La guerra nei poeti e negli scrittori del '900.

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Testo

Il periodo compreso tra l’ultimo decennio dell’800 e gli anni precedenti la prima guerra mondiale, è caratterizzato da una violenta reazione al Positivismo: questo aveva celebrato la fede nella scienza, nel progresso sociale, nella pacifica collaborazione fra i popoli, ma la realtà, fatta di guerre, imperialismi, lotte di classe, era ben diversa da quanto si era sperato. Tale situazione determina nuovi atteggiamenti spirituali: subentra la disillusione, l’angoscia, la sensazione del vuoto e del nulla; in arte si reagisce con la rottura dei moduli naturalistici.
Distrutti i vecchi schemi della cultura positivistica, rinnegati i miti consolatori dell’800, immerso in un mondo sfiduciato nelle prospettive della scienza e della vita politica e sociale, posto di fronte all’ascesa vertiginosa della borghesia capitalistica che impone un modello di società tutto basato sulla logica del capitale e del profitto come unici valori, l’uomo di cultura (europeo) del primo ‘900 vive una profonda crisi d’identità, avverte chiaramente la fine di un’epoca e l’avvento di una nuova e prende coscienza della perdita del suo tradizionale ruolo sociale che era quello del “praeceptor”, del “creatore di valori” e, in un certo senso, di “vate”. Egli generalmente, al contrario di quanto avveniva nel secolo precedente, proviene dai ceti medi borghesi, una classe sociale che vede compiere il suo declassamento schiacciata com’è tra la forza indiscussa della grande borghesia finanziario-industriale e le emergenti forze del proletariato. Emarginata da questi due colossali protagonisti, la piccola e media borghesia, e con essa l’intellettuale, si sente frustrata, indebolita, disorientata ed, incapace di farsi classe egemone come aspira, si vede ridotta a classe subalterna e strumentale. Nasce da ciò una situazione di disagio, di noia esistenziale, di malcontento, di provocazione.
Lo scrittore avverte con angoscia che sta per compiersi la frattura definitiva, iniziata nell’Ottocento, tra io e mondo, tra artista e realtà e si sente “spersonalizzato”, “disumanizzato”, “disintelligenziato”. Oramai “i tempi sono cambiati”, come dice Palazzeschi, e gli uomini “non domandano più nulla ai poeti”, a quei poeti che altro non sono che “articoli di non prima necessità”, come afferma Gozzano.
La risposta degli uomini di cultura alla profonda crisi esistenziale, morale e culturale che investe la coscienza dell’uomo agli albori del Novecento e alla crisi che travolge l’intellettuale tradizionale approda a soluzioni diverse e spesso contraddittorie.
Alcuni scrittori si impegnano in una inquieta e tormentosa analisi della malattia dell’uomo moderno nella civiltà industriale e borghese che essi condannano in maniera corrosiva e impietosa. Nelle loro opere questi scrittori parlano di malattia, di eroe in tensione, di inettitudine, di universo labirintico; e ancora di uomo senza qualità, di uomo spersonato nel male del tempo, di male di vivere. Escono dalle loro opere personaggi incapaci di agire, di darsi una consistenza, tesi a smontare la storia dei loro fallimenti e della loro coscienza frantumata. Tali personaggi lottano invano contro i pregiudizi e la morale borghese, contro la città che massifica l’uomo; essi individuano chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell’inferno tecnologico che riduce l’uomo a semplice manovella, rovesciando così i miti imperialistici della macchina in “malattia industriale”. Ma questi personaggi non riescono a configurare pienamente un “uomo nuovo” veramente alternativo; la loro protesta tende a risolversi in se stessa, in una dolente quanto amara impotenza.
Altri intellettuali, i Futuristi, tendono a risolvere la crisi storica e dell’intellettuale, che pure essi avvertono, in uno sfrenato attivismo, in un’esaltazione incondizionata della civiltà industriale, in una celebrazione della religione della macchina e della velocità. Essi, quindi, come risposta-reazione alla profonda crisi esistenziale, sia morale che culturale, che li travolse agli albori del’900, tesero a liquidare un certo vecchiume culturale, a credere nella positività della rivoluzione industriale e ad esaltare incondizionatamente la civiltà industriale, la macchina, la velocità e la guerra, sentita come azzeramento totale per una nuova ricostruzione, poiché dopo la necessaria distruzione si profetizzava un nuovo mondo guidato da una generazione giovane, forte, vigorosa. Ma non c’è nei Futuristi italiani una sufficiente coscienza critica della nuova realtà; di conseguenza, se essi pur liquidano un certo vecchiume culturale, finiscono per bruciare una carica di rottura e di rivolta alleandosi alla spregiudicata borghesia industriale con i loro miti tecnicizzati, i loro feticci metallici, la loro “modernolatria”. Gli intellettuali futuristi altro non sono che la versione tecnologizzata del “superuomo” dannunziano ed esaltano la macchina, la guerra, le folle da dominare. Tutti tesi ad emergere, a darsi un ruolo egemone di guida culturale della borghesia, diventano invece produttori, con maggiore o minore originalità, di un’ideologia funzionale ma subalterna alla grande borghesia nella sua fase imperialistica, inevitabilmente destinati, quindi, ad essere assorbiti nell’esperienza fascista.
La coscienza del disagio esistenziale, del “male di vivere” che travaglia l’uomo contemporaneo è presente in gran parte della poesia e della narrativa dei primi del ‘900.
Eugenio Montale, nel 1925, sconvolge il panorama letterario italiano con “Ossi di seppia”. La raccolta dichiara l’impotenza del poeta, veggente ma non vate, a dare soluzioni valide per gli altri in un’epoca senza certezze, di relativismo.
Con la poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato” Montale cifra stilisticamente la più drammatica testimonianza della crisi spirituale dell’uomo moderno, in un mondo che pare sul punto di sgretolarsi e dissolversi. Il male di vivere del poeta ligure non è una restaurata malattia romantica; è piuttosto il tentativo di testimoniare il malessere, lo scacco, l’impotenza dell’intellettuale e della cultura che sa di aver perso i propri punti di riferimento storico e le proprie basi conoscitive. Ma il male di vivere è anche l’incapacità dell’uomo di comunicare, è isolamento, frattura, vita strozzata. E’ il male dell’“essere”, in quanto ci impedisce di avere delle certezze, di conoscere la realtà e noi stessi.
Quando vengono pubblicati, nel 1925, sta per schiudersi il “ventennio nero” del fascismo. In questo contesto storico ed esistenziale, Montale avverte con lucida coscienza il fallimento della funzione storica dell’intellettuale e del poeta, che è poi fallimento delle possibilità conoscitive del reale dopo la caduta delle certezze positive. E anche se quel fallimento, quel disagio, quello sgretolarsi, è trascritto da Montale in termini di scacco esistenziale, di “male di vivere”, e non in termini storici, ciò nonostante l’impegno conoscitivo, la lucida consapevolezza, il rifiuto dei miti ottimistici dei “poeti laureati”, e di D’Annunzio in particolare, faranno di “Ossi di seppia” un testo di stoica resistenza passiva, a cui guarderanno vari intellettuali come a un punto di riferimento certo nelle ore dell’oscuramento e della repressione fascista.
Il male del vivere degli “Ossi di seppia” deve, nella “Bufera e altro”, fare i conti con l’inferno di una precisa quanto feroce realtà storica, quella delle “guerre dei nati-morti”; il male di vivere, che esprimeva soprattutto una condizione esistenziale, qui diviene “male storico”, per la dannazione collettiva della guerra fascista e nazista. Non mancano in Montale la condanna e la presa di posizione politica contro gli orrori della guerra; basti pensare a certi versi di “Il sogno del prigioniero” che chiude “La bufera”, dove la serie delle immagini gastronomiche (“crac di noci…”) allude simbolicamente ad un mostruoso banchetto cannibalesco preparato per le mitiche quanto feroci divinità della guerra e dell’odio. Non è difficile ritrovare dietro l’immagine del “crac” l’orrendo stridìo delle torture; le “noci” sono gli uomini stessi; mentre “l’oleoso sfrigolìo” autorizza ad intendere il riferimento alle carni umane bruciate nei crematori dei lager nazisti. Dietro il banchetto, infine, si avverte l’olocausto e lo sterminio di milioni di persone. Ma anche nel momento della crisi che tutto sembra travolgere, lo stoicismo montaliano riafferma la sua energia, la sua volontà di resistenza e di sopravvivenza. Questo senso di sofferenza irrimediabile percorre tutto il pensiero montaliano convincendolo della fragilità umana, rotta solo a tratti da quella che alcuni critici indicano come “la proposta del messaggio”, un bagliore di speranza.
Il “male di vivere” montaliano è però anche la voce del primo Novecento e perciò riempie le pagine di altri scrittori. Ciò che tortura Montale, infatti, è condiviso, ad esempio, anche da Ungaretti e da Quasimodo.
Siamo in pieno Decadentismo, periodo che vede un uomo incerto e stanco, sconfitto sul piano politico nella sua libertà e frastornato dalle voci della guerra, che cerca dentro di sé, in un ripiegamento introspettivo, nuovi mondi in cui credere. La faticosa autoanalisi dell’uomo moderno è accompagnata dalla coscienza di quanto sia amaro far parte della storia in un mondo che cerca la propria grandezza nel sopruso, in violenti imperialismi e nazionalismi prevaricatori.
L’Italia era stata anch’essa coinvolta dalla crisi di valori che caratterizzò l’intera Europa agli inizi del ‘900. La guerra, il dopoguerra, il fascismo avevano, infatti, maturato anche in Italia quel senso di crisi e di solitudine che era presente nella sensibilità europea ormai da decenni; i canti degli ermetici si arricchiscono però di una sofferenza più profonda, dovuta anche alle recenti gravissime esperienze, che genera meditazioni di respiro cosmico.
Gli ermetici, in campo poetico, sono indotti dalla censura fascista a chiudersi in un proprio mondo esclusivo e raffinato di parole e di sentimenti, espressi in un linguaggio giocato sull’allusione e sull’intuizione, e per lo più inaccessibile a un vasto pubblico. Nei poeti ermetici si può, dunque, riscontrare da un lato una difesa dei valori poetici che certamente si opponeva alle intrusioni della politica fascista, dall’altro un’evasione dalla realtà che non consentiva la denunzia della tragica situazione di quegli anni. Caratteristiche comuni ai poeti ermetici sono l’angoscia scaturente dalla consapevolezza della solitudine e dell’alienazione dell’uomo, la ricerca del senso dell’esistenza umana, l’uso innovativo della parola pura, folgorante, caricata di intenso significato. I metodi di ricerca e la maturazione finale divergono nei nostri tre maggiori poeti ermetici: Montale, dal gelo dell’impotenza spirituale di trovare un “varco” nella “muraglia” che ci divide dall’oltre di cui intuiamo la presenza, si apre alle “Occasioni”, rappresentate dalle varie presenze femminili; Quasimodo, dal febbrile delirio mistico di “Oboe sommerso” passa, dopo la guerra, a cantare il dolore di tutti e a denunciare l’orrore dell’uomo del suo tempo; Ungaretti, dall’annichilimento dei “naufragi” della prima guerra mondiale, per esprimere il quale bastavano poche sillabe isolate negli spazi bianchi, approda al “Sentimento del tempo”, al recupero della metrica tradizionale, della fede religiosa, di un discorso di ampio respiro.
Basta il diretto contatto con la guerra, nello straziante e arido paesaggio del Carso, associato alla memoria del paesaggio annientabile del deserto da cui Giuseppe Ungaretti proviene, per spazzare di colpo sia tutte le filiazioni letterarie, sia la retorica esagitata e rumoreggiante dell’interventismo. La poesia di Ungaretti nasce in mezzo alla guerra e al dolore. L’impatto con la realtà imperiosa della guerra, i suoi orrori e i suoi massacri, portano Ungaretti a prendere coscienza delle contraddizioni del vivere umano tra slancio vitale e morte incombente. Tutta la vita nella sua parabola appare vuota desolazione, una “corolla di tenebre”. L’uomo è una fragile creatura che, sola, passa col “suo sgomento muto”. È un “uomo di pena”, un “nomade”, un girovago, alla “folle ricerca di un paese innocente”, della “Terra Promessa”, dove sia possibile sentirsi in armonia con l’universo, sottrarsi al “tempo demolitore”, al “consumarsi senza fine del tutto”. Ungaretti, però, avverte che l’uomo è sino alla fine in balìa di un viaggio verso la morte senza alcuna possibilità di intervento, senza la possibilità di “accasare” in qualche parte di terra, perennemente profugo, sradicato, strappato via da un punto fermo in cui riconoscersi e in cui placare la sua sostanza umana. Ma alla consapevolezza amara del dolore, della caducità e della fragilità, risponde il disperato bisogno dell’uomo di reagire, di resistere allo scacco, alla sconfitta, allo sbandamento che la crisi di valori della sua società procura, anche attraverso l’illusione più effimera. Se la vita è forse tutto un naufragio, l’uomo “docile fibra dell’universo”, riprende quindi di continuo il suo viaggio con la sua volontà di sopravvivere e senza mai arrendersi procede di continuo nella alternanza dell’esperienza, tra morte e vita, naufragio e allegria, tra esperienze di dolore e momenti di rara felicità, tra deserto e oasi. In questa alternanza si svolge l’esperienza stessa di Ungaretti. La guerra, dunque, mettendo l’uomo senza protezione e senza diaframmi di fronte al suo destino, lo rivela nella sua nudità primordiale, nella sua fragilità, nella sua solitudine, nella sua innocenza. E la parola nuda e scavata per ritrovare una propria verginità è l’espressione di questa condizione umana. Secondo i versi del poeta stesso, la parola è “la limpida meraviglia di un delirante fermento”, il distillato mirabile, cioè, di un’esperienza fermentante e drammatica. I procedimenti di questa distillazione consistono nel pronunciare le parole fuori del discorso normale, isolandole e scandendole in maniera da evidenziare la carica di significati di cui ciascuna di esse è portatrice. Di qui l’uso accentuato dell’analogia, la frantumazione della metrica tradizionale, l’emergere della parola dal silenzio.
Sul piano umano l’itinerario di Ungaretti, iniziatore e maestro riconosciuto dall’Ermetismo, procede da un’iniziale constatazione della solitudine e del dolore dell’uomo, relitto di un naufragio, alla drammatica riconquista delle certezze offerte dalla fede tradizionale, alla coscienza di ripercorrere, nell’esperienza dolorosa della propria esistenza, una strada che è comune a tutti gli uomini.
Nei versi della sua prima raccolta, “Il porto sepolto” del 1916 confluito poi nella “Allegria di naufragi” del 1919, è visibile già un aspetto che è fondamentale nella poesia di Ungaretti: lo stretto legame tra poesia ed esperienza biografica. Nasce così una poesia nuova che dalla auscultazione e dallo scandaglio del proprio animo porta alla luce enunciazioni essenziali, fulminee, parole che emerse dal silenzio, da un fondo di meditazione, riscoperte e rinnovate nella loro dimensione semantica, ambiscono a dire l’essenza di un groviglio sentimentale.
Con l’“Allegria” siamo ancora ad una prima fase della sperimentazione formale di Ungaretti e la scomposizione del verso mira per ora a precisi obiettivi: mettere in evidenza il valore della parola e la sua carica di significati e di suggestioni; fare scaturire dall’accostamento di parola a parola la scintilla, il rapporto analogico; eliminare la fiacca consuetudine discorsiva o la facile musicalità tradizionale del verso che suona e che non crea. L’esperienza annientante della guerra non consente più di essere trascritta né dalla ingombrante sontuosità dannunziana, né dai languori pascoliani o crepuscolari, tanto meno dallo scomposto rumore futurista. Il poeta deve affidarsi alla parola, ma ad una parola scabra, disseccata, trasparente, che immediatamente faccia affiorare dalla coscienza lacerata sentimenti, emozioni, oggetti, paesaggi.
Il fatto individuale, la presenza autobiografica è da Ungaretti proiettata in una dimensione universale, sicché il suo sentire è sentire dell’umanità, la sua personale testimonianza diventa universale testimonianza della condizione umana, il particolare si trasforma in ambienti assoluti.
Il “San Martino del Carso” è un’altra lirica di guerra, con la sua atroce e straziante capacità di distruzione di uomini e di cose. Tutta la parte iniziale del componimento si regge sul drammatico confronto tra il paese devastato e gli amici morti, tra l’assenza parziale e l’assenza totale. Nell’ultima parte del componimento il confronto avviene tra esterno e interno, tra paese e cuore, antitesi resa più intensa dalla forte risonanza analogica (“È il mio cuore/il paese più straziato”).
Come per i simbolisti, anche per gli ermetici, l’arte ha il compito di rilevare dimensioni sconosciute dell’esistenza, attraverso le nuove tecniche dell’analogia e del simbolo. Anche coi nostri ermetici la parola si libera dei caratteri illustrativi, per puntare su quelli puramente evocatori di suggestioni “subliminali”, isolandosi in un’area fuori da tempo e storia. E’ stato anzi rimproverato agli ermetici questo loro individualismo, in tempi in cui l’imporsi del fascismo avrebbe richiesto un’arte più “impegnata” e combattiva, ma essi hanno fatto osservare come il chiudersi nel proprio mondo interiore, costituisse in quegli anni l’unica difesa contro il regime e una sorta di latente e chiusa opposizione alla sua politica trionfalistica.
Il “male di vivere”, inoltre, è un motivo costante del percorso poetico di Salvatore Quasimodo. La sua prima raccolta “Acque e terre”, ad esempio, oscilla tra la celebrazione di una mitica e serena infanzia nella lontana Sicilia e un senso di sofferta, ma a volte ricercata, condizione di sradicato, tra il senso di debolezza e caduta della carne e il rimpianto di una primitiva innocenza e di una perduta comunione con le cose. L'oscillazione si concretizza in alcuni motivi di fondo: malinconia e pena dell'esule, senso del male di vivere, angosciosa solitudine esistenziale, ansia di infinito e di assoluto, assalto dei sensi, preghiera di ascesi e di purezza.
La parabola creativa di Quasimodo riflette la storia della nostra poesia contemporanea: dall'Ermetismo al bisogno di un colloquio più aperto con gli uomini. L'irrompere tragico della guerra, infatti, porta il poeta a una revisione dei suoi modi di fare poesia, soprattutto incidendo sui contenuti. Con le raccolte “Giorno dopo giorno” (1947) e “La vita non è sogno” (1949) si ha, almeno apparentemente, il rifiuto del passato alla ricerca di un più marcato impegno civile e sociale. Per Quasimodo la guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori dell'uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, più delle scienze e degli accordi tra le nazioni che possono essere traditi. Nella nuova realtà dunque c'è bisogno di poesia sociale che aspira al dialogo più che al monologo. C'è bisogno soprattutto di “rifare l'uomo”: questo è il problema capitale, questo è l'impegno, secondo Quasimodo. A coloro i quali credono che la poesia sia solo un gioco letterario e che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita Quasimodo risponde che “il tempo delle speculazioni è finito”.
Sono dichiarazioni che si sintonizzano con l'impegno propugnato dalla narrativa neorealistica che si andava affermando e dibattendo in quegli anni post-bellici, e che testimoniano una volontà di rinnovamento, lo sforzo di uscire dalla solitudine aristocratica della “lirica pura”. La voce del poeta si leva sulle rovine e sui dolori della guerra, condanna la barbarie consumata e la violenza dell'uomo diventato peggiore di Caino. Ma su questo deserto di morte e di distruzione sembra intravedersi un raggio di speranza: sulla legge dell'odio trionferà quella dell'amore, l'umanità risorgerà dalle rovine della guerra come è risorto Lazzaro dalla tomba. Di fronte alla nuova poesia «impegnata» di Quasimodo la critica si è divisa, e sostanzialmente lo è tuttora. Alcuni vedono una continuità di ispirazione tra il poeta ermetico e il poeta della realtà della storia vera e attuale, e insistono sull'unità del cammino artistico rivendicandone il valore morale. Altri, forse i più, nella tematica umanistico-sociale avvertono, al di là di alcune zone di intensa significazione e di felice resa poetica, un sapore di insincerità e di retorica, anche se di nobile retorica.
“Uomo del mio tempo” è l’ultima lirica di “Giorno dopo giorno” e, come le altre che compongono la raccolta, riflette la “svolta impegnata” di Quasimodo, la sua intenzione di “rifare l’uomo” attraverso una poesia che affondasse la tematica nella realtà e nelle condizioni dell’uomo del suo tempo. Il compito era indubbiamente alto, forse troppo per gli strumenti a disposizione di Quasimodo, e la poesia approda spesso a risultati di nobile retorica, di alto magistero morale, ma distante da un felice esito artistico.
“Uomo del mio tempo” è un implacabile atto di accusa contro l’agghiacciante disumanità della guerra, contro la ferocia, bestiale e razionale allo stesso tempo, a cui si sono abbandonati gli uomini nella seconda guerra mondiale. Agli occhi del poeta appare un’umanità mostruosa che inizia il suo cammino col più belluino dei suoi gesti: il fratricidio. Su di un piano morale, l'uomo dell'epoca attuale non si discosta dall’uomo dell’età della pietra, che scaricava la sua istintualità selvaggia contro i suoi simili con il sasso scagliato dalla fionda. Il progresso della civiltà non ha certamente mutato quegli istinti primordiali: l’odio è rimasto uguale e insaziabile.
L'insistita ripetizione nella poesia del verbo “uccidere” vuole, infatti, sottolineare la continuità della violenza e di una condizione dell'uomo che, dalle origini a oggi, non ha mutato i suoi animaleschi istinti aggressivi. L’uomo ripete ancora oggi il fratricidio della «Genesi», quasi a scontare la maledizione biblica di quell'originaria colpa.
Quasimodo rimprovera all’uomo del suo tempo non solo di essere ancorato ancora alla dimensione morale della preistoria, ma anche di aver costretto la sua scienza così superbamente perfezionata a divenire strumento di sterminio, piuttosto che di civile progresso, senza curarsi di un sia pur minimo sentimento di solidarietà e d’amore per i suoi simili, senza Cristo, simbolo d’amore oltre ogni fede e ogni ideologia. Non solo, quindi, non è mutato nulla da allora, ma l'uomo ha mirato a perfezionare sempre di più gli strumenti dello sterminio; ha rivestito la guerra di ideali, legittimando perfino gli assassinii. La cosiddetta “civiltà”, quindi, invece di rendere gli uomini più buoni, li lasciò fermi nei loro istinti di primitivi, di uomini-belva, alla barbarie di Caino. Ma le nuove generazioni devono avere ora il coraggio di vergognarsi dei loro padri e di dimenticarli, piuttosto che vergognarsi di essere uomini, e devono sostituire, finalmente, la legge di Caino con quella di Cristo.
Il secondo conflitto mondiale ha messo in movimento energie intellettuali, ha attivato le coscienze; cultura, arte, letteratura, cinema non possono più essere sentite ed intese come prima. cercato nella stori
La guerra ha distolto gli intellettuali da interessi prevalentemente letterari, mettendoli brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile. In questo periodo gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell'utilità comune. Finita la guerra, in un clima di grande speranza, di radicali rinnovamenti, di redenzione umana per grandi masse lavoratrici, gli intellettuali avvertono l'esigenza di farsi interpreti della realtà sociale e politica, di uscire, come allora si disse, dalla “torre d'avorio”, di non farsi vestali di una cultura che trova in se stessa il fine e la propria legittimazione. Essi allora si orientano, in linea generale, verso un'“estetica dell’impegno”, si sentono coinvolti nel clima di rinnovamento sociale, politico e morale, rifiutano polemicamente la cultura decadente e la concezione dell'artista neutrale o disinteressato. La cultura francese supera la “nausea” e l’“angoscia”, derivate dalla scoperta dell'assurdo e del vuoto dell'esistenza quotidiana, con la teoria sartriana (di Sartre) dell’“impegno”, per cui l'uomo si definisce e si autorealizza solo nell'agire, nello scegliere, nell'assumere giorno per giorno, istante per istante, le proprie responsabilità. L’impegno, la scelta della responsabilità politica, la non complicità col male divengono un modo nuovo di essere dell'uomo e dell'intellettuale nel mondo, una risposta alla disperazione esistenziale.
Elio Vittorini, e la sua rivista il “Politecnico”, guida in Italia il movimento e la battaglia per una nuova cultura che si impegni nella trasformazione del reale. Il rinnovamento culturale del dopoguerra pare dunque, in linea di massima, trovare nell'estetica dell'impegno un punto di convergenza comune, oltre le diverse ideologie e le diverse ottiche individuali e nazionali.

IL MALE DI VIVERE

Esempio



  


  1. tommaso pantarotto

    sto cercando materiale sul respiro nella letteratura del 900 sto affrontando la stesura della tesina di maturità liceale