Analisi sulla guerra

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Testo

- Analisi sulla guerra -
1. Che cos’è la guerra
Vediamo di riuscire a trovare una definizione razionale di guerra.
“La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi.”
Gran parte degli esperti sa che questa celebre frase di K. von Clausewitz è soltanto il secondo periodo di una frase più lunga che nella sua principale recita: “Atto di violenza il cui scopo è quello di forzare l’avversario a compiere la nostra volontà”.
Essa costituisce un’esplosione periodica nel corso della quale l’individuo e la società hanno l’impressione di compiersi, vale a dire di pervenire alla verità e di accedere al parossismo dell’esistenza.
La parola “violenza”, per vari motivi, è stata allontanata o mascherata nelle varie nozioni più in uso di guerra, definita anche “sforzo per imporre” sia in onere dello sviluppo sempre più negoziale della nostra società, sia della poca disponibilità di tutto l’Occidente a morire e a vedere morire e vedere morire per sostenere ragioni che, molto spesso appaiono lontane o relegate a zone “barbare”.
Possiamo analizzare due definizioni di guerra dati da altrettanti importanti strateghi dei giorni nostri.
- “La guerra è oggi, o, almeno sino all’11 settembre scorso l’espressione armata e cruenta di un conflitto, fra Stati o fra gruppi politico - sociali organizzati, in cui viene impiegata la forza militare per imporre a un avversario la propria volontà, possibilmente attraverso la convinzione (guerra virtuale e guerra limitata), ma se necessario con la distruzione (guerra di annientamento). All’uso della forza si accompagnano sempre forme non cruente di lotta: economica, psicologica e così via.”
- “La guerra è qualsiasi contrapposizione di volontà fra organizzazioni che impieghino qualsiasi mezzo violento o coercitivo (scontri armati, guerra fredda, coercizione palese od occulta) per imporre il proprio interesse o punto di vista.”
Le due definizioni nella sostanza possono sembrare uguali, ma a ben guardare, nella seconda ci deve far riflettere la scomparsa dell’aggettivo “militare” e la comparsa dell’espressione “qualsiasi contrapposizione di organizzazioni”.
Dobbiamo riflettere proprio su quel “qualsiasi” che si riferisce sia alla tipologia delle contrapposizioni sia a quella delle organizzazioni se vogliamo capire il futuro che è già cominciato.
Non solo la guerra si localizza a monte di ogni conflitto, ma qualsiasi sua espressione – armata o disarmata, cruenta o incruenta – nasconde sempre, al di là dei mezzi impiegati, effetti cruenti.
La guerra visibile e invisibile che gli USA, con l’appoggio di tutto il mondo hanno scatenato contro i Talebani non è stata una guerra di uno stato contro uno stato, ma di uno stato contro individui – compresi i terroristi – dotati di super poteri, mandrie elettroniche e Super - mercati, dove per questi ultimi si intendono i grandi mercati finanziari di Tokyo, Francoforte, Sydney, Singapore, Shanghai, Hong Kong, Bombay, San Paulo, Parigi, Zurigo, Chicago, Londra e New York.
Il nuovo deterrente – anche per il Medio Oriente – non sarà più rappresentato dalle classiche incursioni militari di una nazione contro un’altra, ma è offerto dalla ben più silenziosa e incruenta invadenza dei Super - mercati e degli individui dotati di super poteri.
2. I soldati del Terzo millennio
Per la guerra alla rete informativa che si fa sempre più globale, precisa e interattiva, si affianca e si integra l’intervento di specialisti di nicchia, dotati di conoscenze, arcaiche e futuribili. A questi “specialisti”, i paesi più sviluppati affideranno il compito di confrontarsi con la barbarie.
Il “soldato Ryan” viene così sostituito non solo dall’informazione e dalle reti, ma dai “consulenti”, siano essi scienziati, hackers, o specialisti nell’uso di un pugnale.
Oggi, i “servizi” e i “consulenti” per la guerra si acquistano, come pure “l’intelligence”, sul mercato dove sono offerti ai consumatori da stati e privati.
Sotto la spinta di queste nuove guerre, gli eserciti tradizionali sono costretti ad aumentare il numero delle forze speciali, modello “Rambo”, per adattarsi alle guerre “sub – convenzionali a bassa intensità”, cercando così di contrastare anche sul piano “fisico”, oltreché su quello mentale e comunicativo, i guerrieri barbari o, forse meglio, “nomadi”, ivi inclusi gli hackers. Lo scenario si riempie, da un lato di aerei e missili invisibili, capaci di colpire con grande precisione, attraverso un’interfaccia obbiettivi tanto distanti da sembrare virtuali secondo il principio “spara e dimentica” e dall’altro, appunto, di “guerrieri di nicchia” capaci di combattere e uccidere sia corpo a corpo sia con un computer.
Le nuove guerre , saranno caratterizzate da quattro protagonisti: gli informatici, i fanti, i civili e…i terroristi.
Gli informatici. Gli scenari sono già tracciati: mentre le strutture delle reti elettriche, le fabbriche, le stazioni televisive, gli oleodotti, le raffinerie e le centrali per l’energia elettrica saranno attaccate dall’esterno, con armi visibili teleguidate, virus di ogni tipo le infetteranno contemporaneamente o preventivamente dall’interno, grazie all’opera di corpi speciali e di… terroristi.
L’impiego dei “guerrieri informatici” sarà specifico e puntuale, ma rientrerà in una più generale e complessa “Cyber war”, che presuppone una strategia integrale composta da operazioni speciali, guerra psicologica, disinformazione, guerra elettronica e attacchi di precisione.
Una guerra basata sul “predominio dell’intelligence, della tecnologia e della simulazione”, che potrà essere completamente invisibile e senza battaglie, perché fatta di attacchi invisibili che si manifesteranno soltanto a danno avvenuto.
La regia di queste “guerre hi-tech” sarà affidata a esperti di videogame e ad analisti simbolici, più che a generali di stato maggiore in senso classico. Il civile e il militare, come il pubblico e il privato, si confondono e perdono di identità dietro i piccoli e grandi schermi, ponendo inquietanti interrogativi al futuro della sicurezza anche interna.
I fanti. I l concetto di “conflitto a morti zero” ha reso e renderà sempre più difficile l’impiego dei soldati intesi in senso tradizionale. I fanti, tutti altamente professionalizzati e volontari, saranno sempre più armati e trasformati in “cyber guerrieri”. Perfettamente addestrati, capaci di intervenire in ogni punto geografico, anche con il supporto di armi e mezzi teleguidati, con la massima efficacia e precisione, dopo che le forze del nemico siano state indebolite e distrutte da massicci attacchi navali, missilistici e aerei da altissima quota..
Attorno a queste figure specializzate al servizio del “bene”, ci sono, purtroppo, modelli molto più inquietanti: gli eserciti tradizionali di molti paesi coinvolti nei vari conflitti “identitari” si sono sfaldati o si sfaldano, assumendo strane forme ibride a mezzo tra i terroristi e i veri soldati.
I terroristi. Le nuove strategie di combattimento, che si sono andate sviluppando in Ruanda, Sudan, Bosnia – Erzegovina, Abkhazia, Kossovo, ecc. si basano in parte sull’esperienza della guerriglia, della destabilizzazione e della contro – insurrezione.
La guerra rivoluzionaria, come pure la guerriglia, ha come obbiettivo centrale il controllo del territorio attraverso il sostegno della popolazione locale.
La guerriglia, che mirava a “conquistare le menti e i cuori”, doveva operare “come un pesce nel mare”. Le “nuove guerre” che, al contrario, mirano a seminare “paura e odio”, non si basano su obbiettivi ideologici o geopolitici, ma “identitari”. Come per la guerriglia, anche per esse l’obbiettivo centrale è il controllo del territorio attraverso azioni sulla popolazione, ma la strategia principale è “contro – insurrezionale”, mira ad “avvelenare l’acqua del mare in cui nuota il pesce”.
L’obbiettivo strategico è l’espulsione della popolazione “altra” con mezzi “terroristici”: uccisioni di massa, stupri, pulizia etnica, deportazioni, torture, violenze e intimidazioni di ogni tipo, da quelle fisiche a quelle psicologiche, da quelle politiche a quelle economiche. Occorre modificare l'ambiente per eliminare chiunque abbia un’identità diversa, a questo servono gli specialisti della paura e del terrore.
I civili. Nonostante lo sviluppo di armi sempre più potenti e precise renda ormai possibile forme di “guerra pulita”, dove gli obbiettivi militari sono selezionati con cura, riducendo drasticamente le perdite tra i civili, le popolazioni di oggi e di domani non sono certo escluse dai conflitti bellici. Anzi, se sono valide le considerazioni esposte per le tre precedenti categorie di protagonisti della guerra, è difficile intravedere possibilità per i civili di rimanere fuori dai conflitti, almeno da quelli “identitari” essendo essi il principale obbiettivo.
La distinzione tra guerre con massacri di civili e guerre ”pulite” sta proprio nel fatto che l’eliminazione o l’espulsione delle popolazioni civili sia o non sia un obbiettivo da raggiungere.
Le operazioni di pulizia etnica e il terrorismo, considerano i civili allo stesso modo, vale a dire come elementi da martirizzare per determinati “effetti psicologici”.
I “Nuovi eserciti”, si possono dividere in cinque categorie principali, quasi tutte, salvo le prime due, ormai infettate dal terrorismo e dalla criminalità:
FORZE ARMATE REGOLARI, o loro residui, ormai in continua decadenza.
TRUPPE REGOLARI STRANIERE, in genere sotto auspici internazionali.
GRUPPI PARAMILITARI, associati a fazioni politiche estremiste, spesso stretti attorno ad un unico leader, ospitano dai militari in esubero ai criminali, dai disertori ai disoccupati, e ai “soldati bambini”, spesso privi di divise si caratterizzano per l’uso di simboli della moda civile (Ray – ban, scarpe Adidas, tute da ginnastica, ecc.).
UNITA’ DI AUTODIFESA, brigate e raggruppamenti locali nati per la difesa di zone e situazioni particolari.
MERCENARI STRANIERI E COMPAGNIE DI SICUREZZA, comprendono sia singoli individui che intere unità di combattenti, composti in prevalenza da ex ufficiali russi e Mujaheddin, ma anche da soldati in pensione americani, sudafricani (Executive Outcomes) e inglesi (Sandline International).
Questo variegato mondo di combattenti, che assume, e non soltanto nei film il nome di Ronin, sempre di più le forme di un tragico “riciclaggio di militari e spie”, si muove spesso su progetti comuni, nati da forme di cooperazione e accordi comuni per ottimizzare il lavoro ed i profitti. I confini con la criminalità. I confini con la criminalità e il terrorismo sono molto deboli, anche perché le “nuove guerre” sono basate non su entrate regolari degli stati, ma su fonti illegali di finanziamento, che vanno dalle rimesse dei simpatizzanti, ai fondi deviati dell’assistenza umanitaria; dai traffici di armi, droga, diamanti, petrolio agli aiuti di governi amici; dai furti, omicidi, rapimenti e saccheggi alla protezione e ai pedaggi.
Lo sviluppo di questi circuiti economici, non solo commerciali, costituisce non solo un canale di alimentazione delle nuove forme di guerra, ma un’irreversibile spinta all’esasperazione della violenza illegale che le contraddistingue.
E’ inquietante chiedersi, e il cinema ha già iniziato a farlo: “Che cosa faranno questi specialisti, parte soldati, parte terroristi e parte criminali, e le loro armi a fine conflitto?”.
Il terrorismo e la criminalità organizzata sono ormai globali, trasversali, collegati in rete, nonché dotati di armi da guerra tradizionali, chimiche, batteriologiche e addirittura nucleari.
3. I nomi della guerra
“Terza guerra mondiale”, “Guerra infinita”, “Guerra invisibile”, “Guerra simbolica”, o “Asimmetrica”, oppure “Anti - guerra” o “Operazione di polizia internazionale”, il nome della guerra sembra aver perso la capacità di esprimere il suo significato. Il nome non basta e in mancanza di un nuovo termine, nella speranza di arrivare alla “Guerra a morti zero”, aumenta l’uso degli aggettivi che la qualificano ingentilendola.
Nell’era dell’informazione tutto può diventare oggetto di valutazione o attacco semantico. Anzi, come ha fatto notare Umberto Eco, ormai le parole nascondono, al di là del loro significato, anche insospettati risvolti economici. Definire l’attacco alle Torri gemelle di New York come atto di guerra o di terrorismo comporta anche definire se ci sarà o meno il rimborso assicurativo.
L’attacco condotto da “commandos kamikaze” aveva colpito “militarmente” e con estrema precisione, persone e strutture civili e militari sul suolo statunitense, raggiungendo contemporaneamente obbiettivi fisici, simbolici e economici dal valore, almeno tattico, altissimo, quasi incalcolabile ragionando in termini di logica comune. Un atto di guerra a tutti gli effetti, guerra vera e propria, salvo che per un particolare aspetto: non esisteva un nemico identificato.
Il “terrorismo” è la “guerra” e la “guerra” deve diventare “controterrorismo”. Le tecnologie diventano improvvisamente sovrastrutture, e tutto si riduce alla lotta “uomo contro uomo”.
Gli uomini producono la ricchezza nella stesso modo in cui fanno la guerra, pertanto, gli attuali cambiamenti nell’economia e nel mondo degli affari si rifletteranno negli eserciti di ogni Paese, modificandone armi e modo di essere della guerra .
E’ nata così la definizione di “Guerra disarmata”, seguita da quella di “Anti – guerra” e di “Guerra dell’informazione”, tipica della Terza Ondata prodotta dalla “Rivoluzione Informatica”.
Altri strateghi si sono cimentati in questo gioco, aumentando le definizioni; si può così parlare di “Guerra ad eliminazione morbida”, “Guerra non letale”, “Guerra a morti zero”, “Non guerra”, oppure, secondo Lutwack: “Guerra post – eroica”, oppure gli inesauribili “Peace Keeping” e/o “Peace Enforcing” e ancora “Operazioni di Polizia”.
L’immane catastrofe dell’11 settembre ha ancora di più accelerato questo processo di nominazione. L’impossibilità per gli USA, di poter usare immediatamente il loro sterminato arsenale di armi come risposta rapida a un attacco catastrofico condotto da un nemico, almeno agli inizi, sconosciuto e poco e poco identificabile, ha fatto sorgere l’evidenza di dare altri nomi alla guerra. Per rappresentare questa diversità di forze e comportamenti, si è parlato dapprima di “Guerra asimmetrica” per poi, identificato meglio il concetto di nemico, parlare di “Guerra invisibile”.
L’attacco chirurgico condotto con truppe speciali o con missili e aerei, non è certo invisibile a chi lo attua o lo subisce, ma lo è sicuramente a chi non vi partecipa né vi potrebbe assistere senza le mediazioni degli stessi combattenti. In questo senso si potrebbe sostenere che tutte le guerre da sempre sono visibili soltanto a coloro che ne sono coinvolti.
Ogni epoca ha avuto e ogni epoca ha una propria teoria della guerra. Da oggi possiamo aggiungere che ogni epoca ha i propri aggettivi per indicare la guerra.
4. Informazione e guerra
Durante l’approssimarsi della guerra, come durante il suo svolgimento, cresce inevitabilmente la domanda e l’offerta di informazione allo scopo di dare senso a cosa sta succedendo. Da una parte ci sono le esigenze del governo e dei comandanti militari di nascondere la verità, o semplicemente, le informazioni ritenute non opportune, dall’altro quelle del pubblico, in mezzo a fare da ago della bilancia i media.
Nella storia della comunicazione è detto che fu il generale Eisenhower, a un convegno degli editori americani durante la Seconda guerra mondiale, ad affermare che “è l’opinione pubblica che vince la guerra”.
Ogni guerra, per essere vinta o compresa, ha, quindi, bisogno dell’alleanza o della solidarietà dei media con il governo
La guerra del Vietnam, ovvero l’era dei reporting. La guerra del Vietnam (dal 1954 al 1975) dura quasi vent’anni ed è combattuta come se fosse un’altra Guerra di Corea per arginare l’avanzata del comunismo. Definita la “prima guerra televisiva” vede in effetti i cittadini prima americani, poi del mondo trasformarsi in spettatori, dando loro la sensazione concreta di essere testimoni di essa nel suo svolgersi.
Nasce la “teatralizzazione” televisiva che rende la cronaca di guerra molto più simile alle narrazioni dei fumetti o dei romanzi più che ai resoconti giornalistici, almeno sino al 1968, quando i media iniziano a recepire le istanze del sempre più forte pubblico giovanile, in particolare quello delle università, contrario alla guerra. Gli stessi giornalisti diventeranno sempre più scettici verso la politica di comunicazione del governo. Iniziano ad essere pubblicate e soprattutto ad essere trasmesse immagini, di vittime civili, e di distruzioni di villaggi, come pure quelle di combattimento in campo aperto dove si ha la dimensione dello sforzo e delle perdite umane.
E’ così che per i militari americani fu persa la guerra. Il generale Westermoreland sostenne pubblicamente che: “la battaglia del Tet la vincemmo noi, ma due giorni dopo il suo inizio Walter Cronkite annunciò in Tv che noi avevamo perso, e quella diventò la verità. Se potessi tornare indietro, convocherei una conferenza stampa e darei la mia versione dei fatti”.
La falla si apre sempre di più, è la volta delle immagini dell’eccidio di My Lai che appaiono persino su Time e Newsweek. La guerra assume il suo vero volto di realtà dominata dalla violenza.
L’impatto sui cittadini di tutto il fondo fu fortissimo, per la prima volta la guerra entrava nelle case e lo faceva attraverso immagini tratte dalla realtà che non avevano bisogno di commenti. I mass – media, che in Vietnam godevano di ampia autonomia proprio per una scelta di pubbliche relazioni del Governo, schieravano sul campo oltre 700 giornalisti, liberi di muoversi in tutta l’indocina a caccia di immagini e notizie.
Fu proprio questa politica di comunicazione che provocò la frattura tra Governo e giornalisti, e successivamente tra Governo e cittadini. I media americani non potevano più sottrarsi dal commentare la politica estera di Nixon che oscillava tra il proseguimento dei bombardamenti intensivi e le dichiarazioni di un prossimo disimpegno.
Dalla falla giornalistica irrompono reportage sempre più severi sul comportamento delle truppe americane; vengono pubblicate storie sull’uso e l’abuso di droga, di assassinii di ufficiali non graditi e altri misfatti. L’immagine del militare eroe è per sempre compromessa. I militari americani rimangono soli e senza nessuna difesa. Tornati in patria vengono isolati e disprezzati, hanno perso e hanno perso male, lo dicono la televisione e i media. Per loro, al contrario sono stati proprio i giornalisti che assieme ai disfattisti e ai pacifisti gli hanno impedito di vincere. Alle immagini dei marines dei film americani si sovrappongono nella testa degli spettatori di tutto il mondo quelle demitizzanti della televisione e dei giornali.
Media diplomacy. Dopo la fine della Guerra del Vietnam, si apre un periodo piuttosto particolare nei rapporti Governo, media e opinione pubblica, caratterizzato dalla spinta imposta dallo sviluppo delle tecnologie informatiche applicate agli armamenti e alla comunicazione. Si afferma un nuovo concetto di guerra come sistema di informazione, comando e controllo. I satelliti non assicurano soltanto il controllo militare, ma diventano strumenti di diffusione sovranazionale, aumentando a dismisura la dimensione del pubblico ormai visto come target.
Nel 1980 nasce il primo canale tematico di sole news della CNN. Il motto del network è “dovunque accada qualcosa, e prima ancora!” Grazie alla televisione satellitare diviene, infatti, concreta la possibilità di trasmettere la notizia mentre essa avviene. La notizia è l’evento, meglio la notizia è la trasmissione di essa.
Giornalisti, manager, diplomatici, politici e militari seguono ormai la CNN per mantenersi informati. Un’agenzia televisiva dietro cui qualcuno immagina una nuova forma di colonizzazione culturale americana.
Nasce la media diplomacy e la politica spettacolo. I contenuti passano quasi tutti in secondo piano rispetto alle immagini che diventano “la materializzazione dell’archetipo dell’attualità”. La televisione non si limita a trasmettere gli eventi, ma attraverso se stessa li realizza.
Le guerre invisibili. Le immagini diventano vere e proprie armi in grado di assegnare la vittoria a questo o a quel contendente. La politica sente ormai l’esigenza di ridurre l’informazione giornalistica a canale interno della propria comunicazione e, nel caso di guerra, di escluderla. Va detto che l’embargo o la gestione delle informazioni non è soltanto frutto di una scelta politica, ma è reso ormai indispensabile dal nuovo modo di condurre le guerre: interventi rapidi e selettivi dal cielo, con aerei e missili, e sul terreno con forze speciali; il tutto coordinato attraverso satelliti.
La Guerra del Golfo, ovvero la guerra visibile. La Guerra del Golfo è la prima vera e propria guerra televisiva e di marketing nel senso stretto del termine.
Gli USA vogliono essere sicuri di non ripetere l’errore del Vietnam. Il news management governativo, questa volta non può sbagliare. Tutto è pianificato con estrema attenzione. Prima dell’attacco occorrerà ottenere il consenso interno alla guerra, in cui c’è il rischio abbastanza alto di vedere morire un certo numero di americani, spiegandone il perché e gli obbiettivi. Contemporaneamente si dovrà iniziare a lavorare alla demonizzazione dell’avversario, obbiettivo abbastanza semplice visto il personaggio, affermando nel contempo i giusti motivi dell’intervento. Successivamente a guerra iniziata si dovrà mantenere il totale controllo delle informazioni dopo aver azzerato, meglio se con bombardamenti notturni, che provocano maggior panico, le strutture radar e di comunicazione dell’Iraq.
L’era della CNN, della realtà in diretta televisiva, non ammette possibilità di errori. La Guerra del Golfo diviene così la prima guerra televisiva della storia.
La decisione è presa: la Guerra del Golfo non sarà invisibile, ma visibile. Bush non vuole combattere con una mano dietro la schiena, e vuole che media ed opinione pubblica siano dalla sua parte. Il Vietnam non deve essere dimenticato ma riscattato, e l’obbiettivo è stato raggiunto.
La campagna prevedeva di influire sull’opinione pubblica eliminando il più possibile eventuali interferenze di giornalisti attraverso il comando militare che si sarebbe dovuto servire di due duplici leve: la censura e la diffusione costante di un flusso di notizie – tecnica dell’inondazione – che rendesse inutile il lavoro autonomo dei giornalisti. Per non correre rischi, la coalizione anti – Saddam distruggerà nei primi giorni di guerra, assieme a tutte le postazioni radar tutte le emittenti irachene. Una precauzione che vedrà nella Guerra del Kossovo una precisa codificazione da parte della NATO che, autorizzando il bombardamento dell’emittente serba, considererà la televisione un’arma bellica, e quindi un obbiettivo militare.
Nel Golfo, le informazioni certo non mancano: si tengono briefings quotidiani in cui si riferiscono resoconti dettagliati delle operazioni del giorno, corredate di numeri analisi e soprattutto immagini.
Nasce una nuova simbolica della guerra, quella delle riprese aeree computerizzate, complete di esplosione sul bersaglio, dove tutti possono seguire in salotto le traiettorie dei missili. Le bombe intelligenti, i bombardamenti chirurgici, lo sfarzo tecnologico e la sua asetticità, vista anche l’assenza di immagini di morti, feriti e distruzioni, si trasforma in una vera pubblicità per gli USA.
L’opinione pubblica rimane compatta a favore della guerra, anche quando qualche incidente mostra in diretta che le immagini della realtà possono essere costruite o alterate.
Ma le immagini del bombardamento del bunker di Al Hamariah che causò la morte di 300 civili saranno una ghiotta opportunità per Saddam, sino ad allora contrario a far mostrare i risultati dei colpi dell’avversario, ma da quel momento interessato ad esibire le vittime innocenti di una popolazione stremata dai demoni americani. Le accuse di tradimento in America non mancano, ma è evidente a tutti il grande vantaggio di queste trasmissioni in cui Saddam che carezza impacciato i bambini prigionieri appare ancora più mostro.
La CNN, divenuta l’unica vera finestra sul mondo, è l’unica a guadagnare con la guerra, un minuto di pubblicità costa 20.000 dollari; per le altre emittenti sarà invece una perdita disastrosa.

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