile oltre il quale a nessuno è lecito andare: è il rispetto della vita, dal primo momento del concepimento, secondo quanto stabilito dalla volontà di Dio. Nessuna sperimentazione scientifica, in nessun momento e per qualsiasi motivo, può essere giustificata se oltrepassa quel limite. La scienza faccia giustamente il suo corso, ma non tocchi la vita umana».
Emerge oggi, come in molti dei passaggi delicati nella recente storia dell’umanità, la grande responsabilità degli scienziati, il cui contributo sarà importante non solo nella definizione di leggi e regolamenti adeguati in materia, ma anche nell'interpretazione culturale dei fatti e delle scoperte, premessa necessaria per una valutazione etica. “Non si tratta di fare il processo alla scienza”, ha ricordato il premio Nobel Rita Levi Montalcini, “perché la scienza è un diritto dell'uomo e risponde alla sua naturale curiosità. Si tratta, ancora una volta, di mettere sotto accusa le sue applicazioni che possono diventare aberranti. Nel caso della clonazione è talmente evidente che si tratta di una cosa amorale e illecita. Ognuno di noi differisce dall'altro. Fare una copia identica di un individuo è ripugnante: per ciascun vivente che sa di differire da ogni altro”.
Come si pone il mondo della scienza nei confronti della clonazione? Il problema dell’ingegneria genetica nel suo complesso è un problema che ha molte facce: l’ingegneria genetica è intervenuta e sta intervenendo, ad esempio, per consentire a coppie che non avevano la possibilità di avere figli di accedere attraverso queste tecniche, che stanno dando risultati indubbiamente positivi, a tale possibilità. Quando pensiamo ai problemi della clonazione certo rischi ce ne sono molti, ma dobbiamo pensare anche alle opportunità legate al fatto che nel mondo ci sono intere popolazioni sottonutrite e che hanno bisogno di nuove scoperte le quali consentano una diffusione a bassi costi di alimenti di pregio. E da questo punto di vista l’ingegneria genetica, e anche le tecniche della clonazione, offrono ampie opportunità.
Come si può controllare un uso negativo della scienza? Oggi, quando si parla di ruolo negativo della scienza, si affacciano come prima cosa le paure che desta quella che oggi è certamente una delle branche di punta, sotto il profilo conoscitivo, della ricerca scientifica, cioè la biologia molecolare; perché la biologia molecolare sta procedendo attraverso l’approfondimento delle conoscenze derivate dal possesso della struttura del DNA. È ormai fissata l’informazione circa il patrimonio genetico; si sta ricostruendo la mappatura del genoma dell’uomo. Il genoma è il DNA (il codice genetico) contenuto nel nucleo delle cellule. Di DNA sono costituiti i centomila geni presenti nel nostro organismo. Le conoscenze sui geni si sono straordinariamente ampliate negli ultimi anni e oggi sappiamo che molte malattie sono di origine genetica. È corretto parlare di “predisposizione" genetica a sviluppare alcune malattie.
Nelle cellule di ogni individuo sono scritte molte cose sulla sua salute, sul suo passato e sul suo futuro.
In futuro ogni individuo conoscerà dalla nascita il suo corredo genetico e le malattie a cui questo lo destina? Quando e come è lecito che gli scienziati possano entrare nel segreto biologico di ogni individuo? Gli eventuali interventi sul codice genetico serviranno a vincere le malattie oppure a provocare nuove forme di discriminazione? Che garanzia abbiamo che uomini senza scrupoli non utilizzino queste conoscenze per produrre dei mostri veri e propri? Che cosa facciamo nei confronti di questi pericoli che si profilano? Diciamo fermiamo tutto? Fermiamo lo sviluppo della conoscenza scientifica? Si tratterebbe del classico rimedio peggiore del male.
La domanda cruciale è questa: è giusto o no predire il destino di salute o malattia a una persona? È senza dubbio una domanda inquietante che fa sorgere profondi problemi morali. Molti ritengono che si debba rivelare una predisposizione genetica a una malattia soltanto se esistono misure terapeutiche da adottare. Stefano Rodotà nel suo libro “Repertorio di fine secolo” si domandava se questa nuova genetica fornirà nuove libertà o imporrà nuove schiavitù. Quanto può essere psicologicamente destabilizzante sapere che ci si ammalerà di questa o quella malattia?
I medici possono rivelare il risultato dei test genetici al paziente soltanto se quest’ultimo lo vuole, chiarendo, però, che si tratta sempre di indicazioni di probabilità e non di certezze. Inoltre, essi ricorrono a questi test per chiarire la diagnosi di una malattia, per scoprire se è davvero di origine genetica. Scoprire in individui sani a quali malattie siano predestinati potrebbe, secondo alcuni, creare pericolose discriminazioni. Il Parlamento europeo ha già affrontato questo problema nel 1989, stabilendo che i test genetici vanno eseguiti rispettando l'autonomia dell'individuo e non possono essere utilizzati per l'assunzione al lavoro o prima di stipulare un contratto assicurativo. Abusi, in questo senso, sono già stati commessi negli Stati Uniti.
Pur riconoscendo tutto il valore e l'importanza della conoscenza dei dati genetici, secondo una parte dell’opinione pubblica, occorre guardarsi dalla tentazione di interpretarli come capaci di offrire previsioni del tutto certe circa l'insorgenza di una malattia, dal momento che non è possibile definire il destino biologico di un soggetto solo in base a tali dati.
Una seconda serie di questioni etiche particolari nasce dall'uso distorto, o comunque socialmente pericoloso, dei test genetici e, più ampiamente, della moderna tecnica genetica. Essi, infatti, potrebbero essere utilizzati non solo per determinare la natura e l'entità di una certa malattia, ma anche per discriminare arbitrariamente categorie di cittadini, condannandole a un trattamento deteriore o a scorretti interventi manipolatori a causa della previsione dell'insorgere di una certa malattia.
Le analisi e le tecniche genetiche devono avere per scopo il benessere dei pazienti e delle famiglie interessate; esse non devono mai essere utilizzate per ragioni eugenetiche: l’eugenetica, infatti, potrebbe condurre, in un ipotetico futuro, a manipolazioni dei geni per migliorare la specie umana, sino ad arrivare a creare una "razza superiore”. Deve essere riconosciuto e rispettato il principio fondamentale di autodeterminazione individuale del soggetto che deve sottoporsi ad analisi; deve essere vietato l'utilizzo di schede genetiche da parte di autorità statali e di enti privati, in particolare nell'ambito dei contratti lavorativi e nel settore delle assicurazioni; le informazioni genetiche individuali devono essere riservate, attendibili e di reale giovamento all'interessato.
C’è in questo momento una crescente diffidenza dell’opinione pubblica nei confronti dello sviluppo della scienza e delle possibilità della stessa, delle strade che apre, motivata dalla paura che non vi sia un limite alle scoperte scientifiche. Un aspetto di questa paura è giustificato: l’idea che tutto ciò che è realizzabile tecnicamente in un laboratorio meriti di essere prodotto e realizzato effettivamente è un’idea di per sé abbastanza semplicistica. Nei giornali, però, molto spesso si parla dei pericoli che lo sviluppo scientifico può provocare; si parla molto meno dei pericoli che la scienza ha sventato o che contribuisce a sventare tutt’oggi: pensiamo al razzismo, all’ignoranza, alle forme varie di intolleranza tra individui e popoli. Indubbiamente la conoscenza scientifica ha dato un grande contributo a sconfiggere questi autentici “mostri della ragione”.
Uno scienziato deve o non deve farsi limitare dall’etica e dalla morale? Gli scienziati non sono delle macchine che sfornano teorie, ma hanno personalità umana. Lo scienziato non è molto diverso da nessun altro uomo: in più, egli dovrebbe avere un codice etico, quel codice di autocontrollo che gli proviene dal possesso di una conoscenza che dovrebbe essere diretta e orientata verso la crescita del benessere dell’umanità. Basti pensare agli scienziati, tra cui Einstein, che si trovarono ad operare in Germania durante il Nazismo. Alcuni scienziati decisero di collaborare con il regime nazista; altri polemizzarono contro i loro colleghi che, violando un codice etico che avrebbero dovuto avere, accettarono di collaborare con il regime, di portare il loro contributo a un regime totalitario.
La scienza ha dei sistemi di autoregolazione interna. Se noi a questi criteri di selezione interna sovrapponiamo interventi dall’esterno e ammettiamo incursioni del potere politico nel campo scientifico, consentendo, ad esempio, che sia un politico a dare il suo verdetto tra due teorie scientifiche rivali e a stabilire qual è la migliore, bé certamente abbiamo una distorsione, quanto meno abbiamo un’invasione di campo.
Nell’età moderna, nel ‘400 e nel ‘500, il sapiente era un mago; gli venivano attribuiti poteri più che umani: si pensava, cioè, che per essere depositari della conoscenza bisognasse avere intelligenza e capacità non comuni, cioè molto superiori alla norma. È chiaro che da questo punto di vista la conoscenza era potere ed era potere in mano di pochi individui che potevano utilizzare la conoscenza anche per assoggettare altri individui. Lo sviluppo della conoscenza scientifica ha prodotto, in realtà, come primo risultato, un eguagliamento dell’intelligenza, ossia l’idea che chiunque può accedere alla conoscenza, che per accedere ad essa non ci vuole un cervello mostruoso, ci vuole un’intelligenza normale e ci vuole applicazione: e questa diffusione della conoscenza è di per sé un antidoto nei confronti dell’uso sbagliato della stessa, perché quante più persone possono controllare e intervenire, tanto più noi abbiamo una garanzia nei confronti della tentazione di pochi di utilizzare per fini malefici i prodotti della conoscenza.
Il problema che si è posto a proposito dello scoppio della centrale di Cernobyl e a proposito del problema del nucleare e di tutte le questioni connesse, è stato proprio il distacco tra il sapere degli scienziati, degli specialisti e l’opinione diffusa, l’opinione comune. Se c’è un problema che in Italia e probabilmente non solo in Italia va affrontato è proprio questo: gli scienziati non si sono fatti troppo carico della divulgazione, di incidere sulla cultura diffusa, fornendo spiegazioni che possano essere accessibili anche al grande pubblico, contrariamente a quello che avviene ad esempio nei paesi anglosassoni. Per questo la scienza è considerata difficile e per questo le opinioni degli scienziati incidono raramente sulle grandi scelte in Italia. C'è stato, quindi, nel caso di Cernobyl, un intervento troppo labile, timido e soprattutto fatto in termini culturalmente poco ricchi da parte del potere specialistico degli scienziati: questi ultimi non hanno messo a disposizione, come avrebbero dovuto, il loro sapere a fini sociali.
I tentativi di controllare la scienza in base a valori esterni alla scienza stessa, imposti dalla società o dalla morale si sono mostrati poco funzionali non solo allo sviluppo della conoscenza scientifica, ma anche allo stesso sviluppo dell’umanità. Si è dimostrata sbagliata l’idea che la conoscenza scientifica fosse relativa e invece i dogmi della morale fossero assoluti e atemporali e che quindi potessero giudicare lo sviluppo della scienza da una prospettiva che non cambiava mai.
La scienza è un sistema che ha trovato al suo interno delle regole, non soltanto per controllare la veridicità, l’efficacia e la funzionalità di determinate proposizioni e asserzioni, ma anche per capire quali devono essere i limiti che non vanno varcati. Da questo punto di vista la scienza può essere considerata un sistema autoregolativo, autoorganizzante. È, senza dubbio, pericoloso intervenire dall’esterno in questo sistema. Questo non significa chiaramente che la scienza non debba dialogare con le altre componenti del sapere e della società, quali la filosofia, l’etica, l’arte, il potere nelle sue diverse manifestazioni, ma deve dialogare mantenendo ferma quella che è la propria struttura interna, senza che si cerchi di stravolgerla con interventi dall’esterno.

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