Zoòn physei politikòn o homo lupus?

Materie:Tesina
Categoria:Multidisciplinare

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Testo

ZOÒN PHYSEI POLITIKÒN O
HOMO HOMINI LUPUS?
A cura di Francesca P.C

Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Italo Calvino
INTRODUZIONE
L’appartenenza ad un gruppo è un’esperienza che tocca tutta l’umanità, considerando che l’individuo, dalla nascita fino alla morte, entra ed esce continuamente da più tipi di gruppo (la famiglia, la scuola, il lavoro, gli amici, i gruppi religiosi o d’altro tipo). L’ingresso in questi gruppi può essere un’esperienza facile o difficile, a seconda di dove si accede, del tipo di personalità, delle capacità di approccio e dall’insieme delle aspettative. Il mio interesse per questo tema è stato sempre molto vivo, dura da tempo ed è probabilmente dovuto all’esperienza da me maturata nell’ambito del gruppo sportivo cui appartengo ormai da più di dodici anni. Capire come l’individuo si rapporta al gruppo, quali atteggiamenti assume e perché, ed anche le varie norme che regolano l’associazione hanno sempre attirato la mia attenzione. Credo che gli uomini siano per loro natura sociali, in quanto sono predisposti geneticamente al rapporto con gli altri. Infatti, alla nascita l’essere umano non è autonomo, è ancora incompleto e ha bisogno per un certo numero di anni dell’intervento e dell’aiuto di altri per sopravvivere e potersi così sviluppare.
ARISTOTELE
Questa mia tesi era sostenuta già nell’antichità da Aristotele, per il quale l'uomo non è un essere totalmente autosufficiente e non è quindi in grado di sopravvivere se vive isolato, soprattutto non è in tal caso in grado di vivere bene. Da qui scaturisce la tesi che l'uomo è “per natura un animale politico”, affermando così che è costitutivo e caratteristico della natura dell'uomo il vivere all’interno di quella forma di organizzazione sociale e politica che è la polis. Solo entro la polis (le piccole città-stato di cui la Grecia del tempo era costellata) l'uomo può realizzare pienamente la propria natura. Anche altri animali, come le formiche o le api, vivono in società, conducono una vita di gruppo, ma solo l'uomo ha la percezione di ciò che è bene e male, giusto e ingiusto, mentre per gli animali è solo un fatto istintivo, in quanto, in loro, manca l’aspetto organizzativo; per questo non considera politici né gli animali né gli dei: solo gli uomini lo sono. Cosa significa allora quest'espressione? Vuol dire sia che per natura l’individuo è legato ad una vita comunitaria con gli altri, sia che la forma tipica della vita sociale è la polis (termine dal quale deriva la parola politica). Questa non è, dunque, una costruzione artificiale, il risultato di un patto o un accordo tra uomini, è piuttosto una formazione naturale intrinsecamente legata alla natura dell'uomo, ma non è la forma più semplice di associazione; essa, secondo Aristotele, risulta dall'unione di più villaggi, ciascuno dei quali è costituito da un insieme di più famiglie. Quindi c’è il villaggio, ma prima ancora la famiglia, il nucleo naturale dei processi di aggregazione sociale, che poi culmina nella polis. Così Aristotele può essere visto secondo un carattere gradualistico: alla polis, ultimo gradino, si arriva in seguito a vari passaggi. In questo senso si può vedere una negazione del cosiddetto “CONTRATTUALISMO", la tesi secondo la quale lo stato è un contratto, una convenzione fatta a tavolino dagli uomini, che si rendono conto che stare insieme è vantaggioso. In questo senso il termine indica, in generale, l'origine pattizia del potere statale, prodotto di un accordo esplicito o implicito fra individui, che segna il passaggio da uno stato puramente naturale ad uno propriamente politico: è presente l'idea che lo Stato è oltre e altro rispetto allo stato di natura. Di qui il comune carattere "artificiale", e appunto non naturale, del potere politico. Questa costruzione nasce da una scelta razionale che porta gli individui ad accordarsi sulle regole fondamentali che ordineranno la società civile e lo stato politico, nei quali andranno successivamente a vivere. Il contratto sociale, infatti, è il risultato dell'interesse comune a cooperare; attraverso esso, ciascuno rinuncia ad una parte della sua libertà, sceglie di vincolare il proprio comportamento a regole a lui esterne (leggi, valori, tradizioni) e con ciò elimina le situazioni di conflittualità e di incertezza che renderebbero malsicura e inefficiente la sua posizione nello stato di natura originario dove, si suppone, tutti gli individui sono in continuo conflitto fra di loro. Optando per l'ordine costituzionale, il singolo cittadino (considerato come un unico atomo della società) di fatto neutralizza parte del suo potere politico in cambio di regole di condotta certe, valide per tutti, che producono maggiore sicurezza e maggiore benessere, allontanandosi definitivamente dalla sua condizione naturale. Aristotele la pensa diversamente: l’aggregazione è un'attitudine naturale. E’ vero che gli uomini si raggruppano anche per interesse, per trarre vantaggi: nessuno può fare tutto bene e da sé ed è meglio che ciascuno si specializzi in un'attività. Ma non è un processo convenzionale, bensì è spontaneo. Aristotele dice poi che il fatto di vivere insieme non è solo dettato da esigenze materiali: anche se l'uomo avesse tutto ciò di cui ha bisogno e fosse autonomo, tenderebbe lo stesso a vivere insieme ad altri. Vi è una spontanea voglia di stare insieme. Che la famiglia sia un'associazione naturale e precedente alla polis è un'affermazione importante perché ha influenzato molto la dottrina cattolica sulla famiglia. La famiglia è la società naturale e primordiale: è nata prima e autonomamente e quindi ha dei suoi diritti. Quando Aristotele parla della famiglia la chiama oikos (casa). E’ interessante perché la famiglia è il nucleo primario non solo sul piano degli affetti, ma anche sul piano economico: economia, infatti, significa regolamentazione dell'oikos. Aristotele cita quattro figure: padre (adulto maschio libero), madre, figli e schiavi, che svolgevano attività agricole e di servizio per la casa. Anche nella famiglia si formano diversi rapporti di autorità: il padre (il pater familias latino) ha diversi rapporti di autorità sulla moglie, sui figli e sugli schiavi. Il rapporto nei confronti dei figli è temporaneo e dura finché essi non crescono e possano svolgere il loro compito di cittadini autonomamente; il rapporto nei confronti degli schiavi è permanente: lo schiavo è in uno stato di perenne dipendenza dal padrone, è una sua proprietà, alla stessa stregua di tutti gli altri beni di cui dispone la casa, come gli strumenti di lavoro o gli animali. Aristotele è consapevole che possono esistere individui che si trovano accidentalmente in condizione di schiavitù (Platone stesso fu fatto schiavo), per esempio a causa di una sconfitta in guerra (era, infatti, comunemente accettato che il vinto in guerra diventasse, di fatto, proprietà del vincitore). Stabilendo una distinzione rispetto a questa schiavitù convenzionale, che può anche essere ingiusta, Aristotele teorizza l'esistenza di una schiavitù naturale e necessaria. Ciò significa che esistono individui privi per natura di quelle proprietà che fanno di un uomo realmente un uomo, cioè, in particolare, della capacità di formulare ed effettuare deliberazioni, insomma di ragionare. Una parte dell’umanità è in grado di mettere in pratica le sue capacità mentali (in potenza le abbiamo tutti, ma si tratta di farle passare in atto), l’altra invece no, non sa fare scelte razionali. Individui in queste condizioni sono per natura schiavi di quanti sono invece dotati di tali capacità, e, proprio in quanto incapaci di guidarsi da sé, gli schiavi trovano la propria utilità nella loro dipendenza da un padrone. Una persona che non sia capace di governarsi autonomamente trae solo benefici dall’essere governata. In una certa misura la distinzione tra libero (padrone) e schiavo tende a coincidere in Aristotele con quella tra greco e barbaro. L'uomo di cui Aristotele afferma che è un “animale politico” è greco, maschio, adulto e libero. La presenza dello schiavo nell'oikos mostra che la famiglia per Aristotele è costitutivamente anche una cellula economica, volta a garantire non solo la riproduzione della specie umana, ma anche il soddisfacimento delle sue necessità vitali. Le funzioni lavorative, in particolare quelle riguardanti il lavoro della terra, sono, infatti, di pertinenza degli schiavi (letteralmente “amministrazione dell'oikos”). La vita al di fuori dell’aggregazione appartiene agli esseri inferiori (bruti) o a quelli superiori (dei); per l’uomo invece la società è condizione di sopravvivenza e di perfetta realizzazione del fine naturale: questo è l’eudaimonìa. Per l’uomo, animale razionale, la felicità non può consistere nel piacere, perché altrimenti sarebbe allo stesso livello degli altri animali, né nel possesso di ingenti ricchezze perché queste sono il mezzo di cui ci si serve per raggiungere altro. L'uomo non sceglie di essere felice o infelice, ma soltanto i mezzi per raggiungere il fine; in questa scelta l'uomo è libero, ossia ha in sé il principio dei suoi atti. La felicità, infatti, non è uno stato di beatitudine passiva, ma coincide con una vita pienamente riuscita, che consista di attività. Il piacere non è il fine ultimo, ma accompagna e perfeziona ogni attività e sarà tanto migliore quanto migliore è l'attività che esso accompagna. Per l'uomo, la felicità risiederà dunque nell'esercizio di quelle facoltà e funzioni che lo differenziano dagli altri esseri viventi, nell’agire in modo conforme alla ragione e nell’esercizio virtuoso di ogni attività in cui la mente ha un ruolo esclusivo.
HOBBES
Una tesi diametralmente opposta è proposta da Hobbes: infatti, afferma che la posizione sostenuta dalla maggior parte degli scrittori politici è falsa, in quanto proviene “da un esame troppo superficiale della natura umana”. Egli non considera l’uomo animale sociale per natura, anzi lo vede come un essere necessariamente condizionato dalla propria istintività egoistica; partendo da ciò Hobbes illustra “lo stato di natura”. Lì ciascun individuo vive sottomesso alla propria istintiva caratteristica di essere asociale, egoista e violento, guidato dal forte interesse alla propria autoconservazione. Pensa e agisce per sé, per soddisfare i propri bisogni e realizzare i suoi desideri, riducendosi ad un essere pieno di aggressività e di paura. Nessuno vede oltre il proprio fine e nessuno ha più diritto di un altro a usufruire di ciò che la natura mette a disposizione per conseguire lo scopo della sopravvivenza, perseguita tramite la violenza, la lotta e la competizione. Gli uomini, lì, vivono in un’uguaglianza naturale, caratterizzati dalle stesse passioni e dagli stessi istinti: inevitabilmente saranno rivali, ma questo conflitto non dipende da una malvagità morale, “tutti hanno diritto su tutto” (ius in omnia). In questo senso lo stato di natura viene concepito come bellum omnium contra omnes, ossia come una continua situazione di guerra dove l’individuo non può mai sentirsi pienamente sicuro della propria vita e dei suoi beni. Questo conflitto è dovuto alla reciproca volontà di danneggiarsi o all’antagonismo derivante dal contrasto d’opinioni e dalla mancanza del bene, in quanto gli uomini non hanno un istinto che li porta alla benevolenza o alla concordia reciproca, negando quindi che ci sia un amore naturale dell’uomo verso l’uomo. Nello stato di natura quindi c’è una contraddizione di base fra la tensione all’autoconservazione e fra la guerra totale che minaccia la sopravvivenza stessa. Questa condizione è male perché il fine viene raggiunto sempre a fatica e mettendo in pericolo la vita stessa, vivendo in una condizione di estrema incertezza e instabilità. Però l’individuo possiede come facoltà anche la ragione, che gli suggerisce la norma generale da cui discendono le leggi naturali del vivere civile, prescrizioni razionali che guidano l’uomo nel calcolo delle conseguenze delle sue azioni, allo scopo della sopravvivenza, proibendogli di compiere atti che provochino l’autoannientamento (regole che la ragione detta per far conseguire all’uomo, nel modo più pieno, la sua conservazione). Vi sono essenzialmente tre leggi naturali che impediscono all’uomo l’istintiva autodistruzione imponendogli una certa disciplina che apporti sicurezza e possibilità di occuparsi di attività che rendono migliore la sua vita. La prima, e più importante, è cercare e conseguire la pace poiché si ha la speranza di ottenerla e, se ciò non può essere ottenuto, cercare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra (pax est quaerenda). La seconda è che l’uomo potrebbe rinunciare al diritto su tutto e tutti, a condizione che lo facciano tutti gli altri, accontentandosi di avere tanta libertà quanta egli ne riconosce agli altri. La terza, di conseguenza, consiste nello stare ai patti e nel mantenere la parola data (pacta sunt serbanda). Queste regole descrivono i modelli di vita da seguire, ma, obbligano solo in coscienza e non in pratica: questo perché nello stato di natura ogni patto è ipotetico, mai vincolante, spesso vano, e anche perché manca la certezza che tutti lo osservino. L’osservanza delle leggi naturali e l’aumento della sicurezza dell’adempimento sono collegati e bisogna soffermarsi sul modo in cui questa possa essere conseguita. Hobbes risolve il problema attraverso la teoria del patto sociale, sul quale si fonda tutta la comunità, vista come frutto dell’esperienza e della cultura del genere umano. Ogni associazione naturale non nasce dalla benevolenza o dall’amore verso gli altri ma dal bisogno reciproco, dall’ambizione o da un timore reciproco: a causa della perfidia e dell’aggressività che caratterizza l’uomo, il genere umano preferisce reprimere il proprio egoismo piuttosto che non riuscire a badare alla propria sopravvivenza. Anche se l’uomo non è adatto a vivere in associazione, attraverso la ragione e l’esperienza comprende che vivere in società è più vantaggioso. Ora l’origine dello stato viene individuata in un contratto, in un patto che crea questa struttura artificiale, cercando di correggere le deformazioni della condizione naturale. Quindi lo stato si viene configurando come un accordo tra i singoli individui, proposto per garantire la possibilità della pace. Il contratto su cui si basa la realtà viene ad essere un pactum unionis, dove ciascuno si identifica in una volontà unica, che stabilirà le misure da adottare affinché i fini umani siano perseguibili e dove nasce una nuova persona civile, in quanto ognuno aliena contemporaneamente il proprio ius in omnia delegandolo al sovrano. Questo può essere un singolo o un’assemblea, che assume tutti i poteri (economico, esecutivo, giudiziario, legislativo, giudiziario e poliziesco) ed è l’unico in grado di assicurare la pace e la stabilità e la possibilità di sopravvivenza. Hobbes nega quindi che l’associazione sia istintiva, anzi la considera dovuta a cause contingenti e quindi per necessità. Ammette inoltre che se l’uomo amasse indistintamente l’altro, proverebbe lo stesso sentimento per tutti: invece dalla vita reale apprende che l’essere umano si avvicina a coloro che gli potrebbero essere più utili. Da ciò consegue il fatto che per il filosofo non c’è una condizione di uguaglianza nel comportarsi con gli altri e che la solidarietà subentra solo dopo, una volta che ci siamo sistemati, assicurandoci il nostro bene.
LA PSICOLOGIA SOCIALE
I gruppi sono l’argomento base della psicologia sociale, ambito disciplinare che “ha come specifico campo di pertinenza lo studio dei modi e delle forme dell’articolazione fra il mondo psichico e quello sociale” e soprattutto le zone in cui si intersecano queste due realtà: rapporti fra individui, fra individui e gruppi, fra gruppi. La psicologia sociale come scienza sociale nasce tardi: il meccanismo del pensiero era oggetto primario della filosofia. L'empirismo ed il positivismo cercano di trarre dalla ricerca le informazioni per interpretare il fenomeno. Questo è avvenuto contestualmente al processo di industrializzazione che ha spinto la cultura dell'uomo a dare maggior rilievo all'approccio di tipo scientifico. Quindi la psicologia è diventata materia dell'antropologo, del medico, del biologo, ossia materia della scienza da un lato, dall'altro è stata oggetto di alcune scienze umane (sociologia - economia). Alla fine dell'800 la psicologia si definisce come una scienza specifica, con una propria autonomia con approcci teorico-filosofici uniti alla ricerca sulla fisiologia umana. All'inizio nasce in contrapposizione alla sociologia. La psicologia sociale nasce negli Stati Uniti, una cultura nettamente contrapposta alla cultura europea. La cultura americana era un prodotto di impulsi provenienti dall'Europa vittima di condizionamenti storici ed economici, pervasa da una cultura che era l'eredità del pensiero filosofico, ideologico pieno di conflitti nazionali, religiosi, etc. L'America era, invece, un terreno vergine, proiettata nel futuro verso la costruzione di una società fondata da individui tutti uguali e disinteressati ai retaggi del passato, proiettata, quindi, all'integrazione sociale, attenta al modo di inserimento dell'individuo nella società. In Europa c'erano società stratificate e stantie, in America invece si dà maggiore importanza alla classe sociale, ai movimenti sociali: Mead (americano) e Lewin (nato in Germania e affermatosi nella cultura americana) sono i più grandi psicologi sociali. La psicologia sociale trovandosi così a metà fra la psicologia, che studia prioritariamente il soggetto individuale e la sociologia, che segue il soggetto collettivo, ha la sua specificità nel rinvenire nell’individuo le influenze delle sue appartenenze sociali e le relazioni esistenti fra singoli individui all'interno di un contesto sociale (quello privilegiato è il gruppo), intendendo per contesto sociale una serie di norme sociali interiorizzate da tutti i soggetti: il comportamento reciproco di due soggetti è condizionato dal bagaglio di norme comuni. Possono però cambiare le norme a cui si rifanno i soggetti, l'ambiente, le esigenze che fanno interagire: il contesto, quindi, è da concettualizzare non in termini assoluti. La letteratura sull’argomento è vastissima e, considerata la natura del presente lavoro, è stato doveroso procedere ad una selezione, avendo deciso di parlare del gruppo e delle motivazioni che spingono l’individuo a farne parte in senso generale, prendendo in considerazione solo alcuni degli autori che hanno passato la loro vita a trattare di questa materia. In seguito proverò ad illustrare cos’è il gruppo sportivo, che è stato per l’appunto l’imput della presente tesina.

Il termine “gruppo” è diventato una parola “profana”, nel senso che è una parola talmente connotata a livello di impiego quotidiano e di senso comune, che costituisce un problema preliminare di definizione per gli studiosi, per i quali invece questo vocabolo si riferisce a qualcosa di più articolato e meno globalizzante rispetto al significato attribuitogli abitualmente. (nel linguaggio ordinario, per gruppo si intende soltanto un insieme delimitato di elementi, vicini l'uno all'altro).
KURT LEWIN
Lo studioso Kurt Lewin (nato in Germania nel 1895) fu allievo di Koeler, nel 1933 fugge dalla Germania in seguito alla persecuzione nazista. La produzione scientifica dura 15 anni (fino al '47 - muore a 52 anni). Ha saputo imprimere alla psicologia sociale una direzione di rilievo perché l'ha identificata come disciplina autonoma: non è una branca della psicologia. Non c'è un libro di riferimento assoluto. Nel caso delle sue esperienze personali si è confrontato con problematiche prettamente sociali dove confrontava la sua preparazione prettamente psicologica. L'incontro con la psicologia americana non fu indolore, infatti, partito con cultura europea (riflessione teorica, tentativo di ricondursi attraverso una serie di ragionamenti a concetti puramente teorici), in America, invece trova una ricerca empirica più progredita ed attenta, che non era solo provveduta teoricamente (meritevole nella teoria e ricerca psicologica) ma anche attenta alla sperimentazione. Si interesserà fin dal 1945 al fenomeno delle dinamiche di gruppo e si può fare risalire a lui la fondazione dello statuto psicosociale della nozione di gruppo. E’ stato il primo autore che ha mostrato come le decisioni di gruppo possano essere tecniche di mutamento di costumi consolidati, come ad esempio le abitudini alimentari. Lewin (1951) definisce il gruppo: “qualcosa di più, o, per meglio dire, qualcosa di diverso della somma dei suoi membri: ha una struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o frazione qualsiasi, interessa lo stato di tutte le altre. Il grado di interdipendenza….. dipende, dall’ampiezza, dall’organizzazione e dalla coesione del gruppo.” (1951). Altri autori riconducibili a quest’ottica sono: W.Bion (1961) e G.P. Quaglino (1992).
W.R.BION
Wilfred Ruprecht Bion (Muttra, India 1897 - Oxford, UK 1979) giunse tardi alla psicoanalisi come professione. Dopo una breve parte dell'infanzia passata in India, paese di cui ebbe poi sempre nostalgia, approdò in Inghilterrra all'età di otto anni per andare in collegio. Finita la scuola superiore, si arruolò come allievo ufficiale carrista e combatté nelle Fiandre durante l'ultimo anno della Grande Guerra e fu decorato al valore militare. Dopo la guerra, si laureò in storia all'Università di Oxford, insegnò per un breve periodo, poi intraprese studi di medicina all'Università di Londra. Conseguito l'esame di stato, iniziò ad interessarsi di psicoterapia e frequentò la Tavistock Clinic fin dal 1932. Intraprese un'analisi con John Rickman nel 1938, che fu interrotta dallo scoppio della seconda guerra mondiale e poi definitivamente abbandonata in seguito al fatto che Bion e Rickman, in quanto psichiatri militari, si trovarono a lavorare insieme all'ospedale militare di Northfield, luogo in cui Bion cominciò a sviluppare la teorizzazione sui gruppi, che avrebbe trovato una formulazione definitiva in "Esperienze sui gruppi". Anche se dopo gli anni cinquanta Bion non lavorò più con gruppi terapeutici, la sua percezione del singolo come fermamente radicato nel gruppo permea tutto il suo lavoro di psicoanalista. Intraprese un'analisi con Melanie Klein nel 1945 e divenne rapidamente una figura di spicco nella Società Psicoanalitica Britannica (Direttore della Clinica Psicoanalitica londinese dal 1956 al 1962 e Presidente della Società dal 1962 al 1965). Si trasferì a Los Angeles nel 1968 e tornò in Inghilterra pochi mesi prima di morire nel novembre del 1979. Bion propone una lettura del gruppo a due livelli: da un lato il piano della realtà, della razionalità, del compito da svolgere; dall’altro, il piano degli stati emotivi che, allontanati dal gruppo perché disturbanti, ”assunti di base” riemergono prepotentemente e finiscono con l’ostacolare il raggiungimento del compito del gruppo. Bion sostiene “ ogni gruppo, per quanto casuale, si riunisce per fare qualcosa; nell’esplicare questa attività le persone cooperano ognuna secondo le proprie capacità. Questa cooperazione è volontaria e si basa su un certo grado di abilità intellettuale del singolo”. Il gruppo quindi sta insieme sempre per un motivo e per fare qualcosa.
G.P.QUAGLINO

Quaglino, riprendendo i contributi degli autori citati, definisce il gruppo come: " una pluralità in interazione, con un valore di legame, che ne determina l'emergenza psicologica. Pluralità, interazione e legame producono a loro volta la sua emergenza sistemica." (1992); lo stesso definisce il gruppo di lavoro come: " una pluralità in integrazione. Per meglio dire, una pluralità che tende progressivamente all'integrazione dei suoi legami psicologici, all'armonizzazione delle uguaglianze e differenze che si manifestano nel collettivo, attraverso la sua dinamica si può identificare come un gruppo di lavoro." I membri del gruppo, affinché questo diventi gruppo di lavoro, debbono passare dalla semplice interazione alla coesione, cioè alla condivisione di regole e di legami emotivi positivi (piacere) o negativi (ostilità) che tengono insieme i partecipanti.
Questa fase è caratterizzata da una certa tendenza all'uniformità da parte dei membri, i quali tendono a privilegiare le somiglianze, gli aspetti comuni. Quando i membri del gruppo divengono consapevoli di essere differenti, dipendenti gli uni dagli altri, in relazione, il gruppo passa alla fase dell'interdipendenza. Secondo Quaglino (professore di psicologia sociale presso l’Università di Torino) questa fase, molto delicata ed importante, porta i membri del gruppo a fare i conti con la dipendenza dell'uno dall'altro, di tutti dal gruppo, del gruppo dall'ambiente.
E' necessaria allora un’elaborazione, una presa d'atto, un'accettazione dei confini del gruppo e dei limiti che esso pone agli individui.
In questa fase le differenze emergono, vengono riconosciute e accolte.
Questo passaggio consente al gruppo di maturare verso l'integrazione, intesa come opportunità di scambio e necessità di legame, capace di produrre un equilibrio tra bisogni individuali e bisogni del gruppo.
"Gli individui arricchiscono la loro identità e possono esprimere le loro uguaglianze e differenze sulla base di un'attività realistica di lavoro; il gruppo di lavoro è, a questo punto, un soggetto che ha la possibilità reale di emergere e di esprimere nei risultati la propria esistenza."
LA LEADERSHIP
Il gruppo viene percepito come entità distinta dalla somma dei singoli individui e al suo interno si sviluppa la funzione equilibratrice della leadership. È quel processo mediante il quale un gruppo pone al suo vertice un capo o leader che può essere formale se ha la formazione, o informale se è eletto dai membri del gruppo, perché ritenuto capace di raccogliere ed esprimere le aspettative dei vari componenti. Diventa così l’elemento determinante per l’esistenza del gruppo ed è il rappresentante delle finalità e dei meccanismi del gruppo. Il leader può essere autoritario, se si impone con la forza e si limita a impartire ordini dettando le linee direttive sulle attività e i regolamenti del gruppo; può essere democratico se si impone con autorevolezza, cercando cioè il consenso della maggioranza del gruppo sulle sue aspettative, che devono essere sempre materia di discussione e di decisione di gruppo con incoraggiamento attivo ed assistenza da parte del leader; il leader lassez-faire (liberale), si preoccupa meno di dirigere, ma più di fare emergere le iniziative dal gruppo, mostrando così un atteggiamento piuttosto passivo nella partecipazione sociale e lasciando completa libertà alle decisioni dei vari componenti.
MC GRATH
Un’altra definizione di gruppo è data da Mc Grath (1984): parte dall’affermazione che, se è vero che ogni gruppo è un’aggregazione di più individui, ogni aggregazione di individui non è necessariamente un gruppo. Quindi egli prima di arrivare a una definizione individua una serie di aggregazioni sociali:
Aggregazioni artificiali, quali gruppi statistici o le categorie sociali, i cui componenti sono classificati in base a caratteristiche comuni quali il sesso, l’età, la nazionalità ecc. ma che non sono implicati in qualche tipo di relazione.
Aggregazioni non organizzate, che sono l’insieme di individui che si trovano nello stesso luogo e nello stesso momento senza altro tipo di legami (sono gli aggregati). Questi possono o non condividere la vicinanza fisica e uno scopo contingente comune. Per esempio il pubblico di uno spettacolo televisivo non condivide la vicinanza fisica, mentre una folla sì.
Unità sociali con modelli di relazione, sono un insieme di individui che condividono un set di valori, costumi, abitudini, linguaggio comune, le parentele.
Unità sociali strutturate, in cui diviene più forte il carattere di interdipendenza e di relazioni strutturate, come una società, una comunità, una famiglia.
Unità sociali intenzionalmente progettate, come un organizzazione, avente scopi in comune con status e ruoli differenziati o un gruppo di lavoro.
Unità meno intenzionalmente progettate, come un’associazione o un organizzazione volontaria con scopi comuni e presenza o meno di relazioni interpersonali dirette o un gruppo di amici.
Queste aggregazioni non sono esclusive, e un individuo può partecipare a una o più di esse; differiscono comunque su due dimensioni: la base su cui si fondano le relazioni dei membri, e la grandezza dell’aggregato, inteso come numero di componenti.
Quindi per quest’ultimo autore i gruppi sono quelle aggregazioni sociali che implicano reciproca consapevolezza e una potenziale reciproca interazione, e che, in base a questa definizione, sono relativamente piccoli e relativamente strutturati e organizzati.
Questa definizione di McGrath ci proietta verso uno dei principali problemi dei gruppi, cioè la grandezza: piccoli (ristretti) o grandi (estesi) gruppi e l’interazione diretta. Nei piccoli gruppi tutti i membri si influenzano, per quanto l’interazione diretta e continuativa di tutti i membri non sia una conditio sine qua non (piccolo villaggio, una classe scolastica); il gruppo faccia a faccia (Bales 1950) si riferisce a un piccolo gruppo con interazione diretta e la sua ragion d’essere è il perseguimento di un obiettivo comune. ( piccoli team di lavoro, gruppo spontaneo di adolescenti).
Oltre alla distinzione fra piccoli e grandi gruppi, un’altra differenziazione riguarda i gruppi primari e i gruppi secondari.
I gruppi primari sono insiemi di persone che interagiscono direttamente, sono legate da vincoli di tipo affettivo, sentono un forte senso di appartenenza e di lealtà nei confronti del gruppo. (es.: gruppo di amici). I gruppi secondari sono l’insieme di persone che hanno scopi da raggiungere, ruoli differenziati in funzione di un raggiungimento degli obiettivi, basati su relazioni di tipo impersonale perché basate sui fini pratici e sul contributo, in termini di ruolo che ciascun membro può offrire (es.: soci di un’azienda). Nel gruppo secondario esiste uno statuto che definisce gli scopi del gruppo, pone delle regole e dei regolamenti che ci sottolineano la funzione stessa del gruppo e che rappresentano, quindi, un apparato normativo esplicativo. Il gruppo primario si presta meno alla regolazione di norme. E' piuttosto articolato su una normativa etica non scritta, basata su norme di comportamento relative alla normale convivenza sociale, riguardano più specificamente il modo di entrare in rapporto con l'altro. Tuttavia le regole non scritte, non sono meno vincolanti delle regole legittime. L'individuo entra spontaneamente a far parte di un gruppo primario che per lui diventa il gruppo di appartenenza alla luce del quale deve inquadrare il proprio comportamento. Nel momento in cui l'individuo non sente più sue le regole del gruppo di appartenenza, non vi adegua più neanche il suo comportamento; diventa quindi anticonformista rispetto al gruppo di appartenenza e conformista rispetto ad un eventuale altro gruppo, le cui finalità diventano per lui prioritarie rispetto a quelle del gruppo di appartenenza. E' per questo che il gruppo, cui ora l'individuo rivolge il proprio interesse, viene chiamato gruppo di riferimento. Il fatto di non riconoscersi più nel proprio gruppo di appartenenza dipende dal significato implicito nel concetto di gruppo definito, per la stessa causalità della sua costituzione, un fenomeno dinamico che agisce sull'ambiente e reagisce allo stesso, arricchendosi di nuovi membri e rinunciando ai cosiddetti "anticonformisti". Quando si entra a far parte di un gruppo, si è spinti dall'esigenza duplice di appagare specifiche esigenze personali, riscontrando nelle finalità del gruppo e nelle sue modalità di perseguirle obiettivi che individualmente non riusciremmo a realizzare, e di dar sfogo a quello spirito, a quell'entusiasmo corporativo che ci consente di prendere coscienza del valore che assume il nostro singolo contributo nel perseguimento di una finalità condivisa da un complesso di persone con cui interagiamo. Ma alle volte abbiamo talmente bisogno del nostro gruppo di appartenenza (per motivi che talvolta sono così latenti che neanche il soggetto stesso riesce a riconoscere) che arriviamo a condividere qualsiasi punto di vista ed orientamento nonostante sia in netto contrasto con le nostre più profonde credenze: a quel punto diventiamo vittima della cosiddetta pressione di gruppo che, nella maggior parte dei casi, si verifica in gruppi molto vasti nei quali ogni membro assume un ruolo, ma in cui il ruolo di ciascuno è, ovviamente, notevolmente ridotto rispetto a quello che ci si attribuisce in un gruppo composto da una quantità inferiore di individui nel quale, invece, percepiamo il nostro ruolo come un contributo fondamentale alle scelte che verranno selezionate. Ovviamente anche questa opposizione tra i due gruppi non è così radicale. Vi sono ulteriori differenziazioni terminologiche, come per esempio, tra il gruppo formale ed informale: il primo di natura prettamente strumentale, il secondo che nasce per rispondere ai bisogni sociali degli individui all’interno delle organizzazioni ed ha caratteristiche comuni ai gruppi primari.
IL GRUPPO SPORTIVO
Dopo questa premessa, posso ora passare ad analizzare più approfonditamente il tema che ha ispirato questa tesina: il gruppo sportivo.
La pratica sportiva oltre ad essere un importante strumento per lo sviluppo motorio del soggetto favorisce lo sviluppo e il consolidamento di aspetti psico-sociali. Infatti, mentre lo sviluppo della tecnica è basato sulle capacità motorie, quello tattico sulle capacità cognitive. A tal fine sono molto importanti, per raggiungere l’obiettivo programmato, le dinamiche del gruppo sportivo o squadra. La squadra per essere definita tale deve presentare delle “interdipendenze” che concorrono tutte al raggiungimento dell’obiettivo comune. Secondo K.Lewin il gruppo è un “campo di forze” dove la forza del gruppo non è data dalla somma matematica (es. se A vale 1, B vale 2, C vale 3 la somma è 6) ma dall’interazione che avviene tra i vari elementi del gruppo. Di conseguenza il cambiamento di un elemento del gruppo comporta una modificazione di tutti gli elementi del lo costituiscono in quanto si tratta di “ un campo psicologico-sociale ” con obiettivi comuni e relazioni interdipendenti. I vari elementi che compongono il gruppo nel soddisfare i propri bisogni contribuiscono allo sviluppo dello stesso. In tal modo il gruppo si evolverà continuamente e all’interno di esso i vari componenti possono cambiare il ruolo. Questo continuo cambiamento è la “dinamica di gruppo” e rappresenta l’aspetto fondamentale che deve essere preso in considerazione da chi guida il gruppo. Il numero dei componenti del gruppo è molto importante, esso varia da un minimo di 3 (perché la coppia ha delle dinamiche diverse) ad un massimo di 20. Più il gruppo è piccolo, più facile è l’interazione tra i vari componenti in quanto essa può essere diretta (primaria), in cui vengono condivise affettività ed emotività. In un gruppo più grande l’interazione è indiretta (secondaria). Questo tipo di rapporto porta all’insorgere di aggregazioni spontanee che pur avendo la caratteristica che li accomuna, portano a delle divergenze dal punto di vista emotivo e affettivo che certamente non facilitano il raggiungimento dell’obiettivo comune. Da questo presupposto emerge che esistono diversi tipi di gruppi sportivi che non si differenziano dalla disciplina sportiva praticata, ma dal tipo di interdipendenza esistente all’interno della squadra:
Gruppi interagenti: in cui l’obiettivo può essere raggiunto attraverso l’impegno coordinato e l’adattamento dei singoli al gruppo (es. squadre di pallavolo, pallamano, pallacanestro, calcio, ecc);
Gruppi coagenti: in cui l’obiettivo può essere raggiunto con la somma dei risultati individuali di ciascun atleta (es. Coppa Davis di tennis, pentathlon moderno, staffette di atletica leggera, ecc.)
Certamente sono i gruppi interagenti classificabili come sport di squadra, quelli che presentano maggiori difficoltà di raggiungimento della prestazione sportiva richiesta, in quanto oltre alla prestazione motoria, necessita anche della integrazione dei singoli elementi per aumentare in modo considerevole la propria forza. Nei gruppi coagenti (classificabili come sport individuali) la prestazione motoria è prioritaria, comunque anche nell’interno di questo tipo di gruppo, seppur in misura minore e con minore importanza, devono essere presi in considerazione gli aspetti psicologici, in quanto, gli atleti appartenenti alla stessa società, si allenano insieme utilizzando le stesse strutture.
Caratteristiche interne
Quelli analizzati sino a questo momento sono fattori esterni che permettono una precisa definizione dei gruppi sportivi. Internamente vi sono delle variabili, definite dimensioni che caratterizzano il gruppo e ne determinano l’efficacia.
Motivazionale
Morfologica
Organizzativa
Strumentale
Socioemotiva
Ideologica
Evolutiva
DIMENSIONE MOTIVAZIONALE
La dinamica motivazionale presenta delle esigenze individuali e variabili che nel tempo stesso possono armonizzarsi o produrre delle situazioni conflittuali che devono essere gestite efficacemente dai responsabili delle società, dei dirigenti e dei tecnici.
Antonelli e Salvini suggeriscono di prendere in considerazione 4 fattori motivazionali per favorire la formazione e la determinazione del gruppo dal punto di vista psicologico:
Fattore affettivo: nel conoscere nuove persone al di fuori delle normali frequentazioni, l’atleta ha la possibilità di creare dei legami di amicizia (soprattutto nella fase adolescenziale) e di acquisire una maggiore fiducia in se stesso nel continuo confronto con gli altri riuscendo in tal modo ad individuare e differenziare la propria personalità.
Fattore cognitivo: la possibilità di confrontare le proprie opinioni con chi la pensa in modo similare rafforza la sicurezza delle proprie idee producendo un effetto di validazione consensuale.
Fattore vocazionale: al di là delle motivazioni individuali, tutti gli atleti aderiscono al gruppo perché l’attività sportiva corrisponde alle attitudini e agli interessi personali. Questo fattore rafforza la capacità coesiva del gruppo.
Fattore utilitario: tra il singolo e il gruppo vi è un rapporto di scambio in quanto il singolo è necessario al gruppo mentre la partecipazione alla squadra gratifica le motivazioni individuali dell’atleta.
DIMENSIONE MORFOLOGICA
I fattori morfologici che influiscono sul funzionamento del gruppo sono:
Dimensione: si riferisce al numero dei componenti che come già accennato in precedenza nei fattori esterni può variare da 3 a 20. Un numero troppo grande di componenti può accentuare delle condizioni di stress dovute alla concorrenza che si ha per la conquista del posto da titolare. Naturalmente il numero ottimale è in relazione è in relazione alla disciplina sportiva in quanto il numero dei partecipanti alla gara (5,6,7,11,15) permette di ampliare il numero dei componenti della squadra (“ rosa “).
Disposizione spaziale: riguarda sia la disposizione in campo sia al di fuori. Per quanto concerne il primo punto è il terreno di gioco (rettangolo, diamante, area di porta, ecc.) e le esigenze tattiche che ne determinano la collocazione, mentre nel secondo punto, riferito ad esempio alle trasferte o a ritiri, è l’atleta che sceglie il proprio vicino di viaggio, di tavolo o di stanza. È dall’osservazione di quest’ultimo aspetto che è possibile rilevare le relazioni di simpatia o meno che vi sono all’interno dei componenti del gruppo.
Composizione: si riferisce alle diverse personalità psicologiche che compongono il gruppo. Vi può essere sia omogeneità sia eterogeneità nella composizione del gruppo. Nel primo caso vi sono meno possibilità di conflittualità interna, mentre nel secondo caso sono maggiori. Questa conflittualità pur creando dei problemi di integrazione, spesso contribuisce ad arricchire le risorse creative ed adattative dello stesso.
Estrazione: la provenienza sociale, il livello culturale e l’ambiente economico possono favorire o ostacolare le comunicazioni interpersonali all’interno del gruppo. Nel caso queste si manifestino, sarà compito dell’allenatore assumere il ruolo di leader per armonizzare la squadra.
DIMENSIONE ORGANIZZATIVA
Per raggiungere la performance sportiva vengono stabiliti dei ruoli che possono essere di due generi:
Ruolo: si intende l’insieme di atteggiamenti e comportamenti caratteristici legati alla funzione da svolgere e alla situazione. Uno svolgimento coordinato dei ruoli prescritti durante la gara aumenta l’efficacia e l’efficienza della squadra pur mantenendo un’interpretazione individuale dei movimenti e degli spostamenti. Questi ruoli sono abbastanza definiti e finalizzati, ma all’interno di una squadra essi sono intercambiabili. In uno sport di squadra il ruolo può essere cambiato su indicazione dell’allenatore o in relazione alla situazione di gioco.
Status: si intende l’importanza sociale nella scala gerarchica verticale. Pertanto oltre alla funzione e ai compiti viene anche acquisito il livello di importanza. Lo status sarà determinato dalle abilità specifiche dell’atleta ma anche l’esperienza e il carisma vengono ad esempio presi in considerazione nella determinazione del capitano che rappresenta lo status istituzionale più elevato nell’interno del gruppo.
DIMENSIONE STRUMENTALE
Nell’analizzare questa dimensione si prendono in considerazione la produttività e la partecipazione.
Produttività: permette di valutare la funzionalità del gruppo che avviene sotto due aspetti;
Efficacia: livello di raggiungimento degli obiettivi;
Efficienza: quantità di risorse utilizzate per raggiungere l’obiettivo.
Pertanto una squadra potrà essere: efficace (obiettivo raggiunto) ed efficiente (con poche risorse) o efficace ma inefficiente (con molte risorse). Questi due aspetti esteriormente possono sembrare uguali in quanto la squadra ha raggiunto il risultato programmato, ma in realtà é stata utilizzata una quantità diversa di risorse. Queste risorse possono essere di tipo economico (che riguardano la società: campagna acquisti, ritiri, trasferte, ecc.) di tipo fisiologico o psicologico. Alla base della produttività devono essere considerate sia le abilità tecniche sia le capacità condizionali senza tralasciare i fattori socio emotivi (collaborazione, coesione, clima psicologico). Trascurare questi aspetti può portare alla ricerca di una struttura efficientissima che a lungo andare può provocare negli atleti dello stress, demotivazione e conflitti, tra i componenti del gruppo.
Partecipazione: si intende la continuità e l’assiduità degli allenamenti da parte dell’atleta. Questo aspetto è diverso per quanto riguarda le società dilettantistiche e società professionistiche in quanto, mentre nell’ultimo caso è sempre costante, nel primo rappresenta un elemento molto variabile.
Un aspetto che li accomuna è invece il coinvolgimento psicologico in quanto rappresenta un contributo più o meno attivo che sì da nei diversi momenti della vita di gruppo (discussioni, risoluzione dei problemi, convivenze ecc.). La partecipazione è pertanto direttamente proporzionale alla motivazione, che è la spinta che promuove la sua partecipazione attiva e continua.
DIMENSIONE SOCIOEMOTIVA
All’interno di questa dimensione vengono presi in considerazione la coesione e la collaborazione/conflittualità.
Coesione: rappresenta uno dei fattori che influenza la prestazione della squadra, in quanto un elevato grado di coesione permette il conseguimento di risultati maggiori rispetto al reale valore tecnico-tattico della squadra.
La coesione rappresenta un insieme di forze sinergiche aggregate che cercano di mantenere uniti i membri all’interno del gruppo.
Secondo Carron i seguenti aspetti concorrono a migliorare la coesione:
Senso di appartenenza del gruppo
Valore dell’affiliazione
L’intimità o la vicinanza affettiva dei membri
La motivazione al miglioramento della coesione è positivamente influenzata in quelle discipline sportive in cui essa rappresenta un requisito di successo in quanto deve necessariamente esistere un adattamento dei singoli alla squadra.
Collaborazione / conflittualità: è inevitabile che all’interno di una squadra insorgano dei conflitti spesso determinati dalla tensione emotiva, dalla rivalità, da disaccordi sulla distribuzione dei ruoli o dei compiti o da difficoltà di comunicazione all’interno del gruppo. Se la conflittualità viene tenuta al di sotto del livello di guardia può produrre effetti positivi. Infatti, il grado ottimale di conflitto stimola la partecipazione individuale e favorisce la motivazione nello svolgimento dei compiti, promuove la creatività e accresce la tendenza al rinnovamento. Pertanto nell’affrontare le controversie si deve avere un orientamento cooperativo e non competitivo. Nell’ultimo caso la ricerca dell’affermazione è a danno di un’altra componente del gruppo mediante dei comportamenti “sotterranei “ che ostacolano il comportamento degli altri componenti. Un gruppo consapevole delle tensioni esistenti e orientato in senso cooperativo pur portando avanti le propri emozioni, tende ad accattare le altrui esigenze.
Presupposto per questo atteggiamento cooperativo è:
La capacità di controllo
La comunicazione interpersonale
La critica costruttiva
L’immedesimazione
DIMENSIONE IDEOLOGICA
Per analizzare questa dimensione si devono considerare i valori, le norme e le mete sottintese in relazione agli obiettivi programmati.
Valori: sono modelli ottimali di comportamento che assumono le caratteristiche tipiche dei valori sportivi (lealtà). A volte essi possono intrecciarsi o entrare in conflitto con valori ideali extrasportivi (es. successo e predominio conquistato a discapito della lealtà sportiva).
Norme: regolano le forme di condotta richieste o vietate nei diversi ruoli o funzioni. Esse possono essere formali e informali. L’inosservanza delle norme formali comporta una sanzione, mentre quella delle norme informali provoca un giudizio negativo.
Mete: sono gli scopi che il gruppo si prefigge.
Valori, norme e mete si devono integrare insieme poiché, quando una squadra mira al risultato da raggiungere, si devono rispettare determinate regole di condotta e condividere determinati valori etici. Più la squadra si avvicina al gruppo ristretto, più le norme devono essere interiorizzate e non avere l’aspetto dell’obbligo.
DIMENSIONE EVOLUTIVA
L’analisi delle precedenti dimensioni permette di cogliere l’assetto interno del gruppo, mentre è anche necessario osservare l’evoluzione che esso ha nel corso degli anni per vedere se l’organizzazione interna migliora o peggiora. Le fasi di sviluppo di un gruppo sono abbastanza costanti e seguono un ordine cronologico. La prima fase di sviluppo viene definita di orientamento in quanto il gruppo cerca di identificare le proprie regole e segue con una certa dipendenza le regole direttive del leader che, in questo caso, è l’allenatore. La seconda fase viene definita di conflitto in quanto cominciano ad emergere dei contrasti in quanto il gruppo si sta organizzando. Avviene la collocazione gerarchica di potere decisionale dei vari membri sia nei confronti dei compagni che dell’allenatore e dei dirigenti. Quando questa evoluzione avviene in modo soddisfacente si può affermare che il gruppo tende ad un buono stato di integrazione in quanto sta trovando una buona struttura interna. Pertanto il gruppo sta mirando all’obiettivo che è rappresentato dalla fase di interdipendenza, in cui i vari membri agiscono in modo autonomo nei confronti della squadra ma devono essere contemporaneamente in grado di cooperare in modo costruttivo e funzionale, superando atteggiamenti di supremazia e invidie personali. Anche quando viene raggiunta la fase di interdipendenza non deve avvenire l’appagamento in quanto, essendo il gruppo un’entità dinamica, va costantemente ricreata.
CONCLUSIONE
Secondo me, come ho già detto, l’uomo ha natura prevalentemente sociale: dopo la nascita dipende a lungo da altri esseri umani e la sua vita trascorre in gran parte nell’interazione con altri individui. Gli altri sono per lui stimoli e occasioni di risposta e le risposte degli altri nei suoi confronti determinano le sue azioni e i suoi sentimenti, anche perché nell’affrontare, in un gruppo, la relazione con gli altri, entrano in gioco, in modo nascosto, le nostre esperienze precedenti di gruppi ed i nostri vissuti connessi. Per soddisfare la mia curiosità credo che sia stato veramente importante studiare l’interazione sociale, anche se non in maniera approfondita. Penso che tutti debbano possedere queste conoscenze poiché la socializzazione è alla base di tutta la nostra vita. Viviamo circondati da altre persone e buona parte della nostra esperienza consiste in rapporti che instauriamo con loro. I contatti e le relazioni che abbiamo con i famigliari ci accompagnano per tutta l’esistenza, dalla nascita, e assumono uno specifico significato, soprattutto per quanto riguarda la formazione della nostra personalità, l’autostima, la socievolezza, l’equilibrio emotivo. In ogni gruppo l’individuo misura se stesso, si vede allo specchio, si può sentire ascoltato o rifiutato, gioca un ruolo, si costruisce le proprie personali convinzioni, arricchendosi di varie esperienze di vita, che influiscono sul proprio carattere. La scuola, il mondo del lavoro e lo sport sono ambiti in cui entriamo a contatto con moltissime persone, creando dei rapporti più o meno profondi con compagni e colleghi. Allo stesso modo intratteniamo relazioni con amici e conoscenti e, addirittura, ci confrontiamo con sconosciuti. I rapporti fra persone rappresentano le fondamenta della vita sociale. Tutto ciò che accade è frutto di numerosi contatti, interazioni e relazioni fra individui, che, uniti nel tempo, danno a quell’ambiente una particolare fisionomia e una determinata struttura. Credo che tra i vari tipi di gruppo quello sportivo abbia una funzione molto importante poiché influenza il carattere. Ciò è dovuto al fatto che lo sport, puntando sui risultati, persegue anche una cura particolare del corpo (aiutando a migliorare l’aspetto fisico) e porta l’individuo ad accettarsi più facilmente; inoltre forma la personalità che si sviluppa in modo più equo e deciso, il singolo riversa nella pratica dello sport i suoi interessi, e spesso diventa vera e propria passione, che esige sacrificio, impegno e dedizione. Penso poi che lo sport collettivo aiuti ad integrarsi meglio con gli altri, a diventare più socievoli, più altruisti, più grintosi e determinati.
BIBLIOGRAFIA
* F. Cioffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, Corso di Filosofia 1
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* F. Cioffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, Corso di Filosofia 2
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* A. Bagnasco, M. Barbagli, A. Cavalli, Corso di Sociologia
* G. Trentini, Oltre il limite. Discorso sulla leadership
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Il Mulino, 1999
* K. Lewin, Teoria e sperimentazione in Psicologia sociale
Il Mulino, 1972
* F. Antonelli, A. Salvini, Psicologia dello sport
Lombardo, 1978
* E. Berne, A che gioco giochiamo
Bompiani, 1991
* AA.VV., in siti web
Introduzione
Aristotele
Hobbes
La psicologia sociale
Gruppo e definizioni
Kurt Lewin
W.R. Bion
G.P. Quaglino
La leadership
Mc Grath
Il gruppo sportivo
Conclusione
Bibliografia

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Esempio



  


  1. Università degli Studi di Palermo

    sto cercando la relazione su tema Homo Homini Lupus in Psicologia Sociale. sostengo l'esame alla facoltà di filosofia.