La libertà

Materie:Tesina
Categoria:Multidisciplinare

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Testo

LA LIBERTA’
STORIA DELL’ARTE
DELACROIX:
“La libertà guida il popolo”: nel 1830 Delacroix realizzò una della sue opere più note “La libertà guida il popolo”, un quadro politico, forse quello in cui si manifestano con maggiore efficacia i sentimenti dei giovani romantici. Rappresenta l’insurrezione popolare avvenuta a Parigi tra il 27 ed il 29 luglio 1830 che portò alla destituzione di Carlo X. Il quadro raffigura il popolo che avanza armato sulle barricate, incitato da una figura femminile, la personificazione della libertà.
La composizione è dominata da uno schema piramidale: in primo piano morti e feriti non fermano l’avanzata dei popolani e dei borghesi che, insieme, combattono per ideali comuni. L’artista riuscì ad unificare allegoria e realtà, fantasia e storia. La libertà, discinta, col cappello frigio, che regge nella mano destra il tricolore, ricordo della rivoluzione del 1789, allegorica pur con la sua natura retorica, si inserisce perfettamente fra le immagini realistiche dei soldati e dei popolani.
“Brutta, ignobile, plebea”: così parte della critica giudicò il quadro al suo apparire al Salon nel 1831. Delacroix venne accusato di aver usato un tono eccessivamente realistico nei corpi morti e di ave ritratto persino la peluria delle ascelle della libertà in luogo dell’epidermide liscia e statuaria ritenuta appropriata per un nudo.
Oltre il significato dell’opera, di indubbio interesse anche per la modernità e singolarità del tema, è da ammirare la grande abilità della composizione, la resa degli atteggiamenti, il movimento e l’animazione della scena. L’artista testimonia la predilezione per il colore, il suo principale mezzo espressivo. Le pennellate mosse che si infrangono sulla tela, bene esprimono la tensione e l’emozione. Stese con sicurezza ma anche con attenzione spasmodica, rendono plastiche e vive la figure che in un gusto propriamente romantico coinvolgono direttamente il fruitore.
Nonostante la generale perplessità, l’opera è acquistata dallo stato nel 1831, forse con intento demagogico, visto che presto, nel 1833 sarà ritirata dalle sale espositive del museo del Lussemburgo, dove tornerà nel 1863, anno della morte del pittore.
A fatica e su esplicita richiesta di Delacroix, il quadro sarà accettato, per concessione di Napoleone III, all’esposizione universale del 1855. La sua carica rivoluzionaria è in quell’occasione confermata dalle parole del ministro, che contrario alla decisione dell’Imperatore, trova inopportuno esporre “un quadro che rappresenta la libertà in berretto rosso in cima ad una barricata dove i soldati francesi sono calpestati dai piedi della plebaglia”.
GRECO
Fino al terzo secolo il problema della libertà non esiste in Grecia perché è un valore politico ma anche privato che si dà per scontato, di cui non vi è il dubbio della sua presenza.
ERODOTO:
“libro VII”: Morto Dario, sul trono di Persia salì il figlio Serse nel 485 a.C.
La seconda guerra Persiana fu di dimensioni fino ad allora mai viste, grazie all’impiegosenza risparmio di uomini e mezzi. La spedizione,a detta del Re, non doveva trovare ostacoli sul cammino, così che la definitiva sconfitta persiana a Salamina, parve ai Greci la punizione divina per la superbia e l’arroganza che il sovrano aveva mostrato in quell’occasione.
L’immensa armata Persiana mosse verso nord; subito si pose, alle città greche, il problema d’individuare il luogo più adatto per chiudere l’accesso alla regione: si decise di ripiegare sulle Termopili. L’episodio delle Termopili viene descritto da Erodono senza enfasi né retorica, impreziosito però da alcuni aneddoti. L’esaltazione delle truppe greche ha come teatro il campo persiano, dove è ospite il Re spartano Demarcato: Erodono dà più volte la parola a Demarcato, spesso interrogato da Serse sul tipo di resistenza che avrebbe dovuto attendersi dagli Spartani.Passate in rassegna anche le navi, e sceso di nuovo a terra, Serse cercò di Demarato figlio di Aristone, che lo seguiva nella spedizione contro la Grecia, lo chiamò e gli disse: "Demarato, ora mi è gradito chiederti quanto desidero sapere; tu sei greco, e, come apprendo da te e dagli altri Greci venuti a parlare con me, di una città che non è né la più piccola né la meno forte. Pertanto spiegami un po' questo: i Greci opporranno resistenza levandosi in armi contro di me? In effetti, a mio parere, neppure se tutti i Greci e tutti i rimanenti abitanti dell'occidente si coalizzassero, sarebbero in grado di resistere al mio attacco, a meno che non agissero con autentica coesione. Voglio dunque sentire la tua opinione, qualunque sia, su di loro". Serse gli pose questa domanda e Demarato a sua volta gli chiese: "Devo rispondere sinceramente o in modo da farti piacere?". Serse gli ordinò di dire la verità, rassicurandolo che non avrebbe minimamente perso, per questo, il suo favore. Udito ciò, Demarato disse: "Sovrano, visto che mi ordini di rispondere con assoluta franchezza, parlando in modo che tu non possa più tardi scoprirmi mendace, sappi che ai Greci è sempre compagna la povertà, ma a essa si aggiunge la virtù, resa più salda dall'ingegno e da una legge severa; grazie alla sua virtù la Grecia si difende dalla povertà e dall'asservimento. La mia lode va dunque a tutti i Greci che abitano laggiù, nelle regioni doriche, però ora non mi riferirò a tutti loro, ma solo agli Spartani; primo: è impossibile che accettino mai i tuoi discorsi, che comportano schiavitù della Grecia; secondo: ti affronteranno in battaglia anche se tutti gli altri Greci passeranno dalla tua parte. Il loro numero? Non chiedere quanti siano per osare agire così; che siano mille sul campo di battaglia, o di più o di meno, altrettanti combatteranno contro di te". Al che Serse scoppiò a ridere ed esclamò: "Demarato, cosa blateri! Si batteranno in mille contro un esercito così grande? Spiegami un po': dichiari di essere stato loro re; quindi tu saresti disposto ad affrontare subito dieci uomini? Anzi, se la vostra comunità è tale quale la descrivi, a te che sei il loro re, spetta di battersi contro un numero doppio di uomini, conforme alle vostre leggi. E sì, se ciascuno di loro vale dieci soldati del mio esercito, allora tu, deduco, ne vali venti; così sì mi tornerebbe il discorso che mi hai fatto. Però se voi, tali e di tanta stazza quanto tu e i Greci che frequentano la mia corte, se voi vi vantate così, bada che le tue parole non risultino una inutile spacconata. Ma ragioniamo un po' secondo logica: mille, diecimila o cinquantamila uomini, tutti liberi e uguali, senza avere un unico capo, come riuscirebbero a opporsi a un esercito sterminato come il mio? Perché noi siamo più di mille per ciascuno di loro, se loro sono cinquemila. Se obbedissero a un'unica persona, alla nostra maniera, potrebbero avere paura di lui e diventare migliori di quanto siano per loro propria natura, e avanzare, costretti dalla frusta, anche essendo meno del nemico. Ma, lasciati liberi, non farebbero nulla di questo. Io, per me, credo che difficilmente i Greci, anche se fossero in numero a noi pari, potrebbero battersi contro i soli Persiani; ma poi, via, solo fra di noi c'è un po' di quello che tu dici, un po', non molto. Sì, fra i miei lancieri persiani ne esistono di disposti a battersi contro tre Greci assieme; tu non ne hai mai fatto la prova e parli a vanvera". Ecco il principio: per Serse l’autorità deve risiedere in uno solo, il potere deve essere assoluto, la sferza dovrebbe essere il solo strumento di governo. Non si tratta di una dimensione tirannica, ma solo di una dimensione che ignora l’esistenza di altri vincoli, nello specifico la virtù e la legge, che invoglino, e non costringano, gli individui a tenere un certo tipo di comportamento e ad agire in maniera unitaria per il perseguimento di un bene comune. Serse parla di numeri, Demarato di valori, Serse parla di frusta, Demarato di libertà, Serse parla di assolutismo, Demarato di democrazia; è un dialogo fittizio nel quale gli interlocutori non si comprenderanno mai. Indubbiamente l’effetto sul pubblico è notevole: conoscendo in anticipo l’esito della guerra, il lettore ritrova nel dialogo una sottile ironia che avvolge le parole messe in bocca al re di Persia e che mette in evidenza l’assoluta incompatibilità tra i valori del modello orientale con quelli del modello occidentale che, alla fine, risulterà però vincitore. Al che Demarato replicò: "Sovrano, già lo sapevo che dicendo la verità non ti avrei dato una risposta gradita; ma poiché mi hai costretto a parlare con la massima sincerità, ti ho detto come stanno le cose per gli Spartiati. Eppure sai bene quale affetto mi leghi a essi, che mi hanno privato dell'onore e delle dignità di mio padre e mi hanno reso un esule, un senza patria; e sai che fu tuo padre ad accogliermi, a darmi i mezzi per vivere e una casa. Non è plausibile che un uomo assennato respinga la benevolenza che gli mostrano, è naturale anzi il contrario, che l'accetti di buon cuore. Io non ti garantisco di essere in grado di affrontare né dieci uomini né due; dipendesse da me, non mi batterei nemmeno contro uno solo. Ma se vi fossi costretto o mi spingesse un grande cimento, fra tutti preferirei senz'altro combattere contro uno di questi uomini che pensano di valere ciascuno tre Greci. Così sono gli Spartani: individualmente non sono inferiori a nessuno, presi assieme sono i più forti di tutti. Sono liberi, sì, ma non completamente: hanno un padrone, la legge, che temono assai più di quanto i tuoi uomini temano te; e obbediscono ai suoi ordini, e gli ordini sono sempre gli stessi: non fuggire dal campo di battaglia, neppure di fronte a un numero soverchiante di nemici; restare al proprio posto e vincere, oppure morire. Se ti pare che queste mie siano tutte chiacchiere, d'ora in poi voglio tacere. Adesso ho parlato perché mi ci hai costretto. Comunque, sovrano, tutto accada secondo i tuoi desideri".Il ruolo della legge, la centralità della regola condivisa ed accettata da tutti, la norma che ha autorità al di là della persona che è investita del potere, sono cardini del sistema democratico: Demarato non fa che illustrare i principi base del regime spartano per mettere in luce la sostanziale differenza tra la Grecia e la Persia. Non ci può essere libertà, non ci può essere democrazia in situazioni in cui non c’è certezza della legge; la stabilità delle norme è garanzia per tutti, è mezzo stabile per misurare le azioni dei singoli, è paradigma comportamentale per chi vi è soggetto. La realtà persiana è fuori da questa concezione, è lontana da questi principi, è basata su altri valori. Per un Greco la volontà individuale non può mai prevaricare la volontà collettiva, per un persiano la collettività non esiste ed è proprio per questo motivo Serse, ascoltandolo, non riusciva a capire la realtà, e cioè che gli Spartani si preparavano a morire e a uccidere secondo le proprie forze; poiché anzi gli parevano intenti ad attività ridicole, mandò a chiamare Demarato, figlio di Aristone, che si trovava nell'accampamento. Quando fu da lui, Serse lo interrogò su ciascun particolare, desideroso di sapere cosa stessero combinando gli Spartani. E Demarato rispose: "Già mi hai sentito parlare di questa gente, quando eravamo in partenza per la Grecia: ma poi, dopo avermi ascoltato, ridevi di me, che esprimevo il mio parere sull'esito di questa spedizione. Sovrano, per me è una vera impresa praticare la verità di fronte a te. Ascoltami, dunque, anche ora. Questi uomini sono venuti a combattere contro di noi per il passo e ci si stanno preparando. Hanno infatti una regola che vuole così: allorquando si apprestino a mettere a rischio la propria vita si ornano la testa. Sappilo: se piegherai costoro e quelli rimasti a Sparta, non c'è altro popolo al mondo che ti contrasterà opponendosi a te con le armi; ora, in effetti, stai attaccando il regno più bello esistente fra i Greci, gli uomini più valorosi". Serse trovò tale discorso assai poco degno di fede e si rivolse a Demarato una seconda volta chiedendogli come avrebbero fatto gli Spartani a combattere in così pochi contro il suo esercito. E Demarato rispose: "Mio re, trattami pure da mentitore, se le cose non andranno come sostengo". Così combatterono i Greci alle Termopili; Serse chiamò Demarato e lo interrogò cominciando da questa domanda: "Demarato, sei un uomo capace, lo deduco dalla realtà: tutto ciò che avevi predetto si è verificato. Ora dimmi un po' quanti sono gli Spartani rimasti e quanti di loro sono dello stesso genere in battaglia, o se lo sono tutti". Demarato rispose: "Sovrano, il numero complessivo degli Spartani è alto e molte sono le loro città; ma saprai quello che vuoi apprendere. Nella piana della Laconia c'è la città di Sparta, che conta circa ottomila uomini; e sono tutti pari a quelli che hanno combattuto qui; gli altri abitanti della Laconia no, non sono pari; ma valgono anche loro". E Serse riprese: "Demarato, come faremo a battere questa gente senza penare troppo? Spiegamelo, perché tu conosci i particolari dei loro piani, sei stato re a Sparta".
che, agli occhi di Serse, i discorsi di Demarato risultano incomprensibili. Attraverso il dialogo tra Serse e Demarato, Erodoto delinea la differenza principale tra Greci e Persiani: contrariamente ai Persiani, i Greci sono liberi e sono soggetti solo alla legge. Il conflitto greco - persiano è visto da Erodoto come lo scontro tra due opposte e inconciliabili civiltà fondate l'una sulla libertà e il rispetto per la legge, l'altra sul dispotismo di un monarca assoluto.
TUCIDIDE: Epitaffio di Pericle: Nel 485 a.C. il
re spartano Archidamo II, alla testa di un esercito di ventimila opliti peloponnesiaci e di cinquemila beoti, invade l'Attica e devasta i campi attorno ad Atene. È l'inizio della guerra del Peloponneso, che per trent'anni vede affrontarsi le città di Atene e Sparta e i loro rispettivi alleati. È, come le guerre di ogni tempo, una guerra per il dominio territoriale; ma la componente ideologica vi gioca un ruolo essenziale: a scontrarsi sono infatti non soltanto due potenze militari, ma soprattutto due tendenze politiche e due diverse concezioni dello Stato, quella aristocratica e quella democratica. Una guerra i cui protagonisti sono le “polis”, e, all'interno delle singole città, i partiti filoateniese e filospartano. Alcune fonti antiche attribuiscono la responsabilità diretta del conflitto al leader della democrazia ateniese, Pericle, che per stornare l'attenzione dei suoi cittadini dai problemi interni e per mettere a tacere gli oppositori avrebbe deciso di intraprendere la guerra contro Sparta (una strategia politica vecchia come il mondo). Ma le cause remote della guerra del Peloponneso vanno cercate nell'espansionismo ateniese, quello che in termini moderni si potrebbe definire il suo imperialismo, cominciato all'indomani delle guerre persiane. Questo, almeno, è il giudizio di Tucidide, lo storico ateniese di parte aristocratica che ci ha lasciato nelle sue Storie il mirabile racconto della guerra. Scrive Tucidide:
"Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni".
Alla fine del primo anno di guerra, che si è concluso con un nulla di fatto, gli Ateniesi organizzano le esequie ufficali per i caduti, che prevedono un discorso funebre da parte di "un uomo designato dalla città, un uomo che abbia qualità di intelletto e goda di particolare prestigio". Per quell'anno è Pericle ad essere scelto per pronunciare il discorso. L'epitaffio, che leggiamo in Tucidide, non è una semplice celebrazione degli ateniesi morti eroicamente nel primo anno di guerra. Dall'occasione particolare Pericle passa subito ad un'analisi più generale della città e del suo sistema politico, così che le sue parole finiscono per risultare un vero e proprio manifesto della democrazia ateniese:
"In virtù di quali princìpi noi siamo giunti a questo impero, e con quale costituzione e con quale modo di vivere tale impero si è ingrandito, questo mi accingo a mostrare per prima cosa... Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d'esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell'amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza di una determinata classe sociale ma più per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall'oscurità della suo rango sociale. Liberamente noi viviamo nei rapporti con la comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini giornaliere senza adirarci con il vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e senza infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono spiacevoli ai nostri occhi. Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni, in particolare a quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia o che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta" (Tucidide, Storie II, 36,4-37,3).
In una dichiarazione programmatica di metodologia storica Tucidide afferma che i discorsi riportati nella sua opera non sono citazioni letterali, ma che egli si è tenuto il più vicino possibile al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati. Dobbiamo dunque credere allo storico e ritenere che l'epitaffio contenga il pensiero autentico di Pericle, oppure dobbiamo pensare a una rielaborazione dell'aristocratico Tucidide, che vi esprimerebbe la sua personale concezione della democrazia ateniese? E ammesso che il discorso sia autentico, Pericle parla della democrazia realizzata oppure di un modello ideale, della democrazia in potenza o in atto? Dalla risposta a questa domanda dipende in larga misura l'interpretazione, ora negativa ora positiva, che gli storici moderni forniscono di quel singolare esperimento istituzionale che fu la democrazia ateniese.Il nucleo fondamentale del pensiero pericleo - e quello che ne determina la straordinaria modernità - sarebbe l'idea della libertà privata e della concezione individualistica della vita del cittadino comune. "Il quadro che Pericle delinea è quello di un riconoscimento della legittimità della proprietà e dei comportamenti privati; è un programma di non-invidia sociale, di accettazione della sfera privata altrui, in termini che configurano già un'idea di privacy: il che, in una città di dimensioni pur sempre limitate, una società del "faccia a faccia", significa certamente la liberazione di uno spazio rilevante per l'individuo". L'essenza del sistema politico inventato dagli Ateniesi non risiederebbe dunque nel conflitto e nella violenza, bensì nella duplice libertà del cittadino: libertà "positiva" di partecipare alla vita politica e libertà "negativa" dall'interferenza del potere statale. Questo secondo tipo di libertà presuppone proprio l'elaborazione di una sfera privata concettualmente separata dalla sfera pubblica, che Pericle opererebbe nel suo discorso: "Dalla proclamazione di principi da parte di Pericle, alle descrizioni della democratía da parte dei suoi critici [...] balza con forza agli occhi l'immagine di un clima politico che pienamente vuol conciliarsi con una diffusa volontà di comportamenti liberi, e la tendenza a un uso pieno, tendenzialmente perfino anarchico, della libertà individuale, che poco ha da invidiare, sul piano dei principi, alla libertà moderna".
Non esisteva naturalmente nell'antichità la nozione di "diritti umani", ma è stato osservato che i cittadini ateniesi erano in qualche modo tutelati nelle loro libertà fondamentali. Un cittadino non poteva essere giustiziato senza un processo, non poteva subire la tortura, la sua dimora godeva di una certa inviolabilità. Oltre alla protezione della persona, della casa e delle altre proprietà, l'ateniese godeva teoricamente anche della libertà di parola. C'è forse un punto di contatto tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni che tutti, sostenitori e detrattori, ottimisti e pessimisti, sono disposti a riconoscere. Intendo dire la sostanziale imperfezione, l'incompiutezza, la fragilità costitutiva di questo sistema politico sia nella sua declinazione moderna sia in quella antica. La democrazia ateniese ha conosciuto una tensione insanabile tra libertà ed eguaglianza, qualunque significato intendiamo dare a questi termini; ha ammesso l'imperialismo e la guerra; ha escluso dai diritti politici le donne, gli stranieri e gli schiavi; ha spesso esercitato la violenza sui suoi cittadini per autopreservarsi... Non sono forse gli stessi limiti, le stesse gravi contraddizioni a cui sono confrontate le attuali democrazie occidentali?
ARISTOFANE:
“Commedie”
SOFOCLE:
“Antigone”: (versi 502-511):
A: Eppure da dove avrei potuto ricavare
Una gloria più grande che dall’aver deposto nella tomba
Mio fratello consanguineo? E tutti costoro direbbero
Che approvano questo, se la paura non chiudesse loro la lingua.
Ma io tra gli altri vantaggi della tirannide c’è anche che le è possibile fare ciò che vuole
C: Tu sola vedi questo fra questi Cadmei.
A: Lo vedono anche loro ma di fronte a te si tappano la bocca.
C: E tu non ti vergogni di pensare separatamente dagli altri?
A: Non c’è nessuna vergogna a onorare i consanguinei.
L’Antigone di Sofocle è considerata la tragedia dei contrasti tra Antigone e Creonte.
Importante è l’analisi di Hegel che vede fra i due personaggi un contrasto tra due istituzioni: Quella più arcaica, della famiglia, dei vincoli di sangue e delle leggi non scritte, rappresentata da Antigone; e quella più moderna dello stato e delle leggi scritte rappresentata da creonte.
Tra i doveri della famiglia vi è la vendetta e dare onorata sepoltura ai consanguinei, ma queste cozzano inevitabilmente contro lo Stato che deve dare leggi scritte per far sì che tutti siano uguali.
Gli autori del 1900, fra cui Anouille, sottolineano lo scontro tra libertà e tirannide che è visibile in questo passo tradotto in cui Antigone si oppone all’editto per affermare i suoi valori e opporsi contro un’ingiusta tirannide, inoltre bisogne ricordare che nel V secolo era in vigore una norma legislativa, secondo cui chi veniva condannato per tradimento, o per sacrilegio, veniva condannato alla confisca dei beni, e non alla morte. Inoltre la prassi giuridica imponeva il rispetto delle tradizioni sacre di chi fosse membro del “ghenos”, indipendentemente dalle colpe di un suo componente nei confronti della comunità cittadina. Dunque Creonte è effettivamente la figura dell’autoritario negativo.
Bisogna comunque ricordare che non è che Creonte sia tutto negativo e antigone tutta positiva, essi sono molto simili tra loro , caparbi, intolleranti, non disponibili verso le idee degli altri. Infatti antigone nella sua caparbietà commette “ubris” perché non rispetta le leggi scritte.
LETTERATURA LATINA
ETA’ IMPERIALE:
In seguito all’instaurazione del principato, la vita intellettuale viene ad essere sempre più strettamente condizionata e controllata dal potere politico. La dipendenza dei letterati da personaggi socialmente, economicamente, politicamente influenti ed autorevoli era stata assai rilevante già in epoca repubblicana; sotto l’impero tuttavia divenne ancora più stretta e vincolante in conseguenza del fortissimo accentramento della gestione del potere nelle mani dell’imperatore: ne consegue infatti una drastica riduzione di quegli spazi di libertà e di autonomia che prima si aprivano nel quadro complesso e variegato della vita politica, sociale e culturale. Mentre sotto la repubblica molti uomini politici, oltre ad essere scrittori essi stessi, erano stati attivi promotori di cultura, animatori di circoli letterari e protettori di poeti, sotto l’impero tale funzione viene assunta quasi esclusivamente dai principi, il cui potere è di fatto assoluto e la cui autorità tende ad invadere tutto lo spazio disponibile, controllando attivamente e severamente la vita intellettuale. Già sotto Augusto, quando venne meno la preziosa opera di mediazione fra gli intellettuali e il principe attuata da Mecenate che muore l’otto a.c. sembrò spezzarsi quell’equilibrio che si era potuto realizzare fra le esigenze e le pressioni del potere politico da una parte e la libertà e l’autonomia degli scrittori dall’altra. Si manifestarono evidenti segni di disagio nei rapporti fra i letterati e l’imperatore.
SENECA:
Lucio Anneo Seneca nacque a Cordoba in Spagna dal 12 al 1 a.c. Studiò a Roma retorica e filosofia e soprattutto dal neopitagorico Sozione apprese costumi sobri ed austeri che conservò per tutta la vita. Intraprese il “cursus honorum” e rivestì la questura; le sue eccezionali qualità oratorie lo destinavano a brillante carriera ma Caligola stava progettando di ucciderlo e desistette dal farlo grazie all’intercessione di una donna. Più gravi conseguenze ebbe per lui l’ostilità dell’imperatore successivo, Claudio, che nell’anno 41 istigato dalla moglie Messalina lo esiliò in Corsica dove rimase fino al 49 quando fu richiamato a Roma per l’intercessione della nuova moglie di Claudio Agrippina. Da questo momento entrò a far parte della corte imperiale divenendo il precettore di Nerone e successivamente la morte di Claudio il vero reggitore del regno in quanto Nerone non era ancora diciottenne. Nel 59 Nerone fece uccidere la madre e Seneca gli rimase al fianco ma non si è certi del ruolo svolto nel matricidio. A seguito della morte del prefetto del pretorio Afranio Burro chiese nel 62 il ritiro e finalmente ottenutolo, riuscì a realizzare la vita contemplativa a cui aspirava fin dalla giovinezza e di cui tanto aveva parlato nelle sue opere. Non riuscì tuttavia a mettersi al riparo dall’ostilità di Nerone. Quando infatti, nella primavera del 65, fu scoperta la congiura dei Pisoni ai danni dell’imperatore, il filosofo fu considerato, non si sa se a torto od a ragione, fra i complici e costretto a togliersi la vita il cui suicidio ci viene narrato da Tacito.
Scrive i Dialoghi, i Trattati, le Lettere a Lucilio e le Tragedie.
Tra i Trattati si distingue il “De clementia” che tratta di filosofia politica in cui Seneca teorizza ed esalta la monarchia illuminata. Rivolgendosi a Nerone, da poco divenuto imperatore, lo elogia perché dà prova di possedere la virtù più grande del sovrano: la clemenza. Essa contraddistingue il re giusto e buono rispetto al tiranno, e procura a chi governa amore e riconoscenza garantendo al stabilità dell’impero. Il re buono e clemente instaura un rapporto paterno con i sudditi, punisce malvolentieri, solo quando è indispensabile e solo per il bene dei sottoposti che lo contraccambiano con si cero affetto, devozione e fedeltà.
LUCANO:
Nato a Cordoba nel 39 d.C. Marco Anneo Lucano educato a Roma, si distinse per la precocità intellettuale; fu allievo del filosofo storico Anneo Cornuto e completò l’istruzione ad Atene. Fu poi richiamato a Roma da Nerone stesso che lo fece entrare nella propria “cohors amicorum” e gli conferì l’onore delle questura. Ma la carriera poetica di Lucano iniziata brillantemente con le “Laudes Neronis” ebbe una brusca svolta quando il favore di Nerone lo abbandonò trasformandosi in ostilità. I motivi della rottura possono essere personali e letterali ma anche politici, indicandone la probabile causa nella posizione dichiaratamente filorepubblicana assunta dal poeta nel “Bellum civile”. Nel 65 aderì alla congiura di Pisone e anch’egli costretto a darsi la morte quando ancora non aveva compiuto ventisei anni.
L’opera di Lucano si presenta come il racconto di un evento funesto e nefasto, in quanto narra la caduta rovinosa e malaugurata della Libertas repubblicana. Il tema centrale del Bellum civile non è una vittoria ma una sconfitta, il poeta pertanto biasima e deplora gli aventi che narra. L’inizio del secondo libro infatti è occupato dal tema degli orrori delle guerre civili, con la rievocazione e la deplorazione delle stragi spaventose provocate dal conflitto tra Mario e Silla. Segue un incontro notturno tra Bruto, incerto se partecipare alla guerra, in quanto consapevole del fatto che essa si concluderà con la perdita delle libertà, e Catone, che afferma il dovere di impegnarsi al fianco di Pompeo e del Senato, esprimendo il desiderio di morire insieme alla Roma repubblicana ed alla Libertas. Sono poi narrate le vicende belliche.
Il poeta tende a sottolineare l’eccezionalità del conflitto derivato dalla rottura del primo triunvirato: una guerra criminosa e scellerata che mise di fronte soldati della stessa patria ed armi dello stesso esercito, ma soprattutto i due comandanti Pompeo e Cesare sono legati da vincoli di parentela, il conflitto è definito “plus quam civile”.
Cesare, promotore e vincitore della guerra, è presentato costantemente in una luce sfavorevole dal narratore, che pronuncia su di lui giudizi fortemente negativi. Egli viene raffigurato come il genio del male animato da una sorta di smania o di furia distruttiva che lo spinge a sovvertire ogni legge umana e divina. L’ira, la crudeltà, la superbia e l’arroganza con cui impone la sua volontà facendo leva sul terrore, richiamano invece la tipologia del tiranno. Un tratto su cjui più volte Lucano insiste è l’empietà di Cesare verso la patria e verso gli dei; di fronte a questo eroe negativo i valori positivi sono affidati alle figure dei suoi due antagonisti, Pompeo e Catone. Il primo, pur essendo presentato come i, difensore della legalità repubblicana, non ha una statura propriamente eroica; egli appare “l’ombra di un grande nome” un guerriero in declino risultando debole, passivo, incerto e timoroso. Nel corso della vicenda tuttavia la sua statura morale cresce identificandosi sempre più con la causa della repubblica fino alla tragica fine. Tutta positiva è la figura di Catone campione della legalità repubblicana e saggio stoico. Egli non occupa la posizione di vero protagonista, in quanto dopo un apparizione nel secondo libro, ricompare nel penultimo libro; d’altra parte la morte prematura ha impedito a Lucano di descrivere il suo momento di maggior gloria: il suicidio eroico. La figura di Catone partecipa di quella dimensione grandiosa e titanica che caratterizza il Bellum civile, e che in lui si traduce in un immensa statura morale, capace di condannare i giudizi del fato.
QUINTILIANO:
Marco Fabio Quintiliano fu originario di “Calagurris” (odierna Calahorra nella Spagna nord orientale) e nasce tra il 30 ed il 40 d.C., studiò a Roma, dove svolse poi con grande successo l’attività di avvocato. Insegnò retorica per vent’anni, all’incirca dal 70 al 90, ottenendo un importante riconoscimento pubblico. Fu infatti tra i primi professori finanziati dallo stato per iniziativa di Vespasiano, che gli assegnò uno stipendio di 100.000 sesterzi annui. Nel 94 Domiziano gli affidò l’istruzione di due pronipoti destinati alla successione imperiale. Quintiliano scrisse dapprima un trattato “De causis corruptae eloquentiae” che non ci è pervenuto quindi l’”Institutio oratoria”, l’opera maggiore, composta negli anni dal 90 al 96 circa che fu riscoperta da Poggio Bracciolini nel 1416.
Ignota è la data della morte.
In “Institutio oratoria” fece confluire la sua ricchissima dottrina ed i frutti della sua esperienza ventennale di insegnante. Egli enuncia subito la sua intenzione di scrivere un’opera completa e sistematica, delineando la formazione dell’oratore fin nell’infanzia trattando tutti i problemi e gli argomenti, teorici e pratici, attinenti alla scienza retorica ed all’attività oratoria . Si pone fin dall’inizio sulla linea di Cicerone nella concezione della retorica come scienza non puramente tecnica, ma che si propone di formare il cittadino e l’uomo anche moralmente. Subito dopo Quintiliano affronta il problema del rapporto tra retorica e filosofia sostenendo che la seconda è solo una delle tante scienze che contribuiscono alla cultura enciclopedica dell’oratore. E’ questa una dichiarata ostilità nei confronti dei filosofi contemporanei, sotto i quali si celano i vizi più gravi: tale posizione è da inquadrare nell’adesione e nell’appoggio agli orientamenti degli imperatori flavi e specialmente di Domiziano, promotore di ben due espulsioni consecutive di filosofi da Roma.
L’opera ha tuttavia anche importanti implicazioni in rapporto alle condizioni storico -culturali dell’età in cui è sorta come quello della mutata funzione dell’oratore nella società civile e quello delle nuove tendenze stilistiche. Quintiliano imposta entrambi i problemi in termine di corruzione ed indica le cause della decadenza dell’eloquenza in fattori di ordine tecnico come la carenza di buoni insegnanti, e morale come la degenerazione dei costumi. Stupisce l’assoluta mancanza di prospettiva storica, che lo induce a riproporre un modello di eloquenza come Cicerone legato indissolubilmente alle condizioni storico – politiche dell’età repubblicana come se fossero ancora attuali sotto il principato, periodo in cui l’oratoria è stata privata quasi completamente della sua fondamentale funzione politica. Nel libro XII delinea la figura dell’oratore perfetto dicendo che costui darà prova del suo alto valore allorquando “dovrà orientare le decisioni del senato e ricondurre sulla retta strada il popolo sviato”, fingendo di ignorare che sotto il regime monarchico il senato ed il popolo non hanno più alcuna effettiva capacità decisionale, perché tutto il potere è nella mani del principe. Quintiliano riprende l’espressione ciceroniana “Vir bonus dicendi peritus” ma pone l’accento, oltre sulle qualità morali, sulla totale subordinazione dell’attività del perfetto oratore agli interessi dello stato: il Vir bonus è colui che sa anteporre sempre il bene pubblico a quello privato, preoccupandosi in primo luogo della communis utilitas. Per lo scrittore che scrive sotto Domiziano l’affermazione assume nuove implicazioni: lo stato si identifica di fatto con l’imperatore, che è il solo a decidere che cosa sia utile alla comunità, egli teorizza la collaborazione dell’oratore con il regime assoluto

LETTERATURA ITALIANA
DANTE:
“Canto I Purgatorio”: Dante annuncia che l’argomento della nuova cantica, dopo la drammatica visita all’inferno, sarà più elevato: canterà il secondo regno dell’Aldilà in cui le anime si purificano per salire a Dio. Invoca quindi l’aiuto delle muse. L’autore prova di nuovo la gioia della vista, grazie al morbido colore blu del cielo, sereno fino all’orizzonte, dopo il buio opprimente dell’Inferno. Venere illumina l’oriente del cielo, in particolare la costellazione dei Pesci che la segue. A destra vede quattro stelle sconosciute, che da un punto di vista allegorico rappresentano le quattro virtù cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, indispensabili scorte delle anime purganti. Dante scopre accanto a sé un “veglio solo” che incute reverenza, è Catone, custode del purgatorio. La sua figura e ben diversa da quella di Caronte, che gli corrisponde come custode del primo regno: anche lui vecchio, ma frenetico ed infuocato nello sguardo, non condivide la solennità e la dignità di questo personaggio; l’apparizione di Catone è sottolineata dalle sue parole, severe e piene di rimprovero anche se non aspre e violente come quelle di Caronte, ben diverse sono le “oneste piume”, l’aureola di barba ed i capelli leggeri che si animano al minimo movimento del viso, dalle “lanose gote di Caron dimonio”. Catone è detto veglio anche se morì a circa quarantotto anni, perché Dante ne ha fatto una figura ideale; e solo in quanto la solitudine è una delle condizioni essenziali del Purgatorio, monte al centro di un isola, unica terra emersa nell’emisfero delle acque.
Marco Porcio Catone, detto l’Uticense, nato nel 95 A.C., dopo aver osteggiato la tirannide di Silla, aver combattuto contro Catilina insieme a Cicerone, essersi opposto inutilmente al primo triunvirato, scelse di parteggiare per Pompeo contro Cesare, che minacciava l’istituzione repubblicana, ma, dopo la sconfitta di Pompeo ed il trionfo di Cesare si uccise a Utica nel 46 A.C. Quindi Catone è pagano, e per giunta suicida, eppure Dante fa di lui un’anima che sarà beata, affidandogli il ruolo impegnativo ed elevato di custode del Purgatorio. Catone dedicò tutta la sua vita all’impegno politico, non fine a se stesso, ma per instaurare il regno del “Kosmos”, che per il mondo pagano si può considerare simbolo di provvidenza. Infatti, tutte le sue lotte politiche furono indirizzate contro la tirannide, per la salvezza delle libertà repubblicane: e queste scelte, spesso difficili e dolorose, furono sempre in accordo con le sue convinzioni filosofiche di stoico. Lo stoico crede nell’immortalità dell’anima, ed è disposto a sopportare qualsiasi sofferenza, fisica e morale, per realizzare i suoi ideali; se non ci riesce, sceglie il suicidio. Gli autori dell’antichità, come Seneca, descrivevano Catone come un uomo onestissimo, integerrimo, rigoroso, insomma l’incarnazione perfetta dello stoico che combatte politicamente. Dante sceglie Catone per questi suoi tratti morali, per lo scrittore è importante che Catone, sconfitto nella sua ultima battaglia si sia dato la morte per questioni di principio, come la libertà e l’ideale repubblicano, mentre il suo vincitore, Giulio Cesare, rimane sminuito dall’inferiorità intrinseca delle sue ambizioni. Quindi il suo suicidio può essere considerato da Dante un esempio di fortezza morale. Inoltre Dante sceglie Catone perché in possesso di tutte le caratteristiche che ne fanno una straordinaria “figura” di Cristo, perché sceglie il martirio per riscattare Roma dalla schiavitù di Cesare, come Cristo si sacrificò per riscattare l’umanità dalla schiavitù del peccato.
Catone chiede ai due pellegrini come siano arrivati dall’inferno, se le leggi divine sono state violate, oppure sono cambiate. Virgilio esorta Dante a mostrar rispetto per lo sconosciuto, quindi spiega: Dante è giunto per intercessione di una donna venuta dal cielo che gli ha chiesto di aiutare Dante, che non ha ancora conosciuto la morte fisica, e che per salvarsi deve attraversare i tre regni dell’Aldilà.
Sono evidenziate poi le due componenti del viaggio purgatoriale: la vista e l’udito. Abile a questo punto, l’accenno al famoso verso “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Tu’l sai, chè no n ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al grandì sarà sì chiara”. La libertà ha il valore morale di grazia, anche se non era propriamente quelle cristiana. Tuttavia, parlarne adesso è un modo per accomunare l’esperienza di Catone a quella di Dante.
La perorazione di Virgilio si conclude con la commovente commemorazione del Catone marito fra le gioie della vita familiare: ricorda Marzia moglie di Catone da lui ripudiata e divenuta sposa di Ortensio, dopo la morte del quale tornò da Catone che l’accettò per morire come sua moglie. Catone risponde a Virgilio che amò tanto Marzia nella vita terrena, ma che da quando è nel regno di Dio le sue richieste no lo toccano più, perché ubbidisce solo ai voleri di Dio. Gli dà il permesso di salire sul monte del Purgatorio, ma prima dovrà cingere la vita di Dante con un giunco che rappresenterà allegoricamente l’umiltà di cui deve vestirsi chiunque voglia compiere la difficile salita, e lavargli il viso velato dalle tracce del male dell’Inferno. A questo punto Catone sparisce.
“Canto XI”: nel canto X Dante e Beatrice salgono nel cielo del sole, cioè degli spiriti sapienti e famosi per la loro dottrina filosofica e/o teologica; essi appaiono come luci molto luminose e circondano Dante e Beatrice formando intorno a loro un triplice giro cantando, poi si fermano e uno di loro parla: è San Tommaso D’Acquino che si presenta a Dante. Al termine del discorso questa “gloriosa rota” riprende il suo giro e canta con perfetta sintonia con gli altri come un orologio. Nel XI canto siamo ancora nel cielo del sole e sarà ancora San Tommaso a presentare la figura di San Francesco D’Assisi.
Dante per ricostruire la vita del santo usa:
- la leggenda prima di Tommaso da Cerano
- la leggenda maior di San Bonaventura
- l’”arbor vitae crucifixae Jesus” di Umberto da Casale
Il Momigliano ed il Grabhner hanno messo in evidenza come il Francesco di Dante sia una figura eroica di un combattente della fede caratterizzato da magnanimità e dignità interiore. E’ dunque un grande della povertà, per questo Dante dice che insieme a San Domenico è un capo della chiesa.
La forza eroica di Francesco si evidenzia in due punti:
1) quando afferma che scende in guerra per la povertà, donna che nessuno vuole;
2) quando si reca a Roma per la prima approvazione della regola; Francesco non abbassò gli occhi davanti a Papa Innocenzo III, ma trattò con lui alla pari, con decisione e fermezza.
All’inizio della presentazione di Francesco Dante dice che era pieno d’ardore come un serafino, ma poi questa caratteristica non viene più sottolineata. Sono peraltro ignorati molti aspetti della vita agiografica del santo, quali emergono per esempio nei suoi Fioretti come: l’obbedire degli animali ai cenni del Santo, l’amore per le creature, la lode della natura che caratterizza il Cantico delle creature, la mancanza dei miracoli e delle mortificazioni corporali. Tutte caratteristiche queste di cui cono piene le fonti francescane; ma cosa che manca maggiormente è l’umiltà di Francesco, esaltata dalla tradizione e qui messa da parte per lasciare spazio alla magnanimità ed all’eroismo. Manca inoltre la concezione di Francesco come “alter Crhistus”: i francescani erano soliti mettere in rilievo le affinità fra Francesco e Cristo, Dante invece ne sottolinea una soltanto: Cristo fu il primo sposo mistico della povertà, Francesco il secondo. Il fulcro di tutto il canto sono proprio le nozze mistiche del Santo con la povertà, allegoricamente rappresentata come una donna che nessuno vuole e tutti sfuggono. Quest’insistenza sulla povertà non è casuale, ma va inserita nell’ambito della polemica della povertà di Cristo e degli apostoli, che quando Dante scriveva, da anni lacerava i francescani divisi tra spirituali e conventuali. I primi che predicavano l’assoluta povertà, all’inizio del trecento, erano perseguitati e nel 1311 la loro tesi della povertà di Cristo fu giudicata eretica. Dante non poteva che simpatizzare per gli spirituali perché riteneva che la cupidigia umana e della chiesa fosse la causa di tutti i mali. La sua posizione era comunque moderata.
FOSCOLO:
“Le Ultime lettere di Jacopo Ortis”:
Trama: Jacopo Ortis, giovane Veneziano di buona famiglia, studente e di ideali giacobini, deve lasciare la città dopo che essa è stata ceduta all’Austria con il trattato di Campoformio sottoscritto da Napoleone, e deve cercare rifugio, trovando sui colli Euganei in una sua proprietà. Qui conosce la famiglia del Signor T., ma soprattutto si invaghisce della figlia, Teresa, ormai già promessa sposa al marchese Odoardo, contro la volontà della madre.
L’amore di Jacopo è contraccambiato, ma Teresa non vuole disubbidire alle disposizioni di suo padre che venuto a sapere della loro “relazione” cerca di persuadere il giovani Veneziano ad allontanarsi dai colli Euganei. Così, senza nemmeno un saluto, Jacopo parte e viaggia per l’Italia sperando di distogliere il suo pensiero da Teresa, ma invano; infatti, torna nella proprietà di campagna e vedendolo Teresa sta per svenire. La situazione però è fredda, distaccata tanto che gli eventi precipitano fino al momento in cui Jacopo si toglie la vita.
Jacopo Ortis è l’eroe “romantico” che combatte per ideali di libertà e di patria che si concentrano più sulla fede nelle proprie forza che sulla fiducia in un altro uomo, cioè Napoleone. Ma al tempo stesso Jacopo rappresenta una crisi, quella degli usi e delle consuetudini dell’epoca, che viene sottolineata con il suicidio, inevitabiled conclusione di una travagliata storia politica, ma anche affettiva. In lui si fonde passione politica e amorosa: in primo luogo sono messe in luce le speranze di un Italia unificata e gli entusiasmi delle imprese napoleoniche; in secondo luogo viene sottolineata la figura della donna vista come oggetto. Lei passa dal padre al marito senza poter dir nulla, è priva di volontà desideri ed aspirazioni. E Jacopo vive questa passione per Teresa ben consapevole dell’inattuabilità del loro amore e anche questo fallimento, insieme a quello politico provoca una sofferenza che si protrae inesorabilmente fino al tragico suicidio.
Un significato molto importante lo assume il paesaggio perché è la proiezione esteriore dei sentimenti del protagonista; così può essere luminoso o tempestoso a seconda delle sue sensazioni in quel momento. Lo vediamo passeggiare solitario in un giorno tempestoso se è straziato dall’amore inattuabile, o in un giorno radioso quando il suo cuore gode di tutte le felicità oppure ancora esprime in queste passeggiate il suo senso di libertà e di rifiuto ad ogni tipo di sottomissione.
Il romanzo s’ispira al Werther di Goethe che per primo aveva colto la situazione di crisi dell’intellettuale in conflitto con la società in cui non si può inserire; ma se nel romanzo tedesco il conflitto si misurava esclusivamente sul piano privato dei rapporti interpersonali, qui invece si trasferisce anche sul piano politico. Egli sente un senso di angosciosa mancanza : Jacopo non ha una patria, un tessuto sociale.
Jacopo si dispera a causa della delusione rivoluzionaria, del veder tradite tutte le speranze patriottiche e democratiche, nel vedere la libertà trasformarsi in tirannide. Foscolo-Jacopo vide nell’ instaurarsi della dittatura Napoleonica e nel dominio Imperiale della Francia sull’ Italia un tradimento delle istanze di libertà e di democrazia, è quella che viene chiamata “Delusione storica”. Negli anni dell’adolescenza, Foscolo si era acceso di ideali giacobini, ma ora ha sperimentato come esse siano fallite e abbiano condotto ad un vicolo cieco. In un passo Parini disillude Jacopo sulla possibilità di un agire politico in quanto un’azione rivoluzionaria contro la dittatura non risolverebbe nulla anzi sfocerebbe inevitabilmente in un’altra. Così il protagonista trova come unica via di fuga da questa situazione il suicidio, come atto eroico di denuncia del periodo storico e di affermazione del proprio io e quindi dei propri valori e ideali. La libertà che voleva si realizzasse nel suo paese, nella sua patria, ora invece la realizza con l’annullamento di sé, soltanto nella quiete eterna troverà la pace e la tranquillità. L’ Ortis dunque non è soltanto l’ alter-ego di Foscolo, ma il paradigma di tutta una generazione che visse la delusione Storica.
Come ha osservato Binni, tuttavia non bisogna identificare totalmente Foscolo con Jacopo in quanto lo scrittore non si uccide, ma, seppur criticamente, continua ad operare all’interno del regime napoleonico.
Dopo l’ Ortis scrisse sonetti tra cui “Alla Sera” in cui si ritrovano nella forma classica i temi del Romanzo precedente: la proiezione del poeta in una figura eroica ugualmente tormentata come Jacopo e il conflitto con il “reo tempo” presente, in cui l’unica alternativa che si prospetta è il “nulla eterno”. Ancora una volta la morte ha un’efficacia liberatoria in cui si cancellano conflitti e sofferenze. E proprio in essa si vanificano le preoccupazioni e “quello spirito guerrier che rugge” nell’autore si placa davanti alla sera. Il sonetto si divide in due parti, la prima più descrittiva e la seconda in cui viene spiegato il significato della sera prefigurazione serena della liberazione dalla vita. La morte non è il polo negativo dell’esistenza, ma al contrario rappresenta la pace e la liberazione dagli affanni da cui il poeta è perseguitato e che rappresentano il periodo storico della dominazione Napoleonica.
VERGA:
“Libertà”: la novella verghiana, dal titolo quasi beffardo è stata oggetto di forti discussioni ideologiche in quanto si imputava allo scrittore una visione distorta degli avvenimenti. Trapela infatti un bilancio globalmente e dolorosamente negativo, carico di contraddizioni, di ineluttabile sofferenza e di profonda amarezza di fronte all’indomabile ingiustizia legata alla lotta per vivere e sopravvivere.
La libertà di cui parla il titolo è un concetto epr nulla univoco, caricato com’è di funzioni via via divergenti, a seconda dell’ottica dei personaggi che usano il vocabolo.
La novella risulta tripartita in questo modo:
1) la prima giornata è descritta in tre tumultuose e violente sequenze progressivamente più ampie: la prima in “campo lungo”, con molteplici scene di uccisioni; la seconda che si chiude sulla macabra immagine delle mani che inutilmente cercano di parare il colpo; la terza in casa della baronessa, in un crescendo di violenze. Qui l’ottica dominante è quella dei popolani entusiasti, sulla cui bocca echeggia il grido esultante “Viva la libertà” in un’ansia di capovolgimento della falsa giustizia fin qui praticata.
2) La seconda giornata occupa la parte centrale della novella, prima dell’arrivo di Bixio a far giustizia: in essa si dà un’interpretazione nuova dell’accaduto per opera dei rivoltosi, dove libertà è sinonimo di equa distruzione delle ricchezze. A essa farà eco nella terza sezione un ben diverso giudizio dei borghesi: “ l’avevano scampata bella a non essere dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà”, in cui l’accezione del termine è negativa e sta ad indicare carneficina e di rivoluzione. In questa sezione domina una polifonia di giudizi, attese, speranze e timori: l’andamento stilisticamente più lento e pacato, la predilezione per l’ipotassi e l’uso dell’imperfetto che sostituisce il passato remoto della prima sezione, sembrano rispecchiare il passaggio ad un momento di riflessione preoccupata sulle violenti vicende.
3) La terza sezione è quella cronologicamente più estesa: dal lunedì successivo alle stragi fino alla conclusione del processo, tre anni dopo. La lenta processione delle camicie rosse è contrapposta alla disperazione delle donne e l’inerzia fatalistica degli uomini; la minuscola dimensione di Bronte è antitetica rispetto alla città con il suo gran carcere alto e vasto.
VITTORINI:
“Uomini e no”:
fu scritto da Elio Vittorini tra la primavera e l'autunno 1944, quand'era ricercato dalla polizia tedesca per aver partecipato all'organizzazione di uno sciopero generale nel marzo dello stesso anno a Firenze. Il libro uscì nel giugno del 1945, a tre mesi dalla liberazione, e fu subito salutato come il primo ispirato alla Resistenza italiana. Il Romanzo celebra sì la necessità della Resistenza, ma dissemina dubbi e incertezze su quanto è accaduto: sul presente e sul futuro, sul senso profondo del combattere e del morire, sulla non-umanità che non è scissa dall’uomo, ma è dell’uomo e appartiene all’uomo. Sull’essere uomini e no, da qui il titolo. Vittorini divide infatti l’umanità in due categorie nette, senza sfumature: la società dominata dai fascisti e dai nazisti, che rappresentano il mondo negativo, del male, sono i cattivi come Cane Nero e Klem, carnefici con la filosofia della morte; e la resistenza che è il bene, in cui si muovono i buoni, cioè i partigiani.
Quelli che l’autore chiama “uomini” sono coloro che si impegnano nella lotta partigiana al fine di liberare gli italiani dalla piaga del fascismo. Al contrario, i personaggi che nel libro rappresentano il mondo fascista, dominato dalla violenza, vengono definiti “non uomini”.
Non emblematico eroe della Resistenza, ma, ancora, un uomo problematico, tormentato e disperato, il protagonista Enne 2, intellettuale e partigiano, non possiede né la fede politica certa di Gracco né la semplicità di Lorena, emblema della volontà propria del popolo di resistere per resistere, sempre e comunque. Il comandante Enne 2 lotta con i suoi partigiani contro fascisti e nazisti in una Milano in rovina che vuole ribellarsi a tutto questo, nell’inverno 1944, lotta contro una dittatura politica, e resiste “per una liberazione che doveva esserci” e che “era sicuro vi sarebbe stata, ma proprio per questo, resistere non era semplice”.
Nel corso della narrazione i personaggi spesso rivolgono a se stessi o agli altri numerose domande che rimangono, però, senza risposta. Per esempio Gracco, alle domande: “Perché, ora, lottavano? Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? Perché dormivano con una pistola sotto il cuscino? Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano?” che rivolge a se stesso , e in seguito, in modo diverso a Orazio, non sa trovare e non riceve nessuna risposta. Di fatto non esiste una risposta generale, valida per tutti, in quanto questi interrogativi sono posti unicamente per far pensare i lettori, ognuno dei quali potrà rispondere in base alle proprie riflessioni. Simile è la domanda di Selva: “ Non possiamo desiderare che un uomo sia felice? Noi lavoriamo perché gli uomini siano felici. Non è per questo che lavoriamo? […] Avrebbe un senso il nostro lavoro? […] Avrebbero un senso i nostri giornaletti clandestini? Avrebbero un senso le nostre cospirazioni?” In questo si intravede uno dei tanti dubbi, delle tante questioni irrisolte del libro che in parte trovano un chiarimento nei capitoli in corsivo.
Sono luoghi di «meditazione e di lirismo», in cui l’io dell’autore medita e conversa con se stesso e con Enne 2. E qui, nei ritorni all’infanzia, Enne 2, ridiventato bambino, tenta di mutare il corso della storia, di realizzare ciò che non è avvenuto e non può avvenire, e di impedire ciò che accaduto: che Berta incontri l’uomo che la renderà infelice.
Il libro è diviso in quattro scene: già nella prima scena si capisce come nella vicenda si intreccino fatti politici resistenziali e fatti affettivi. Enne 2 riconosce una donna sul tram, Berta, e successivamente si incontrano e parlano. Mentre camminano per andare a casa di Selva appaiono dei fascisti e i due sono costretti a correre.
La vicenda d'amore di Enne 2 e Berta ritrova forza e poi si spegne nella cronaca dei giorni convulsi e insanguinati, tra le azioni dei partigiani e le fucilazioni fasciste. Il punto più forte del libro è, infatti, l’attentato dei partigiani a dei tedeschi; dopo l’assalto e l’uccisione di nazisti alcuni partigiani riusciranno a fuggire, altri verranno uccisi. Quelli uccisi quella notte vengono “esposti” sui marciapiedi ed i tedeschi riconoscono tra la folla un uomo che secondo loro era uno degli attentatori. Quest’uomo, di nome Giulai, fugge ma verrà catturato ugualmente e nel cortile di San Vittore sarà ucciso a morsi dai cani dei tedeschi.
I tre temi amore, morte e guerra hanno uno spazio rilevante all’interno del romanzo ed essi sono strettamente legati tra loro da rapporti di causa - effetto. La guerra fa da sfondo all’intera vicenda: essa inquadra il periodo storico, la seconda guerra mondiale e, in particolare, la lotta di Resistenza in Italia.
Ad essa si legano gli altri due temi che fungono da conseguenza o da principio. L’amore, visto come fede nei principi ai quali i partigiani aderiscono e credono con tutti loro stessi, porta gli uomini ad accettare e intraprendere la lotta per la Liberazione, ma proprio la battaglia porterà alcuni valorosi combattenti, come il Foppa o Coriolano, a perdere la vita per il bene di tutta la popolazione. Ecco allora che la morte diventa la conseguenza, quasi inevitabile, della guerra. La morte è, però, conseguenza anche dell’amore impossibile di Enne 2 per Berta. L’uomo, turbato per la perdita dei compagni e per l’impossibilità di vedere realizzato il desiderio di vivere con la donna amata, decide di compiere un’ultima suicida missione: decide di aspettare Berta nel suo nascondiglio, ma sa che è stato fotografato e che Cane Nero lo ha trovato e si sta dirigendo verso di lui, ma attende per un appuntamento che non giungerà mai. Allora capisce che ormai è arrivato il momento di affrontare faccia a faccia il nemico, sa che quello è il suo ultimo momento di vita. Ma lo affronta con coraggio…il resto non ci viene raccontato, non si sa se sia riuscito a sconfiggere Cane Nero…si sa solo che il vicino di casa che gli aveva prestato una pistola per uccidere il nemico, si arruolerà tra i partigiani..
STORIA
LA FIGURA DI STALIN:
Stalin nasce in Georgia nel 1879 da una famiglia di origine servile, condusse i suoi studi in un seminario Cristiano-Ortodosso. In questi anni si avvicinò al marxismo e nel 1898 si iscrisse al Partito Operaio Socialdemocratico Russo. Espulso dal seminario l’anno successivo si dedicò all’attività politica clandestina, che gli costò più volte il carcere e l’esilio. Nel 1903, quando il Posdr si divise fra menscevichi e bolscevichi, parteggiò per i secondi. Negli anni successivi partecipò ai congressi socialdemocratici russi che si tenevano all’estero, e ai cosiddetti espropri, gli assalti armati a banche ed uffici governativi per finanziare il partito. Nel 1912 ottenne la direzione della “Prava”, l’organo di stampa dei bolscevichi. Durante i primi mesi della rivoluzione di febbraio del 1917 (per noi otto marzo) fu uno dei pochi membri del comitato centrale bolscevico presenti a Pietrogrado, mentre più marginale fu il suo ruolo nella rivoluzione di ottobre. Nel 1922 fu nominato segretario generale del comitato centrale.
Stalin si trovò così ai vertici del partito nel momento in cui la malattia e la morte di Lenin, avvenuta il 21 gennaio 1924, portarono alla ridefinizione degli equilibri e dei ruoli all’interno del gruppo dirigente comunista. Questa ridefinizione assunse diverse forme: quella del dibattito teorico e quella della lotta personale con l’eliminazione fisica degli avversari. I principali contendenti furono Trockij e Stalin: il primo godeva del prestigio dell’aver guidato l’armata rosso, il secondo, meno popolare tra le masse, era da tempo ai vertici del partito. Stalin si allea con Bucharin il principale sostenitore della NEP salvo poi cambiare linea politica. Il potere si con centrò in breve nelle mani di Stalin. La lotta tra Trockij e Stalin era giunta ad un punto cruciale tanto che nel ventisette Stalin potè facilmente accusare di avventurismo coloro che credevano ancora nella rivoluzione mondiale: Trockij fu espulso insieme ad altri dal congresso del partito e nel 1929 esiliato.
Accresciuto il proprio potere personale con l’eliminazione di tutti i suoi oppositori, Stalin affrontò il problema dell’industrializzazione forzata: dal 1928 al 1932 varò il primo piano quinquennale, estraendo dalle campagne tutte le risorse disponibili e conseguendo il controllo integrale della produzione agricola attraverso la creazione di aziende di proprietà comune, i Kolchoz, e di proprietà dello stato i Sovchoz, deportando o eliminando milioni di Kulaki. A questi provvedimenti si accinse la militarizzazione del lavoro: i salari furono compressi al minimo, i dirigenti ed i tecnici delle fabbriche furono ritenuti personalmente responsabili dell’attuazione degli obiettivi del piano; il modello ideologico proposto era lo stakhanovismo le conseguenze furono una grande trasformazione della società sovietica come l’eliminazione quasi totale dell’analfabetismo e lo sviluppo dell’istruzione dei servizi sociali, ma anche altissimi costi umani dovuti a fame, prigionia e deportazioni.
In questi anni di grandi successi economici s vennero intensificando le venature autoritarie del regime sovietico; Stalin si volse al rinnovamento degli apparati di partito, eliminando chiunque fosse sospettabile di fedeltà men che assoluta alle sue direttive. Cominciò ad eliminare fisicamente tutti coloro che si opponevano al programma di industrializzazione forzata. Queste azioni repressive furono chiamate “purghe”.
Tra il trentasei ed il trentotto un’ondata di repressione e di terrore guidata dalla polizia segreta (Gpu) investì milioni di cittadini sovietici che furono uccisi o deportati nei Gulag. Cadono sotto pesanti accuse migliaia di funzionari, giovani militanti sospetti di non credere alla buona fede del dittatore, alla sua costanza ed inflessibilità, alla sua dedizione al dovere, giovani che devono riscattare le loro colpe con la morte.
Nel trentasette – trentotto l’epurazione colpisce l’armata rossa; l’esercito e protagonisti di imprese leggendarie sono spazzati via con fucilazioni di massa, con o senza processo. Ancora più indiscriminata è l’epurazione all’interno della marina. Eppure tutti questi militari avevano dato prova di grandissima lealtà a Stalin.
L’ultimo processo fu contro Bucharin condannato a morte nel trentotto. Si trattava di uno dei dirigenti e teorici bolscevichi più noti ed illustri, membro per vent’anni del comitato centrale. Il processo durò dieci giorni e si concluse con la condanna, ma prima di morire egli fece pervenire a Stalin una breve lettera che iniziava con queste parole: “A che ti serviva la mia morte?” Qualche giorno prima di essere arrestato, consapevole di ciò che lo attendeva, egli aveva scritto un’altra lettera. In essa, dopo aver negato di essere mai stato un traditore e di aver mai tramato contro Stalin affermava testualmente:” Il filtro della storia, presto o tardi, ripulirà il fango che è stato gettato sulla mia testa.”
La polizia politica rimaneva l’unico potere attivo nel paese; il partito era ridotto ad un organismo inerte nelle mani del dittatore che nel frattempo edificava il mito di se stesso come padre della patria aprendo la stagione del culto della personalità. Si attuò una drastica sottomissione dei poteri alla volontà del capo. I diritti universali degli individui erano resi del tutto inerti da un potere politico personale privo di qualunque controllo, che si reggeva su una complessa miscela di terrore poliziesco, di consenso popolare al capo carismatico, di continuità con i caratteri autocratici della tradizione politica russa.
Nel 1953 morì Stalin. Con la sua morte iniziarono a dissolversi quel clima cupo, quelle rigidità burocratiche, quella pesantezza ideologica che avevano connotato l’età Staliniana. Emerse progressivamente la figura di Nikita Chruscev che, restato solo alla guida del paese, impresse una vigorosa spinta alla politica di aperture e di riforme. Il Cremino avviò un relativo decentramento delle decisioni economiche, privilegiò lo sviluppo dell’industria produttrice di beni di consumo sfidando l’occidente sul suo stresso terreno. Ma soprattutto venne avviata la destalinizzazione: furono allontanati dalle cariche del partito e dell’esercito uomini particolarmente legati a Stalin, molti prigionieri liberati, la vita sociale fu meno permeata dall’ideologia e, l’attività culturale vide una più libera circolazione di opere prima proibite. Nel 1956, in occasione del XX congresso del Pcus, Chruscev lesse un rapporto destinato ad avere molteplici conseguenze: si trattava della fredda ma impietosa denuncia degli errori e dei crimini commessi da Stalin e della sua amministrazione, effetto di un sistema di potere accentrato ed illiberale e dell’ossessivo “culto della personalità” professato dal dittatore sovietico. Il clima culturale in Unione Sovietica si fece progressivamente più democratico e vivace.
FILOSOFIA
JEAN-PAUL SARTRE:
Tra le filosofie che hanno riflettuto riguardo la libertà vi è l’esistenzialismo e fra questi un filosofo francese che vive nella prima metà del secolo: Jean Paul Sartre. Egli riflette in due opere principali: “La nausea” pubblicata nel 1938 e “L’essere e il nulla” pubblicato nel 1943.
C’è un legame in Sartre fra esistenza e libertà, libertà che non è da intendersi come fare ciò che si vuole ed essere liberi di fare qualcosa, ma dover scegliere in modo responsabile in che modo attuare la propria esistenza.
Ne “L’essere e il nulla” distingue due forme dell’essere: l’essere in sé che si identifica con tutto ciò che non è coscienza, ma ha un rapporto con essa, è il mondo, il dato oggettivo, è il dato che la coscienza si trova davanti come qualcosa che è ciò che è; e l’essere per sé che si identifica con la coscienza stessa presente a se stessa ed alle altre cose: essendo presenza alle cose, è in grado di attribuire significati alle cose stesse. E’ il luogo della libertà in cui l’uomo costruisce un suo universo di significati, contenuti, interpretazioni del mondo. La libertà è infatti, per Sarte, la nullificazione coscienziale del mondo mediante significati in cui l’io si afferma ed è in grado di realizzare con questa libertà una nuova realtà in cui lui è il centro.
Quella della libertà è una scoperta fondamentale per la realizzazione dell’essere. L’uomo è libero e vuole affermare questa libertà, ma allo stesso tempo è condannato a questa stessa libertà. La libertà è qualcosa a cui noi siamo obbligati.
Nella “nausea” Sartre sostiene che nelle dinamiche esistenziali non domini la razionalità, cioè l’esistenza non può essere ricondotta ad un elemento logico, ma in essa vi è lo scontro fra fenomeni paradossali ed assurdi: l’uomo pur essendo libero, non è libero di esserlo; l’uomo pur scegliendo di essere libero, non libero di esserlo; l’individuo sceglie il senso del suo essere ma non il suo essere. La nostra libertà non è mai tale da poter risalire all’origine ed inizia con un atto no voluto, l’uomo è gettato nel mondo e ciò è assurdo perché non ha spiegazioni al di là del fatto medesimo di esistere. Il protagonista della “nausea” manifesta questa mancanza di senso, constata che manca il perché di tutti i perché e l’individuo si trova di fronte alla contemplazione di quest’abisso . Rimangono solo contraddizioni, assurdità, mancanze, vuoto; e l’uomo ne è cosciente. L’uomo non ha più contenuti per la sua coscienza e si rivolge verso l’assenza cercando di risalire al “che cosa manca”. Sartre arriva a tematizzare la coscienza come qualcosa fondato sul nulla, da ciò deriva che l’uomo vuole divenire un essere che è ragione e fondamento di sé, cioè vuole farsi dio, vuole realizzare la sintesi fra l’in sé e per sé. Ma questo è impossibile. L’uomo subisce lo scacco nel suo sforzo di farsi dio per questo Sartre parla dell’uomo come dio mancato o passione inutile. E’ una posizione nichilistica.
Questi temi sviluppati sull’individuo portano al nulla così Sartre sposta il problema sul piano sociale. In “la critica della ragione dialettica” riconduce la frustrazione della coscienza alla società capitalistica. Cerca di fondere Marxismo ed Esistenzialismo in una ontologia sociale: l’essere della coscienza non si afferma mai come libertà e il motivo è sociale, di classe, di alienazione. L’uomo è alienato da uno specifico sistema socio-economico che è quello del capitalismo. Sono questi gli anni però anche della Destalinizzazione quando ci si accorge che il sistema del dittatore è fallito perché è divenuto un controllo della libertà, vengono represse le libertà in modo brutale. Ma anche il capitalismo reprime le libertà, la differenza sta nel fatto che la repressione viene attuata in modo più morbido perché baratta la libertà con il benessere, con i beni di consumo e l’alienazione viene in un certo qual modo attutita.
Questa conclusione segnala come Sartre accetti la rivoluzione vista come atto di rovesciamento e di libertà, ma non accetta la sistemazione in partiti ed apparati dello stato che è la negazione stessa della libertà.
LETTERATURA INGLESE
“THE THEATRE OF THE ABSURD”:
is based on Existentialism, in particular on the works of the French philosopher Jean-Paul Sartre and the French novelist Albert Camus.
Existentialism emphasized the importance of the individual existence that is characterized by choices and decisions that man makes. This freedom in his choices leaves man in a permanent state of anxiety.
The novelist Albert Camus emphasized the absurdity of human condition in his essay “ The myth of Sysifus”: Sysifus was the King of Corinth whose punishment in Hell was to push a stone up a hill, but when he arrived at the top, the stone rolled down to the bottom. In this way, Camus described man isolated in a word without purpose and meaning and he lives in an irremediable exile between himself and his life.
The expression Theatre of the Absurd comes from a book by Martin Esslin published in 1961, in which he described a new type of drama that expresses “ the metaphysical anguish at the absurdity of the human condition”.
What makes the Theatre of the Absurd very different is the complete abandonment of any logical construction, of rational linking of ideas, as the irrationality was performed on the stage.
Another important feature of this new kind of drama is the presentation of man forever lonely and unable to communicate with his fellow-men.
The most important play is “ Waiting for Godot” by Samuel Beckett, that was performed at the Theatre de Babylone in Paris in January 1953. There was no plot, nothing happened, the setting was a desert with only a bare tree; the character were two tramps that were waiting for the mysterious Mr. Godot that never came.
The lack of events, the idea that nothing happens are emphasized by the circular and repetitive structure.
The name of Godot could suggest God, but when Beckett was asked about the meaning of Godot, he said: “ if I knew, I would have said it in the play…but If Godot finally came, he would only be a disappointment”.
What gives meaning to the play is really the theme of waiting itself, that wants to represent the absurdity and meaninglessness of human condition.

Esempio