Petrolio/Carbone

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Testo

PETROLIO

Definizione
Complessa miscela di idrocarburi naturali solidi, liquidi e gassosi, contenente inoltre in quantità variabili, ma comunque generalmente piccole, composti ossigenati, solforati e azotati, che si presenta a temperatura ambiente come un liquido più o meno denso, oleoso, infiammabile, di colore variabile dal giallastro al nero. Il p. può manifestarsi spontaneamente in superficie (sorgenti di p., vulcani di fango), ma essenzialmente viene estratto dal sottosuolo tramite pozzi ottenuti con trivellazioni che si sono spinte fin oltre gli 8000 m di profondità. Il prodotto estratto dai pozzi e non ancora raffinato è indicato come p. greggio o semplicemente greggio. Il greggio viene sottoposto a lavorazione nelle raffinerie per ottenere una vasta gamma di prodotti destinati a svariati impieghi. Dalla prima fondamentale separazione dei prodotti petroliferi, effettuata con la distillazione primaria (topping), si ottengono in genere cinque frazioni con punto di ebollizione (p. e.) e densità (d) man mano più elevati: benzina (p. e. inferiore a 150 ºC, d 0,70-0,75), acqua ragia minerale o benzina pesante (p. e. 145-200 ºC, d 0,77-0,78), cherosene (p. e. 175-280 ºC, d 0,79-0,81), detto anche semplicemente p., da cui si ricavano oli per illuminazione (il p. illuminante, o p. per lampade, di un tempo) e per riscaldamento e combustibili per motori a turbina, a reazione e a razzo, gasolio (p. e. 280-350 ºC, d 0,82-0,84) e residuo di distillazione (distilla solo sotto vuoto; d superiore a 0,84), da cui si ottengono lubrificanti, olio combustibile e bitume .
Chimica
Le caratteristiche fisico-chimiche dei greggi variano praticamente da giacimento a giacimento; la loro conoscenza è importante per la lavorazione successiva in quanto è in grado di orientarla nel modo più conveniente e appropriato. Circa la composizione, il p. è quasi interamente costituito da composti organici tra i quali quelli di maggior importanza sono idrocarburi: al riguardo il punto di ebollizione di un greggio è molto indicativo, risultando tanto più elevato quanto più basso è il contenuto in idrocarburi. Gli idrocarburi presenti nei p. possono appartenere alla serie degli alcani (o idrocarburi paraffinici o paraffine), delle cicloparaffine (o cicloalcani o nafteni) e degli idrocarburi aromatici (ad anello semplice: benzene e derivati come toluene, xileni, ecc.; ad anelli condensati: naftalene, antracene, fenantrene, crisene, ecc. e loro derivati). Solo eccezionalmente sono presenti idrocarburi della serie degli alcheni e dei cicloalcheni, i quali sono presumibilmente intervenuti come intermediari nella genesi del p. ma, a causa della loro più elevata reattività chimica, si sono poi, nel corso del tempo, trasformati in quelli delle altre serie; le olefine possono comunque rappresentare una cospicua frazione nei prodotti di cracking. La frazione organica non idrocarburica è costituita da composti che oltre a carbonio e idrogeno possono contenere azoto, ossigeno, vari metalli e semimetalli, e zolfo. Quest'ultimo è sempre presente in percentuali non trascurabili (1-10) sia come zolfo libero o come solfuro di idrogeno sia soprattutto sotto forma di suoi composti organici quali tioli (mercaptani), tioeteri, solfuri ciclici, derivati del tiofene, ecc. Un contenuto elevato in zolfo riduce il valore commerciale dei p. in quanto influisce negativamente sui requisiti merceologici dei prodotti petroliferi finiti: lo zolfo pertanto deve essere allontanato durante la lavorazione con appositi trattamenti che incidono sui costi. L'azoto, per lo più sotto forma di derivati della piridina e della chinolina, è contenuto in quantità minime, generalmente inferiori allo 0,1%. Vari sono i composti ossigenati, ma normalmente il contenuto in ossigeno nei p. non è elevato, avvicinandosi raramente al 2%. I composti più noti appartengono agli acidi alifatici e naftenici e ai fenoli. Nella fase non acquosa del p. possono rinvenirsi composti metallorganici, in particolare del vanadio, del boro, del magnesio, del ferro, del rame, del nichel, del silicio, ecc. I p. contengono acqua sotto forma di goccioline finemente emulsionate, in quantità che possono raggiungere l'1%; nell'acqua inoltre sono disciolte molte sostanze, soprattutto sali metallici, i più comuni dei quali sono i cloruri di sodio, di calcio e di magnesio. La composizione chimica del p. greggio è notevolmente costante se espressa con le percentuali degli elementi che lo costituiscono (composizione elementare) quale che sia la sua origine geografica e geologica: il contenuto medio del carbonio oscilla tra l'83 e l'87%, dell'idrogeno tra l'11 e il 14%, dello zolfo tra lo 0,05 e il 4,3%, dell'ossigeno tra lo 0,05 e il 3,6% e dell'azoto tra lo 0,05 e lo 0,8%. Tale composizione ha però scarso significato pratico in quanto le caratteristiche di un p. ai fini della sua lavorazione sono essenzialmente influenzate dalla sua composizione strutturale: una piccola variazione della composizione elementare può infatti corrispondere a una sensibile modificazione di quella strutturale. Circa le caratteristiche fisiche, la viscosità e il colore sono ampiamente variabili: si va da p. greggi quasi incolori e a viscosità molto bassa, addirittura analoga a quella dell'acqua, a p. neri, fortemente viscosi al punto da non riuscire a defluire liberamente; la viscosità risulta maggiore nei p. più densi. La densità dipende dalla composizione e oscilla tra 0,75 e 0,95 g/cm3; solitamente però è espressa in gradi Baumé o in gradi API. Per la classificazione dei greggi sono stati proposti numerosi criteri, nessuno dei quali tuttavia ha trovato universale applicazione; di alcuni tra i più seguiti si fa qui cenno. Il criterio del peso specifico fornisce, limitatamente al confronto tra p. provenienti da uno stesso campo petrolifero, un'indicazione di massima sulla resa del p. in prodotti leggeri e pesanti; affinché tale criterio risulti efficace è necessario quindi disporre di una classificazione chimica del greggio che illustri i rapporti quantitativi tra gli idrocarburi appartenenti alle varie serie, così da valutare il tipo di idrocarburo prevalente (base). Il criterio della base si fonda sull'aspetto e sulla composizione del residuo di un greggio sottoposto a distillazione in quanto i caratteri del residuo risultano molto influenzati dalla natura delle frazioni più leggere. Secondo tale criterio i greggi sono stati distinti inizialmente in: p. a base paraffinica (residuo chiaro, formato in prevalenza da paraffine ad alto peso molecolare; frazioni leggere e intermedie costituite essenzialmente da paraffine e nafteni), p. a base asfaltica (residuo nerastro, ricco di asfalteni e sostanze analoghe; frazioni leggere e intermedie prevalentemente nafteniche, con presenza subordinata di idrocarburi aromatici), p. a base mista, composti prevalentemente da nafteni, ma con considerevoli quantità di idrocarburi di altre serie. Successivamente, per meglio tener conto del contenuto in nafteni, si sono introdotti altri termini come naftenico e aromatico e si è ricorsi a rappresentazioni grafiche con diagrammi triangolari, p. es. considerando i vertici di un triangolo equilatero rispettivamente corrispondenti a greggi potenziali formati solo (100%) da idrocarburi paraffinici, naftenici o aromatici, e suddividendo i lati nei valori percentuali intermedi; in tal modo un greggio viene individuato all'interno del triangolo con un punto le cui coordinate triangolari corrispondono ai valori percentuali dell'analisi della sua composizione, o con diagrammi a croce, in cui la percentuale degli idrocarburi di ognuno dei gruppi considerati (paraffine, nafteni, asfalteni e idrocarburi aromatici) è proporzionale alla lunghezza del braccio rispettivo. Classificazioni del genere sarebbero però efficaci solo se da un greggio all'altro non cambiassero le caratteristiche delle loro diverse frazioni, mentre normalmente è proprio il contrario. È stato così proposto il criterio delle due frazioni chiave, che prende in considerazione come carattere distintivo la densità in gradi API di due frazioni del greggio in esame, una bassobollente (tra 250 e 275 ºC, a pressione normale), detta frazione chiave 1, e l'altra altobollente (tra 275 e 300 ºC a pressione ridotta, di 40 torr, corrispondenti a 390-415 ºC a pressione normale), detta frazione chiave 2. In base ai valori delle densità delle due frazioni il greggio può essere indicato con una base corrispondente a una delle nove previste da tale classificazione. Tutti questi criteri sono però solo orientativi; se si considera poi che il greggio di uno stesso giacimento può presentare caratteristiche diverse secondo l'orizzonte da cui proviene e che il greggio di un certo livello può nel tempo modificare la sua qualità, si capisce perché si siano affinati metodi sempre più efficaci per fornire in modo semplice e rapido un complesso di dati atto a consentire la valutazione tecnologica del greggio in esame ai fini della sua più idonea utilizzazione. L'esame di un greggio viene normalmente condotto considerando i dati relativi alle sue caratteristiche fisiche generali (densità, temperatura di infiammabilità, ecc.), alla determinazione della base, alla determinazione delle percentuali in volume relative alle varie frazioni bollenti entro intervalli successivi di 25 ºC, alla determinazione di alcune caratteristiche fondamentali di tali frazioni, alla determinazione della curva di distillazione, alla determinazione delle sostanze non idrocarburiche presenti, ossia dello zolfo, dei sali, dell'acqua e dei sedimenti in sospensione. Le indicazioni più significative per la valutazione tecnologica di un greggio sono fornite dall'esame della sua curva di distillazione, che può essere determinata secondo vari procedimenti normalizzati.
Cenni storici: origini del petrolio
Sull'origine del p., o naftogenesi, si è discusso per più di un secolo e ancor oggi vari aspetti risultano oscuri. Secondo la teoria inorganica sostenuta nel secolo XIX da molti scienziati, tra cui M. P. E. Berthelot e D. I. Mendeleev, il p. si sarebbe formato per azione dell'acqua su carburi metallici di origine magmatica: in effetti alcuni carburi metallici, come quelli di alluminio, di uranio, ecc., vengono decomposti dall'acqua liberando metano, etilene, acetilene, benzene, ecc. La teoria dell'origine inorganica fu ben presto abbandonata non solo per l'esistenza di prove concrete a favore dell'origine organica del p., ma soprattutto per l'incongruenza tra le modalità di formazione ipotizzate da tale teoria e le condizioni geologiche generali che si riscontrano per i giacimenti di petrolio. Questi infatti si trovano quasi sempre nell'ambito di rocce sedimentarie di origine marina anziché in rocce di origine magmatica. Le principali considerazioni a sostegno dell'ipotesi organica vertono sull'abbondanza di sostanze organiche contenute nelle rocce sedimentarie e sulla prevalenza tra i componenti di tali sostanze del carbonio e dell'idrogeno, sulla presenza di azoto, componente essenziale delle proteine di tutte le sostanze viventi, e di pigmenti, sia pure in minime quantità, del gruppo delle porfirine in cui rientrano tanto la clorofilla quanto le emine e i citocromi; inoltre molti p. presentano una debole attività ottica, attribuita alla presenza di prodotti di trasformazione del colesterolo. Pur nell'ambito di una genesi organica, sono state formulate due distinte ipotesi sulla formazione del petrolio. Secondo l'una, dato che minime quantità di idrocarburi e di sostanze analoghe per composizione e struttura molecolare sono presenti nelle cellule di organismi marini viventi, il p. rappresenterebbe la frazione di tale contenuto sfuggita all'attacco delle popolazioni batteriche viventi sui fondi marini dopo la morte degli organismi e la caduta sul fondo dei loro resti. Anche ammettendo che tale frazione rappresenti meno dell'1% della quantità totale di idrocarburi presenti in tali organismi, il numero di questi è talmente elevato da giustificare pienamente le stime fatte sulle quantità complessive di p. presente nel sottosuolo. Secondo l'altra il p. deriverebbe dalla decomposizione in ambiente non ossidante di sostanze organiche, in particolare i grassi, depositatesi in ambiente per lo più marino, decomposizione operata da alcuni tipi di batteri capaci di sottrarre alle sostanze organiche ossigeno, zolfo e azoto sotto forma di acqua, solfuro di idrogeno e ammoniaca: la sostanza residua sarebbe per composizione simile al petrolio. Data l'enorme quantità di materia organica accumulatasi nei sedimenti nel corso dei tempi geologici, la trasformazione anche solo di una sua piccola frazione a opera di batteri giustificherebbe l'esistenza dei giacimenti petroliferi. Il materiale sedimentario ricco di sostanze organiche, tanto di formazione marina quanto convogliato nelle fasce costiere dai corsi d'acqua, in decomposizione in ambiente non ossidante è indicato come sapropel: la trasformazione del sapropel a opera di batteri anaerobi e di catalizzatori sia organici (enzimi) sia inorganici, come vanadio, molibdeno, nichel, ecc., porterebbe prima alla formazione di una sostanza, detta protopetrolio, costituita per lo più da grassi, in quanto l'attacco batterico è molto più intenso su carboidrati e proteine, e successivamente, per ulteriore riduzione, ai petroli. I batteri anaerobi svolgono una parte essenziale nel processo di trasformazione delle materie organiche in quanto non solo favoriscono il mantenimento di un ambiente riducente e arricchiscono i sedimenti col materiale organico delle loro spoglie, ma anche producono direttamente idrocarburi, p. es. metano dalla riduzione del biossido di carbonio con idrogeno: I processi che intervengono in queste trasformazioni sono prevalentemente endotermici e oltre che dall'azione batterica e catalitica sono influenzati da quella combinata del calore e della pressione e, secondo alcuni autori, anche dal bombardamento da parte di radiazioni emesse da elementi radioattivi; con esperienze di laboratorio si è ottenuta p. es. la formazione di idrocarburi paraffinici, bombardando con particelle a acidi grassi saturi, e di idrocarburi ciclici bombardando acidi naftenici. Circa il tempo necessario per la formazione del p. si ritiene che non occorrano tempi molto lunghi, intesi in senso geologico: al riguardo un milione di anni è già sufficiente; sono stati però rinvenuti idrocarburi liquidi in sedimenti estratti dai fondali del Golfo del Messico, sedimenti cui è stata attribuita un'età non superiore a 15.000 anni. Circa la profondità, molti giacimenti si trovano a profondità limitate a qualche centinaio di metri; si è inoltre accertato che il contenuto in p. non aumenta con la profondità. È possibile quindi che una copertura sedimentaria dello spessore di un centinaio di metri sia già sufficiente per avviare i processi di trasformazione. Di conseguenza la temperatura degli ambienti di formazione non deve aver toccato punte elevate: si ammettono valori medi sui 100 ºC, con punte verso i 150 ºC per i bacini molto profondi; la presenza nei p. delle porfirine, che si decompongono oltre i 170 ºC, depone al riguardo a favore. L'ambiente più propizio per l'accumulo del sapropel è quello di bacini marini a profondità non molto elevata e con circolazione delle acque ristretta, sia per l'abbondanza del materiale organico, sia per il rapido accumulo di sedimenti fini, sia per la scarsa quantità di ossigeno presente nelle acque a contatto coi sedimenti. Oltre a queste considerazioni, di fondamentale importanza per la naftogenesi è che il bacino sia subsidente: ciò consente l'accumulo di una grande quantità di sedimenti e di materia organica. Le rocce derivate dalla litificazione dei sedimenti depostisi in tali ambienti vengono denominate rocce madri del p.; per lo più si tratta di rocce pelitiche, come argille nere o marne. Dato però che il p. originatosi nel corso della diagenesi dei sedimenti migra verso altre rocce adiacenti favorevoli al suo accumulo, nelle rocce madri non ne rimangono tracce significative e ciò non consente per i singoli giacimenti petroliferi il sicuro riconoscimento delle loro rocce madri. Nelle rocce sedimentarie considerate comunemente come rocce madri degli idrocarburi si incontrano sostanze organiche prevalentemente insolubili in solventi organici. Questo materiale complesso, indicato come pirobitume o cherogene, ha caratteristiche intermedie tra quelle dei carboni e dei petroli. Non contiene p. come tale ma lo cede per distillazione e impregna depositi anche enormi di argille nerastre, dette anche argille bituminose o impropriamente piroscisti. La composizione chimica del pirobitume non è costante; vi figura carbonio in percentuale (50-70%) però nettamente inferiore rispetto a quella degli idrocarburi, e lo stesso si può dire per il tenore in idrogeno, mentre elevati sono i tenori in ossigeno e azoto. La struttura delle sostanze che compongono il pirobitume è complessa e ancora non ben conosciuta: le sue proprietà fisiche e la natura dei prodotti di decomposizione sono alquanto variabili. Dalla distillazione per riscaldamento del pirobitume si ottiene p. in genere in quantità inferiore a 50 l/t, anche se alcuni giacimenti come le argille nere eoceniche della formazione del Green River (Colorado, Utah, Wyoming) possono fornire da 60 a 120 l di olio combustibile per tonnellata di roccia. Per alcuni studiosi il pirobitume, contenuto per lo più in quantità inferiori all'1% in quasi tutte le rocce sedimentarie, sarebbe da considerare come la sostanza madre degli idrocarburi; dato però che la temperatura necessaria per la sua decomposizione è di 300-400 ºC, valori che si possono incontrare entro la crosta terrestre oltre i 10 km di profondità, e nettamente superiore a quella conciliabile con la presenza di porfirine nei greggi, tale ipotesi non è molto seguita, anche se i sostenitori dell'origine degli idrocarburi per trasformazione termica dal pirobitume affermano che le reazioni possono avvenire a temperature notevolmente inferiori a quelle osservate in laboratorio operando però per tempi assai lunghi. Non esistono prove della trasformazione del pirobitume in p., che viene pertanto dai più considerato come un composto organico inerte alle temperature massime che si raggiungono nelle rocce durante la naftogenesi. La sua presenza in quantità superiori alla media in rocce come le argille bituminose indicherebbe solo una più accentuata ricchezza in sostanza organica di quei sedimenti in origine: nel corso della naftogenesi migrerebbe la parte trasformatasi in gas e p., mentre rimarrebbe un residuo praticamente inalterabile, il pirobitume appunto, decomponibile in natura solo per effetto di elevate temperature legate a metamorfismo.
Geofisica: accumulo del petrolio
Il costipamento dei sedimenti sapropelitici prodotto dal carico dei sedimenti soprastanti provoca l'espulsione dei fluidi contenuti in questi in quantità rilevanti: i fanghi argillosi appena deposti possono infatti contenere anche oltre l'80% di acqua, porosità che si riduce notevolmente con l'aumentare della pressione di carico (intorno al 10% a qualche chilometro di profondità), a differenza di quello che succede per le sabbie, la cui porosità (20-30%) non subisce che diminuzioni molto contenute. L'acqua tende a sfuggire, nelle fasi iniziali, verso l'alto e, attraversando il sedimento, trascina con sé i prodotti della trasformazione delle sostanze organiche: gli idrocarburi liquidi allo stato di dispersione colloidale e quelli gassosi e altri gas (azoto, idrogeno, ossido e biossido di carbonio, solfuro di idrogeno, argo, elio, ecc.) in soluzione. Durante il costipamento e la concomitante fuoruscita di acqua dai sedimenti, gli idrocarburi presenti sono estratti solo se capaci di sciogliersi nelle soluzioni acquose interstiziali: dato che al crescere del peso molecolare degli idrocarburi ne diminuisce la solubilità e che questa è invece favorita dall'aumento della concentrazione salina, ne consegue che le acque marine, e quindi salate, circolanti nel sedimento sono particolarmente efficaci nel recupero del protopetrolio. Successivamente, con il progredire della diagenesi, la disposizione lamellare dei minerali delle argille riduce progressivamente la permeabilità verticale del sedimento, favorendo quindi la migrazione laterale dei fluidi, parallelamente alla stratificazione, verso rocce a minor pressione idrostatica. Questo trasferimento di fluidi per spremitura dalla roccia madre a formazioni adiacenti più permeabili, indicate come rocce serbatoio o rocce magazzino, è definita migrazione primaria. Quando la dispersione colloidale penetra nella roccia serbatoio, il cambiamento di ambiente (concentrazione salina, pH, temperatura, pressione) provoca la liberazione del p., sotto forma di goccioline, e dei gas disciolti. I fluidi passati nella roccia serbatoio continuano a spostarsi, per effetto di cause diverse, a mano a mano verso l'alto fino a giungere in superficie se la roccia serbatoio non è coperta da una formazione impermeabile, la cosiddetta roccia di copertura. Dove esiste tale copertura l'accumulo del p. in zone della roccia serbatoio dove ne sia impossibile un ulteriore spostamento è favorito da particolari situazioni stratigrafiche o tettoniche definite come trappole petrolifere o semplicemente trappole. La mancanza di un'efficace roccia di copertura comporta invece la dispersione in superficie del p.: il fenomeno è noto come dismigrazione, mentre con migrazione secondaria si indica lo spostamento dei fluidi all'interno della roccia serbatoio fino all'accumulo nelle trappole. Gli spostamenti nell'ambito della roccia serbatoio sono legati soprattutto alla sensibile differenza di tensione superficiale tra acqua e p. e alla differenza di densità degli stessi fluidi. A causa della tensione superficiale inferiore a quella dell'acqua, il p. tende a occupare nella roccia serbatoio i pori più grandi che l'acqua lascia liberi per infiltrarsi in quelli più piccoli; in tal modo il p. può più facilmente raggiungere dei livelli più permeabili in cui, ai fini della mobilità, risulta più efficace la differenza di densità: il p., meno denso, tende infatti a spostarsi verso l'alto e quindi a galleggiare sull'acqua. La velocità di tali spostamenti è comunque molto ridotta, dell'ordine di centimetri all'anno. Rocce serbatoio per eccellenza (oltre il 60%) sono le arenarie e le sabbie, particolarmente se costituite in prevalenza da granuli equidimensionali alquanto angolosi; depositi del genere si formano tipicamente lungo le coste o comunque nell'ambito della piattaforma continentale. Da rocce serbatoio possono anche fungere i calcari oolitici e i bioermi, formazioni dotate di notevole porosità primaria. Inoltre bisogna considerare anche le rocce dotate di porosità secondaria come calcari e dolomie e le rocce comunque fratturate. Nel complesso si stima che le rocce serbatoio di tipo calcareo costituiscano poco più del 30%. Come copertura delle rocce serbatoio si incontrano solitamente argille o anche evaporiti, più raramente un tappo di asfalto formatosi per ossidazione di idrocarburi giunti quasi in superficie. Un giacimento di p. corrisponde al volume di roccia serbatoio impregnato da p. e anche da gas naturale combustibile, purché entrambi questi fluidi siano in continuità fisica e sottoposti allo stesso regime di pressione. Come già accennato, le rocce circostanti, e in particolare quelle soprastanti la roccia serbatoio, per poter impedire o comunque fortemente rallentare il movimento degli idrocarburi verso la superficie, devono presentare delle condizioni particolari di permeabilità e di assetto degli strati, ossia devono risultare delle trappole. Quando si parla di campo petrolifero si intende pertanto tutta l'area geografica nel cui sottosuolo si trovano uno o più giacimenti aventi in comune una stessa origine geologica; se più campi petroliferi presentano nell'ambito di una stessa regione caratteristiche simili perché formatisi in uno stesso ambiente o in seguito a uno stesso evento geologico, si parla di provincia petrolifera o anche di bacino petrolifero. Un giacimento è costituito, invece, da uno o più accumuli di p., anche sovrapposti, nell'ambito di una stessa trappola. A mano a mano che i fluidi petroliferi si accumulano nella roccia serbatoio, essi tendono a disporsi secondo la loro densità e secondo la temperatura e la pressione dell'ambiente. Normalmente si ha dall'alto in basso la successione: idrocarburi gassosi, idrocarburi liquidi e acqua. La separazione non è netta e quindi la frazione liquida contiene di norma una certa quantità di gas disciolti, che può essere indicata in base al contenuto in m3 di gas per metro cubo di p., indice noto come Gas Oil Ratio (G.O.R.): inoltre nel p. sono sempre contenuti prodotti solidi come resine, cere e asfalti. In un giacimento possono dunque essere presenti accumuli formati solo da gas naturali, da gas associati a idrocarburi liquidi (giacimenti soprasaturi) e da idrocarburi liquidi con o senza gas disciolti (giacimenti sottosaturi). Nella stragrande maggioranza dei casi gli idrocarburi sono in contatto con acqua: le acque che nella roccia serbatoio sono al di sotto dello strato impregnato da idrocarburi liquidi sono dette acque di fondo, mentre l'acqua pellicolare che aderisce ai granuli nei livelli impregnati dagli idrocarburi liquidi e gassosi è denominata acqua connata o acqua di strato. Per lo più si tratta di acque salate con una concentrazione in sali variabile dallo.0,1 al 40% con punte anche oltre il 60%; di solito però la concentrazione è di poco superiore a quella dell'acqua marina (3,5%) ma con una composizione sensibilmente diversa risultando tali acque più ricche in solfuri e cloruri e decisamente povere di solfati e di silice, a testimonianza delle condizioni riducenti dell'ambiente di formazione del petrolio. § Un quadro esatto e definitivo della distribuzione del p. nel mondo non è possibile in quanto la ricerca petrolifera, condotta a ritmo intenso, porta di frequente alla scoperta di nuovi giacimenti; l'orientamento attualmente prevalente è la ricerca di p. nell'ambito della piattaforma continentale, anche se già ci si prepara ad affrontare la coltivazione di giacimenti ubicati sotto fondali marini a profondità ben maggiori. I giacimenti utili di idrocarburi si trovano a profondità variabili da poche decine di metri a diversi chilometri, anche 7-8; quelli più profondi costituiscono una frazione molto ridotta del totale anche perché solo con i moderni metodi di perforazione è stato possibile raggiungere considerevoli profondità: ca. l'80% dei giacimenti conosciuti ha una profondità inferiore ai 3000 m. Il p. è stato rinvenuto in formazioni rocciose di età e tipologia diverse ma sempre facenti parte di bacini sedimentari; di solito i giacimenti sono ubicati in margine ai bacini, per le più favorevoli possibilità dell'instaurarsi dei processi naftogenetici e, in seguito, anche della formazione di efficaci trappole per l'accumulo del petrolio. Circa la metà dei giacimenti petroliferi ha avuto origine in ambienti connessi con la piattaforma continentale e con la scarpata continentale, ca. il 25% è invece ricollegabile all'ambiente di miogeosinclinale: dei rimanenti, di tipo vario, particolarmente interessanti sono quelli connessi coi bacini di sprofondamento intracratonici. Per quanto concerne l'età, a titolo indicativo si può dire che le rocce serbatoio dei giacimenti petroliferi appartengono per oltre il 40% al Cenozoico (in piccola parte al Neozoico), per ca. il 27% al Mesozoico e per il resto al Paleozoico (in piccola parte anche al Precambriano). La distribuzione geografica dei giacimenti di p. è in relazione con quella dei grandi bacini sedimentari, di cui però, come si è già accennato, tende a occupare solamente determinate aree: l'80% delle aree petrolifere è infatti concentrato in appena il 20% della superficie relativa ai bacini sedimentari.
Tecnologia: ricerca petrolifera
Data la rilevante importanza economica del p., la ricerca di nuovi giacimenti si è andata progressivamente perfezionando e affinando, avvalendosi di metodi di indagine che richiedono l'intervento di specialisti dei vari settori che studiano la crosta terrestre come stratigrafia, giacimentologia, geofisica, petrografia, paleontologia, paleogeografia, idrologia sotterranea, ecc. Inizialmente i pozzi petroliferi vennero scavati nelle zone in cui si avevano consistenti manifestazioni petrolifere superficiali come il p. nerastro misto ad acqua salata e a idrocarburi gassosi delle “salse” dell'Appennino emiliano o delle “maccalube” della Sicilia, o come quelle, dovute alla risalita di idrocarburi gassosi, caratterizzate dalla formazione dei cosiddetti vulcani di fango. Successivamente, in seguito all'affermarsi della teoria delle anticlinali, si sviluppò il rilevamento geologico di superficie, ancor oggi importante per un'indagine preliminare, ma non in grado di fornire indicazioni sulle strutture profonde. La necessità di dover disporre di informazioni il più possibile attendibili sull'andamento strutturale in profondità, per non dover procedere completamente all'oscuro alla costosa perforazione dei pozzi di sondaggio, ha portato alla messa a punto di numerosi metodi geofisici di rilevamento profondo (per quanto concerne le caratteristiche di tali metodi v. prospezione). Una volta compiuta la fase di prospezione si decide di effettuare delle perforazioni di prova nei punti più favorevoli in base all'interpretazione delle caratteristiche strutturali e stratigrafiche del sottosuolo precedentemente desunte. È così possibile ricostruire la colonna stratigrafica corredata con l'indicazione dell'età geologica degli strati, ricavata in base allo studio micropaleontologico delle carote e dei detriti di perforazione, con l'indicazione della porosità, della resistività, del potenziale spontaneo, dei dati relativi alla circolazione delle acque sotterranee. Sulla base di tali dati si effettua la ricostruzione tettonica della regione con particolare attenzione alla localizzazione delle possibili trappole petrolifere. Nella ricerca delle trappole è di grande aiuto la compilazione di diverse rappresentazioni cartografiche della stratigrafia e litologia del sottosuolo, come carte delle isopache, carte di litofacies, carte paleotettoniche, carte palinspastiche. Dallo studio dei caratteri litologici e paleontologici è possibile infine ricostruire le condizioni dell'ambiente di sedimentazione. Per quanto concerne la fase conclusiva della ricerca petrolifera, ossia l'esecuzione dei pozzi, sia per accertare la validità o meno delle previsioni sia per l'eventuale coltivazione del giacimento, v. perforazione e pozzo.
Tecnologia: coltivazione
L'estrazione del p. dal giacimento deve essere effettuata nel modo più razionale ed economico possibile. Decisa l'ubicazione dei pozzi ritenuti necessari per la coltivazione dei giacimenti di un campo petrolifero, in base alle conclusioni della fase di ricerca, si procede alla perforazione e al completamento dei pozzi stessi. Questi vengono isolati dalla roccia in cui sono perforati rivestendoli con una colonna di tubi di acciaio e iniettando cemento tra la parete del foro e la colonna stessa: solo in corrispondenza dei livelli produttivi, petroliferi o gassiferi, individuati durante la fase di prospezione e carotaggio, si interrompe con apposite tecniche la continuità del rivestimento per consentire la penetrazione degli idrocarburi. I fluidi che si riversano nel pozzo possono risalire spontaneamente fino all'imboccatura se la pressione è sufficiente a far migrare gli idrocarburi dalla roccia nel tubo e se il p. non è troppo viscoso, altrimenti bisogna ricorrere a sistemi di sollevamento. Essenziale per la valutazione della quantità di p. direttamente recuperabile da un giacimento è l'esatta previsione del comportamento della pressione durante l'estrazione. I fluidi contenuti in una roccia serbatoio sono sottoposti, infatti, a una pressione detta pressione di strato o pressione di giacimento, che risulta essenzialmente dal concorso di tre fattori, la pressione idrostatica, dovuta al peso della colonna d'acqua che impregna la roccia serbatoio, la quantità di gas in soluzione nel p. e la presenza di una cappa gassifera (gas-cap), ossia di un accumulo di gas libero nella parte sommitale del giacimento. Quando con una perforazione si interrompe la continuità della roccia di copertura, la pressione trova sfogo e i fluidi sono così sollecitati a fuoruscire. Il ruolo di questi fattori è variabile; si possono tuttavia riconoscere due situazioni limite, tra le quali esistono infiniti casi intermedi: la pressione durante la coltivazione diminuisce progressivamente tanto che a un certo punto si arresta l'afflusso di idrocarburi dal pozzo, oppure la pressione si mantiene all'incirca costante durante tutta la produzione, nel corso della quale però la quantità di p. estratta man mano diminuisce mentre aumenta quella di acqua, fino a che il pozzo produce solo acqua. Se nel giacimento il p. è sottosaturo, la caduta di pressione che si verifica con l'apertura del pozzo provoca l'espansione dei gas presenti in soluzione: i gas muovendosi verso l'imbocco del pozzo trascinano anche il petrolio. In questo caso, però, una volta sfuggiti i gas, il flusso di p. si arresta e quindi è possibile recuperare direttamente solo ca. il 20% del p. esistente nel sottosuolo per cui si deve ricorrere a particolari tecniche di recupero. Nel caso invece di un giacimento soprassaturo, cioè con gas-cap, se si ha cura di aprire il pozzo in prossimità della base del livello petrolifero e non alla sommità dove invece si raccoglie il gas, l'espansione del gas libero soprastante sospinge il p. nel pozzo; inoltre la parte dei gas disciolti che si smescola migra prevalentemente verso la volta del giacimento accrescendo il volume della cappa gassifera che quindi, estendendosi verso il basso, scaccia il p. dai pori della roccia serbatoio, facilitandone il deflusso nel pozzo. Giacimenti del genere possono fornire anche oltre il 50% del p. contenuto prima che si renda necessario il ricorso a sistemi di recupero secondario. Quando la roccia serbatoio si estende al di là dell'area interessata dagli accumuli idrocarburici in modo da giungere fino in superficie, si realizza una situazione analoga a quella delle falde acquifere artesiane: l'apertura di un pozzo provoca la fuoruscita di p. sotto la spinta dovuta, oltre che all'espansione dei gas in soluzione ed, eventualmente, di quelli della cappa gassifera, in prevalenza alla spinta idrostatica. In casi del genere, durante la coltivazione, l'acqua che affluisce lateralmente sostituisce gradatamente gli idrocarburi fuorusciti e pertanto la pressione si mantiene praticamente costante. Giacimenti di questo tipo consentono l'estrazione diretta anche dell'80% del p. contenuto. Se un pozzo dovesse raggiungere un giacimento di tipo soprassaturo senza che ciò sia stato previsto, la violenta espansione dei gas può provocare l'eruzione incontrollata del pozzo, dannosa perché impedisce una coltivazione più razionale e anche pericolosa per la possibilità di esplosioni e di incendi. Per evitare inconvenienti del genere di regola si colloca in superficie all'imbocco del pozzo un complesso apparato detto croce di eruzione o albero* di Natale. Se l'energia del giacimento non è sufficiente ad assicurare l'erogazione spontanea, il p. viene sollevato in superficie ricorrendo all'impiego di pompe di vario tipo o al metodo del gas-lift. Recentemente si è fatto ricorso a metodi di recupero secondario per consentire l'ulteriore estrazione di p. da quei giacimenti in cui, in seguito a eccessiva perdita di pressione spesso dovuta a irrazionale sfruttamento, è ancora contenuta una grande quantità di p. bloccata nella roccia serbatoio. I metodi di recupero secondario si basano sull'aumento della pressione del giacimento iniettando gas naturali (v. gas-drive), aria o acqua nel giacimento tramite appositi pozzi dislocati in modo da favorire lo spostamento del p. verso i pozzi di estrazione. Si ricorre inoltre a processi termici per ridurre la viscosità dei prodotti rimasti nella roccia; in particolare risulta efficace innescare la combustione in profondità di una parte del p. per provocare la vaporizzazione di altro p. e facilitare così il movimento del p. residuo verso i pozzi. In alcuni giacimenti posti a profondità modesta e non più convenientemente coltivabili con la tipica tecnica petrolifera si è ricorsi a un vecchio sistema consistente nel raggiungere mediante pozzi e gallerie minerarie la roccia serbatoio, nella quale si esegue una serie di piccoli fori di sonda dai quali il p. gocciola e può essere raccolto in appositi canaletti e portato in superficie. Il p. estratto dai pozzi è misto a fango e ad altre impurezze ed emulsionato con acqua salata; viene inviato all'impianto di degasolinaggio* per il recupero o la eliminazione delle frazioni troppo leggere e volatili che costituirebbero un notevole pericolo durante il trasporto: i gas possono venire in parte utilizzati, direttamente per il gas-lift o come combustibili, e la parte restante, dopo trattamento per eliminare solfuro di idrogeno, anidride solforosa e vapore acqueo eventualmente presenti, viene immessa nei gasdotti. Il greggio, prima del trasporto alle raffinerie, viene raccolto in grandi vasche dove per decantazione avviene una prima separazione dell'acqua e dei sedimenti argillosi. Il trasporto del greggio alle raffinerie si compie in vario modo: per via di terra mediante oleodotti, autocisterne e cisterne ferroviarie, e per via d'acqua con navi cisterna.
Tecnologia: uso del petrolio
Inizialmente il p., attraverso i diversi prodotti ottenuti dalla sua elaborazione, costituiva esclusivamente una fonte di energia utilizzata per motori (e per l'illuminazione). Con il progresso della chimica il p. è diventato la materia prima fondamentale di un'imponente attività: l'industria petrolchimica; il p. non ha però perso la sua specifica caratteristica di fonte primaria di energia, anzi, con i progressi tecnici della petrolchimica, che hanno permesso di ottenere carburanti sempre più sofisticati, esso si è sostituito al carbone rispetto al quale, inoltre, è più facilmente estraibile e trasportabile. Sono inoltre assai avanzate le ricerche per la produzione di proteine dal p., utilizzabili quale materiale nutritizio per particolari microrganismi, le cui cellule, ricche in proteine, si sviluppano a spese degli idrocarburi del p., e vengono poi raccolte e impiegate in mangimi per il bestiame. Tutte le operazioni tecnologiche che permettono di ottenere dal p. quella vasta gamma di prodotti su cui si basa la petrolchimica si svolgono in complessi centri di lavorazione del greggio, le raffinerie. Questi complessi industriali sono convenientemente ubicati rispetto alle aree di mercato e alle possibilità di ricevere con facilità il greggio da lavorare; possono essere classificati o in base alla quantità di greggio che possono trattare per ottenere prodotti con determinate caratteristiche (potenzialità) o in base allo schema di lavorazione che sono in grado di attuare. Al riguardo si distinguono tre tipi principali di raffinerie: le raffinerie dette a combustibili sono destinate particolarmente alla produzione di distillati leggeri (gas liquefatti e benzine) e medi (cherosene e gasolio); le raffinerie dette a lubrificanti tendono invece a trasformare gran parte del greggio in oli lubrificanti; complete si dicono infine le raffinerie dotate di impianti in grado di far fronte alle più varie richieste del mercato e quindi in grado di lavorare greggi di vario tipo. Le raffinerie complete possono quindi sulla base della natura del greggio disponibile e delle caratteristiche dei prodotti richiesti attuare schemi di lavorazione diversi. Le operazioni fondamentali che si succedono nel corso della lavorazione di un greggio sono la separazione per distillazione, la conversione e il trattamento. Preliminarmente però si procede alla desalinizzazione e deacquificazione del greggio in quanto contiene, emulsionata, ancora una certa quantità di acque salmastre che potrebbero dar luogo a fenomeni di corrosione negli impianti di raffinazione. L'allontanamento di tali acque si può ottenere lavando il greggio con acqua calda, meglio se addizionata con sostanze che facilitino la rottura dell'emulsione, come sapone o carbonato di sodio, per centrifugazione o per separazione elettrostatica, applicando a un sistema di elettrodi immersi in un apposito decantatore una differenza di potenziale di 10-20.000 V. La separazione per distillazione primaria, o topping, è l'operazione essenziale per ottenere dal greggio le varie frazioni: viene condotta in grandi colonne* di distillazione (o colonne di frazionamento) a funzionamento continuo, in cui si immette il greggio ridotto in gran parte allo stato di vapore previo riscaldamento non oltre i 400 ºC in forni a serpentino (pipe still). Le frazioni allo stato di vapore migrano rapidamente verso l'alto della colonna, seguite da tutte le frazioni più leggere dei residui liquidi, trascinate da una corrente ascensionale di vapor acqueo. Così nella parte alta della colonna si raccolgono le frazioni più leggere, le benzine leggere, medie e pesanti, da punti intermedi si raccolgono le frazioni medie, cherosene (detto anche p.) e gasolio; dai punti più bassi, le frazioni pesanti: oli lubrificanti e oli combustibili; dal fondo della colonna si recuperano i residui solidi: paraffina, vaselina, bitumi, pece, ecc. Dalla testa della colonna di distillazione si liberano invece gli idrocarburi gassosi disciolti nel greggio, costituiti da una miscela di metano, etano, propano, butano e isobutano (gas di raffineria). Le frazioni corrispondenti alle benzine pesanti, al cherosene e al gasolio sono in genere sottoposte a ulteriore frazionamento in colonne più piccole, dette colonne di stripping. Il residuo della colonna di topping viene invece ridistillato a pressione ridotta, previo riscaldamento in un forno a serpentino, in un impianto detto colonna vacuum, corredato anch'esso di colonne secondarie di stripping. Si ottengono oli medi e pesanti dalla parte alta della colonna, oli lubrificanti da quella inferiore e un residuo ricco di impurezze, utilizzato come combustibile di scarso pregio. Le frazioni pesanti e i residui possono anche essere immessi direttamente sul mercato, mentre le altre frazioni sono sottoposte a ulteriori procedimenti per renderle più idonee alle varie applicazioni. La quantità delle singole frazioni ottenute dalla distillazione primaria differisce in modo sensibile secondo la natura del greggio utilizzato, ma in genere il rapporto quantitativo tra esse non corrisponde alle richieste del consumo. Quasi tutti i greggi sono infatti relativamente poveri nei prodotti più leggeri, più pregiati e richiesti: a riequilibrare tale rapporto si provvede con i trattamenti di conversione. La conversione consiste infatti in operazioni che mirano a modificare le qualità delle frazioni liquide o gassose: così gli oli pesanti, di scarso valore commerciale e di difficile utilizzazione, vengono trasformati in prodotti più leggeri e pregiati, per lo più benzine a elevato numero di ottano (v. cracking e idrocracking), le benzine leggere e pesanti subiscono una parziale trasformazione delle molecole lineari in isomeri ramificati, trattamento che eleva notevolmente il numero di ottano (processo di reforming, che presenta numerose varianti secondo i catalizzatori impiegati e le modalità operative: hydroforming, platforming, ecc.). I processi precedenti comportano la liberazione di gas in quantità variabili secondo la natura del greggio e la metodologia adottata: i gas possono essere impiegati come combustibili (gas di p. liquefatto o GPL: v. gas) oppure convertiti per polimerizzazione catalitica in frazioni liquide utilizzate come componenti di benzine ad alto numero di ottano (v. benzina). Il trattamento consiste essenzialmente nel rimuovere dai prodotti ottenuti tutte le impurità e le sostanze indesiderabili presenti; vi rientrano anche gli interventi destinati a conferire al prodotto particolari caratteristiche merceologiche, secondo le esigenze del mercato. Operazioni di trattamento sono p. es. quelle relative alla purificazione delle benzine o l'aggiunta di additivi. Particolare importanza hanno i trattamenti di desolforazione che si effettuano con metodi diversi, secondo le caratteristiche del prodotto trattato, sulle benzine, sul cherosene e sul gasolio. Per i principali prodotti derivati dal p. si veda anche petrolchimica.
Tecnologia: produzione, riserve, produttori
Se il p. ha avuto una crescente e imponente valorizzazione nel corso del sec. XX ciò non vuol dire che anche precedentemente non fosse conosciuto e utilizzato. Fin da tempi assai remoti l'uomo deve aver notato le manifestazioni superficiali della presenza di idrocarburi e ben presto deve aver imparato a utilizzare p. e asfalto raccolti da giacimenti superficiali. Numerosissime sono le testimonianze in merito, in gran parte relative ad antiche civiltà medio-orientali. Così, l'asfalto ricavato da giacimenti superficiali frequenti sulle rive del Mar Morto, del Mar Caspio e del Golfo Persico era commerciato già 5000 anni fa per calafatare imbarcazioni, per cementare i blocchi di pietra degli edifici, per impermeabilizzare le condotte d'acqua. La Bibbia cita l'uso di bitume per impermeabilizzare l'arca di Noè e anche la cesta di papiro in cui la madre affidò alle acque del Nilo Mosè bambino, e come legante nella costruzione della torre di Babele. Presso Assiri, Babilonesi ed Egizi il p. serviva anche per i riti sacri del culto del fuoco: i Parsi, adoratori del fuoco, costruivano addirittura i loro templi in vicinanza di fughe di gas naturale incendiatosi per cause spontanee, i cosiddetti “fuochi eterni”. Il p. e l'asfalto venivano utilizzati anche per illuminazione e a fini medicinali; in tempi più recenti fu usato per scopi guerreschi nella preparazione del “fuoco greco”. Tale utilizzazione degli idrocarburi naturali aveva però carattere prevalentemente locale, concentrata intorno alle loro manifestazioni superficiali. Solo nel secolo scorso si cominciò a ricercare e a commerciare il p. distillandolo essenzialmente per usi di illuminazione e riscaldamento in sostituzione degli oli vegetali e animali fino allora usati, il cui costo subiva un continuo incremento. Negli Stati Uniti intorno al 1850 per ottenere p. illuminante si intrapresero prima la distillazione del carbon fossile e poco dopo quella dell'asfalto. Dato l'esito favorevole dell'esperimento e l'aumento della richiesta si pensò di migliorare la produzione utilizzando gli idrocarburi liquidi delle sorgenti naturali note: queste però furono in brevissimo tempo incapaci di fornire tutto il p. richiesto dal mercato e quindi si passò alla ricerca nel sottosuolo di giacimenti più cospicui, tentando scavi nei pressi delle manifestazioni superficiali. È invalso l'uso di fissare il sorgere della moderna industria petrolifera al 27 agosto 1859 quando da un pozzo profondo solo ca. 21 m, perforato da Edwin L. Drake a Watson Flat, accanto a Oil Creek, presso Titusville (Pennsylvania), sgorgò il p. con una produzione iniziale di ca. 30 barili al giorno. Fu quello il primo pozzo petrolifero perforato con attrezzatura a percussione e bilanciere azionato a vapore. Dopo due anni dalla prima perforazione già si contavano nella regione alcune centinaia di pozzi produttivi; la ricerca petrolifera si estese poi dalla Pennsylvania anche alla California e al Texas e successivamente a numerosissime altre aree: fino ai primi decenni di questo secolo però le ricerche furono condotte quasi a caso senza ricorrere a concetti geologici se non a quello basato sulla teoria delle anticlinali. La prima raffineria fu installata nel 1860 nei pressi del famoso pozzo Drake e sempre vicino a Titusville fu costruito il primo oleodotto (1865), della lunghezza di ca. 8 km. Se il 1859 segna convenzionalmente l'inizio dell'industria petrolifera, è stato però solo nel sec. XX che il p. ha avuto un'utilizzazione su vasta scala, quale base dello sviluppo del motore a combustione interna e, insieme al carbone, della crescente produzione di energia elettrica. Già nel 1920 il p. forniva il 12% dell'energia utilizzata nel mondo per passare al 26% negli anni Cinquanta, al 46% negli anni Settanta e al 43% alla fine degli anni Ottanta. Il carbone è quindi passato in secondo piano, soppiantato dal p. e dal gas naturale. Le difficoltà insite nella ricerca e nello sfruttamento dei giacimenti spiegano in buona parte il perché della tardiva comparsa del p. tra le fonti energetiche fondamentali: i costi della prospezione e dello sfruttamento sono molto elevati; la ricerca, con attrezzature tecniche continuamente perfezionate, ormai sfruttati i giacimenti più accessibili, riguarda territori e regioni inospitali, spesso lontani dalle zone abitate, e i fondali sottomarini. Dall'inizio del secolo la produzione annua di p. è cresciuta ad un tasso quasi costante (7% ca.) raddoppiando quasi ogni dieci anni. Da ca. 50 milioni di t prodotti nel 1913, è passata a 200 nel 1930, a 540 nel 1950. Gli anni Sessanta segnano ancora una sensibile crescita della produzione, che prosegue, fatta eccezione per una flessione nel 1975, nella seconda metà e soprattutto negli ultimi anni Settanta, allorché giunge a superare i 3 miliardi di t. Nella prima metà degli anni Ottanta si registra una nuova sensibile flessione, seguita da un nuovo recupero negli anni più recenti. Nel corso del tempo si è avuta una sempre più ampia distribuzione geografica della produzione e i “paesaggi” petroliferi contraddistinguono ormai numerose regioni della Terra. All'inizio degli anni Trenta gli Stati Uniti producevano oltre i 2/3 del totale mondiale; successivamente si andavano affiancando molti altri Stati, tra i quali in particolare prevalevano l'Unione Sovietica e i Paesi arabi del Medio Oriente e del Nordafrica: questi ultimi in breve acquistavano un ruolo determinante nel mercato internazionale degli idrocarburi. Nel 1988 l'Unione Sovietica si collocava al primo posto nel mondo (21,4%) con numerosi giacimenti che, benché localizzati su tutto il territorio, erano concentrati soprattutto nella seconda Baku (Stavropol, Buguruslan, Tujmazy, Isimbaj). Tra gli altri giacimenti dell'ex U.R.S.S. vanno ricordati quelli caspici dell'Emba, quelli del Turkmenistan, dell'Uzbekistan, dell'Asia Centrale Sovietica, di Sahalin. Notevole importanza ha il p. estratto dai giacimenti sottomarini del Mar Caspio; nonostante le difficoltà ambientali, la prospezione è assai avanzata nei bacini dell'Ob e dell'Irtis. Al secondo posto si collocano gli Stati Uniti (14%), il cui ritmo produttivo è rimasto pressoché costante negli ultimi anni: le principali aree di estrazione sono quelle del Texas, della Louisiana, dell'Alaska e della California. Al terzo posto, ma già a una certa distanza, viene l'Arabia Saudita (8,8% del totale mondiale). Grandi produttori sono diventati il Messico (4,5%), ormai al quarto posto nel mondo, e la Gran Bretagna (3,7%). Nell'ambito del bacino mesopotamico si situano vari altri Paesi, la cui produzione è però diminuita negli ultimi anni per motivi politici o bellici, come l'Iran e l'Iraq, o per politiche di conservazione delle risorse, come il Kuwait. Il Venezuela (3,3%), con i bacini di Maracaibo, Falcón, Maturín, è un altro considerevole produttore mondiale. Altri quattro Paesi, cioè Nigeria, Libia, Canada e Indonesia, hanno ciascuno una produzione che si aggira sul 2% di quella mondiale. Tra i maggiori produttori figurano inoltre gli Emirati Arabi Uniti (2,5%) e ancor più la Cina, la cui produzione è stimata intorno al 4,7% del totale mondiale. Infine produttori di minore importanza si trovano nell'America Latina (Brasile, zona pedemontana delle Ande Orientali, dalla Colombia all'Argentina), nell'Africa (Algeria, Egitto, Gabon, Rep. Pop. del Congo, Zaire, Angola) in Australia e in Europa (Romania, Norvegia, Germania), oltre al Medio Oriente (Bahrein, !Oman, Qatar, Siria). L'Italia ha sì numerose manifestazioni di idrocarburi, ma giacimenti di p. di una certa consistenza sono solo quelli delle province di Caltanissetta (Gela) e Ragusa in calcari e dolomie fratturati del Triassico: minore importanza hanno i giacimenti della Pianura Padana, contenuti in sabbie mioceniche. Le riserve mondiali stimate sono cresciute continuamente, grazie non solo a nuove scoperte, ma anche alla rivalutazione – per mezzo di tecniche più avanzate – del potenziale produttivo di giacimenti noti: esse sono passate dai 4,5 miliardi di t nel 1938 a 10,8 nel 1950, ai ca. 123 miliardi di t del 1989. Dal punto di vista geografico le maggiori riserve sono concentrate nel Medio Oriente (77,3 miliardi di t), seguito dall'America Latina (15,8 miliardi di t), dai Paesi a economia pianificata, compresa l'ex U.R.S.S. (10,7 miliardi di t), dall'Africa (7,6), dal Nordamerica (4,4), dall'Asia (2,4) e dall'Australasia (0,2). I giacimenti più ricchi sono probabilmente già tutti conosciuti, ma l'inventario preciso delle riserve è lungi dall'essere terminato. Anche l'ambiente marino (offshore) assume sempre maggiore rilevanza: attualmente la produzione mondiale tratta dal mare rappresenta oltre il 30% del totale e tende ad aumentare. Una serie di giacimenti assai promettenti (appartenenti alla Gran Bretagna e alla Norvegia soprattutto) è sfruttata sin dal 1975 nel Mare del Nord, in un ambiente peraltro assai ostile, dove la frequenza del cattivo tempo limita i periodi utili alla ricerca e richiede alle piattaforme di perforazione una elevata resistenza. Così pure il rigore del clima costituisce un grave ostacolo in aree un tempo ritenute marginali, come l'Artico canadese, l'Alaska, la Siberia. Molto spesso i giacimenti di idrocarburi sono localizzati al di fuori delle aree di consumo, motivo per cui l'organizzazione del trasporto è alla base delle attività petrolifere. Dati i progressi compiuti dalla tecnica è ormai ovunque possibile la posa di oleodotti che rappresentano il mezzo tradizionale di trasporto via terra, affiancato talora dalla ferrovia e dalla navigazione interna. Nell'insieme, però, la via marittima ha importanza preponderante, trasportando ca. la metà del greggio. La necessità di contenere i costi ha dato impulso alla costruzione di navi cisterna di grandi dimensioni (oltre 250.000 t di stazza), ma il loro impiego pone crescenti problemi sia per l'attracco ai porti sia per la sicurezza di molte rotte. Ca. metà del p. è commerciata: i principali importatori sono il Giappone e i Paesi industrializzati dell'Europa occidentale. Fra i Paesi esportatori, quelli arabi del Medio Oriente e del Nordafrica assicurano quasi il 60% delle esportazioni mondiali (Arabia Saudita, Iran, Kuwait, Emirati Arabi, Iraq, Libia, Algeria, ecc.). Anche l'Unione Sovietica veniva considerata un importante esportatore di greggio. In Africa avanzano Nigeria e Gabon e in Asia l'Indonesia e la Cina. Il trasporto del p. via mare è particolarmente importante per i Paesi dell'Europa occidentale e per il Giappone. Altro importante anello della catena per l'utilizzazione del p. è la raffinazione: gli impianti sono in gran parte ubicati presso le aree di maggior consumo (oppure presso i grandi porti, dove giungono gli idrocarburi d'importazione), nelle quali si tende a procurarsi una capacità di raffinazione sufficiente ai bisogni. La capacità di raffinazione mondiale è cresciuta tra il 1970 e il 1980 a un tasso medio del 4,5% annuo. Dopo il 1980, in seguito alla diminuzione dei consumi di prodotti petroliferi e, in particolare, di olio combustibile sostituito da altre fonti, l'industria della raffinazione avvia un importante processo di ristrutturazione, tenendo conto che la domanda è a favore di prodotti più leggeri (benzine e gasoli) e che in tale industria sono entrate massicciamente compagnie dei Paesi produttori. Di conseguenza, tra il 1980 e il 1985, la capacità mondiale di raffinazione scende da ca. 4,2 miliardi di t a 3,7 miliardi di t e i maggiori tagli si registrano in Europa, negli U.S.A. e in Giappone, mentre le raffinerie del Medio Oriente espandono la propria attività.
Economia: il mercato petrolifero
Il mercato del p. è caratterizzato da aspetti tecnici e politico-economici di carattere internazionale molto complessi, in quanto nella moderna civiltà dal p. dipende lo stesso meccanismo di sviluppo. Tipica, ad esempio, è la concentrazione della catena produttiva e delle forze operanti sul mercato. Dal 1920 al 1950 il mercato fu dominato da sette grandi compagnie (le “sette sorelle”), alcune delle quali nate dallo scioglimento del primo trust del settore, la Standard Oil di J. D. Rockefeller, smembrato nel 1911. Esse sono la Standard Oil of New Jersey (Exxon), la Standard Oil of California, la Mobil Oil (nata dalla fusione della Socony con la Vacuum Oil), la Shell (nata dalla fusione della Royal Dutch con l'inglese Shell Transport ) Trading Co.), la British Petroleum (BP, ex Anglo-Iranian Petroleum Co.) creata per scopi strategici, la Gulf Oil e la Texas Oil Co. (Texaco), basate sui giacimenti del Texas e della Louisiana. Questa composizione del mercato, tipicamente oligopolistica, favoriva le intese come il Cartello Internazionale del Petrolio, stipulato nel 1928 fra le “sette sorelle” e formalmente sciolto nel 1943. Nonostante l'evoluzione avvenuta negli ultimi anni, il mercato del p. è largamente controllato da interessi statunitensi e anglo-olandesi. Contro l'azione delle grandi compagnie multinazionali, specie negli ultimi decenni, è andata crescendo l'opposizione degli Stati consumatori e soprattutto degli Stati produttori-esportatori, mentre invece Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi Bassi ne appoggiano la politica e, pur regolamentando la loro attività sul territorio nazionale, offrono copertura politica alle operazioni effettuate all'estero o sui mercati internazionali. Altri Paesi industriali, come la Germania, la Francia, il Giappone, l'Italia, hanno dovuto conciliare le necessità di un regolare approvvigionamento con la politica energetica nazionale, mediante un sistema di licenze e concessioni e col potenziamento di aziende petrolifere statali (E.N.I. in Italia, El-ERAP in Francia, ecc.). I Paesi produttori, escluse le grandi potenze, appartengono quasi totalmente al Terzo Mondo, al quale in passato fu applicata una politica coloniale; in seguito si diffuse il sistema della divisione a metà dei benefici della produzione (fifty-fifty). La nazionalizzazione, nel 1951, dell'Anglo-Iranian Oil Co. da parte del governo Mosaddeq, le vicende ad essa collegate, il positivo andamento dei consumi e il progredire della decolonizzazione fecero evolvere la situazione a favore dei Paesi esportatori. Il vecchio sistema fifty-fifty venne affinato e complicato a seconda delle diverse situazioni verificatesi fra i contraenti e le reciproche posizioni di forza. Una svolta si ebbe nel 1960 con la costituzione a Baghdad dell'O.P.E.C. (Organization of Petroleum Exporting Countries) comprendente vari Paesi esportatori del Golfo Persico (Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar), dell'Africa (Algeria, Libia, Nigeria, Gabon), dell'Asia (Indonesia), dell'America Latina (Venezuela, Ecuador). A cominciare dalla guerra arabo-israeliana dell'ottobre 1973 l'O.P.E.C. attuava una politica aggressiva, utilizzando il proprio potere per decidere unilateralmente il livello del prezzo del p. e, successivamente, l'ammontare del prodotto. Ma il cambiamento decisivo avvenne sul piano dei rapporti con le compagnie multinazionali: i governi dei Paesi esportatori, grazie alla progressiva assunzione di partecipazioni maggioritarie e alle numerose nazionalizzazioni, giunsero a controllare direttamente, nel 1980, oltre l'87% della produzione di p. dell'area O.P.E.C., contro appena il 2% di dieci anni prima. A loro volta le compagnie multinazionali si andavano sempre più specializzando nelle fasi del trasporto, della raffinazione e della commercializzazione, diversificando inoltre le proprie attività, grazie all'ancora rilevante potere finanziario, in altri settori energetici e non. Tuttavia una serie di avvenimenti internazionali (guerra dei sei giorni, aumento unilaterale dei prezzi) spinse i Paesi più industrializzati a cercare altre fonti di energia e a ridurre i consumi petroliferi; si innescò in tal modo, a partire dagli anni Ottanta, un processo di indebolimento del potere dell'O.P.E.C., favorito anche dallo sviluppo della produzione in aree diverse da quelle dei Paesi O.P.E.C. (Messico, Mare del Nord, Alaska, ecc.), per cui la quota di p. consumato nel mondo occidentale fornita dall'O.P.E.C. passava dal 54% nel 1978 al 41% nel 1981 e al 34% nel 1982. La risposta dei Paesi consumatori si tradusse anche in mutamenti strutturali dei loro modelli di sviluppo (crescita del terziario), mentre le produzioni ad alto contenuto energetico (metallurgia e soprattutto petrolchimica) sono andate sempre più spostando la loro localizzazione in aree dove il costo dell'energia è più basso. I processi di contenimento dei consumi energetici per unità di prodotto, di diminuzione della dipendenza energetica dall'estero e di sostituzione del p., soprattutto se importato, grazie a un rilancio dell'uso del carbone e accelerando la costruzione di centrali elettronucleari si sono svolti con modalità e livelli di successo diversi tra i vari Paesi (espansione del carbone e dell'energia nucleare in Francia, negli Stati Uniti e in Giappone, del gas e dell'energia nucleare in Germania, del p. del Mare del Nord in Gran Bretagna), ma hanno rivelato una tendenza comune a un radicale risparmio energetico, limitando il consumo del p. ai soli usi “obbligati” all'attuale stato delle tecniche (trasporti e impieghi per la petrolchimica). Comunque alla metà degli anni Ottanta la situazione era quella di un mercato dominato nettamente dai Paesi industrializzati importatori; tale rovesciamento dei rapporti di forza tra produttori e consumatori e la ormai insanabile divisione in sede O.P.E.C. portavano a un vero e proprio crollo del prezzo del p., sceso nel 1986 a 15-16 dollari al barile, un valore inimmaginabile solo l'anno precedente (26 dollari al barile). Nel 1987 il prezzo del p. segna un leggerissimo recupero (17,9 dollari al barile), seguito da una nuova flessione nel 1988 (14,9 dollari al barile) e da un nuovo recupero l'anno successivo (17,5 dollari al barile), in relazione alla ripresa della domanda ed agli sforzi dei Paesi O.P.E.C. di controllare la produzione mediante un sistema di quote precise in occasione degli incontri periodici dei Paesi membri. Dal punto di vista quantitativo i consumi mondiali di p., dopo aver raggiunto una punta massima nel 1973 con 2800 milioni di t, subiscono una progressiva flessione fino a 2724 milioni di t nel 1975, a causa degli aumenti dei prezzi del greggio e della recessione economica. Successivamente si ha una lenta ma costante fase di recupero, interrotta sul finire del 1979 dalla seconda crisi petrolifera: i consumi di p., dopo aver toccato il livello di oltre 3100 milioni di t, hanno una nuova contrazione che li porta ai 2810 milioni di t del 1985 per poi aumentare di nuovo; più in generale la dinamica dei consumi presenta andamenti differenziati tra le varie aree economiche. I consumi dei Paesi O.C.S.E., dopo la flessione della metà degli anni Settanta, raggiungono il punto massimo nel 1980 per poi diminuire progressivamente sino a 1590 milioni di t nel 1985, allorché inizia una fase di recupero. Invece, i consumi dei Paesi in via di sviluppo (comprendenti anche i Paesi produttori di p. associati all'O.P.E.C.) non conoscono fasi alterne e – a partire dagli anni Settanta – registrano una crescente espansione, soprattutto in seguito all'avvio di programmi di industrializzazione.

CARBONE
Sostanza combustibile solida e leggera, costituita prevalentemente da carbonio, che brucia con reazione fortemente esotermica, derivata dalla lenta e più o meno prolungata trasformazione di residui vegetali rimasti coperti da strati di materiale sedimentario (c. naturali), o prodotta artificialmente mediante forte riscaldamento fuori del contatto dell'aria di sostanze organiche varie (c. artificiali). I c. naturali, detti anche c. fossili, sono rocce sedimentarie combustibili il cui contenuto in carbonio, legato al grado al quale si sono spinti i processi di modificazione dei residui vegetali originari, è un elemento fondamentale per determinarne le proprietà e il potere calorifico, ossia il valore pratico come combustibili; i c. fossili infatti hanno una notevole importanza economica sia come materia prima per la produzione di energia termica sia per l'utilizzazione industriale che consente di ottenerne coke*, combustibili gassosi e un'estesa gamma di derivati chimici organici. I c. artificiali comprendono materiali di differente origine e destinati a usi svariati, come i diversi tipi di coke, il c. di legna, i c. attivi e il c. di storta (v. oltre).
Carboni naturali: origine
I c. naturali si sono formati in seguito al processo di carbonizzazione di depositi sia autoctoni sia alloctoni di resti di piante accumulatisi in ambienti particolari detti bacini carboniferi. In questi bacini avviene la sedimentazione dei depositi di c. quando si sia realizzato il concorso di particolari condizioni climatiche, morfologiche e tettoniche. Il clima ha un'influenza determinante in quanto per permettere lo sviluppo della vegetazione deve essere caldo-umido con temperatura non elevata e precipitazioni ben distribuite nell'arco dell'anno e inoltre ha una funzione di controllo sull'espansione o la riduzione delle superfici di alcuni bacini di sedimentazione come, p. es., quelli limnici. I fattori geomorfologici hanno significato nel condizionare i caratteri propri del bacino e per conseguenza anche il tipo di apporto e sono inoltre strettamente connessi con quelli geotettonici i quali determinano anche importanti modificazioni geografiche del territorio agendo sia sull'area di alimentazione, dalla quale proviene il materiale detritico inorganico, sia sul bacino in cui i materiali si accumulano assieme alle sostanze vegetali. I bacini carboniferi possono essere divisi in due grandi gruppi: paralici e limnici e a questi alcuni autori aggiungono anche quelli di ambiente fluviale in cui si sarebbe accumulato detrito vegetale in paludi di limitata estensione e variabili in conseguenza degli spostamenti della falda freatica. I bacini paralici si sviluppano in ambiente di transizione e sono generalmente localizzati sulla piattaforma instabile e soggetta a ripetute oscillazioni di tipo epirogenetico che fanno variare anche sensibilmente l'area occupata dalle paludi costiere. Gli strati di c. hanno una vasta estensione areale e si presentano più volte in una stessa formazione separati tra loro da strati di altre rocce deposte secondo una successione regolare nota come ciclotema*. I bacini limnici, di ambiente continentale, sono caratterizzati dall'estensione limitata degli strati di c., che peraltro hanno spesso una potenza notevole; questi strati sono intercalati in formazioni detritiche prive di regolari e ripetuti ritmi di sedimentazione. L'evoluzione di un bacino paralico, dedotta in base al carattere che presentano i membri del ciclotema ideale, ha inizio con il sollevamento epirogenetico di una regione, sollevamento che provoca il ritiro delle acque da un bacino marino poco profondo e l'instaurarsi di un ambiente continentale dapprima con fenomeni erosivi anche intensi seguiti dall'apporto di notevoli quantità di materiale detritico da parte di corsi d'acqua. Successivamente, forse anche in associazione a un fenomeno di subsidenza, cominciano a deporsi sedimenti grossolani passanti a depositi più fini verso l'alto. Con il procedere della subsidenza e l'innalzamento della falda freatica si ha la trasformazione della pianura alluvionale più prossima al mare in una distesa paludosa con sviluppo della vegetazione e accumulo di depositi torbosi nei quali possono essere inclusi apparati radicali di piante arboree o tronchi fluitati dalle correnti; a letto di questi depositi si hanno strati argillosi denominati underclay o argille di base con carattere di paleosuolo. L'accumulo di quantità maggiori o minori di torba, da cui dipende lo spessore dei futuri strati di c., è in stretta dipendenza con l'equilibrio tra la velocità di affossamento del bacino e quella di sviluppo della vegetazione verso l'alto al di sopra dei depositi progressivamente sommersi dalle acque. L'accumulo della torba si interrompe infatti sia per il prevalere dell'affondamento, sia per un suo arresto prolungato o per l'abbassamento della falda freatica. Nella seconda ipotesi si ha un rallentamento o addirittura un arresto dello sviluppo della vegetazione, nella prima invece la cessazione consegue alla sommersione della regione costiera, con formazione di sedimenti marini. Il termine di un ciclo è spesso caratterizzato da livelli di argille marine frequentemente inglobanti concrezioni ferruginose, siderite o pirite, a tetto delle quali seguono in discordanza arenarie ciottolose che rappresentano la base del ciclotema soprastante. Carboni naturali: la carbonizzazione
È ancora controversa l'evoluzione chimica e biochimica che i resti vegetali subiscono per trasformarsi in c. nel processo definito di carbonizzazione. Alcuni autori come H. Fischer e H. Schrader ritengono che il c. provenga dalla lignina, previa trasformazione in acidi umici e in umina, composti a struttura benzenica che, con liberazione di metano e di biossido di carbonio, portano alla formazione di lignite e di litantrace, mentre la cellulosa viene attaccata e decomposta, per intervento batterico, in acqua, in metano e in biossido di carbonio. Altri invece sostengono che nel processo di formazione del c. si debba far intervenire anche la cellulosa, essendosi dimostrata la possibilità di ottenerne composti aromatici, nonché carburi policiclici e derivati. Comunque sia, nel quadro complesso della carbonizzazione si possono distinguere due fasi, una biochimica e una geochimica. La prima, responsabile della formazione della torba, si esaurisce a mano a mano con l'aumentare della profondità del sedimento in quanto ciò comporta il rallentamento e poi l'arresto dell'attività microbiologica. Dopo questa fase, detta anche di umificazione, i fattori che presiedono al processo di trasformazione sono solo a carattere chimico e fisico; soprattutto importante è la temperatura che, innalzandosi con la profondità, modifica progressivamente la composizione chimica consentendo un aumento del tenore di carbonio e una diminuzione di quello di idrogeno e di ossigeno. Le condizioni ambientali hanno una notevole importanza sulla formazione di un certo tipo di c.; non interviene quindi solo il fattore temporale, come si ammetteva in passato, in base al quale il passaggio da legno a torba, a lignite, a litantrace e infine ad antracite è legato esclusivamente all'anzianità. Pertanto i fattori principali della carbonizzazione, oltre al tempo e al calore (geotermico, plutonico, dinamico, geochimico, biochimico), sono la pressione sia statica sia dinamica, gli agenti biochimici, le caratteristiche chimiche delle sostanze presenti e l'autometamorfismo.
Carboni naturali: costituenti e struttura
I costituenti dei c. sono quelli stessi dei vegetali dai quali essi derivano e cioè: lignina, cellulosa, proteine, resine, cere e grassi. Tutte queste sostanze organiche hanno come componenti essenziali il carbonio, l'idrogeno, l'ossigeno e l'azoto. Il carbonio dei c. deriva essenzialmente dal biossido di carbonio atmosferico. Le piante assorbono anche dal terreno, tramite le radici, sali nutritivi e acqua, la quale col carbonio forma idrati di carbonio (albumi, zuccheri, amido, cellulosa, lignina, grassi, cera). La radiazione solare fornisce l'energia necessaria per queste trasformazioni. Gli studi sulla struttura chimica dei c. sono molto complessi e tuttora in corso. Nella costituzione dei c. entrano anche piccole quantità di sostanze minerali che provengono sia dalle piante originarie sia da giacimenti minerali dilavatisi durante la formazione della torba. Si tratta in genere di sali di calcio, di sodio, di potassio, di magnesio, di ferro e di alluminio; lo zolfo è presente come solfuro (pirite) e come solfato (gesso) o entra nella struttura di sostanze organiche. Nella combustione dei c. questi sali sono responsabili della formazione di ceneri. I c. contengono inoltre acqua di imbibizione e anche, occlusi, dei gas, fra i quali metano, biossido di carbonio, ossigeno, azoto e ossido di carbonio. Agli effetti delle lavorazioni minerarie il più pericoloso è il metano, che entra per il 90-95% nella composizione del grisou, gas caratteristico delle miniere di carbone. Per quanto riguarda la struttura dei c. l'inglese Marie C. Stopes ha definito nella pasta fondamentale, massa nerastra colloidale di aspetto brillante e includente i corpi figurati (rappresentati da frammenti di tessuti legnosi, di spore, di cuticole, di resine, di cere, ecc.), la presenza di quattro zone elementari macroscopiche. Vitrano (vitrain) o vitraina o vitrite o c. brillante; in forma di lenticelle appiattite, anche di notevole estensione laterale, presenta natura omogenea, frattura concoide e viva lucentezza. Clarano (clarain) o claraina o clarite o c. semi-brillante; forma livelletti composti da sottili lamine brillanti fittamente alternate con altre più spesse e meno brillanti, affini alla durite. Durano (durain) o duraina o durite o c. opaco; forma bande omogenee persistenti lateralmente, con superficie di frattura alquanto irregolare, opaca e microgranulare. La sua durezza, superiore a quella degli altri componenti macroscopici, ne giustifica il nome. Fusano (fusain) o fusaina o fusite o c. fibroso; forma lenticelle di spessore molto limitato, ma di considerevole estensione. Il fusano, fragile e polverulento, è analogo per le proprietà macroscopiche al c. di legna. I costituenti microscopici, detti anche macerali, sono elencati di seguito. Vitrinite, di composizione e di origine eterogenee, deriva probabilmente dalla precipitazione in forma di gel di sostanze colloidali in soluzione prodotte dalla macerazione di tessuti legnosi e si presenta sia in forma di frammenti dai margini più o meno distinti, sia come pasta fondamentale con livelli lentiformi, solitamente di composizione analoga a quella della vitrite; in quest'ultimo caso se non sono riconoscibili strutture cellulari viene detta collinite, altrimenti si indica come telinite. Fusinite, presente in quantità predominanti nel fusano, è nera e ha la stessa struttura cellulare del tessuto legnoso; le cavità cellulari sono generalmente vuote o riempite da calcite o da pirite, il che giustifica la friabilità del fusano. I componenti microscopici con caratteri intermedi tra la vitrinite e la fusinite, di solito corpi figurati quasi o del tutto opachi e con residui più o meno evidenti di struttura cellulare, vengono riuniti sotto il termine semifusinite. Exinite, proviene dalla trasformazione dell'esina, lo strato esterno assai resistente dei granelli pollinici, o di sostanze analoghe per composizione chimica. Viene chiamata anche sporinite quando deriva da spore e da pollini, oppure cutinite quando deriva dalla trasformazione della cutina che ricopre foglie, germogli e giovani rami. Micrinite, costituisce spesso la parte essenziale di molti c. opachi; omogenea, completamente opaca, senza traccia di struttura cellulare, può presentarsi con aspetto massiccio o finemente granulare. È il probabile prodotto finale della decomposizione di altri macerali. Resinite, proveniente dalla trasformazione di sostanze resinose e di tessuti secretori, si presenta sotto forma di corpuscoli ovoidali, detti corpi resinosi, leggermente schiacciati parallelamente alla stratificazione. Sclerotinite, è formata da corpuscoli ovoidali di dimensioni inferiori a 0,5 mm, con chiara struttura cellulare, che si ritiene provengano dalla modificazione di sclerozi, cioè di ammassi di ife fungine in grado di resistere a condizioni avverse. Alginite, prodotto della trasformazione delle sostanze grasse di cui sono ricche alcune alghe unicellulari di acqua dolce come quelle appartenenti ai gen. Pila, Reinschia e Cladiscothallus, è un costituente importante dei c. sapropelitici e si presenta sotto forma di globuli rotondeggianti con un caratteristico contorno accidentato e sfrangiato. In base allo studio dei materiali organici microscopici sono state definite delle associazioni di macerali dette microlitotipi: vitrite o microvitraina, costituita essenzialmente da vitrinite; clarite o microclaraina, formata da una miscela di vitrinite e di exinite con poca resinite e tracce di altri macerali; fusite o microfusaina, formata da fusinite, semifusinite o sclerotinite; durite o microduraina, composta da exinite e micrinite con tracce di vitrinite. I componenti microscopici dei c. fossili possono venir raggruppati con altri criteri: così p. es. le sostanze provenienti dalla trasformazione di composti vegetali assai resistenti all'alterazione, come la sporinite, la cutinite, la suberinite o la resinite, sono comunemente designate come liptinite o sostanza residuale; a esse si avvicina per composizione chimica e per proprietà ottiche l'alginite. I componenti fusinizzati, cioè opachi o pressoché tali (fusinite, semifusinite, micrinite, sclerotinite), sono invece raggruppati sotto il nome di inertinite, perché si comportano come sostanze inerti durante il processo industriale di cokizzazione, cioè praticamente non svolgono sostanze gassose o catramose.
Carboni naturali: caratteristiche e classificazioni
Le principali sono: il potere calorifico, espresso in kcal/kg, la temperatura di combustione, il peso specifico, l'umidità, le ceneri, rappresentate dalla quantità di residuo incombusto, la durezza, la compattezza, il colore, la lucentezza, la frattura, la composizione chimica elementare, il tenore in materie volatili, il carbonio fisso calcolato facendo la differenza fra il peso di coke ottenuto dalla distillazione e il peso delle ceneri, e il tenore in zolfo (v. tabella 1). § La classificazione è stata fatta secondo vari criteri. La classificazione geologica, proposta da Régnaul nel 1837, più volte modificata in seguito, ma tuttora valida, distingue i c. in quattro tipi fondamentali a seconda del grado di trasformazione : torba, lignite, litantrace e antracite. Questa classificazione risulta più significativa se integrata dal moderno concetto di rango di un c. fossile. Il rango di un c. fossile è una misura dell'insieme delle sue caratteristiche chimiche e fisiche determinate non dalla natura dei resti vegetali che lo compongono ma dall'intensità dei fenomeni avvenuti dopo la deposizione del detrito vegetale. Il rango o maturità di un c. non dipende affatto dall'età geologica del c. né dalla posizione sistematica dei vegetali dai cui residui esso è costituito; se è pur vero che i c. fossili di rango superiore sono più abbondantemente rappresentati nelle formazioni geologiche paleozoiche, ciò non dipende esclusivamente dalla maggiore età, ma dal fatto che in un notevole arco di tempo possono con maggiore probabilità manifestarsi quei fenomeni tettonici responsabili della maturazione del carbone. Infatti in aree poco disturbate tettonicamente si possono trovare c. di rango modesto, anche ligniti, in formazioni paleozoiche, mentre si arriva a c. di rango elevato in formazioni terziarie di regioni fortemente ripiegate. In uno stesso strato di c. di notevole estensione areale il rango può subire delle variazioni, in funzione della profondità o dell'intensità dei ripiegamenti che hanno interessato la formazione contenente il carbone. La variazione del rango con la profondità è espressa da un'enunciazione confermata statisticamente e nota come legge di Hilt: in uno stesso bacino carbonifero il c. è tanto più ricco in materie volatili, cioè è tanto più grasso, quanto più appartiene a livelli elevati, purché il c. mantenga la stessa composizione petrografica. Oltre a questi quattro tipi fondamentali di c. la classificazione geologica ne considera altri come p. es. il cannel coal e il boghead o torbanite, di origine sapropelitica, che possono considerarsi come termini di passaggio tra i c. fossili e i bitumi naturali. Le classificazioni chimico-industriali considerano i tenori dei componenti dei c. e i rapporti fra tali tenori. Le più note sono quelle basate: sul tenore in materie volatili, sia ricavato dall'analisi completa, sia calcolato facendo astrazione dalle ceneri; sui rapporti fra i vari componenti dei c. (negli U.S.A. è molto seguita la classificazione proposta da Fraser, che tiene conto del fuel ratio, cioè del rapporto fra il carbonio totale e le materie volatili, a secco, escludendo le ceneri); sullo split volatile ratio: questa classificazione proposta da Dowling considera il rapporto Per ricavare i valori del rapporto sono sufficienti analisi approssimate (v. tabella 2) sul tenore percentuale in materie volatili, proposte da Régnault-Grüner. La classificazione petrografica secondo la quale i principali gruppi di c. fossili (stabiliti in base alla composizione petrografica) sono i c. umici, i c. residuali e i c. sapropelitici. In ognuno di questi gruppi si hanno ulteriori suddivisioni in base al componente macroscopico prevalente e alla composizione microscopica. I c. umici, i più diffusi tra i c. fossili, sono così denominati perché nelle prime fasi del processo di carbonizzazione dei tessuti legnosi da cui provengono si verifica la formazione di composti organici designati genericamente come acidi umici. Nei c. umici sono anche contenute quantità variabili di liptinite, ossia di componenti microscopici derivati da materiali vegetali dotati di particolare stabilità chimica, come l'esina, la cuticola, il sughero e i corpi resinosi. Se la liptinite prevale notevolmente sulle sostanze originatesi per profonda alterazione dei tessuti legnosi i c. vengono detti residuali. I c. umici si classificano in base ai componenti macro- e microscopici. Si dicono c. fusitici i c. umici prevalentemente costituiti da frammenti di tessuto legnoso trasformati in fusinite o semifusinite. Hanno debole consistenza, aspetto polverulento, notevole porosità e contengono percentuali abbastanza elevate di acqua di impregnazione. Il tenore in ceneri è spesso elevato specie quando le cavità cellulari della fusinite sono riempite da minerali depositati da acque circolanti. Per distillazione secca i c. fusitici forniscono piccole quantità di sostanze gassose e catramose e un residuo secco formato da coke polverulento; le cattive qualità tecnologiche ne consigliano quindi l'impiego solo per riscaldamento. I c. duritici sono c. umici prevalentemente costituiti da durite. Sono compatti, duri, con colore nerastro a riflessi grigiastri, frattura irregolare e superficie ruvida. Le principali varietà dei c. duritici si distinguono in base agli elementi figurati in essi prevalenti. Le varietà più ricche di componenti liptinitici forniscono percentuali assai elevate di sostanze catramose e gassose, mentre quelle tendenti ai c. fusitici danno forti quantità di coke di scarsa qualità. I c. duritici sono perciò utilizzati per ricavarne sostanze volatili o per riscaldamento. I c. claritici sono caratterizzati dalla prevalenza della pasta fondamentale vitrinitica sui corpi figurati. Hanno struttura finemente laminata con minute fessure che li rendono fragili, colore nerastro e lucentezza brillante. Per distillazione secca forniscono una resa di sostanze volatili inferiore a quella dei c. duritici, ma un'ottima qualità di coke, ben agglomerato e poroso. I c. vitritici infine sono c. umici che formano livelletti e lenti intervallati ad altri di diversa composizione. Simili a quelli claritici per composizione, se ne distinguono per l'accentuata scarsità di corpi figurati; componente fondamentale è la vitrinite. I c. residuali o liptobioliti presentano una percentuale di componenti liptinici superiore al 90% mentre il tenore restante è dato da vitrinite, micrinite e sostanze argillose. Rispetto ai c. umici presentano un contenuto in idrogeno più elevato, anche vicino al 10%, e una fortissima resa per distillazione secca in sostanze volatili. Possono essere distinti in base ai componenti microscopici predominanti in c. residuali resinitici, cutinitici, sporinitici e suberinitici. I c. sapropelitici o c. di alghe sono classificati in base sia alla composizione petrografica sia alle condizioni di sedimentazione della sostanza organica. Derivano dalla diagenesi del sapropel, una fanghiglia ricca di sostanze organiche di origine prevalentemente algale, depositatesi sul fondo di laghi o di lagune. Per le forti quantità di sostanze gassose e bituminose che liberano per distillazione secca si possono considerare come intermedi tra i c. e gli idrocarburi. Tra i c. sapropelitici i più caratteristici sono il cannel coal, il boghead o torbanite, e la saprocollite. Caratteristico è l'alto contenuto di idrogeno, talvolta superiore al 10%. Elevata per distillazione secca è la resa in sostanze volatili, per lo più formate da prodotti catramosi. Recentemente Schapiro e Gray hanno elaborato un metodo di valutazione delle proprietà fisiche e chimiche dei macerali presenti nei c. fossili, basandosi sul loro potere riflettente. É pertanto possibile, partendo dalla conoscenza dei tipi e delle quantità di macerali presenti in un certo c. e facendo ricorso a un procedimento complesso, pronosticarne le caratteristiche e l'eventuale adattabilità a una determinata utilizzazione industriale
Carboni naturali: giacitura e distribuzione dei giacimenti
La giacitura più comune dei c. è lo strato. Gli strati si succedono in serie numerose nell'ambito dei bacini carboniferi. Lo spessore degli strati va da pochi mm a più di 30 m, mentre l'estensione può limitarsi a meno di un km2 o superare le migliaia di km2. Gli strati si associano in gruppi o in fasci a costituire un livello; l'insieme di più livelli costituisce una serie carbonifera. Il bacino può essere formato da una o più serie. Gli strati in genere non sono uniformi, potendo presentare variazioni di potenza e di composizione le cui cause possono essere singenetiche ed epigenetiche. Le prime sono dovute a irregolarità della sedimentazione o a spostamenti verticali dei terreni di appoggio che hanno provocato strozzature, interruzioni, ondulazioni, ecc. Negli strati si evidenziano talvolta dei letti costituiti da straterelli di c. separati da straterelli calcarei, arenacei o argillosi che, se hanno notevole spessore ed estensione, vengono chiamati partimenti. Le cause epigenetiche, invece, sono di origine tettonica e connesse quindi a faglie, pieghe, ecc. I bacini carboniferi possono essere formati da strati suborizzontali o a giacitura sinclinale o da strati fortemente dislocati, corrugati o fagliati. I c. fossili si sono formati in quasi tutte le epoche geologiche ma i grandissimi bacini che comprendono gli accumuli principali sono caratteristici di alcuni periodi. Il più antico giacimento di c. fossile conosciuto, e pure sfruttato, si trova nella Carelia russa: si tratta di un banco, dello spessore di 2 m, di antracite, detta shungite, compreso in arenarie facenti parte dei terreni jatuliani del complesso precambriano delle Carelidi. Al Paleozoico inferiore vengono riferiti modesti giacimenti, mentre al Paleozoico superiore appartengono importanti ed estesi bacini, tanto che l'intervallo tra Devonico superiore e Permico viene anche detto Antracolitico. I depositi di c. del Carbonifero rappresentano il 25% del totale mondiale dei c. fossili . I giacimenti di questo periodo sono sparsi in tutti i continenti: nell'America Settentrionale, nella parte orient. degli U.S.A., sono distribuiti in tre vastissime fasce con andamento generale NE-SW; la più orient. comprende i giacimenti situati sui due versanti della catena appalachiana: sul versante E prevalgono le antraciti, sull'altro i litantraci. Questa fascia interessa la Pennsylvania, l'Ohio, la Virginia, il Kentucky, il Tennessee, l'Alabama; presso Pittsburgh, in Pennsylvania, si estende per 3400 km2 il famoso “Pittsburgh seam”, strato di litantrace suborizzontale, molto regolare, della potenza di ca. 2 m, valutato del tonnellaggio complessivo dell'ordine di 8 miliardi di t. La fascia centr. interessa il Michigan, l'Indiana e l'Illinois, mentre quella occid. lo Iowa, il Nebraska, il Kansas, il Missouri, l'Oklahoma, l'Arkansas e il Texas. Nell'America Meridionale vi sono bacini di minore importanza in Argentina, in Bolivia e in Brasile. In Africa si estrae c. nello Zimbabwe e nelle province sudafricane del Transvaal e del Natal nell'ambito della formazione del Karroo. In Australia i bacini del Carbonifero si trovano negli Stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud. I giacimenti carboniferi asiatici sono ubicati in Cina nella Manciuria, nelle province dello Shantung, dello Shansi e dello Szechwan, in Corea, nel Kazahstan e in Turchia nella zona di Eraclea. In Europa appartengono al Carbonifero medio e superiore grandiosi bacini sfruttati fin dall'inizio dell'era industriale del carbone. In Spagna il principale giacimento è quello asturiano-leonese ; in Francia quelli del bacino del Nord e della Lorena; in Germania quelli della Ruhr, Saar, Slesia, Sassonia. Altri giacimenti sono in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi, nel Belgio, in Cecoslovacchia, in Polonia, in Bulgaria, nel bacino del Donec e nel Caucaso. Giacimenti riferibili al Carbonifero inferiore si trovano in Scozia, nelle Svalbard e negli Urali. Nel Permico si formarono depositi di c. stimati pari all'incirca al 17% delle riserve mondiali; sono dislocati soprattutto in Cina e in Siberia. Alcuni giacimenti si formarono nel periodo di transizione dal Permico al Trias; fra questi alcuni nella già citata formazione sudafricana del Karroo e altri in Austria, in Virginia e nella Carolina del Sud. Al Giurassico si riferiscono giacimenti pari al 3% delle riserve, dislocati in Baviera, in Cina, in Alaska, nel Montana, negli Stati australiani di Victoria, del Queensland e della Tasmania, e nella Nuova Zelanda. Nel Cretaceo i principali depositi, stimati pari al 2% delle riserve, si trovano in Francia, in Germania, nella provincia canadese della Columbia Britannica, negli U.S.A. (Montagne Rocciose e Alaska), nel Messico, nel Perú, in Australia e nella Nuova Zelanda. Nel Cenozoico prevalgono le ligniti, sparse in tutto il mondo; rappresentano nel loro complesso il 24% delle riserve mondiali e risalgono principalmente all'Eocene. I giacimenti lignitiferi più cospicui sono distribuiti nell'Europa centr. (Germania, Austria, Cecoslovacchia), nella regione balcanica, nelle Svalbard, in Ucraina, nella Siberia nord-orient., in Cina, in Corea, nell'Assam, lungo le Montagne Rocciose dall'Alaska al Nuovo Messico, lungo la cordigliera andina dal Venezuela al Cile, in Nigeria, in Australia e in Nuova Zelanda. L'Italia è molto povera di c. e nessun giacimento ha vera importanza economica; i più significativi comunque sono quello di antracite di La Thuile (Aosta), del Carbonifero, con riserve di pochi milioni di t; il piccolo bacino permiano di antracite di Seui (Nuoro). Triassici sono i depositi di litantrace di interesse solo geologico della Carnia, di Courmayeur, di Brentonico (Trento) e di Lagonegro (Basilicata). Eocenico è l'esteso bacino di lignite picea del Sulcis in Sardegna, detta anche c. Sulcis, coltivato dal 1853. Le riserve ammontano a circa 1 miliardo di t (1981). La complicata struttura del bacino rende elevato il costo di produzione del c. adatto solo come combustibile soprattutto per centrali termoelettriche. Oligocenici sono i piccoli depositi di lignite picea di Bagnasco in Piemonte, di Monteviale e di Zovencedo nel Vicentino e di Cadibona in Liguria. Al Miocene appartengono le ligniti di Ribolla nel Grossetano. Pliocenica è la lignite picea xiloide del Valdarno, il cui principale centro di estrazione è a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo). I giacimenti umbri di lignite legati alla presenza nel Pleistocene di un grande lago, lungo 120 km e largo al massimo 30 (detto lago Tiberino), che si estendeva tra Borgo San Sepolcro e Terni, sono sfruttati soprattutto nelle miniere di Spoleto e di Pietrafitta. Pleistocenici sono anche i depositi di lignite xiloide e torbosa della Val Gandino (Bergamo) e del Mercure (nella valle del Lao tra Basilicata e Calabria). Olocenici sono i numerosi giacimenti italiani di torba le cui riserve, nel complesso, sono valutate intorno ai 50 milioni di t con un tenore in acqua del 25%. Le torbiere si trovano sia presso alcuni valichi alpini come quelli del Moncenisio, del Sempione, dell'Aprica, del Tonale, sia nell'ambito di anfiteatri morenici come quelli di Rivoli, di Ivrea e del Tagliamento, sia infine lungo i litorali paludosi e deltizi, come presso la foce dell'Arno e del Tevere e lungo il litorale adriatico dall'Isonzo al Po.
Carboni naturali: estrazione
L'estrazione del c. avviene con i normali metodi di coltivazione usati per minerali solidi stratificati. La scelta del metodo dipende da molti fattori, come la pendenza degli strati, la loro profondità rispetto alla superficie del suolo, l'orizzonte geologico in cui si trovano le formazioni carbonifere, le caratteristiche del letto e del tetto degli strati, le pressioni sul tetto dovute ai terreni soprastanti, l'eventuale presenza di acque circolanti, la classe del c., la presenza o meno di gas esplosivi e di polveri. La scelta del metodo dipende anche dal tipo di prodotti commerciali che si vogliono ottenere, dalle previsioni che possono farsi circa la regolarità del lavoro di estrazione e infine dalle condizioni dei mercati mondiali, in vista dell'eventualità di dover incrementare rapidamente la produzione o rallentarla. Per la torba, i cui giacimenti sono superficiali, l'estrazione viene fatta con vanghe meccaniche per le varietà erbose e con escavatori di vario tipo per le varietà compatte. I giacimenti di lignite, specialmente delle varietà torbose e xiloidi, sono spesso affioranti o ricoperti da spessori di terreno che consentono di attuare lo scoperchiamento; in tali casi l'estrazione è fatta coi metodi di coltivazione a cielo aperto, a gradini o a fronte unica, con grandi escavatori, ecc . La lignite picea, il litantrace e l'antracite si estraggono coi metodi di coltivazione in sotterraneo, dei quali i più frequentemente applicati sono quelli per scoscendimento del tetto con lunghe (o corte) fronti avanzanti in direzione; con lunghe fronti montanti o discendenti; con camere e pilastri; con camere e diaframmi.
Carboni naturali: utilizzazione e lavorazione
I c. si usano come combustibili, bruciandoli nei forni delle caldaie per produrre vapore d'acqua (impiegato per usi tecnologici, o per la produzione di energia elettrica mediante turbine), o si distillano per produrre cocke, gas, e una grande varietà di prodotti chimici derivati . L'uso per la produzione di energia elettrica ha recentemente subito notevoli variazioni in molti Paesi, in relazione alla disponibilità di c. di produzione nazionale (Gran Bretagna) o alla scelta di privilegiare le centrali nucleari (Francia). Nel 1988 l'energia elettrica prodotta mediante la combustione del c. o di suoi derivati era il 17,1% sul totale in Italia, il 67% in Gran Bretagna e il 7,6% in Francia. In Italia, dopo un minimo del 2,1% dell'energia elettrica prodotta dalla combustione del c. nel 1973 (contro il 59% da petrolio e il 3,1% da gas naturale) la necessità di differenziare le fonti di approvvigionamento ha portato ad aumentare l'uso del c. fino a circa il 15% contro il 43% di petrolio e il 17% di gas naturale nel 1988; ma i gravi problemi legati al trasporto e allo stoccaggio di fortissime quantità di c. (di importazione per il 97%), alla depurazione dei fumi e allo smaltimento delle ceneri ne hanno frenato l'incremento. Le locomotive, alcuni decenni or sono alimentate solo a c., sono mosse oggi da motori elettrici, Diesel o Diesel-elettrici. Le navi usano sempre più combustibili liquidi, mentre negli impianti di riscaldamento al gasolio, che già aveva totalmente soppiantato il c., si va sostituendo il metano. I prodotti della distillazione secca del c. (cocke e gas di gasogeno) sono ora utilizzati solo dall'industria: il “gas di città” oggi è sostituito dal metano (nelle zone servite dai metanodotti), di gas di distillazione del petrolio o dal G.P.L. L'industria chimica ricava dalla distillazione del c. una vastissima gamma di prodotti: materie plastiche, coloranti, farmaci, ecc.
Carboni naturali: produzione e riserve
Le più antiche tracce dell'uso del c. fossile come combustibile risalgono ad alcuni insediamenti eneolitici in Italia e in Grecia, intorno al 1000 a. C. in Cina e all'epoca romana in Britannia . In Inghilterra già nel sec. IX si estraeva c. dagli affioramenti e nel sec. XIII era sviluppata un'industria estrattiva per alimentare fornaci da calce e altre lavorazioni tanto da richiedere provvedimenti legislativi per limitare l'uso del c. nei centri abitati onde diminuire i danni causati dai fumi. Per gli usi domestici si usava come combustibile il legno che abbondava, ma quando questo cominciò a scarseggiare, presso le popolazioni povere si diffuse l'uso del c. fossile. Alla fine del sec. XVI il c., fino allora trovato casualmente negli affioramenti, divenne oggetto della nascente industria mineraria. La crescente domanda di c. stimolava l'espansione delle miniere e l'organizzazione per la distribuzione. I capitali venivano forniti principalmente dai proprietari dei terreni carboniferi e dai commercianti; nasceva di conseguenza una nuova categoria di operai, quella dei minatori di carbone. Nel 1735 si ottenne il primo c. coke; nel 1792 si ricavò dal c. il gas illuminante. L'invenzione e lo sviluppo della macchina a vapore, nella seconda metà del sec. XVIII, incrementarono rapidamente l'uso del c.; la stessa macchina, applicata nelle miniere, consentì l'estrazione di c. da maggiori profondità, a minor costo e con maggior sicurezza. L'aumento della produzione favorì lo sviluppo dei trasporti terrestri e marittimi e le industrie trasformatrici. L'egemonia del c. fu scalzata dalle applicazioni dell'energia elettrica e dei motori a scoppio e tipo Diesel, alimentati con derivati del petrolio. Il c. ha però sempre grandissima importanza nell'economia mondiale in specie nei settori della combustione, sia industriale sia domestica, e della produzione di gas illuminante e di coke, quest'ultimo soprattutto per usi metallurgici. La produzione di c., che agli inizi del 1800 era di 20 milioni di t annue e nel 1850 di 100 milioni, ebbe un incremento notevolissimo tra il 1870 e il 1910, passando da 300 a 1220 milioni di t annue. Nel 1913 oltre il 90% del combustibile consumato nel mondo era rappresentato da carbone. Dopo una notevole flessione in conseguenza del primo conflitto mondiale, la produzione di c. ha subito di nuovo un rapido aumento nonostante la concorrenza del petrolio e dei gas naturali, e dell'energia idroelettrica e nucleare, soprattutto per l'apporto dato dall'U.R.S.S., prima, e successivamente da altri Paesi, come la Polonia e la Cecoslovacchia, e infine dalla Repubblica Popolare Cinese. La produzione mondiale annua complessiva di antracite e di litantrace si valuta intorno ai 3 miliardi di t, cui vanno aggiunti gli oltre 1000 milioni di t di lignite, ma essa è soggetta alle fluttuazioni della domanda ed è limitata, in alcuni Paesi, da vari ostacoli, come mancanza di manodopera o difficoltà di estrazione meccanizzata per la sfavorevole struttura dei giacimenti, che innalzano i costi. Gli anni immediatamente successivi alla prima crisi energetica (1973) rappresentano il momento di massima riduzione della partecipazione del c. fossile nel soddisfacimento dei fabbisogni energetici mondiali. Dopo il 1975 tale quota si è stabilizzata intorno al 27% e quindi, con un certo recupero, intorno al 31%, contro il 47% del petrolio, il 19% del metano, il 3% dell'energia idroelettrica e nucleare. Limitando la previsione ai giacimenti già accertati e presumendo che il consumo di c. possa accrescersi per l'avvenire, si può ritenere che le riserve siano sufficienti per moltissimi anni ancora. Le riserve mondiali di antracite e di litantrace misurate e presunte riferite a giacimenti della potenza minima di 30 cm e situati a profondità inferiore a 1200 m, ammonterebbero a oltre 8000 miliardi di t, ma tenendo conto che i valori riportati per la Cina si riferiscono al lontano 1913 e che quelli più recenti indicano per le riserve accertate un totale di 1500 miliardi di t e per quelle presunte ben 9000 miliardi di t, il computo totale risulta all'incirca raddoppiato. L'Asia comprende soprattutto per l'apporto cinese i 2/3 delle riserve mondiali, mentre tanto all'Europa, compresa l'ex U.R.S.S., quanto all'America Settentrionale spetta il 15%; l'emisfero australe si mostra estremamente povero di c. per il prevalere di terreni cristallini. L'Italia può contare su circa un miliardo di t di ligniti di vario tipo e su 50 milioni di t di torba, in base a una valutazione prudenziale che trascura completamente il litantrace e l'antracite. Le riserve mondiali di combustibili solidi sono, quindi, in grado di mantenere gli attuali livelli di produzione per diverse centinaia di anni, nonostante il sempre più esteso ricorso a tecnologie in grado di abbassare al massimo le emissioni di sostanze inquinanti, oggetto di normative sempre più restrittive in tutti i Paesi. Per quanto riguarda i principali Paesi produttori, la Gran Bretagna, che per tutto il secolo scorso detenne il primato, è stata dall'inizio di questo secolo nettamente superata prima dagli Stati Uniti e successivamente da Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese. In questi ultimi anni si nota la tendenza della produzione mondiale a decentralizzarsi tra i vari Stati. L'Italia è un Paese carbonifero di minima importanza. Nel 1988 la produzione di lignite vedeva al primo posto la Germania (40% ca.), seguita dall'Unione Sovietica (18%) e da una serie di altri Paesi dell'Europa orientale (Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria, Iugoslavia, Ungheria) e infine dall'Australia e dagli U.S.A. Negli Stati Uniti l'industria carbonifera, al secondo posto dopo quella petrolifera nel settore estrattivo, è in notevole progresso grazie alle condizioni favorevoli dei giacimenti, che permettono l'impiego di metodi di estrazione assai perfezionati, con elevati rendimenti, senza impiegare un numero di minatori paragonabile a quello dei bacini carboniferi europei. L'Unione Sovietica è passata dai 36 milioni di t prodotti nel 1913 ai 600 milioni di t annui del 1988. Dopo la disgregazione del Paese, la Russia con i grandi bacini siberiani si pone come uno dei maggiori produttori dell'area. Sviluppo molto recente, risalente agli anni Cinquanta, ha avuto l'estrazione del c. nella Repubblica Popolare Cinese anche per il fatto che rappresenta la principale risorsa di energia. Alcune fonti la pongono addirittura ai vertici mondiali con ca. 700 milioni di t annue. Oltre ai “giganti” della produzione carbonifera, che complessivamente estraggono oltre il 70% del totale mondiale, il panorama dei Paesi produttori si presenta piuttosto composito. Hanno registrato un netto declino due Paesi già ai primi posti nella graduatoria mondiale: la Gran Bretagna, che ancora agli inizi del secolo dominava il mercato internazionale del c., e la ex Rep. Fed. di Germania. In Gran Bretagna, dove già nel 1946 l'industria carbonifera era stata nazionalizzata tramite il National Coal Board al fine di attuare un vasto programma di riammodernamento del settore, la produzione annua si aggirava, nel 1987, sui 100 milioni di t annui, ca. il 3% del totale mondiale; nella ex Rep. Fed. di Germania la produzione è scesa dai 150 milioni di t annue degli anni Cinquanta agli 82 milioni di t annui del 1987 (sintomi di crisi si sono manifestati anche negli altri Paesi della C.E.C.A., la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, in seguito alle difficoltà causate dall'aumento dei costi di produzione e dall'esodo della manodopera dalle miniere). Sono però emersi, o mantengono buone posizioni, vari altri Paesi, in particolare l'Australia, l'India, la Rep. Sudafricana, che insieme estraggono ca. il 10% del c. mondiale. Comunque, pur continuando a sostenere la sovranità indiscussa del petrolio, in tutti i Paesi industrializzati si pensa di rilanciare il carbone. Le sue riserve sono praticamente illimitate, il suo costo di estrazione, dopo gli ultimi rincari del petrolio, è tornato competitivo; inoltre tutti i problemi per il suo trasporto e la sua utilizzazione sono stati risolti. Negli U.S.A. intanto è stata proposta la riconversione dal petrolio al c. di ben 140 centrali elettriche. Il Paese che si è maggiormente impegnato nel rilancio del c. è la Rep. Sudafricana, dove il minerale viene trasformato in prodotti petroliferi (benzina e carburanti per motori Diesel). Anche in Italia nonostante le ridottissime riserve di c. si parla di un progetto per lo sfruttamento delle miniere del Sulcis in cui il minerale verrebbe gassificato e poi liquefatto per ottenere metanolo, quindi benzina. Secondo uno studio redatto dal World Coal Study, il c., che attualmente contribuisce al 25% del fabbisogno energetico mondiale, potrebbe entro il Duemila soddisfare fino a due terzi dell'incremento del fabbisogno energetico mondiale. Questo obiettivo potrebbe però essere raggiunto solo con un incremento di produzione del c. da 2,5 a 3 volte e il commercio mondiale del c. da vapore dovrebbe aumentare da 10 a 15 volte entro la fine del secolo. È tuttavia da tenere conto del fatto che il futuro dell'utilizzo del c. è strettamente legato allo sviluppo, o meno, dell'energia nucleare
Carboni artificiali: carbone di legna
Indicato anche con il nome di c. vegetale, viene prodotto fin da epoca antichissima per carbonizzazione della legna mediante una lenta e parziale combustione in presenza di una minima quantità d'aria. L'operazione si effettua nelle cosiddette carbonaie, costituite da cataste di legna disposte in modo da lasciare un “camino” al centro; il cumulo viene poi ricoperto da uno strato di terriccio e incendiato: la carbonizzazione ha in genere la durata di parecchi giorni. A seconda della qualità della legna impiegata si distinguono un c. dolce, ottenuto da salice, ontano, pioppo, ecc., e un c. forte ottenuto da faggio, quercia, betulla, ecc., con peso specifico medio di 2,2. Il potere calorifico medio si aggira tra 7000 e 8000 kcal/kg. Il c. di legna, di colore nero e a struttura fibrosa, è fragile e poroso. Mentre col procedimento delle carbonaie i sottoprodotti vanno perduti, adottando la distillazione in storte chiuse si utilizza completamente tutto il legno trattato: si ottengono infatti c. di legna, vapori condensabili facilmente frazionabili e separabili, catrame di legna, olio denso costituito prevalentemente da eteri, fenoli, cresoli, ecc. e acido pirolegnoso, liquido acquoso contenente acido acetico e acidi superiori, alcol metilico, ecc., e prodotti volatili non condensabili, che vengono utilizzati bruciandoli per fornire il calore necessario per ulteriori distillazioni. Prevalentemente usato in passato per riscaldamento domestico, il c. di legna viene oggi utilizzato grazie al forte potere adsorbente per la fabbricazione di apparecchi per l'adsorbimento di gas, di filtri per maschere antigas, di filtri di depurazione per acque potabili, per usi metallurgici speciali, ecc.
Carboni artificiali: carbone di storta
È costituito da carbonio pressoché puro che si forma sulle pareti della parte superiore delle storte degli impianti di distillazione del c. fossile per ottenerne coke e gas illuminante. Si forma per decomposizione di vari prodotti, in particolare degli idrocarburi che si liberano dal c. fossile nella distillazione, allorché essi vengono a contatto con le pareti roventi della storta. Di caratteristico colore grigio scuro, è duro, compatto e buon conduttore elettrico; lo si usa nella costruzione di elettrodi per impieghi speciali, in qualche tipo di pile a secco, nelle lampade ad arco, ecc.
Carboni artificiali: carboni attivi
C. artificiali finemente macinati e poi eventualmente granulati la cui superficie è capace di dare luogo in larga misura a fenomeni di adsorbimento* sia di sostanze solide disperse o disciolte in soluzioni diverse sia di sostanze gassose. In passato il c. attivo comunemente usato era il c. animale, detto anche c. di ossa o nero animale; è ottenuto calcinando a temperatura elevata e in assenza di aria le ossa degli animali da macello previamente sgrassate con un solvente. Il c. animale è stato poi in buona parte sostituito nell'uso da c. attivi di origine vegetale ottenuti da materiali quali i gusci di mandorle, nocciole, noci di cocco, i noccioli di frutta, ecc. La carbonizzazione di questi materiali si effettua in genere attaccandoli a caldo con soluzioni di particolari composti chimici, p. es. con acido solforico, con cloruro di zinco, ecc. Il c. attivo è impiegato come decolorante e depurante, deodorante e disinfettante e per l'adsorbimento di gas e di vapori in svariati rami dell'industria. In farmacologia viene adoperato, opportunamente purificato, come adsorbente e neutralizzante di tossine, batteri, alcaloidi, glucosidi, sali di metalli pesanti e di altri agenti nocivi presenti nel tratto gastrointestinale. Il c. attivo è indicato particolarmente come antidiarroico, nella terapia delle infezioni batteriche intestinali, nel meteorismo, nelle tossinfezioni alimentari, negli avvelenamenti da arsenico, cianuri o da sostanze vegetali.

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