La Nascita della Lirica

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Testo

Relazione: LA LIRICA
Per lirica s‘intende una forma di poesia sviluppatasi in Italia con la scuola siciliana. E’ più opportuno però, specificare che tale genere letterario esiste già nell’antico mondo greco (VII sec. a.C.) in cui i componimenti sono cantati accompagnandosi con la lira; queste poesie esprimono, in modo soggettivo, gli affetti e i sentimenti più personali del poeta attraverso testi brevi, caratterizzati da una struttura metrica molto elaborata.
Nell’età classica (III sec. a.C.), la lirica si distingue in monodica o corale a seconda che sia cantata ad una sola voce o da un coro e i poeti Alessandrini sono i primi letterati a privilegiarla. Così, mentre in Grecia si passa a recitare la poesia davanti ad un ristretto numero di spettatori, dimenticando la precedente usanza che predilige i teatri e le piazze, in Italia ci sono le basi perché Roma cominci la sua espansione nel Mediterraneo, importando tuttavia le forme letterarie dalla vicina civiltà.
La letteratura latina, infatti, distaccata dalla musica, è di tipo ellenistico: all’origine mantiene due forme di scrittura ormai desuete in Grecia, l’epos e la tragedia, ma nel I sec. a.C. un gruppo di poeti, i “preneoteroi”, cominciano a modificare le tematiche delle loro opere, focalizzando l’attenzione sull’amore. Con la seguente generazione, tra il 70 e il 40 a.C., la poesia alessandrina sbarca a Roma in una nuova tipologia di scrittura, creata dai poetae novi o neoteroi, denominati così dal tradizionalista Cicerone; li definisce “i pappagalli di Euforione” invece, Ennio, riferendosi ad un sofisticato poeta alessandrino di difficile interpretazione. Gli argomenti trattati, in opere formali, piccole, imitazioni di lettere, rappresentativi di un otium letterario privo di un impegno civile e concreto nella società, sono esclusivamente l’amore, l’amicizia e l’attività poetica. Con un’incessante lotta tra religione e indifferenza, mentre tentano di trovare uno scudo protettivo nella falsa spontaneità, attraversando difficoltà nello scegliere d’essere fedeli alle tradizioni o continuare a scrivere secondo l’antitradizionalismo, tali poeti sanno esprimere la crisi dei rapporti tra l’uomo e lo stato e sanno, dunque, esternare l’incoscienza della fine del periodo repubblicano.
Tra i “poeti alla moda”, è importante ricordare Catullo (87 a.C. Verona-Roma 54 a.C.). Sapendo riassumere, nei 116 brani del liber alcuni episodi della sua vita, Catullo ci appare un uomo sentimentale e di gran sincerità che racconta le fasi discontinue e lunatiche del suo amore per Lesbia (probabilmente pseudonimo del vero nome Clodia), alternando momenti di disperazione ad altrettante estatiche descrizioni di fasi ben più liete e appaganti. Quasi inconsciamente Catullo non nasconde l’inquietudine che tormenta il suo animo, ma in un carme invita a ricercare la gioia, per vivere serenamente, non curandosi dei mormorii dei vecchi che potrebbero “gettare il malocchio, sapendo che sono tanti i baci” che scambia con Lesbia. Altre volte si ripropone di non “fare più follie” in seguito alla fine dell’amore con la donna, la quale dovrà restare solo un bel ricordo, perché se il poeta “non la pregherà più”, toccherà a lei pentirsi delle sue azioni. Talvolta il neoteroe adatta a sé un componimento che la poetessa Saffo di Lesbo (è da riscontrare, perciò, la decisione di denominare, con Lesbia, Clodia) dedica ad una donna che la turba particolarmente coi suoi atteggiamenti: Catullo avverte lo stesso sentimento, ma sa trasmettere all’opera una maggiore profondità; può anche dimostrarsi patetico un uomo che trascorre gran parte della vita sopraffatto dall’inerzia, poiché non sa vincere i dubbi, le amarezze, le illusioni, le delusioni e la gelosia di un amore tanto effimero.
In chiave moderna la lirica ritrova le sue radici nel medioevo, quando nel XII e XIII secolo, ricchi nobili, come Federico II di Svevia, ospitano, nelle proprie corti, poeti e letterati, specializzati sulla poesia d’amore sul modello dei trovatori provenzali. Successivamente i poeti della scuola siciliana, quelli toscani e Dante ripercorrono queste tematiche, conferendo alla lirica un’importanza superiore.
L’amore cortese, vale a dire quello nato nelle corti, è incentrato sul personaggio femminile che vede l’uomo subordinato a sé, come se si trovasse in una condizione di totale sudditanza e subalternità, richiamando un rapporto di genere vassallatico. Si tratta di un sentimento assoluto che non viene mai soddisfatto a causa dell’irraggiungibilità della donna.
Maggiore esponente dell’amore cortese è, oltre a Guglielmo D’Aquitania, Andrea Cappellano, il quale afferma che il vero amore è solo quello extraconiugale, e condanna i matrimoni per interesse per motivazioni politiche o economiche(Paolo e Francesca nella Divina commedia di Dante). La donna è un oggetto di culto, supera Dio e il poeta giunge, dunque, ad un conflitto tra la religione e la ragione che induce al peccato, proprio perché ritiene che il puro sentimento debba realizzarsi con il tradimento.
All’origine di questo genere letterario c’è la poesia provenzale, la quale nasce in Francia qualificandosi come la più antica forma di lirica in volgare, che si diffonde in Italia sottoforma appunto di amore cortese.
Nello stesso periodo in cui nell’Italia centrale si sviluppano le basi per l’amore cortese, in Sicilia s’instaura la prima vera scuola poetica della letteratura italiana: è qui che Federico II dà il proprio contributo. I poeti sono funzionari di corte, alle dipendenze dell’imperatore ed adottano una scrittura ricca di locuzioni provenzali e latine che poi Dante denominerà “volgare illustre”. La forma metrica più usata è la canzone, caratterizzata da una suddivisione delle strofe (dette stanze), in fronte e sirma, mentre l’unico tema è l’amore cortese, che compare in tutte le opere dei diversi autori: perciò sembra quasi che abbiano un gusto particolare per la ripetizione. Tra i poeti siciliani si distingue Giacomo Da Lentini, iniziatore della scuola ed inventore del sonetto (forma metrica della lirica di 14 versi endecasillabi, le cui rime sono nelle prime due quartine alternate o incrociate e, nelle altre due terzine, triplicate)
Continuatori della scuola siciliana sono i poeti toscani, i quali si occupano di adattare la scrittura siciliana sia al proprio volgare sia al clima conflittuale dei comuni. Tale adattamento fa sì che nascano delle nuove tematiche politiche e morali a causa dell’instabilità cittadina. Si distingue in questo periodo Guittone D’Arezzo, criticato, assieme ai suoi contemporanei, da Dante, nel de Vulgari Eloquentia, come autore eccessivamente rozzo.
Dante biasima i toscani, ma deve fare eccezione per un gruppo di fiorentini che si fanno promotori, negli anni duecento e trecento, di una forma di poesia basata su scelte stilistiche eleganti e armoniose: peculiarità che lo stesso Dante chiama nel XXIV canto del Purgatorio “Dolce Stil Novo”. Collegandosi all’amore cortese, gli stilnovisti hanno una visione della donna più spiritualizzata, che porta quindi, alla rappresentazione della stessa come un angelo, dotato di una bellezza che solleva l’animo. La donna è superiore all’uomo, ma in maniera minore rispetto alla subalternità cortese, tanto che anche il rapporto con la religione è contagiato in maniera da sviluppare nuovi contenuti: il rapporto tra corpo e anima, tra la devozione a Dio e le passioni terrene, tra la bellezza e la verità. I poeti stilnovisti più importanti sono Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti.
Il primo, fondatore del gruppo, trasmette, coi suoi componimenti, l’idea della donna-angelo, per evidenziarne le lodi beatificanti e la sua inafferrabile superiorità. Il secondo invece, ha una negativa concezione dell’amore che sconvolge l’animo, favorendo un conflitto interiore tra ragione e sentimento. L’innamorato non riesce ad esprimere la perfezione femminile, si stupisce della sua incapacità tanto da cominciare a pensare con paura alla morte. Guinizzelli e Cavalcanti scrivono un gran numero di sonetti: il primo scrive in maniera tale da dare un tono nitido e ordinato al testo, il secondo gioca sul rapporto che s’instaura tra suono e significato della parola, ricorrendo a stesse vocali o consonanti; sempre Cavalcanti fa uso talvolta, di una suddivisione del discorso in periodi, per creare scene diverse e ben distinte.
Alla fine del XIII secolo, si afferma un altro poeta che si distingue fra tutti: Dante Alighieri. Nasce a Firenze(1265-Ravenna 1321), e cresce seguendo l’esempio degli altri autori appena citati, sino a superarli. Tra le sue opere è opportuno soffermarsi innanzi tutto sulla Vita Nuova, dove la donna che ha più amato, forse in modo platonico e distaccato, è descritta secondo le regole dello stilnovismo. Tutta l’opera, che è una raccolta 31 liriche, è dedicata a Beatrice ed è stata scritta dopo la sua morte. Dante, però, supera lo stilnovismo e quindi l’amore cortese, esaltando in una supremazia indiscussa la donna, unico elemento capace di dare un significato alla vita. L’uomo riesce a vincere lo sconforto, che lo tormenta, solo quando ha la visione di Beatrice nella gloria dei cieli: la prima parte dell’opera testimonia che nell’animo di Dante è ancora viva una certa passionalità, ma nella seconda parte egli cerca esclusivamente di lodare la donna in chiave religiosa, fornendone, così, una visione divina e umana, insieme. Talvolta, le liriche sono caratterizzate da delle sonorità fluide e melodiose, altre volte presentano dei rallentamenti nella metrica che ne sfasano il ritmo, accentuando però, il clima dell’evocazione. La descrizione della donna-angelo, nella Vita Nuova, non vuole anteporre la donna a Dio, è un mezzo, per arrivare alla massima contemplazione di quest’ultimo, tramite il sentimento: il rapporto tra religione e amore quindi, non è più conflittuale, come avviene con la Divina Commedia.
Nella Divina Commedia, l’opera suprema di Dante, vi è una chiara visione tutt’altro che positiva dell’amore cortese: è condannato, infatti, il principio basato sul raggiungimento del vero amore tramite l’adulterio, nell’episodio del V canto dell’Inferno. Dante si serve di Francesca per esporre il proprio punto di vista, poiché desidera far capire che nella libertà di scelta tra il bene e il male, di un amore, i cui valori sono ormai infangati, è giusto dedicarsi solo a Dio.
Continuatore del genere lirico, in Italia, è Francesco Petrarca(1304 Arezzo-1374 Arquà). Egli sperimenta sulla propria pelle la condizione di servilismo dei letterati, poiché svolge la sua professione nelle corti. Petrarca, però, non si definisce, in una lettera all’amico Boccaccio, semplicemente un uomo che vive accanto ai signori, dato il suo opportunismo. Chiama la raccolta delle sue liriche Rerum Vulgarium Fragmenta (ovvero Frammenti di cose volgari), che viene detta anche Canzoniere. Quest’opera contiene 336 liriche di cui una maggioranza sono sonetti, precisamente 317 e le restanti si suddividono in canzoni, sestine, ballate e madrigali. Tutte le liriche sono caratterizzate da una comune somiglianza stilistica, dovuta alle continue revisioni che opera Petrarca(in tutto nove); il tema sviluppato invece, è quello dell’amore per Laura, oltre agli scarsi riferimenti alla vita politica o morale, che si differenzia da quello elaborato da Dante in quanto affronta l’argomento in una visione del tutto laica e terrena. Nella seconda parte del canzoniere, però, vi è una Laura più affettuosa, più umana e viva perché il poeta può immaginarla come crede. Scompare dunque, anche il concetto di donna-angelo, ma appare la collocazione temporale d’ogni esperienza amorosa: la rievocazione del passato, il timore del futuro, il rimpianto di ciò che non è stato. Petrarca vede l’amore come un valore terreno che allontana l’uomo da Dio e riesce a riconciliarsi con la religione solo nella parte finale del Canzoniere, in cui si evidenzia il conflitto interiore del poeta; vi sono anche un mare di contraddizioni nella descrizione di Laura, soprattutto morale, che si riversano nell’uso di ossimori e chiasmi nella metrica delle liriche. La lingua che Petrarca predilige è il latino, infatti, i manoscritti che sono pervenuti sino a noi, sono ricchi di annotazioni in questa lingua. Le figure retoriche che ritroviamo più spesso sono metafore, anafore, chiasmi e ossimori; il tono è fluido ed armonioso, eppure la semplicità dei testi è solo apparente, grazie alla capacità del poeta di una rielaborazione equilibrata. A differenza di Dante, infine, il lessico del canzoniere è estremamente selezionato, con un repertorio di poche parole che hanno il compito di sperimentare all’infinito le combinazioni possibili. Un’ultima peculiarità dello stile di Petrarca è data dalla singolare attenzione che egli manifesta per il paesaggio, giacché vi è un’idealizzazione della realtà, con l’idealizzazione degli elementi della natura.

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