L'industria

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Testo

INDUSTRIA
Relazioni industriali
In senso lato, tutte le negoziazioni, le transazioni e le attività inerenti la definizione e l’applicazione delle condizioni di impiego. Le parti in causa sono tipicamente i sindacati e i datori di lavoro (o loro rappresentanti collettivi), sebbene anche il governo giochi un ruolo importante attraverso la legislazione del lavoro.
Storia
Agli inizi dell’Ottocento, prima dello sviluppo del sistema di produzione di fabbrica, salari e orari di lavoro venivano concordati direttamente tra imprenditore e singolo lavoratore. Opinione pubblica, giurisprudenza e situazione economica non favorivano, a quell’epoca, la formazione di organizzazioni dei lavoratori. Poiché la disparità di potere contrattuale tra le parti in causa era motivo di numerosi soprusi, i lavoratori di diversi settori costituirono dei sindacati. Attraverso questi rivendicavano condizioni di lavoro migliori, utilizzando, di fronte alla resistenza padronale, i mezzi dello sciopero o altre forme di azione industriale. Un punto di forza fu la contrattazione collettiva, che consolidò i lavoratori come forza unitaria ed estese le decisioni risultanti dalle trattative a tutte le forze del lavoro.
Tre tipi di regolamentazione – legislazione previdenziale, legislazione sulle relazioni industriali e accordi collettivi tra sindacati e imprenditori – vennero sviluppati per impedire gli abusi e assicurare pacifici rapporti tra lavoratori e padronato. I rapporti tra datori di lavoro e dipendenti hanno avuto una diversa evoluzione nei vari paesi; in particolare, differenze sostanziali hanno contraddistinto obiettivi e attività dei sindacati in Europa e negli Stati Uniti d’America. I sindacati europei erano organizzazioni diffuse a livello nazionale, tradizionalmente vicine al socialismo e strettamente legate a partiti e movimenti politici. Per contro, il movimento sindacale negli Stati Uniti si sviluppò uniformemente come organizzazione di tipo locale finalizzata alla protezione e al miglioramento degli interessi economici dei suoi membri, estesa a tutto il paese ma non legata a una particolare ideologia politica. La legislazione protettiva, primo tipo di regolamentazione, fu emanata agli inizi del XX secolo per definire il numero massimo delle ore di lavoro e i salari minimi per donne e bambini, nonché per regolare la pericolosa pratica dello sfruttamento minorile. (Vedi Lavoro minorile). In seguito, tali misure protettive furono estese ai lavoratori maschi adulti. Questa legislazione contiene norme in materia di sicurezza sociale, cioè a tutela del lavoratore in caso di eventi quali infortuni, invalidità, vecchiaia, disoccupazione. Dal 1945 in poi numerosi paesi hanno cercato di garantire pari opportunità di occupazione e la parità retributiva, vietando le discriminazioni ed eliminando le limitazioni basate su criteri di età, razza e sesso.
Oggi
Le aziende di maggiori dimensioni hanno dipartimenti che si occupano specificamente delle relazioni industriali e sono, in genere, divisi in due rami: uno responsabile della gestione quotidiana degli accordi salariali, l’altro preposto a gestire questioni come la pianificazione delle attività, l’attribuzione dei compiti, i licenziamenti, le promozioni, la disciplina, le vertenze e gli arbitrati. La contrattazione collettiva può riguardare vari livelli, da un intero settore a un solo stabilimento; in paesi in cui la retribuzione è sempre più legata al rendimento delle aziende o perfino di un singolo impianto al loro interno, la contrattazione collettiva va perdendo terreno. Per la composizione delle vertenze di lavoro molti paesi prevedono l’arbitrato, cioè l’intervento di organismi neutrali di conciliazione o tribunali del lavoro. Anni di negoziati e di accordi intersindacali, nonché l’uso dell’arbitrato, hanno portato a trattative caratterizzate da un maggior rispetto reciproco delle posizioni della controparte e di conseguenza a un atteggiamento meno conflittuale e più collaborativo. Dalla metà degli anni Novanta il potere dei sindacati sembra essere notevolmente diminuito: in Cina e in altri stati autoritari di recente industrializzazione gli attivisti sindacali finiscono in carcere se cercano di formare delle associazioni al di fuori dell’apparato statale. Nei paesi occidentali sono state proibite certe forme di sciopero, mentre il numero crescente di persone impiegate nel settore dei servizi, oltre ad altri fattori economici e sociali, ha provocato un calo della sindacalizzazione dei lavoratori e, di conseguenza, della forza contrattuale dei sindacati. In Italia, tuttavia, il potere delle organizzazioni sindacali è ancora notevole e influisce in modo determinante sulla formazione della politica economica del governo: ne sono esempi significativi gli accordi sul costo del lavoro siglati negli ultimi anni fra governo, organizzazioni sindacali dei lavoratori e datori di lavoro, che hanno concorso a creare un clima meno conflittuale, con giovamento per l’economia del paese.1
INDUSTRIA ALIMENTARE
Parte essenziale della catena alimentare, dalla produzione del cibo fino al suo consumo. Mentre in passato la scelta delle varietà agricole da coltivare avveniva essenzialmente in base alle caratteristiche del terreno o a esigenze di reddito, oggi l'agricoltura viene condizionata in misura molto maggiore dalle esigenze e dalle richieste dei consumatori. L'industria alimentare, a sua volta, si approvvigiona presso gli agricoltori delle materie prime, che vengono sottoposte a complicati processi di trasformazione ed elaborazione. Il ruolo chiave viene, tuttavia, svolto dal commercio. Sono i rivenditori, infatti, che acquistano dall'industria alimentare una grande varietà di prodotti, con i quali cercano di affermarsi sul mercato, con offerte indirizzate a varie categorie di consumatori e a prezzi competitivi.
Il consumo
In passato ogni famiglia produceva autonomamente cibo a sufficienza per il proprio sostentamento. Oggi il compito di preparare e trasformare gli alimenti viene sempre più delegato ad altri. In base a queste esigenze, sempre più presenti nella società moderna, si è sviluppato il settore agroalimentare, che in molti paesi industrializzati, fra produzione e commercio, ricopre dal 15 al 20% del prodotto interno lordo. Sebbene alcuni cibi possano essere consumati crudi, la maggior parte degli alimenti deve essere sottoposta a processi di trasformazione che li rendano commestibili o comunque più gradevoli e sicuri. Per ottenere una vasta gamma di prodotti alimentari di alta qualità e sicuri da un punto di vista igienico e nutrizionale, i produttori e commercianti si valgono dei progressi della scienza della preparazione alimentare e del contributo degli specialisti di questa disciplina per lo sviluppo e il controllo di tutta la durata del processo, dalla produzione, alla distribuzione, al consumo. Per quel che riguarda i consumatori, in molti paesi industrializzati, accanto a un innalzamento del tenore di vita, si registra anche la tendenza a spendere una percentuale più bassa del proprio reddito per acquistare cibo. Nello stesso tempo si sta diffondendo una maggiore coscienza degli effetti dell'alimentazione sulla salute, con una conseguente attenzione maggiore per la qualità dei cibi consumati.
Il commercio
Nella seconda metà del XX secolo le abitudini alimentari degli abitanti dei paesi industrializzati sono state radicalmente modificate dal rapido sviluppo dei grandi supermercati. Questi grandi punti vendita sono gestiti da imprese di distribuzione, che vendono articoli di grandi marche o di marchio proprio, in questo caso prodotti su commissione da industrie del settore agroalimentare. Storicamente, ogni nucleo familiare produceva la maggior parte del cibo necessario al proprio sostentamento, integrandolo con prodotti acquistati al mercato locale. In seguito si iniziò ad affidare parte di questi compiti a botteghe e a piccoli negozi, che si sviluppavano nei villaggi, ciascuno specializzato in un unico genere alimentare. Sono questi il panettiere, il macellaio, il lattaio, il verduraio e il droghiere: una panoramica commerciale che in Italia è ancora molto presente, nonostante il crescente diffondersi di supermercati, ipermercati e centri commerciali. In molti paesi industrializzati, un ristretto numero di grandi aziende distributrici controlla oggi la maggior parte del mercato dei prodotti alimentari. I supermercati, costruiti spesso ai margini delle città, assumono dimensioni sempre più imponenti e presentano caratteristiche, quali la vastità dell'offerta e l'accessibilità con l'automobile, che rendono questi esercizi commerciali particolarmente attraenti. Oltre a numerosi articoli di diversa natura, vi si vende ogni genere di cibo: dai prodotti freschi (frutta, verdura, latticini), alle conserve e ai surgelati, fino ai piatti pronti che oggi riscuotono un grande successo. Il numero dei prodotti alimentari trattati può arrivare anche a 20.000. Una nuova tendenza della grande distribuzione è quella di recuperare all'interno dei grandi supermercati le particolarità dei piccoli dettaglianti e di cercare di instaurare con i clienti un rapporto più diretto e meno impersonale: in questo senso sono stati recentemente creati nuovi reparti che propongono cibi freschi, come il pane cotto sul posto, i salumi venduti al taglio, le verdure a libero servizio o il banco del pesce fresco. Queste grandi strutture vanno, inoltre, incontro alle esigenze di donne sempre più impegnate in campo lavorativo, che hanno perciò modificato nel tempo le proprie abitudini di acquisto: oggi, infatti, quasi nessuno ha più il tempo di fare la spesa quotidianamente, mentre si tende a concentrare gli acquisti in un'unica uscita settimanale, generalmente in un unico esercizio commerciale che con la sua vasta offerta possa soddisfare tutti i bisogni del consumatore.
L'industria agro alimentare
Mentre gran parte delle imprese coinvolte nella grande distribuzione hanno ancora dimensioni nazionali, sono molte le industrie alimentari che appartengono a grandi multinazionali. Infatti, sebbene vi sia un grande numero di produttori di medie e piccole dimensioni, si registra oggi la tendenza a una sempre maggiore concentrazione della produzione di cibo su larga scala, nelle mani di grandi industrie multinazionali che operano in molti paesi diversi. Le prime 100 aziende del settore, di cui 40 sono europee, 35 statunitensi, 13 giapponesi e solo 12 del resto del mondo, sono responsabili di un quarto dell'intera produzione mondiale di cibo. Tra le prime tre, due appartengono all'Europa e una agli Stati Uniti. Il cibo è un elemento essenziale per la sopravvivenza di tutto il genere umano. Con l'accrescersi, nei paesi sviluppati, del benessere e delle opportunità di incontro e di confronto con realtà diverse, cresce sempre più l'esigenza di un'alimentazione non solo di qualità superiore, ma che sia anche variata e soddisfi il desiderio di novità; l'aspetto quantitativo, invece, non riveste più grande interesse, dal momento che si sono raggiunti limiti oltre i quali si va incontro a problemi di sovrapproduzione. La situazione dei paesi in via di sviluppo è, invece, radicalmente diversa e la sfida per l'industria alimentare è oggi quella di riuscire a soddisfare le esigenze che derivano da un lato da una maggiore prosperità e dall'altro dalla crescita esponenziale della popolazione. Vedi anche Trattamento e conservazione degli alimenti.
INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA
Attività che si occupa della progettazione, costruzione e vendita di autoveicoli (vedi Automobile). Si tratta dell'industria complessivamente più importante nel mondo.
I primi sviluppi
I primi tentativi di trovare una forma di forza motrice in grado di sostituire i cavalli risalgono almeno al XVII secolo. L'energia del vapore era fra tutte la più promettente, ma fino al termine del XVIII secolo non venne sfruttata in modo efficiente. Il primo veicolo semovente, un trattore per artiglieria a tre ruote costruito dall'ingegnere francese Nicolas-Joseph Cugnot nel 1770, raccolse molto interesse, ma si rivelò di scarsa utilità. A questo seguirono altri veicoli poco efficienti, sviluppati da ingegneri francesi, statunitensi e britannici, come William Murdoch, James Watt e William Symington. Nel 1789 l'inventore statunitense Oliver Evans ottenne il primo brevetto per un carro a vapore e nel 1803 costruì il primo veicolo autopropulso che abbia percorso le strade americane. In Europa, nel 1801 l'ingegnere minerario Richard Trevithick costruì il suo primo carro a vapore funzionante (vedi Macchina a vapore). Le ricerche sul motore a vapore continuarono per decenni e il periodo tra il 1820 e il 1840 fu una vera e propria età dell'oro per i nuovi veicoli stradali. La nuova industria non era tuttavia destinata a durare. I proprietari dei servizi di trasporto a cavalli esercitarono forti pressioni perché ai mezzi a vapore fossero imposti pedaggi stradali più elevati, e lo sviluppo della ferrovia rallentò notevolmente le ricerche. In particolar modo in Gran Bretagna, esse furono ostacolate dal cosiddetto Locomotive Act, un provvedimento del govermo britannico molto restrittivo che impediva ogni serio tentativo di sviluppare veicoli dotati di motore. Le ricerche sul motore a combustione interna avvennero pricipalmente in Francia, in Germania e negli Stati Uniti.
Il motore a combustione interna
Un primo motore a combustione interna fu progettato nel 1678 dal fisico olandese Christiaan Huygens, ma non fu mai realizzato. Nonostante alcuni sviluppi interessanti, come il carretto propulso inventato nel 1805 dallo svizzero Isaac de Rivaz, e la macchina a gas illuminante costruita nel 1863 a Parigi da Etienne Lenoir, fu solo verso la metà degli anni Ottanta del secolo che il motore a combustione interna raggiunse un livello di perfezionamento tale da poter essere usato su un veicolo in grado di viaggiare su strada in modo efficiente. Nel 1866 i due ingegneri tedeschi Eugen Langen e August Otto svilupparono un motore a gas, e dieci anni dopo Otto costruì un motore a quattro cilindri, che sarebbe stato la base per quasi tutti i motori a combustione interna costruiti successivamente. L'accoppiamento fra motore e veicolo fu realizzato nel 1885 e 1887, quando per la prima volta Karl Benz e quindi Gottlieb Daimler introdussero le prime macchine alimentate a carburante liquido. Nel 1888 Benz avviò una produzione limitata di veicoli a tre ruote, segnando la nascita dell'industria automobilistica. Il suo veicolo sfruttava la nuova tecnologia dell'industria ciclistica ed era più efficiente di quello di Daimler; quest'ultimo era però rivoluzionario, e avrebbe decisamente modificato l'aspetto dell'industria motoristica. Nel frattempo in Francia si costruivano ancora eccellenti veicoli con motore a vapore. Un evento cruciale nella storia dell'industria automobilistica fu l'Esposizione mondiale di Parigi del 1889, in occasione della quale fu presentato il motore Daimler. Nel 1990 gli ingegneri francesi René Panhard ed Emile Levassor ottennero la licenza per fabbricare quel tipo di motore ma i diritti vennero ben presto trasferiti alla ditta Peugeot. Quest'ultima fu la prima fabbrica meccanica ad avviare una produzione in serie di automobili. Nel 1891 anche Benz iniziò a costruire veicoli in serie e nell'arco di pochi anni altri costruttori, tra i quali Henry Ford, intrapresero la stessa attività. Ebbe inizio una lunga corsa al monopolio, che vide la competizione tra i diversi costruttori per aggiudicarsi la paternità del nuovo progetto. I contenziosi cominciarono nel 1903 e terminarono in favore di Ford nel 1911, un anno prima della scadenza del brevetto.
Produzione in serie
La produzione in serie non era un'invenzione di Henry Ford: nel 1798 Eli Whitney aveva standardizzato la produzione dei moschetti, mentre un'industria conserviera di carne di Chicago aveva introdotto linee mobili dopo il 1860; già nel 1902, inoltre, le automobili Oldsmobile venivano prodotte in serie.
Dal 1908, anno dell'introduzione del modello T, Ford apportò modifiche sostanziali alle esperienze precedenti, introducendo la produzione standardizzata di pezzi fabbricati con precisione, che permetteva l'interscambiabilità delle parti e il lavoro in catena di montaggio. L'efficienza di produzione aumentò in modo tale che i prezzi delle automobili seguirono una costante tendenza al ribasso. Ogni dieci secondi una nuova automobile lasciava la linea di fabbricazione e il numero complessivo di veicoli prodotto in un anno raggiungeva i due milioni. L'esempio fu presto seguito dai costruttori europei: in particolare Morris in Gran Bretagna, Citroën in Francia, Opel in Germania e FIAT in Italia.
Razionalizzazione tra le due guerre
Il periodo compreso tra i due conflitti mondiali vide un netto ridimensionamento nel numero dei costruttori di automobili in tutti i maggiori paesi produttori. Al 1939 l'industria statunitense era dominata dalla General Motors che, grazie alla sua superiorità nel marketing aveva sopravanzato la Ford nel corso degli anni Trenta. In Germania, il mercato era dominato dalla Opel (che era stata acquistata dalla General Motors nel 1928), dalla Mercedes, dalla Benz e dalla Auto Union. In Francia, Renault, Peugeot e Citroën dominavano la scena, mentre i protagonisti sul mercato britannico erano Morris, Austin, Ford e Vauxhall (General Motors). Altre tre società, Jaguar, Rover e Rolls-Royce, erano specializzate in modelli d'élite. In Italia, oltre al gruppo FIAT, si affermavano varie case produttrici, tra cui Lancia, fondata nel 1906, Alfa Romeo, Autobianchi (che sarà assorbita dalla FIAT nel 1955), Maserati, specializzata in autovetture di grossa cilindrata, Bugatti, famosa ai tempi per le auto sportive, Ferrari, Innocenti e Isotta Fraschini.
Sviluppo postbellico
Il periodo successivo al 1945 vide l'inizio di una grande espansione produttiva e di un'ulteriore razionalizzazione della produzione, tuttora in corso. Nel 1950 l'Europa coprì il 13,6% di una produzione mondiale che ammontava a 8,2 milioni di veicoli. Il numero di costruttori continuò, invece, a diminuire. Negli Stati Uniti, Studebaker, Packard e American Motors chiusero o furono assorbite. In Gran Bretagna le maggiori società vennero fuse a formare la British Leyland negli anni Sessanta, che diventò Rover nel 1986 e nel 1994 fu acquistata dalla tedesca BMW. In Francia, negli anni Settanta, la Peugeot annetté la Citroën e le succursali europee della Chrysler in Gran Bretagna, Francia e Spagna. L'intera industria automobilistica italiana è praticamente sotto il controllo della FIAT, tranne qualche fabbrica di dimensioni assai limitate (Alfa Romeo, Bianchi, Lancia) e i piccoli produttori d'élite (Lamborghini, Maserati, Ferrari). Anche se la fabbricazione di automobili è da sempre dominata da grandi industrie che operano in un mercato oligopolistico assai competitivo, sono riusciti ad affacciarsi sulla scena nuovi soggetti. Dai primi anni Sessanta, infatti, emerse l'industria automobilistica giapponese, che dalle 165.094 automobili prodotte nel 1960 passò ai 9.947.972 veicoli del 1990. Intorno al 1995 anche l'industria coreana mostrò di aver raggiunto dimensioni di grande importanza e in futuro si potrebbe assistere a una grande espansione delle industrie automobilistiche indiane, cinesi e russe. Nel 1995, oltre 625 milioni di automobili e autocarri erano in circolazione nel mondo. Di questi, 193 milioni negli Stati Uniti, 17 milioni in Canada, 63 milioni in Giappone e 183 milioni nell'Europa occidentale (dei quali 162 milioni di automobili).
L'industria dell'automobile oggi
L'industria dell'automobile ha una portata globale. Nel 1902 la società tedesca Daimler acquistò una fabbrica sussidiaria in Austria e divenne così la prima impresa multinazionale nell'industria dell'automobile, dando inizio a un tipo società ancora oggi assai comune. Attualmente le società multinazionali più sviluppate sono la Ford e la General Motors, seguite dalle giapponesi Toyota e Nissan. I produttori europei sono legati molto più strettamente alla loro sede di origine, anche se la tedesca Volkswagen e l'italiana FIAT hanno importanti linee di produzione all'estero, in particolare in Sud America. La maggior parte delle fabbriche di automobili che operano nel resto del mondo sono sussidiarie dei maggiori produttori statunitensi, giapponesi ed europei. In paesi come la Malaysia, la Cina e l'India, la produzione è appannaggio di società locali, ma invariabilmente con il decisivo contributo delle grandi società straniere. Alla metà degli anni Novanta, solo alcune società coreane (come Hyundai e Daewoo) sembravano aver raggiunto una dimensione in grado di garantirne la completa indipendenza dal punto di vista dei finanziamenti, della progettazione e della produzione.
Il mercato
Nel 1990 il mercato dell'automobile nell'Europa occidentale ha raggiunto il livello record di 13,5 milioni di veicoli. In confronto, il mercato statunitense era di circa 10 milioni di automobili e quello giapponese di 4,5. I leader del mercato in Europa sono la Volkswagen, con il 16%, seguita da General Motors (Opel, Vauxhall), Peugeot-Citroën, Ford, Renault e FIAT, con quote di mercato comprese tra l'11 e il 13%. Altre società, come la Mercedes, detengono quote intorno al 3 per cento. In totale le marche giapponesi coprono il 12% delle vendite sul mercato europeo. Alquanto differente è la struttura del mercato in Giappone: la Toyota ha il 45%, la Nissan il 27% delle vendite. Marche come Honda e Mitsubishi hanno meno del 10%. Al tempo stesso il commercio mondiale è dominato da automobili giapponesi: oltre il 50% della produzione del paese è infatti destinato all'esportazione; 2,3 milioni di automobili sono prodotte in Nord America e un numero sempre crescente è prodotto in Europa. Il mercato statunitense è dominato dalla General Motors, con il 35%, seguita dalla Ford che detiene il 20%. Attualmente il terzo posto, tradizionalmente appannaggio della Chrysler, è insidiato dalla Honda, con Toyota e Nissan immediatamente a ridosso.
Verso il risparmio energetico
Anche se la domanda di autoveicoli continua ad aumentare, e lo scarso numero di veicoli in circolazione nei paesi più popolati (uno ogni 515 persone in Cina, uno ogni 264 in India) rende evidente quale sia il potenziale della futura espansione, l'industria dell'automobile deve affrontare difficili sfide di natura economica e sociopolitica. Le due crisi petrolifere degli anni Settanta e le sempre maggiori preoccupazioni dell'opinione pubblica sullo stato di salute dell'ambiente hanno avuto infatti un impatto molto serio sull'industria dell'automobile nel suo complesso. Le crisi del petrolio del 1973 e 1978, e i conseguenti aumenti di prezzo del greggio hanno indotto a produrre automobili dai consumi molto limitati. Lo sviluppo di motori più efficienti, di strutture più leggere e di carrozzerie aerodinamiche è servito a ridurre i consumi di carburante. Nella maggior parte dei paesi i governi hanno aumentato le tasse sulla benzina e il gasolio per autotrazione, incentivando così i consumatori a rivolgersi verso modelli di automobile più efficienti dal punto di vista energetico. Inoltre, gli allarmi ambientali sulle emissioni di gas di scarico, sulla congestione del traffico nelle città e sull'inquinamento acustico hanno stimolato nei paesi più sviluppati l'approvazione di leggi per il contenimento degli impatti dannosi degli autoveicoli. L'adozione di marmitte catalitiche e di motori migliorati mira direttamente a ridurre le emissioni. Lo sviluppo di automobili più leggere e aerodinamiche ha un effetto positivo in questo senso, in quanto porta a un inferiore consumo di carburante. Per evitare la congestione del traffico si ricorre perlopiù a pedaggi o altre misure che valgano a scoraggiare l'impiego dell'automobile nei centri urbani. I sistemi progettati in modo da aumentare il livello di sicurezza per il guidatore o i passeggeri (cinture di sicurezza, air bag ecc.) sono stati un ulteriore "problema" per i costruttori di automobili negli ultimi venticinque anni.
Qualità del prodotto
Oltre ai fattori esterni, alcuni sviluppi interni all'industria del motore hanno influito notevolmente sulle politiche delle singole case produttrici. Negli anni Ottanta, i fabbricanti giapponesi di automobili raggiunsero livelli senza precedenti di qualità del prodotto e di efficienza dei processi produttivi. Mentre le industrie europee e statunitensi riuscivano a produrre un'automobile con il lavoro di 35 ore-uomo, i giapponesi lo facevano con 15. Una combinazione di diversi fattori (investimento di capitali in attrezzature di eccellenza; sistemi di controllo e produzione estremamente sofisticati; progettazione orientata al montaggio automatizzato) diede all'industria giapponese un vantaggio decisivo in termini di costi e di qualità su tutti i concorrenti. Ciò si è manifestato in un'enorme e rapidissima crescita della produzione e delle esportazioni del Giappone. Dopo la crisi petrolifera, l'industria dell'automobile vide i clienti rivolgersi alle automobili giapponesi, e le società del paese asiatico si aggiudicarono il 30% del mercato. Negli anni Ottanta, per consentire all'industria americana di risollevarsi e guadagnare un margine di manovra per lo sviluppo, il governo statunitense persuase i produttori di automobili giapponesi a imporre restrizioni volontarie sulle vendite, offrendo loro in cambio la possibilità di fabbricare automobili negli Stati Uniti. In Europa i giapponesi hanno accettato condizioni analoghe, soprattutto in Gran Bretagna e in Francia. Ciò li ha incoraggiati a costruire fabbriche di automobili in Europa (particolarmente in Gran Bretagna) per assicurarsi l'accesso al mercato. La lezione di efficienza giapponese è stata tuttavia preziosa per le industrie americane ed europee, che sono in breve tempo riuscite a colmare il distacco in fatto di produttività e qualità.
L'importanza dell'industria dell'automobile
L'industria automobilistica è il più importante tipo di attività industriale nel mondo. Il suo impatto sull'occupazione, gli investimenti, il commercio estero e l'ambiente è di grande risonanza. In Europa occidentale l'industria automobilistica contribuisce per il 10% alla produzione industriale complessiva e, direttamente o indirettamente, impiega oltre 9 milioni di persone. Industria delle conserve alimentari Settore produttivo che si occupa di conservare gli alimenti, sigillandoli in contenitori a tenuta stagna. Il procedimento originario, chiamato di appertizzazione, fu inventato dal pasticciere francese Nicolas Appert e consisteva nella cottura del cibo in contenitori aperti e, quindi, nella sua sistemazione in barattoli di vetro, i quali, venivano sigillati con tappi di sughero e poi riscaldati per immersione in acqua bollente.
Primi metodi di conservazione
Nel 1810 l’inventore britannico Peter Durand brevettò l’idea di utilizzare a questi scopi scatole rivestite di latta. Più tardi, all’acqua usata per sterilizzare il cibo sigillato nelle lattine venne aggiunto il sale, per far sì che essa raggiungesse temperature superiori ai 100 °C. Sebbene il riscaldamento avvenisse più velocemente, l’accresciuta pressione interna provocava la deformazione e lo scoppio delle scatole. Nel 1847 fu, perciò, inventato il processo in caldaia chiusa (l’attuale autoclave), nel quale le scatole venivano scaldate da vapore sotto pressione: la pressione del vapore compensava la pressione interna dei barattoli e in tal modo se ne evitava lo scoppio.
Sviluppi successivi
Graduali miglioramenti nella produzione dei contenitori portarono a materiali di rivestimento interno come lacche e smalti e allo sviluppo dei barattoli con apertura dall’alto, nei quali il coperchio è saldato alla lattina, dopo che essa è stata riempita, mediante una guarnizione di gomma che ne assicura la tenuta stagna. Inoltre si progettarono barattoli di alluminio, di acciaio sottilissimo e di plastica, rivestita o meno. In tempi più recenti si è sviluppata anche l’apertura facilitata (con una linguetta o un anello fissati sul coperchio) che non richiede più l’uso di apriscatole. Nonostante i cibi in scatola siano molto diffusi, la principale limitazione di questa forma di conservazione sta proprio nella qualità del prodotto finale. Poiché il cibo non è un buon conduttore di calore, si devono raggiungere temperature molto elevate e per lunghi periodi, perché anche nel nucleo centrale dell’alimento tutti i microrganismi potenzialmente dannosi vengano distrutti. Ma in questo modo il cibo finisce per perdere sapore, consistenza, liquidi e nutrienti. Nel metodo di inscatolamento asettico, il cibo viene dapprima cotto, sterilizzato e in seguito inscatolato in condizioni di sterilità. In questo modo si conservano meglio sapore e nutrienti, poiché il tempo di riscaldamento necessario è molto inferiore.
Metodi di conservazione casalinga
Il metodo di conservazione casalinga più diffuso è quello di porre in vasetti di vetro puliti i cibi precotti, insieme con parte del liquido di cottura. Il barattolo viene, quindi, chiuso con un disco metallico che ha una guarnizione di gomma e un coperchio a vite viene poi parzialmente avvitato sul vasetto. Dopo che quest’ultimo è stato fatto bollire in acqua per il tempo richiesto dal cibo che deve essere conservato, il coperchio viene avvitato completamente. Il calore e la pressione eliminano gran parte dell’aria dall’interno e minimizzano, così, il pericolo della riproduzione di microrganismi dannosi. Tuttavia, le spore di alcuni organismi, in particolare di quelli che causano il botulismo, non sono distrutti dal calore e possono svilupparsi in cibi poco acidi, come le conserve sott’olio. Marmellate e confetture, invece, vengono generalmente cotte fino a raggiungere la consistenza desiderata, quindi versate in barattoli riscaldati e sterilizzati, che vengono poi sigillati. Non è necessario un ulteriore riscaldamento, poiché lo zucchero utilizzato per prepararle svolge la funzione di conservante. Industria manifatturiera In generale, l’insieme dei processi di lavorazione di materie prime o di assemblaggio di componenti per ottenere un prodotto commerciabile. Il fabbricante, che paga i salari alla manodopera e i costi di produzione della manifattura, vende il prodotto ai distributori. Il guadagno, ossia l’eccedenza delle entrate sulle uscite, dopo queste operazioni può essere distribuito come utile agli azionisti della compagnia o investito nella ricerca e nello sviluppo di nuovi prodotti. L’efficienza con la quale le materie prime vengono assemblate influisce sull’ammontare degli utili ricavabili dalla vendita. I punti focali da considerare nell’industria manifatturiera sono: far coincidere la domanda di mercato con materiali e metodi di lavorazione e usare al meglio sia le macchine sia la manodopera. I metodi moderni di produzione includono l’uso di computer, grazie ai quali vengono controllate le macchine che costruiscono i manufatti e viene curato l’aspetto logistico (movimento di materie prime, componenti e prodotti finiti nello stabilimento; distribuzione di tali articoli ai punti vendita). I computer inoltre possono servire per progettare un prodotto, poiché consentono a ingegneri, progettisti e manager di decidere l’aspetto di un nuovo articolo, le sue funzioni e le migliorie da apportare, controllando tutte le fasi della lavorazione.
INDUSTRIA MINERARIA
Recupero selettivo di minerali e altri materiali dalla crosta terrestre, escluse le sostanze organiche di recente formazione. Si tratta di una delle più antiche attività umane e, quasi fin dall’inizio dell’età della Pietra, permise all’uomo di sfruttare alcuni materiali per la fabbricazione di utensili, dapprima rudimentali, ma col passare del tempo sempre più efficienti e sofisticati. L’inizio dell’attività mineraria può essere fatto risalire al momento in cui i nostri progenitori iniziarono a recuperare particolari tipi di roccia per foggiare armi e attrezzi primitivi. Inizialmente l’estrazione di minerali consisteva semplicemente nel realizzare piccole buche in cerca di selci o altri tipi di roccia utili. In seguito, il progressivo esaurimento dei giacimenti superficiali indusse gli uomini a realizzare scavi sempre più profondi, che man mano si trasformarono in vere e proprie miniere sotterranee. La più antica miniera in sotterraneo di cui si abbia notizia, una miniera di ocra rossa situata a Bomvu Ridge, nello Swaziland, in Africa meridionale, risale probabilmente a circa 40.000 anni fa, a prova del fatto che l’attività mineraria ebbe inizio molto prima dell’agricoltura. Una parte dei materiali usati nella società moderna è costituita direttamente da minerali estratti dalle miniere, un’altra invece viene prodotta sfruttando minerali coltivati. Persino le industrie primarie, quali l’agricoltura, la pesca e la silvicoltura, non potrerebbero essere praticate senza fare ricorso agli attrezzi e ai macchinari realizzati con i prodotti estratti dalle miniere; per questo motivo l’industria mineraria può essere considerata l’attività industriale di base per eccellenza. Esistono quattro metodi fondamentali di estrazione dei minerali. In primo luogo, essi possono essere estratti da miniere o da cave a cielo aperto, che sono di gran lunga le più diffuse; in secondo luogo è possibile realizzare miniere in sotterraneo a cui si accede attraverso pozzi o gallerie; in terzo luogo, l’estrazione di minerali e di carburanti può essere praticata tramite pozzi di trivellazione; infine si può praticare l’attività estrattiva subacquea, eseguita tramite dragaggio. Attualmente molte ricerche sono volte al potenziamento di quest’ultima tecnica, in modo che sia possibile raggiungere le profondità degli oceani. L’attività mineraria comporta sempre la rimozione di materiali dalla crosta terrestre, spesso in grandi proporzioni anche per poter estrarre solo piccole quantità del prodotto desiderato, e pertanto ha sempre conseguenze dannose a livello ambientale, in modo particolare nella zona di estrazione. In effetti, l’estrazione di minerali viene considerata una delle maggiori cause del degrado ambientale. I progressi compiuti nel settore dell’ingegneria mineraria, tuttavia, consentono di limitare i danni ambientali e di effettuare interventi di recupero del sito una volta che l’attività estrattiva è stata portata a termine; le attuali ricerche sull’argomento, inoltre, sono volte alla progettazione di metodi e tecniche che abbiano il minimo impatto sull’ambiente. L’attività mineraria viene normalmente effettuata allo scopo di estrarre minerali o combustibili fossili. I minerali sono sostanze naturali caratterizzate da una composizione chimica definita e da proprietà coerenti, che si trovano in masse omogenee in giacimenti di varie dimensioni e sono tra i principali costituenti delle rocce. I combustibili fossili più importanti sono invece gli idrocarburi, che di solito non sono considerati minerali. Una risorsa mineraria è una parte della crosta terrestre in cui è presente una concentrazione insolitamente elevata di un dato minerale o combustibile. Essa diventa una riserva mineraria quando il minerale, o uno dei suoi costituenti, ad esempio un metallo, può essere estratto con le moderne tecnologie a un costo che garantisce un profitto ragionevole sul capitale investito. Da giacimenti e riserve è possibile estrarre una grande varietà di materiali, che possono essere classificati come segue: Minerali metallici, dai quali si estraggono i metalli preziosi (oro, argento e i metalli del gruppo del platino), i metalli usati in siderurgia (ferro, nichel, cobalto, titanio, vanadio e cromo), i metalli-base (rame, piombo, stagno e zinco), i metalli leggeri (magnesio e alluminio), i metalli nucleari (uranio, radio e torio) e i metalli speciali come litio, germanio, gallio e arsenico. Minerali industriali, che comprendono: il quarzo, il sale, il carbonato di potassio, l’amianto, il talco, il feldspato, lo zolfo e i fosfati. Materiali da costruzione, che comprendono: la sabbia, il ghiaietto, gli inerti, le argille da mattoni, la pietra da calce e lo scisto usato per fabbricare il cemento; questo gruppo include anche l’ardesia per i tetti e le pietre lisce, come il calcare, il granito, il travertino e il marmo. Pietre preziose, che comprendono: diamanti, rubini, zaffiri e smeraldi. Combustibili fossili, che comprendono: carbone, lignite, torba, petrolio e gas naturali (anche se questi ultimi generalmente non vengono considerati un prodotto delle miniere); l’uranio spesso viene classificato nei carburanti. Questi minerali, ovviamente, sono solo alcuni dei numerosi materiali che vengono estratti dalle miniere. Un giacimento minerario può avere forme diverse; può affiorare in superficie oppure essere sepolto in profondità. In alcune delle miniere d’oro più profonde del Sudafrica, l’attività estrattiva comincia a una profondità di pozzo di 1500 m per arrivare fino a oltre 3500 m. Le miniere possono raccogliere materiali sciolti, non consolidati, come i sedimenti nel letto di un fiume o, al contrario, essere affondate nella roccia solida, più dura di qualsiasi calcestruzzo.
Miniere a cielo aperto
Rappresentano senza dubbio il settore più importante dell’industria mineraria, dato che coprono oltre il 60% dei casi e che possono essere usate per qualsiasi materiale. Le miniere a cielo aperto sono realizzate quando esistono giacimenti superficiali e generalmente si presentano come grandi sterri a terrazze di forma più o meno circolare, che arrivano sempre più in profondità e diventano sempre più larghi man mano che si proseguono le operazioni di scavo. Esempi classici di questo tipo sono le miniere di diamanti del Sudafrica. Per costruire queste miniere si comincia con la perforazione della roccia superficiale e il brillamento delle mine che la frantumano. La roccia frantumata viene rimossa dallo sterro e caricata su autocarri per mezzo di enormi escavatori a cucchiaie, elettrici o idraulici, o mediante pale a caricamento frontale. Queste macchine per movimento di terra caricano normalmente dai 5 ai 25 m³ di materiale per volta, ma possono caricare fino a 50 m³. Nelle miniere più moderne talvolta il materiale di sterro viene scaricato direttamente su un impianto di frantumazione mobile, che elimina la roccia frantumata tramite nastri trasportatori. Il materiale classificato come minerale viene portato all’impianto di trattamento, mentre il materiale di scarto viene smaltito nelle discariche. Una terza categoria di materiale di qualità inferiore può essere ammucchiata per essere eventualmente trattata in un secondo tempo. Molte miniere nascono a cielo aperto e vengono convertite in scavi sotterranei quando una frazione eccessiva di materiale estratto è inutilizzabile.
Coltivazioni a cielo aperto previo sbancamento
Questo metodo di estrazione viene usato soprattutto, ma non esclusivamente, per il carbone e la lignite. La principale differenza tra queste coltivazioni e le comuni miniere a cielo aperto sta nel fatto che il materiale di sterro scavato per portare alla luce il giacimento di carbone viene rimesso nella cavità stessa, anziché essere trasportato in lontane discariche. Queste miniere perciò si spostano da un punto all’altro della zona in cui si trova un giacimento, e ogni volta lo sterro viene ricoperto in modo che la superficie del terreno recuperi per quanto possibile l’aspetto che aveva prima che lo sbancamento avesse luogo. Perciò, al contrario della comune miniera a cielo aperto, che normalmente diventa sempre più grande, questo tipo di miniera raggiunge la massima dimensione in un arco di tempo piuttosto breve. In queste coltivazioni si impiegano le stesse attrezzature usate nelle comuni miniere a cielo aperto, in particolar modo per l’estrazione del carbone, mentre per lo sbancamento del materiale di sterro usato come terreno di copertura si utilizzano alcune macchine per movimento di terra estremamente potenti come, ad esempio, gli escavatori a noria e gli escavatori a benna trainata.
Cave
Le cave sono simili per molti aspetti alle miniere a cielo aperto e richiedono lo stesso tipo di attrezzatura. I minerali estratti sono in genere sfruttati quasi totalmente come materiali da costruzione e solo piccole quantità devono essere smaltite come materiale di scarto. Ciò implica, tuttavia, un forte impatto ambientale poiché una volta esaurita l'attività mineraria, rimane un enorme scavo non ricoperto. Inoltre, dal momento che la maggior parte dei prodotti estratti dalle cave (ad esempio sabbie, ghiaie, argille, marne) è poco costosa, esse devono essere situate in posti relativamente prossimi ai mercati in modo da ridurre al minimo i costi di trasporto che, in caso contrario, renderebbero l’attività antieconomica. Molte cave sono quindi realizzate nei pressi di aree urbane, per cui le operazioni di scavo devono essere progettate con cura in modo da causare il minimo disagio possibile alle persone che abitano nelle vicinanze. Una volta terminata l’attività di estrazione, gli scavi vengono convertiti in discariche per i rifiuti urbani, talvolta acquistando, soprattutto nelle grandi città, un valore maggiore di quello dei materiali estratti.
Giacimenti alluvionali
Questi giacimenti, detti anche giacimenti detritici o di sedimentazione, sono costituiti da particelle di minerali mescolate a sabbia o ghiaietto. Poiché hanno origine alluvionale, sono generalmente situati nel letto di un fiume o nelle vicinanze di corsi d’acqua. La natura dei processi di concentrazione che portano alla formazione di un giacimento alluvionale è tale che i materiali estratti sono assai concentrati e non ricoperti da strati rocciosi. Il procedimento di estrazione perciò è un esercizio di movimento di terra relativamente semplice e sistemi di recupero non chimici possono essere adottati per separare il contenuto del minerale di valore dagli scarti. Il materiale di sterro estratto durante l’attività mineraria può essere riutilizzato per ricoprire la miniera man mano che il processo di estrazione si sposta in altre zone.
Miniere in sotterraneo
Le miniere in sotterraneo possono essere suddivise in miniere di roccia dolce e miniere di roccia dura. La roccia viene clasificata come “dolce” quando non richiede l’uso di esplosivi nella fase di scavo ma può essere tagliata con gli utensili e i macchinari moderni. Il tipo più comune di roccia dolce è il carbone, ma il termine designa anche il sale, la potassa, la bauxite e molti altri minerali. Nelle miniere scavate nella roccia dura, al contrario, l’uso di esplosivi è solitamente indispensabile.
Coltivazioni in sotterraneo di roccia dolce: carbone
Nella maggior parte dei paesi europei, le miniere di carbone sono le prime a cui si pensa quando si parla di industria mineraria. Fino alla metà del XX secolo si usavano esplosivi e macchine perforatrici anche in queste miniere, ma a partire dal 1950 circa questi metodi furono quasi completamente abbandonati. Oggi infatti si preferisce usare il cosiddetto “metodo a parete lunga”: nel giacimento vengono tagliate due gallerie parallele, distanti circa 300 m l’una dall’altra; tra le due gallerie principali viene quindi scavata una galleria di raccordo e una parete di questa diventa il fronte di abbattimento del carbone. Ai lati della galleria di avanzamento, in prossimità del fronte di abbattimento, vengono collocati robusti piloni idraulici che sostengono una volta di protezione del personale e delle attrezzature; davanti ai piloni è situato un trasportatore a catena, le cui fiancate sostengono un escavatore continuo, che taglia il carbone mediante un tamburo dentato che ruota contro il fronte di abbattimento. Man mano che vengono tagliati, i pezzi di carbone cadono sul trasportatore a catena che li porta fino alla fine della parete di estrazione. Qui il carbone viene posto su un nastro trasportatore e trasferito al pozzo, oppure direttamente fuori dalla miniera. Quando la parete della galleria è stata abbattuta completamente, l’intero sistema di sostegno viene spostato in avanti e la trancia inizia a tagliare nella direzione opposta. Nella parte di galleria lasciata libera dal sistema di sostegno idraulico la volta crolla, per cui questo metodo d’estrazione provoca sempre sprofondamenti del suolo sovrastante. In Sudafrica, negli Stati Uniti e in Australia è molto usato il metodo di coltivazione a camere e pilastri, in cui speciali macchine per cantieri sotterranei scavano un reticolo di gallerie separate da pilastri di carbone lasciati in piedi affinché sostengano la volta. Questo metodo di estrazione lascia una percentuale significativa di carbone inutilizzata sotto forma di pilastri, ma solitamente provoca problemi di cedimento del terreno sovrastante sensibilmente minori.
Coltivazioni in sotterraneo di roccia dura: metalli e minerali
Nella maggior parte di queste miniere la roccia viene frantumata per mezzo di esplosivi, oppure mediante macchine perforatrici idrauliche o ad aria compressa. Gli esplosivi vengono posti nei fori eseguiti dalle macchine e fatti esplodere in modo da rompere la roccia. Il materiale frantumato viene caricato su carrelli, spesso azionati da motori diesel e montati su pneumatici, che lo scaricano nei cosiddetti “fornelli di gettito” o “discenderie” (che sono piccoli canali molto ripidi, scavati appositamente, che comunicano con il livello di base). La roccia cade quindi sul fondo del pozzo, dove viene prelevata da benne e portata all’esterno della miniera, all’impianto di trattamento (se si tratta di minerali grezzi) o alla discarica (se si tratta di materiale di scarto). Per poter estrarre i minerali è necessario scavare una rete di gallerie d’accesso che normalmente vengono realizzate soprattutto nella roccia che circonda il giacimento. Questo lavoro è detto sviluppo, e nelle grandi miniere, come la miniera di platino di Rustenberg in Sudafrica, possono essere creati ben 4 km di gallerie al mese. La rimozione del minerale stesso è detta “coltivazione in sotterraneo” e la scelta del metodo da utilizzare per questa fase dipende dalla forma e dall’orientamento del giacimento. Nei giacimenti tabulari piatti è necessario installare impianti altamente meccanizzati per il caricamento e il trasporto della roccia frantumata. Quando, al contrario, i giacimenti sono molto scoscesi, una grande parte del lavoro di spostamento della roccia può essere effettuato sfruttando la forza di gravità. Nel metodo di coltivazione a frana, la forza di gravità viene utilizzata anche per rompere la roccia: il blocco da rompere viene intagliato alla base e fatto crollare sotto il suo stesso peso. La coltivazione in sotterraneo è il metodo di estrazione più pericoloso ed è per questa ragione che i minatori optano, quand’è possibile, per gli scavi a cielo aperto.
Coltivazione a dragaggio
Il dragaggio in acque poco profonde è probabilmente il metodo di coltivazione più economico che esista. In specchi d’acqua che non superano i 65 m di profondità, per recuperare i sedimenti incoerenti possono essere utilizzate draghe dotate di teste da taglio montate all’estremità di condotti aspiranti oppure un escavatore a catena di cucchiaie o di tazze. Le coltivazioni oceaniche rappresentano invece una grande sfida per il futuro; allo stato attuale esse sono situate sulle piattaforme continentali, in acque relativamente poco profonde. Benché siano state sviluppate nuove tecniche per l’estrazione di minerali dal fondo degli oceani, tuttora queste tecnologie rimangono a livello sperimentale. Nei fondali oceanici, a profondità di 2500-3500 m, sono stati scoperti blocchi di rocce, dette noduli di manganese, che contengono abbondanti quantità di questo elemento e percentuali significative di altri metalli, come il rame e il nichel.
Coltivazione tramite pozzi di trivellazione
Numerosi materiali possono essere estratti trivellando il terreno senza ricorrere allo scavo di pozzi o di gallerie. Ciò vale per tutte le sostanze liquide, e il petrolio e l’acqua (dato che l’acqua è a tutti gli effetti un minerale) sono gli esempi più comuni. Inoltre, tutte le sostanze idrosolubili possono essere estratte pompando acqua all’interno del giacimento mediante un pozzo di trivellazione, in modo che possano sciogliersi, dando luogo a una coltivazione disciolta. In alternativa, è possibile applicare un altro metodo, generalmente chiamato “lisciviazione in loco”, che consiste nell’utilizzare un altro tipo di solvente al posto dell’acqua per sciogliere un determinato minerale presente nella roccia.
Coltivazione dello zolfo
Lo zolfo rappresenta un caso a parte perché avendo punto di fusione relativamente basso (108 °C) può essere facilmente liquefatto ed estratto mediante pompaggio in superficie. Il procedimento utilizzato per estrarre lo zolfo è relativamente semplice. Una certa quantità d’acqua salata calda viene pompata in un tubo inserito nel pozzo di trivellazione realizzato nel giacimento di zolfo (si usa acqua salata perché ha punto di ebollizione più elevato e perciò può essere riscaldata oltre la temperatura di fusione dello zolfo). Non essendo idrosolubile, lo zolfo fonde senza disciogliersi e può essere estratto pompandolo mediante un tubo situato all’interno di quello usato per l’acqua. Un terzo tubo, situato all’interno del secondo, introduce nel pozzo aria compressa, con lo scopo di facilitare il pompaggio. Miniere di questo tipo esistono in Polonia, dove fu messo a punto questo metodo, e al largo della Louisiana, nel golfo del Messico.
Coltivazioni disciolte
Il metodo di estrazione delle sostanze idrosolubili, le più comuni delle quali sono il sale e la potassa, è la trivellazione delle saline, seguita dall’inserimento nel pozzo di trivellazione di una serie di tubazioni simili a quelle utilizzate per estrarre lo zolfo, nelle quali viene pompata acqua; il sale si scioglie e la soluzione risultante può essere estratta pompandola dal pozzo per poi recuperare il sale in superficie. In Italia ci sono diverse miniere di salgemma in cui viene utilizzato questo metodo di coltivazione.
Lisciviazione in loco
La lisciviazione normalmente viene considerata un metodo alternativo per estrarre alcuni metalli, in particolare l’uranio e il rame. Comporta sempre l’impiego di due pozzi di trivellazione distinti: il primo per iniettare il solvente nel giacimento e il secondo per recuperare le soluzioni “gravide”. Il giacimento deve essere poroso in modo che il solvente possa fluire da un pozzo di trivellazione all’altro, dissolvendo in tal modo il minerale o il metallo che si desidera estrarre. È inoltre preferibile che la roccia che circonda il giacimento sia impermeabile, per avere un maggiore controllo del solvente. Quando possibile dovrebbero essere usati solventi non tossici, dal momento che essi potrebbero penetrare nelle rocce limitrofe. La lisciviazione in loco presenta diversi vantaggi dal punto di vista ambientale: innanzi tutto l’azione di abbattimento della roccia è molto limitata, e in secondo luogo le successive operazioni di sgombro del terreno sono molto semplici da attuare. Le miniere di uranio del Texas meridionale sono un esempio di questo tipo di coltivazione.
Sicurezza nelle miniere
In tutti i tipi di miniera è necessario affrontare problemi relativi alla sicurezza, ma misure particolari devono essere adottate per gli scavi sotterranei, che sono considerati i più pericolosi. Il pericolo deriva dalla natura stessa della miniera: si tratta, infatti, di una costruzione nella roccia naturale, che non è un buon materiale per questo scopo. Inoltre è statisticamente dimostrato che le miniere di roccia dolce sono più pericolose di quelle di roccia dura. Le principali cause di incidenti nelle miniere sono i crolli di grosse rocce che si staccano dalle pareti delle gallerie e dei pozzi. Sempre in questa categoria sono inclusi gli incidenti provocati da rocce che cadono per altre cause, ad esempio dai macchinari di trasporto. La seconda causa di incidenti è costituita dai macchinari mobili. Altri pericoli sono rappresentati dagli esplosivi, dall’afflusso improvviso d’acqua e dalle esplosioni dovute a gas come il metano, che possono essere emanati dalle rocce di tutte le miniere ma sono più comuni nelle miniere di carbone.
Anche la profondità stessa delle miniere può rappresentare un serio pericolo, perché il peso delle rocce che sovrastano le gallerie di estrazione può vincere la resistenza della roccia, determinandone il crollo improvviso (un fenomeno noto come “colpo di tensione”). Da molti anni sono in corso ricerche con lo scopo di migliorare il metodo di costruzione delle miniere in modo da eliminare o ridurre al minimo la possibilità che si verifichino tali evenienze. Oltre che al pericolo di incidenti, i minatori sono sottoposti al rischio di contrarre malattie, soprattutto nelle miniere in sotterraneo. Tutte le miniere producono polveri che se inalate possono causare gravi malattie polmonari, come la silicosi, l’asbestosi e in generale disturbi dell’apparato respiratorio. I fumi degli esplosivi, che contengono ossidi di azoto, sono estremamente tossici; inoltre, possono essere presenti nelle miniere altri gas tossici, come l’acido solfidrico e l’ossido di carbonio. Molte miniere, e in particolare quelle di uranio, presentano anche problemi dovuti alle radiazioni, poiché le rocce in esse contenute emettono radon allo stato gassoso, un elemento radioattivo. A causa dei pericoli inerenti al lavoro nelle miniere, nella maggior parte dei paesi in cui l’industria mineraria è molto sviluppata esistono norme di sicurezza estremamente severe, che riguardano in particolare la qualità dell’aria, il sostegno degli strati coltivati, gli esplosivi, l’illuminazione, il rumore e tutte le altre situazioni pericolose che si possono verificare. La maggior parte degli incidenti nelle miniere è causata da errori umani, è perciò essenziale che tutte le persone che lavorano nelle miniere siano sottoposte a una formazione adeguata. Grande attenzione è posta ai metodi di progettazione delle miniere, mirati a ridurre il rischio di incidenti: ad esempio, i sistemi di sostegno usati nelle miniere di carbone che impiegano il metodo a parete lunga hanno contribuito in modo decisivo a ridurre gli incidenti dovuti ai crolli.
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