La figura della donna nel fascismo

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Testo

La figura della donna nel fascismo
tra storia, letteratura, moda e arte.
di Annamaria C.
Tesina multidisciplinare costruita sulle seguenti materie:
Storia, Storia Sociale, Letteratura Italiana, Lingua Francese, Storia dell’Arte, Storia della Moda
Indice dei temi trattati
➢ Il totalitarismo
➢ Il fascismo in Italia
- La crisi dello stato liberale
- I primi governi Mussolini
- Il regime fascista
- Politica economica
- Stato e Chiesa
- Politica imperiale
➢ La donna nel periodo fascista
- Le origini e le caratteristiche della politica sessuale fascista
- La politica del lavoro
- Cenni di costume
- La famiglia modello
- La donna modello
- L’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia (OMNI)
- Quattro ricette della donna fascista
➢ “Una donna”, Sibilla Aleramo
- Introduzione all’autrice
- Biografia
- Luoghi e tempi
- Commento
➢ Madame Bovary (1857)
- Le réalisme
- Le bovarysme
- Trame
➢ Mario Sironi
➢ La moda negli anni ’30
- L’Italia e l’autarchia
- Moda e nazionalismo
- Le tendenze negli anni ’30
➢ Bibliografia
Il totalitarismo
Il termine totalitarismo fu usato per la prima volta in Italia nel 1923 nell’ambito della cultura liberale per denunciare la pratica politica del fascismo, finalizzata a trasformare lo stato e la società civile secondo la propria ideologia. Da quel momento il termine fu esteso da prima all’ideologia fascista poi al nazismo.
Già dal 1929 fu impiegato anche per paragonare tra loro i regimi a “partito unico” e quindi il suo campo di applicazione si ampliò. Almeno due sono considerate i modelli compiuti dello stato totalitario: il nazismo e lo stalinismo.
Le dittature totalitarie sono degenerazioni del sistema democratico e, come tali, presuppongono la democrazia, dal momento che sono movimenti fondati sulla mobilitazione delle masse, delle quali ricercano il consenso.
Democrazia e totalitarismo differiscono su due punti critici. Innanzitutto il metodo democratico rifiuta la violenza come strumento per risolvere i conflitti di interesse. La democrazia è l’opposto da un lato del razzismo, che costituisce invece una componente essenziale del nazismo e del fascismo, e dall’altro dell’odio di classe, componente di alcune forme storiche del comunismo.
Un secondo punto discriminante è costituito dal modo in cui democrazia e totalitarismo intendono la mobilitazione delle masse: in democrazia si identifica con la partecipazione libera e volontaria dei cittadini alla vita politica del paese; i regimi totalitari esigono, invece, che i singoli si mostrino costantemente pronti ad appoggiare il capo.
La gente è raccolta in organizzazioni di massa, in un grande partito, in organizzazioni collegate o vicine a questo partito unico e deve continuamente partecipare a marce.

Il fascismo in Italia
A partire dai primi anni del dopoguerra si instaurò in Italia una nuova forza politica sottoforma di dittatura: il Fascismo.
Il fondatore era Benito Mussolini, un ex socialista che definì il suo disegno politico totalitario, perché il suo obbiettivo era quello di costituire uno Stato onnipotente in grado di controllare la vita sociale, politica ed economica dell’intero paese. Il movimento fascista nacque nella riunione in Piazza San Sepolcro a Milano il 23 marzo del 1919 con la costituzione dei Fasci italiani di combattimento. Il programma iniziale del fascismo costituiva una confusa mistura di elementi sindacalisti, anticlericali, repubblicani e nazionalisti; però si qualificò subito come un movimento antisocialista che ricorreva alla violenza attraverso le famigerate “squadre d’azione”.
Nel novembre del 1921 il movimento si trasformò in Partito Nazionale Fascista (PNF)
Il 28 ottobre 1922 le milizie fasciste si radunarono a Roma con la “Marcia su Roma” ottenendo l’incarico a Mussolini di costituire un nuovo gabinetto.
La crisi dello stato liberale
L’Italia benché uscita vittoriosa dal conflitto mondiale cadde in una profonda crisi politica e sociale. Le tragiche sofferenze diffusero il desiderio di procedere a radicali cambiamenti di ordine politico e sociale. Iniziò cosi il biennio rosso 1919-1920 in cui scatenarono diverse agitazioni popolari che portarono ad importanti conquiste sociali. L’apice di queste sommosse si ebbe con il fenomeno dell’occupazione delle fabbriche, attuato a partire del 1920 con l’occupazione della Fiat.
Coloro che furono favorevoli a questi cambiamenti erano in particolare i partiti di massa. Innanzitutto vi era il partito socialista, lacerato al suo interno tra dualisti, riformisti e massimalisti. All’estrema sinistra del PSI vi era Antonio Gramsci che durante il congresso di Livorno del 1921 diede vita la Partito Comunista D’Italia. L’altro grande partito di massa era il PPI o partito popolare, nato nel 1919 sotto la guida del sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo.
I primi governi Mussolini
In un primo tempo Mussolini costituì un governo di coalizione con nazionalisti, liberali e PPI. Con la nuova Legge Acerbo del 1923 venne abolito il sistema proporzionale a favore di un maggioritario e in quell’anno il PNF fu il primo partito in Parlamento. In questo periodo furono attuate diverse riforme , la più importante fu quella della scuola del 1923 che privilegiò la tradizionale cultura umanistica a detrimento di quella tecnica e scientifica.
Però a seguito dell’assassinio del deputato socialista-riformista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), compiuto da sicari fascisti, crebbe nel paese il risentimento per l’illegalità e le violenze delle squadre fasciste, per questo in segno di protesta i deputati delle opposizioni abbandonarono la camera (“Secessione dell’Aventino”). Forte dell’appoggio di Vittorio Emanuele II, il quale continuò a mostrare fiducia, Mussolini decise di affrontare un brusco cambiamento e con il discorso in Parlamento del 3 gennaio del 1925 aprì la fase dittatoriale del suo regime.
Il regime fascista
Iniziò così la seconda fase del fascismo, quella del regime dittatoriale, creato con totale eversione dello Statuto Albertino e della tradizione liberale.
Il nuovo regime fu definitivamente sanzionato nel 1926 con le “leggi fascistissime”, un complesso di norme che deliberavano lo scioglimento dei partiti di opposizione, abolirono l’elettività dei sindaci sostituendoli con podestà di nomina regia, assegnarono il potere di formulare leggi al capo del governo, istituirono il Tribunale speciale per la difesa dello Stato,…
Ulteriore importante evoluzione della struttura istituzionale del regime fu la creazione nel 1934 delle Corporazioni: organismi centrali di collegamento tra le associazioni di imprenditori e i sindacati dei lavoratori.
Politica economica
Tra il 1923 e il 1928 l’Italia conobbe un periodo di importante espansione economica, questa fase però si concluse tuttavia il 18 agosto del 1926 con il discorso di Mussolini a Pesaro in cui lanciò l’obbiettivo di “quota novanta”, cioè la rivalutazione della lira e la sua stabilizzazione rispetto alla sterlina inglese(una sterlina = 90 lire). Prese allora l’avvio una politica deflazionistica drastica con il consolidamento del debito pubblico. Complessivamente la manovra riuscì a stabilizzare la lira e senza deprimere lo sviluppo industriale, che fu anzi agevolato.
Inoltre fu attuata un’ampia politica dei lavori pubblici con la costruzione della rete stradale e ferroviaria e con la bonifica delle paludi Pontine.
Con la creazione delle corporazioni e con la successiva dichiarazione di guerra all’Etiopia, l’Italia si avviò verso l’autarchia, ossia l’obbiettivo della completa autonomia produttiva de paese.
Stato e Chiesa
Lo stato fascista seppe a modo suo guadagnarsi la simpatia del mondo cattolico concludendo con il Vaticano i Patti Lateranensi l’11 febbraio del 1929; un concordato che pose fine alla questione romana (trattato) e che portò al riconoscimento della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano, inserita inoltre come materia obbligatoria nelle scuole (concordato). L’ultima parte dei Patti (convenzione) consisteva nel risarcimento da parte dell’Italia alla Santa Sede per la perdita dello Stato della chiesa.

Politica imperiale
I timori e le paure suscitate dalla situazione tedesca furono un’occasione per porre di fronte il problema le grandi potenze europee: Francia, Italia e Inghilterra. Fu così che nel 1935 con la conferenza di Stresa venne approvata una dichiarazione contro il riarmo tedesco. Questa fu l’occasione per Mussolini di avanzare delle pretese verso l’Africa e per indirizzare l’imperialismo fascista verso la creazione di colonie di popolamento, seguendo la direttrice Mediterraneo-Africa Orientale.
L’Etiopia così divenne l’oggetto delle mire fasciste, sia perché era ancora uno stato indipendente, sia perché l’Etiopia si mostrò sempre per l’Italia un’aspirazione coloniale.
La guerra etiopica fu breve, ma molto sanguinosa e crudele; e proprio come accadde in Libia la conquista fu spesso ostacolata dalla presenza di frequenti ribellioni. Fu così che con la vittoria del lago Ascianghi e l’occupazione di Addis Abeba il re Vittorio Emanuele III poté divenire imperatore d’Etiopia nel 1936.
La donna nel periodo fascista
La dittatura mussoliniana costituì un episodio particolare e distinto del dominio patriarcale. Il patriarcato fascista teneva per fermo che uomini e donne fossero per natura diversi. Esso politicizzò pertanto tale differenza a vantaggio dei maschi e la sviluppò in un sistema particolarmente repressivo, completo e nuovo, inteso a definire i diritti delle donne come cittadine e a controllarne la sessualità, il lavoro salariato e la partecipazione sociale. La concezione antifemminista fu parte del credo fascista al pari del suo violento antiliberalismo, razzismo e militarismo.
Alla vigilia della Grande Guerra attorno alla questione demografica si andava affermando una nuova politica biologica ,basata su una concezione della vita come lotta mortale per l’esistenza del Darwinismo sociale, la quale si proponeva di elaborare programmi che proteggessero, accrescessero e perfezionassero gli esemplari della razza umana e relativi al benessere sociale secondo i fini della politica statale. Nella misura in cui la diversità etnica e l’ emancipazione della donna furono identificate come ostacoli, la politica biologica venne agevolmente permeata dall’ antifemminismo e dall’ antisemitismo. Nell’ Italia fascista il regime affrontò il duplice problema dell ‘emancipazione femminile e della politica demografica e la dittatura giustificò le proprie battaglie demografiche in chiave di salvezza nazionale. Tale concezione rivestì nei confronti delle donne conseguenze immediate. Lo Stato si proclamava l’ unico arbitro della salute pubblica e in linea di principio esse non avevano alcun potere decisionale riguardo alla procreazione dei figli. Si riteneva anzi che le cittadine di sesso femminile fossero antagoniste dello Stato: prendessero personalmente o meno la decisione di limitare le dimensioni della famiglia, la responsabilità di avere in tal modo interferito con gli interessi di quest’ ultimo veniva attribuita soltanto a loro. Il fascismo cercò di imporre le gravidanze proibendo l’ aborto, la vendita di contraccettivi e l’ educazione sessuale. Allo stesso tempo favorì gli uomini a spese delle donne all’ interno della struttura familiare, del mercato del lavoro del sistema politico e della società in generale.
Le origini e le caratteristiche della politica sessuale fascista.
Il fascismo italiano fu un movimento camaleontico che cambiava colore secondo i potenziali alleati e il mutevole terreno politico del primo dopoguerra.
Nel 1919 questo movimento appena nato aveva abbracciato le posizioni degli intellettuali futuristi, pronti a sbeffeggiare la morale convenzionale sostenendo il divorzio e la soppressione della famiglia borghese. Nello stesso anno parlò in favore del suffragio femminile, ma tali posizioni vennero presto abbandonate di fronte al movimento dei reduci e all’ avversione mostrata nel suo interno nei confronti del lavoro femminile dai gruppi sindacali, nonché al rigido antifemminismo cattolico-rurale degli agrari che nel 1920-21 appoggiarono gli assalti squadristici compiuti dalle camice nere contro le leghe e le cooperative socialiste. Dopo il Concordato con il Vaticano del 1929, istituzioni, personale e tradizioni della Chiesa cattolica si dedicarono al rafforzamento dell’ antifemminismo fascista .Il fatto che la dittatura mussoliniana potesse elaborare una politica vera e propria verso le donne in una società sviluppata in modo così poco uniforme fu certamente dovuto a questo eclettismo dottrinale. Lo stesso Mussolini si appropriò di un luogo comune quando raccomandò ai suoi seguaci di non “discutere se la donna sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa” - e il ragionamento poteva giustificare qualsiasi posizione nei confronti delle donne. Alla fine, tuttavia, furono le stesse azioni compiute dal regime fascista per consolidarsi al potere a determinare nella società italiana tra le due guerre lo schema globale di comportamento nei loro confronti. Per realizzare la sua politica demografica, il fascismo tentò di imporre un maggior controllo sul corpo femminile, e in particolar modo sulle funzioni riproduttive. Cercò allo stesso tempo di preservare le vecchie concezioni patriarcali della famiglia e dell’ autorità paterna. Pretese che le donne agissero da consumatrici avvedute, da amministratrici domestiche efficienti e da astute fruitrici del sistema di assistenza sociale - se volevano strappare a quest’ ultimo i servizi di cui era particolarmente avaro - e inoltre che lavorassero spesso nell’ economia nera per arrotondare le entrate familiari. Allo scopo di
limitare l’ impiego della manodopera femminile sottopagata in presenza di un’ elevata disoccupazione maschile, e mantenere tuttavia una riserva di lavoratori a basso prezzo per l’ industria , il regime escogitò un elaborato sistema di tutele e divieti teso a regolare il lavoro delle donne. Infine, per rendere queste ultime disponibili alle pretese sempre più complesse rivolte nei loro confronti e approfittando contemporaneamente del loro desiderio di identificarsi con la comunità nazionale e di servirla, il regime giocò la carta della modernità pur sempre denunciando i suoi risvolti femministi. Entro gli anni ’30 esso aveva sviluppato organizzazioni di massa che rispondevano al desiderio di impegno sociale da parte delle donne ma scoraggiavano la solidarietà femminile, i valori individualistici e il senso di autonomia promossi da gruppi di emancipazione dell’ era liberale.
L’attacco condotto dal regime contro la libertà di riproduzione è uno degli aspetti più importanti della politica sessuale fascista. Mussolini pose gli interventi in “difesa della razza “ al centro degli obbiettivi nazionali; lo scopo che il duce si proponeva era di raggiungere entro la metà del secolo una popolazione di 60 milioni in una nazione che ne contava all’ epoca 40. Per giustificare questa ambizione faceva riferimento a 2 argomenti dichiarati ed a uno sottointeso. Il primo argomento era di tipo mercantilistico, ponendo l’ accento sulla necessità di avere a disposizione semplici masse di persone come manodopera a basso prezzo. L’ altro era invece più tipico di una nazione impegnata ad espandersi imperialisticamente: il calo registrato nella crescita della popolazione e acceleratosi negli anni ’20, frustrava le ambizioni espansionistiche dei suoi capi. Il terzo motivo, mai esplicitamente dichiarato, era di ristabilire le differenze tra uomo e donna che erano state sconvolte durante la guerra. Nella sua ricerca di nascite, la dittatura oscillava tra riforme e repressione, tra l’ incoraggiamento dell’ iniziativa individuale e l’offerta di concreti incentivi statali. L’ ONMI ossia l’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, rappresenta meglio di qualsiasi altra iniziativa questo lato riformista: istituito con l’ entusiasmo di cattolici, di nazionalisti e di liberali, esso si occupava principalmente delle donne e dei fanciulli che non rientravano nelle normali strutture familiari. Altre riforme riguardano le esenzioni fiscali concesse ai padri con famiglie numerose a carico, i congedi e le previdenze statali in caso di maternità, prestiti concessi in caso di nascite e matrimoni, nonché gli assegni familiari assegnati ai lavoratori stipendiati o salariati. Le misure repressive compresero invece il fatto di trattare l’ aborto come un crimine contro lo Stato, la messa al bando del controllo delle nascite, la censura sull’ educazione sessuale e una speciale imposta sui celibi.
La politica demografica fascista sviluppò una doppia faccia. Da una parte fu energicamente normativa. Gli esperti consideravano le donne mal preparate alla maternità e soggette s generare prole ”anormale”. Per correggere questi vizi lo Stato fascista ambiva a modernizzare il parto e la cura dei figli. D’ altra parte la politica in difesa della razza fascista giustificava una politica di non intervento almeno riguardo ai cittadini più poveri. Le conseguenze di questa politica bifronte furono gravi. Le donne italiane, soprattutto quelle appartenenti alla classe operaia urbana, volevano avere meno figli praticando una pianificazione famigliare basata principalmente sull’ aborto. Dal momento che gli aborti erano tutti clandestini le donne correvano levati rischi di infezione invalidanti, di danni fisici permanenti di morte.
La politica del lavoro
Il fascismo teorizzava una rigida divisione del lavoro: gli uomini si occupavano della produzione e del sostentamento della famiglia; le donne della riproduzione e del governo della casa. Anche i dirigenti fascisti erano però sufficientemente realistici da riconoscere che le donne lavoravano; secondo i dati forniti dal censimento del 1936 il 27% dell’ intera forza lavoro era costituito da donne, e circa il 25% delle donne in età da lavoro possedeva un’ occupazione. La caratterizzazione sessuale favorì la femminilizzazione dei lavori impiegatizie in conseguenza della legge Sacchi del 1919 le donne vennero riconosciute idonee alla maggior parte degli impieghi statali, tranne alcune eccezioni fra cui le principali riguardavano le forze armate e la carriera giudiziaria e diplomatica. Alla fine, il fascismo sviluppò la legislazione per impedire alla donne di competere con gli uomini sul mercato del lavoro e per tutelare le madri lavoratrici. Ma lo scopo era anche di impedire che le donne considerassero il lavoro retribuito il trampolino di lancio per l’ emancipazione. Mentre il lavoro era indispensabile alla costruzione di una solida identità maschile, come dichiarò Mussolini, “il lavoro distrae dalla generazione, fomenta un’ indipendenza e conseguenti mode fisiche - morali contrarie al parto”. Alla metà degli anni ’30 esistevano svariate misure discriminatorie. La legge fascista sul lavoro, vietando gli scioperi e centralizzando le trattative sindacali, danneggiò gli interessi dei lavoratori in generale. Ma colpì in modo particolare le lavoratrici abbassando i salari maschili a livelli competitivi con quelli delle donne e dei ragazzi e favorendo infine i lavoratori più avvantaggiati, vale a dire quelli specializzati, quelli con maggiore anzianità e quelli impiegati in settori di importanza politica la maggior parte dei quali erano uomini. Una seconda forma di discriminazione era costituita dalle significative innovazioni introdotte dalla dittatura nel campo della legislazione protettiva. Nel 1938, le lavoratrici avevano obbligatoriamente diritto di un congedo di maternità della durata di due mesi coperti da sussidio di maternità pari alla paga media percepita nello stesso arco di tempo, a un congedo non retribuito lungo fino a sette mesi, e a due pause giornaliere per l’ allattamento finche il bambino non avesse compiuto un anno. Questi provvedimenti combaciavano con il più efficace tipo di misure discriminatorie vale a dire le leggi di esclusione vere e proprie. Il provvedimento più drastico fu il decreto legge del 5 settembre 1938che fissò un limite del 10% all’ impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati. La politica fascista nei confronti del lavoro femminile mostrò quindi una serie di paradossi. Il regime cercò di saziare la fame industriale di manodopera a basso prezzo, la quale avrebbe potuto essere soddisfatta tanto alle donne che agli uomini. Intendeva però assicurare il mercato del lavoro ai capi famiglia maschi, per non rischiare di intaccare l’ amor proprio che si trovavano disoccupati e per non incidere sulla sanità della razza e la crescita demografica. I legislatori fascisti affermavano di voler escludere dal lavoro le donne. Ma sapendo che ciò non sarebbe accaduto, si misero a proteggere le lavoratrici nell’ interesse della stirpe. Contando sui vecchi pregiudizi sessuali del mercato del lavoro la dittatura emanò norme protettive, diffuse atteggiamenti discriminatori e promulgò leggi di esclusione. Il primo effetto fu di riservare agli uomini i posti di alto prestigio e sempre meglio retribuiti all’ interno della burocrazia statale, frenando la tendenza verso la femminilizzazione dei lavori d’ ufficio almeno nelle amministrazioni centrali dello stato. Incapaci di difendere il proprio diritto al lavoro sulla base della parità sessuale, le lavoratrici ridimensionarono aspirazioni e rivendicazioni. Per giustificare il bisogno di lavorare addussero a pretesto la “necessità famigliare”, o il fatto che si trattava solo di un ripiego temporaneo, oppure che i posti da loro occupati erano troppo umili o troppo segnatamente femminili per essere adatti agli uomini. Le professioniste stesse, che una volta avevano fatto causa comune con le donne della classe operaia e adesso erano organizzate in istituzioni fasciste del tutto separate legittimarono questi atteggiamenti. Esse difendevano il diritto femminile di accedere alle carriere purché non contrastasse con i doveri familiari, e sostenevano la formazione professionale delle donne nei ruoli di assistente sociale, di infermiera e di insegnante, tutte occupazioni che oltre ad addirsi in modo particolare alle qualità femminili davano maggiore assicurazione di promuovere il progresso nazionale.
“L’Occupazione femminile, ove non è diretto impedimento distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”
(Mussolini in un articolo di giornale del 1930)
La mobilitazione femminile di massa cominciò solo all’ inizio degli anni ’30. Il primo appello per aumentare l’ iscrizione ai fasci femminili fu lanciato all’ inizio della depressione; le volontarie appartenenti alle classi superiori dovevano “andare verso il popolo” prestando la propria opera nelle cucine popolari e negli uffici dell’ assistenza sociale, per nutrire o assistere i poveri. Il successivo appello fu rivolto alle “donne d’Italia” al tempo della guerra d’ Etiopia, allo scopo di rendere ogni famigli resistente contro le sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni. Il terzo appello tentò di trasformare “l’ amore di patria” delle donne in una più penetrante e attiva “sensibilità nazionale”; ciò avrebbe dovuto prepararle alla guerra totale e far crollare ogni distinzione tra dovere privato e servizio pubblico, tra abnegazione personale, interessi della famiglia e sacrificio sociale. Alla fine il sistema fascista di organizzazione delle donne fu messo alle strette da un paradosso. Il compito delle donne era la maternità. Come “custodi del focolare” la loro vocazione primaria era quella di procreare, allevare i figli e amministrare le funzioni familiari nell’ interesse dello Stato. Ma per poter eseguire questi doveri occorreva che fossero coscienti delle aspettative della società. Se non fossero state tratte fuori dell’ambito familiare dai nuovi impegni, sarebbero state incapaci di congiungere gli interessi singoli a quelli della collettività. In linea di massima, durante il fascismo la via che conduceva fuori dal focolare domestico non portò all’ emancipazione ma a nuovi doveri nei confronti dello Stato, non all’ autonomia ma ad obbedire a nuovi padroni. Il fascismo decise fin da principio di trattare le donne come un’ entità unica legando il loro comune destino biologico di “madri della razza” alle ambizioni dello Stato nazionale. Le leggi, i servizi sociali e la propaganda affermavano la suprema importanza della maternità; tuttavia la povertà, il magro sistema di assistenza sociale e infine la guerra resero l’ essere madre un’ impresa assai ardua.
Il patriarcato fascista fu quindi il prodotto di un’ epoca in cui la politica demografica si identificava strettamente con la potenza nazionale. Attraverso il mercato del lavoro e le gerarchie d’ autorità all’ interno dell’ unità familiare, esso scaricò il maggior peso possibile sulle donne.
Cenni di costume
La mancanza di potere politico, o forse proprio per questo, conferiva alle donne un particolare ascendente nei confronti di un pubblico di lettrici in grande espansione nel periodo interbellico. Sotto la dittatura le donne scrittrici e critiche poterono sperimentare la loro fama attraverso i libri, riviste prettamente femminili e le colonne dell’”Almanacco della donna italiana”. Gli argomenti trattati esprimevano le esigenze del pubblico ed erano legate all’osservazione della vita quotidiana, parlavano d’amore, maternità, classe sociale e razza.
Alla fine degli anni Venti, i romanzi avevano per lo più come protagonisti donne innamorate abbandonate da uomini volgari, aspiranti artiste costrette a scegliere fra carriera e famiglia, eroine lacerate dal dilemma tra passione e dovere.
Nel 1930 il Gran Consiglio del Fascismo dichiarò che anche se la donna si fosse dimostrata abile nello sport non doveva distogliersi dal suo ruolo più importante: essere una buona madre. Ma nel 1936 l’italiana Ondina Valla conquistò la medaglia d’oro nel salto ad ostacoli durante le Olimpiadi di Berlino. L’anno dopo la partecipazione delle donne ad attività sportive registrò circa 5000 partecipanti.
Negli anni ’30 nasce a Roma Cinecittà, la città del cinema.
Nacque con lei una realtà virtuale a misura dei sogni,tutto sommato modesti, dell’italiano di Mussolini, in produzioni cinematografiche che aderivano al gusto del divertimento diffusosi nelle platee italiane.
Al fascismo si deve anche il lancio della moda italiana. Il regime ebbe sempre verso la moda un rapporto ambiguo: ritenendola un fenomeno frivolo, la incoraggiava soltanto per fini economici. La moda tuttavia fu un ingrediente fondamentale di quella tipologia piccolo-borghese che si riconobbe nel fascismo: all’eleganza non si voleva non si doveva rinunciare e la “signora” piccolo borghese misurava il proprio benessere contando il numero dei cappellini conservati nella cappelliera (che le distingueva dalle donne dei ceti inferiori che andavano a testa nuda oppure raccoglievano i capelli nel fazzoletto, come in campagna).
Nell’arte culinaria il fascismo non manca di appellarsi alla sobrietà e all’autarchia e promuove una rigorosa educazione alimentare. La donna del regime è consumatrice avveduta e amministratrice domestica efficiente.
Il menù tipo della settimana di un lavoratore, consisteva in un piatto di polenta con salsa di pomodoro, un uovo al tegame, minestrone di riso, carote in verde, con formaggini; un altro giorno pranzava con polenta e baccalà, mezzo chilo di arance e cenava con riso al latte e patate al burro. La domenica poteva concedersi un pasto a base di pasta al pomodoro, polpettone di manzo arrosto e a cena si permetteva un riso in brodo di dadi, insalata di patate e barbabietole e un etto di stracchino. La cucina del fascismo era poco raffinata e i menù non erano particolarmente ricercati (e spesso nemmeno molto abbondanti)
“Le donne sono molto più belle di prima” Mussolini - 1932
La famiglia modello
Il regime promosse nuove misure concernenti i rapporti fra i sessi e i rapporti generazionali: è così cambiata l’intera struttura dei rapporti familiari. La famiglia era incoraggiata ad essere prolifica (secondo una precisa politica di incremento demografico) e ad essere collegata organicamente allo stato: il nucleo familiare diviene così la cellula fondamentale dello stato fascista. Questo nuovo modello di famiglia presupponeva un marito lavoratore dipendente, il cui salario era integrato dagli aiuti dello stato accentratore e dal lavoro casalingo della moglie. Seguendo questa politica, lo stato fascista cercò di eliminare tutte quelle attività che potessero distrarre le donne dallo sposarsi presto e dall’avere tanti bambini, tra cui la scuola e l’istruzione. Quelle poche donne attive all’interno del movimento fascista costituivano quindi un motivo di imbarazzo, un problema da tenere sotto controllo, affinché non costituissero un modello di devianza dalla normalità della donna regina del focolare.
La donna modello
L’ideologia fascista inquadrava quindi le donne in una visione gerarchica del rapporto fra i sessi, dovuto all’enfatizzato culto della virilità (di cui Mussolini forniva il massimo modello), propria di una mentalità maschilista e militarista e volle occuparsi della costruzione di una “donna ideale” che era considerata inferiore rispetto all’uomo. Il regime diede comunque alle donne un ruolo ufficiale, nazionale, fondando per esse istituzioni e attribuendo loro mansioni familiari e demografiche. Così “Critica fascista” definiva, nel 1931, le caratteristiche della “donna ideale”: ”Custode della casa e degli affetti, incitatrice alle nobili opere, consolatrice del dolore e madre dei nostri figli”. Incubo di quegli anni era la figura della donna spendacciona, irresponsabile o magari sterile (e quindi non in grado di assecondare la politica di crescita demografica). Il regime cercò di formare il suo tipo di donna ideale non soltanto discriminando l’educazione e gli sbocchi professionali, ma anche occupandosi di trucco, cipria, belletti e infine scatenando una guerra ai pantaloni congiuntamente con la chiesa. Andavano quindi assolutamente eliminati da giornali e rotocalchi i disegni di figure femminili dimagrite e mascolinizzate, che rappresentavano il tipo di donna sterile della decadente civiltà occidentale. La stampa iniziò a presentare e glorificare robusti figurini di donne forse non eleganti ma certamente idonee a diventare madri prolifiche. Il tipo di donna italiana e fascista, moglie fedele e madre premurosa, fu essenziale nella “battaglia demografica” e in quella autarchica.
L’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia (OMNI)
L’istituzione guida per la modernizzazione della professione materna fu l’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia fondata il 10 dicembre 1925. Il servizio che operava con fondi statali e locali, contava anche su donazioni private e sul volontariato delle assistenti sociali e delle donne dei gruppi
femminili fascisti. L’OMNI si occupava delle donne e dei bambini che non avevano una normale struttura familiare. Assisteva fino al quinto anno di vita i piccoli a cui i genitori non erano in grado di prestare le cure necessarie e si occupava dei giovani abbandonati fino ai 18 anni. Anche questo intervento dello Stato, a favore dei bambini illegittimi, aveva lo scopo di promuovere la crescita della popolazione, la salute pubblica, diffondere l’ideale della famiglia e della vita coniugale in cui il marito occupava il ruolo guida.
“La donna fascista eviterà, quando non le sia richiesto da una assoluta necessità, di assumere atteggiamenti maschili e di invadere il campo dell’azione maschile, perchè sa che la donna può molto giovare all’ideale per cui lavora se cerca di sviluppare in bene le sue attitudini femminili, anzichè cimentarsi nel campo dell’azione maschile, dove riuscirebbe sempre imperfetta e non riscuoterebbe la fiducia necessaria allo svolgimento della sua propaganda”.
Programma-statuto del Gruppo femminile romano dei Fasci femminili – 4 dic.1921

Quattro ricette della donna fascista
Fondenti “balilla” al cioccolato
Impastare 100 grammi di zucchero a velo con uno o due bianchi d’uovo sbattuti, formare con le mani tante palline dure. Sciogliere in un recipiente a parte 100 grammi di cioccolato, e metterlo a bagnomaria mescolandolo sempre. Quando è ben sciolto immergerci dentro ad una ad una tutte le palline assicurandosi che si ricoprano di cioccolato in tutte le parti. Toglierle tutte con una forchetta e posarle in un piatto unto di burro fino a quando non si raffreddano.
Budino economico
Inzuppare del pane nel latte, strizzare poi il pane e con il mestolo mescolarlo fino a farlo diventare una pasta omogenea. Aggiungere zucchero e due rossi d’uovo un po’ di raspatura di limone, un po’ d’uva passa oppure mandorle pestate fini o in mancanza di queste vanno pure bene le noccioline americane. Mettere il tutto in una forma unta di burro e cospargere di pane grattato. Far cuocere in forno per 20 o 30 minuti. Queste sono dosi per quattro persone.
Frittata futurista
Sbattere due uova (prima gli albumi a neve, poi i due tuorli), aggiungere due cucchiai di farina bianca e due di gialla, uno di formaggio grattugiato, sei di latte, un pizzico di sale e bicarbonato. Fare friggere il composto in tre o quattro volte, in modo che si abbiano più frittate, poi sovrapporle in un piatto mettendo tra l’una e l’altra della cipolla soffritta.. Ungere sale e pepe a fine cottura. Cospargere di formaggio e servire subito.
Minestra italiana
Mettere a rosolare in un tegame mezza dozzina di cipolle tagliate a fette, ammorbidirle con un litro di acqua calda, salare e pepare il tutto. Nel frattempo mettere a cuocere in un’altra pentola un kg di pomodoro con un gambo di sedano, del sale, del pepe, più due o tre cucchiai di acqua Coprite la pentola, lasciate cuocere un’ora, poi colate il passato utilizzando uno straccio e mettete la salsa ottenuta da parte. Essendosi nel frattempo cotta la vostra minestra di cipolle, passatela a sua volta per lo straccio fine, comprimendo le cipolle, aggiungetevi il passata di pomodoro, assaggiatele e completate il condimento. Tenete al caldo su fuoco lento. Prendete poi 8 fette di pane di miglio che farete abbrustolire, disponetele nella zuppiere, intercalando pane abbrustolito e parmigiano grattugiato. Mettere poi sopra delle fette di formaggio groviera tagliato a fette sottili, aggiungete 50 gr. di burro e, sul tutto, versate la minestra.
“Una donna”, sibilla Aleramo
Introduzione all’autrice
Del romanzo "Una donna" (1906), il primo, complesso frutto della scrittura di Sibilla Aleramo, è stata fatta una pluralità di letture, con un punto di partenza sempre autobiografico. Lo sono i personaggi: il padre, la madre, il marito, il figlio, il profeta sono state persone che hanno fatto parte della vita della scrittrice, ma lo è anche il tempo: la fine del secolo e suoi bilanci non esaltanti; l’ansia per le novità che si annunciavano: i primi tentativi d’organizzazione, anche in campo assistenziale e formativo, mentre gli abbozzi d’industrializzazione acuivano incomprensioni e contrasti fra regioni. Un’inquietudine epocale dunque, su cui si erano innestate per Sibilla traumatiche esperienze. Il passaggio dal mondo del lavoro, al quale era stata avviata dal padre, ad un matrimonio riparatore dopo la violenza subita, e la successiva chiusura in una condizione odiata l’aveva resa partecipe di una condizione femminile che vedeva la donna condannata alla tutela di tradizioni e in cui era richiesto l’annientamento di sé. Da queste vicende individuali ed epocali era nata l’esigenza della scrittrice a cercare un riscatto attraverso la scrittura, prime dell’impegno del giornalismo attivo sul fronte del femminismo poi, dopo aver interrotto il legame con il coniuge e con il figlio, per mezzo del romanzo. E’ doveroso, però, precisare che "Una donna" non è soltanto un’autobiografia, un racconto delle proprie vicende, ma principalmente un romanzo, ossia un meccanismo narrativo in cui l’esperienza vissuta è diventata struttura e personaggi, un meccanismo originale per fare della propria quotidianità è, ormai segnata dalla passione per l’avventura intellettuale, un oggetto d’arte attraverso la scrittura in modo da additare la propria esperienza quale parametro per tutte le altre donne. Uno stame autobiografico e autodefinitorio percorre non solo il primo romanzo ma tutte le prove della scrittrice, fino alle più tarde, nel flusso dinamico di un vissuto che diventa narrazione, un vissuto ormai irrinunciabile avviata ad essere testimone della propria vicenda di "donna e poeta". Dal "Passaggio" al "Frustino" ad "Andando e stando" fino alle prove più tarde di "Un amore insolito", diario di una manciata d’anni segnata dall’esperienza della guerra e dall’ultimo eccezionale amore per un giovane di vent’anni, tutta la scrittura si nutre del valore di testimonianza e di memoriale che a lei Sibilla Aleramo ha sempre, fedelmente affidato. Se in "Una donna" era prevalsa la rivendicazione sociale di un ruolo femminile paritario a quello maschile, al "Passaggio" (la seconda prova narrativa) presiede l’interiorizzazione dell’esperienza alla base del primo romanzo dando vita ad una prosa lirica, forse eccessivamente enfatica mentre dopo "Gioie d’occasione" (raccolta di scritti vari) e "Andando e stando" (elaborazione d’incontri significativi della propria esperienza d’intellettuale) realizzava alla terza prova narrativa importante: "Amo dunque sono". Questo romanzo, che ha forma d’epistolario, testimonia la congenialità della scrittrice con un genere letterario attraverso il quale può attingere al mito di Sibilla, generatrice d’energie poetiche in coloro che ha incontrato. In questa prova narrativa, per altro poco riuscita, che mescola impulso diaristico a finzione epistolare, l’Aleramo sperimenta il linguaggio che sarà delle ultime opere significative: i "Diari".Con il "Diario di una donna", "Inediti" 1945-1960 e con "Un amore insolito", "Diario" 1940-1944, l’Aleramo trova il linguaggio per raccontare la vicenda del proprio io, sempre inesauribilmente alla ricerca di un tu, di un altro, disposto ad ascoltare la storia di un essere solitario alla ricerca della libertà d’essere se stessa, in una coerenza che si tinge di straordinaria fedeltà, se non agli uomini che ha incontrato, certamente alla propria vocazione di scrittrice.
Biografia
Rina Faccio (riproduzione qui a fianco), conosciuta con il nome di Sibilla Aleramo, nasce ad Alessandria il 14 Agosto del 1876. A causa dell’attività lavorativa del padre cambiò spesso città fino a stabilirsi a Porto Civitanova Marche dove cominciò a lavorare presso uno stabilimento industriale. All'età di quindici anni è sedotta da un collega e per riparare al danno nel 1893 si sposano. Ciò segnò in modo indelebile la sua esistenza, proiettata magistralmente nel romanzo autobiografico Una donna, nel quale critica il rapporto coniugale definito oppressivo e frustrante. Nell’apice drammatico della sua esistenza finì con il tentare il suicidio e quando si riprese cominciò a concretizzare le sue aspirazioni umanitarie e socialistiche, iniziando anche a scrivere racconti e articoli giornalistici. Erano gli anni 1898-1910: Sibilla scrisse che il femminismo si concentrava ora nelle letteratura e nella spiritualità, nella rivendicazione della diversità femminile; credeva infatti in una spiritualità femminile e cioè nel fatto che tra uomo e donna c'è una spiritualità diversa. Le donne sono intuitive e hanno un contatto più rapido con l'universo producendo così una poesia sconosciuta al mondo maschile. Nel 1899 si trasferisce a Milano dove dirige il giornale L ’Italia femminile.
Nel 1902 la sua relazione amorosa con il poeta Damiani la spinse ad abbandonare la famiglia e a trasferirsi a Roma. Qui legò una nuova relazione con G. Cena, direttore di una rivista e animatore d’iniziative democratiche e unitarie. A Roma entrò in contatto con l’ambiente intellettuale e artistico .
Nel 1906 pubblicò Una donna che rappresentava un concentrato di tutti i modi positivi e negativi che lei nel corso della sua carriera modulerà in forme diverse; dall’autobiografismo pieno d’autocontemplazione. Intensificò la sua attività femminista e unitaria soprattutto promovendo l'istruzione del mezzogiorno (Agropontino, Maccarese ancora paludosi e malsani). Tra il 1913 e il 1914 si trovò a Parigi, dove entrò in contatto personalità di spicco della cultura internazionale, come Apollinaire e Verhaeren. Durante la grande guerra incontrò Campana, con cui ebbe una relazione tempestosissima.
Conobbe Emilio Cecchi, con il quale mantenne una grande amicizia, e poi Marinetti e D'Annunzio col quale instaurò una corrispondenza. Dopo la relazione con Cena ne ebbe altre più o meno lunghe per lo più con intellettuali e artisti fino a quando non incontrò il giovane Matacotta al quale restò legata dal 1936 al 1946. Narrò tutti i suoi amori nelle sue opere evidenziando il fatto che la vita e la letteratura fossero legate in modo inscindibile. Nel 1919 esce Il passaggio, una nuova tessera romanzesca aggiunta alla costruzione mitologizzante del proprio personaggio. Del 1921 è la prima raccolta di liriche, Momenti. Fra il ‘20 e il ‘23 è a Napoli, dove scrive un poema drammatico dedicato a D’Annunzio, Enmione. Aderisce al manifesto antifascista degli intellettuali promosso da Croce. Nel 1927 esce il romanzo epistolare Amo dunque sono. Del 1929 è la raccolta Poesie. Un anno pubblica un volume di prose varie, Gioie d’occasione. Parallelamente escono tra il 1932 e il 1938 un romanzo, Il frustino, e un’altra raccolta di poesie, Si alla terra, così come una nuova serie di prose Orsa minore che ha per sottotitolo la frase indicativa di una non rimossa vena autobiografica, Note di taccuino.
Nel dopoguerra Sibilla si iscrive al PCI e abbandona il filone letterario dedicato ad un autobiografismo leggendario e affabulatorio, per dedicarsi ad un impegno politico e sociale sempre più intenso, un impegno che la porterà a fare lunghi viaggi nei paesi dell’Est e a collaborare con Case del Popolo e circoli ricreativi. Iniziano in questo periodo le collaborazioni all’Unità ed a Noi donne. Nel 1947 pubblica tutte le sue poesie nel volume Selva d’amore, cui fa seguire nel 1956 la nuova raccolta Luci della mia sera, in cui grandeggia l’enfasi della nuova militanza, in una dimensione tutta corale. In quegli ultimi anni, in cui cerca di dimenticarsi e mimetizzarsi nella folla dei destini minimi, annota nel suo diario un pensiero quasi testamentario con sconsolata ironia: "Ho fatto della mia vita, come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia". Dopo una lunga malattia, morì a Roma il 13 gennaio 1960.
Luoghi e Tempi
Il racconto si svolge principalmente in tre città: Milano, un paesino del Mezzogiorno e Roma.
Milano è il simbolo della libertà e dell’ingenuità delle bambine che ancora non comprendono la complessità dell’universo femminile e l’ingrato futuro cui sono destinate. E’ proprio ciò che accade alla protagonista, che qui passa la sua fanciullezza spensierata, libera e nello stesso tempo felice per questa sensazione. Più avanti si ricorderà di questo periodo come di un sogno bellissimo, che sfortunatamente la dura realtà tenderà a far svanire. Successivamente, per seguire gli avvicendamenti lavorativi del padre, si trasferisce in un anonimo paesino del Mezzogiorno.
Questo è, al contrario della rinomata provincia del nord, simbolo della consapevolezza delle donne del loro ruolo nella società che considerano “un carcere strano”, in cui l’unica nobiltà è la rassegnazione. Simbolo di questa condizione è la protagonista che, sposatasi giovane è picchiata e rinchiusa dentro casa dal marito per un fatto di gelosia; quest’ultimo, come se ciò non bastasse, non le concede neanche un minimo di considerazione e di rispetto, neanche dopo la nascita del loro figlio. Tutto questo la porta a preferire la morte ad una vita di miserie e d’ingiuste rassegnazioni.
Si trasferisce, infine nella capitale: Roma. La città eterna rispecchia la solitudine delle donne e la loro frustrazione nei confronti di una vita ingiusta: come conseguenza di tutto ciò si afferma il femminismo, movimento sorto per rivendicare la parità giuridica, politica e sociale delle donne rispetto agli uomini.
Quindi i luoghi del romanzo sono significativi perché, a causa delle varie esperienze della donna, acquistano accezioni negative o positive. La città è dunque il simbolo di libertà ed emancipazione, e ha perciò caratteristiche positive per l’autrice; il piccolo paesino meridionale, essendo invece il simbolo dell’ottusità e della chiusura mentale, è una sorta d’ambiente antagonista, e d’opposizione al desiderio d’indipendenza dell’autrice. Ape quanto riguarda, invece, le descrizioni di questi luoghi, ciò che prevale di più nella città è la presenza di persone acculturate, impegnate nel proprio lavoro e sempre indaffarate, mentre gli abitanti del paesino meridionale, svolgono lavori molto semplici e manuali e , per propria tradizione, tendono spesso a basarsi molto sui pregiudizi e sulle calunnie. La narrazione di tutta la vicenda si incentra dunque sui continui spostamenti della donna, che si distribuiscono per tutto il lungo tempo narrativo. In generale, la storia raccontata dalla protagonista stessa non è altro che un lungo flash back nel quale il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza occupano uno spazio minore rispetto agli avvenimenti più recenti accaduti. Per questo l’autrice, parlando della sua giovinezza si serve dell’imperfetto, trattandosi di un ricordo bello ed idealizzato, scrivendo il racconto attraverso un linguaggio articolato e fluido per indicare la spensieratezza di quel periodo.
Il tempo storico del romanzo è contemporaneo al momento in cui l’autrice scrive e corrisponde quindi ai primi anni del ‘900, periodo caratterizzato dalle prime insurrezioni femministe per la parità tra i sessi.
Commento
Che cosa rimane all’umanità intera dopo la sua morte? Qual’è stata la considerazione che i critici (ed il lettori) ebbero di questa grande scrittrice? Certamente l’aspetto più importante della sua vita e che, più di tutti, solca i tempi nella mitizzazione della sua figura è senz’alto la sua adesione al femminismo. L’Aleramo stessa, in una prosa del 1911 ("Apologia dello spirito femminista", compresa nel volume "Andando e stando"), scriveva: " Il femminismo, movimento sociale, È stato una breve avventura, eroica all’inizio, grottesca sul finire, un’avventura da adolescenti, inevitabile ed ormai superata". L’istanza femminista si era ora riversata sul lato letterario e spirituale, sulla rivendicazione della "diversità” femminile e della necessità della "libera estrinsecazione dell’energia femminile". Negli anni del suo apprendistato, l’Aleramo era stata attiva nel movimento per l’emancipazione della donna, collaborando a riviste e giornali, e partecipando alle campagne più significative, come quelle per il voto alle donne e per la pace, contro l’alcolismo, la prostituzione, la tratta delle bianche. Nell’accogliere la direzione del giornale "L’Italia femminile", un settimanale fondato dalla socialista Emilia Mariani, imprime un carattere più politico e d’attualità. E’ in questo periodo che entra in contatto con molte attiviste di rilievo del movimento femminista, tra le quali Alessandrina Ravizza, ricordata in seguito in "Una donna". Nel romanzo, stesso è evidente il fatto che siamo ancora in una cultura intrica d’ideologie socialiste, umanitarie e soprattutto femministe. Sibilla Aleramo, inoltre, intensificò il suo impegno nel movimento femminista e nelle iniziative umanitarie, dalla creazione delle scuole nell’Agro romano, alla partecipazione al Comitato per promuovere l’istruzione nel Mezzogiorno. Fu presente al I congresso femminile nazionale indetto dal Consiglio nazionale delle donne italiane. Pubblicò diversi articoli sulla "Tribuna", articoli concernenti il movimento femminista. L’autrice di "Una donna" è la femminista militante, la progressista battagliera, la narratrice essenziale e oggettiva. La sua fama ha travalicato i decenni ed è giunta sino a noi con la fama dei grandi narratori antichi. Da poco le è stato dedicato anche un film diretto da Michele Placido intitolato “Un viaggio chiamato amore” in memoria della relazione dell’autrice con il giovane poeta Dino Campana. La stessa famosa attrice, interprete dell’Aleramo, Laura Morante ha commentato a proposito della figura che si accingeva ad impersonare: “Confesso che mi ispira sentimenti contrastanti. In alcuni momenti è toccanti, in altri insopportabile. E’ una donna di pulsioni, ma nel raccontarle è sincera, anche a costo di mostrarsi irritante. Si autocelebra senza pudore, con candore, però racconta le umiliazioni subite. E’ una persona forse non profonda ma molto generosa”.
“Sibilla Aleramo”, continua l’attrice, “è stata una delle prime scrittici femministe, ma ha uno strano inconscio bovarista: s’innamora sempre d’artisti a quali è disposta a concedere tutto a patto di essere consacrata. Per molti anni, pur essendo una grafomane, non scrive un libro, ma vive amore assoluti.”
Una donna ricca interiormente più d’ogni altro e proprio per la sua ricchezza sentimentale Sibilla Aleramo è uno dei personaggi più affascinanti che hanno attraversato la storia del ‘900.
Madame Bovary (1857)
Le réalisme
Flaubert s’est inspiré d’un fait véridique pour la trame de son roman. Un médicin, élève de son père, avait épousé une jeune femme très romanesque. Celle-ci s’éprit d’un don Juan local, puis d’un clerc de notaire, et mourut à vingt-sept ans s’étant probablement suicidée.
Non seulement, Flaubert est fidèle à l’histoire, mais son réalisme va plus loin. La minutie des milieux (paysannerie, petite bourgeoisie, et aristocratie normandes) laisse une impression de vérité profonde, et peut-être aussi de malaise car le regard de Flaubert est ironique, décapant et sans aucune complaisance pour la laideur, la mesquinerie, la bêtise et même la faiblesse (comme celle du pauvre Charles Bovary).
Le bovarysme
Le personnage d’Emma Bovary a dépassé les limites du monde romanesque en donnant son nom à un état de crise psychologique et morale: le bovarysme. Le bovarysme correspond à un sentiment de profonde inadaptation sociale compensé par l’évasion dans le rêve et dans l’imagination. Emma déteste la vie banale, étriquée et monotone qu’elle mène aux côtés d’un mari sans aucune envergure, dans une province où il ne se passe rien. Ses ambitions sociales sont déçues, d’où un sentiment de frustration qui va bien au delà de l’ennui. Elle trouve alors refuge dans ses rêves « romanesque », fruits des ses lectures et s’invente une autre réalité en « cristallisant » sur des hommes qui ne sont que médiocres. Eternelle insatisfaite, elle finira par se suicider.
Trame
Emma Bovary est la fille d’un fermier aisé normand.
Très romanesque, elle pense que le mariage lui ouvrira les porte du bonheur. Elle épouse un médecin médiocre, Charles Bovary. Mais ses espoirs son vite déçus : son mari n’est pas intéressant, sa vie au village de Tostes est monotone à pleurer. Or Emma sait qu’il existe un autre monde fait de fastes et de passions; elle l’a entrevu au cours d’un bal où elle et son mari ont été invités.
Voyant sa femme de plus en plus affligée, Charles Bovary accepte d’ouvrir un cabinet dans le bourg voisin.
Ma l’ennui d’Emma reparaît vite, malgré la naissance d’une petite fille. La jeune femme s’éprend alors d’un notaire, Léon Dupuis, qui se n’ose pas se déclarer et part travailler à Rouen. Puis elle rencontre Rodolphe, un don Juan local, et vit avec lui quelques mois de passion. Mais Rodolphe prend peur devant l’exaltation de la jeune femme et l’abandonne. Emma très choquée se lance dans une folle dan une folle vie de dépenses inconsidérées; elle renoue avec Léon mais elle est toujours aussi insatisfaite, et elle est en plus criblée de dettes. Elle dérobe alors de l’arsenic chez le pharmacien et se tue, laissant son mari de chagrin.
Mario Sironi
Nasce a Sassari, secondo di sei figli, il 12 maggio del 1885. Il padre Enrico lavora, in quel periodo, per il Genio Civile come ingegnere. La madre Giulia Villa è la figlia di un curioso personaggio fiorentino, il Prof. Ignazio, noto per i suoi molteplici interessi che spaziano dall'astronomia, all'architettura, alla scultura. Un anno dopo la nascita di Mario, la famiglia Sironi si trasferisce a Roma dove il padre Enrico viene trasferito e qui Mario compie gli studi elementari, medi e superiori, appalesando una forte inclinazione per il disegno. I1 1898 è l'anno del primo grande dolore di Mario, infatti, a causa di una malattia polmonare, muore il padre Enrico, proprio quando la moglie Giulia è in attesa del sesto figlio. È un brutto momento che Giulia riesce a superare anche grazie al sostegno economico del suo fratellastro Libero. Intanto Mario frequenta l'Istituto tecnico di San Pietro in Vincoli, uscendone diplomato nel 1902. Nello stesso anno si iscrive alla facoltà di Ingegneria di Roma dove inizia a frequentare i corsi. L'anno seguente, però, si ammala di nervi (psiconevrosi) ed è costretto ad un lungo periodo d'inattività dal quale il giovane esce con la ferma determinazione di dedicare tutte le sue energie alla pittura. Abbandona quindi l'Università ed inizia a seguire i corsi della Scuola Libera del Nudo presso l'Accademia di Via Ripetta. Lì ha modo di conoscere sia Melli che Balla e quest'ultimo lo introduce presso i suoi amici Severini e Boccioni. Sironi diviene in breve molto amico di questi pittori che lo incitano e lo convincono ad aprire un suo studio nel centro di Roma. Intanto altri amici e parenti lo aiutano a sbarcare il lunario procurandogli piccole commesse come quella d'illustratore presso "La lettura", che Sironi, come egli stesso testimonia in una lettera, non ama particolarmente, anche se deve fare di necessità verità. In questo primo periodo produttivo, Sironi si dedica allo studio del divisionismo forse influenzato da Balla e Boccini; tuttavia mantiene solidi legami con altra pittura più squisitamente realista.
Del 1905 è il ritratto di "La madre che cuce", dove è evidente la commistione di queste tendenze pittoriche. Ed è proprio in casa della madre che Siconi ha modo di radunare, grazie anche alle doti pianistiche di sua sorella Cristina, molti degli artisti ed intellettuali conosciuti fra l'Accademia e la "terza saletta" del Caffè Argano. A cavallo fra il 1905 ed il 1906 è da datarsi il primo soggiorno di Sironi a Milano, presumibilmente ospite del cugino Torquato che l'aiuta anche in solido passandogli una specie di borsa di studio. Sironi, però, continua a non stare bene e ciò è testimoniato da un appunto di Boccioni. Con questi Sironi vive un rapporto conflittuale, senz'altro dovuto alle forti personalità di entrambi. Sembra comunque che Sironi abbia raggiunto l'amico a Venezia in un soggiorno del 1907. Nel 1908 Sironi è a Parigi (anche qui dubbia la presenza di Boccioni) e in Germania, precisamente a Erfurt, ospite dello scultore Tannenbaum che aveva precedentemente conosciuto al Caffè Aragno di Roma. Un secondo soggiorno a Erfurt è ancora del 1908 e Sironi invia sue notizie alla madre rassicurandola circa il suo stato di salute. Un terzo ed ultimo viaggio in Germania nel 1911, sembra più una fuga da chi, compresa la madre, lo ritiene maturo per il sanatorio. La ricerca pittorica di Sironi in questi anni si accosta sempre a quella di Balla e Boccioni, al loro divisionismo. Benché egli tenda ad accentuare una visione, rispetto a loro, maggiormente legata ai volumi piuttosto che a geometrie piane. Dal 1912 cominciano le tematiche futuriste. Il 1914 è l'anno dell'"interventismo", ma anche l'anno in cui, nella Galleria "Permanente Futurista" di Sprovieri, a Roma, si tengono le prime mostre di questo movimento. Sironi è presente a quella denominata "Esposizione libera futurista" (aprile- maggio), comprendente anche pittori non direttamente coinvolti, con una serie di sedici dipinti. Conosce, sempre nel '14, la sua futura moglie, Matilde Fabbrini. La fine del '14 e l'inizio del '15 segnano un importante cambiamento nella vita di Sironi, giacché inizia a prestare la sua collaborazione ai due periodici di "La Tribuna": "Noi e il mondo" e "La Tribuna illustrata". Contemporaneamente si trasferisce a Milano all'inizio dell'anno e prende a collaborare anche con la rivista "Gli Avvenimenti". Il fidanzamento con la Fabbrini è ormai ufficiale. Alla fine di marzo Marinetti lo inserisce fra i dirigenti del Futurismo, felice di aver potuto rimpiazzare l'uscita di Soffici con "un ingegno almeno cento volte superiore". Tutti i futuristi fanno domanda di arruolamento nel Battaglione lombardo come volontari ciclisti e automobilisti. Ai primi di giugno partono per Gallarate e poi per Peschiera. Esistono varie testimonianze scritte dei loro spostamenti fino a Malcesine: ma alla fine dell'anno, dopo una vittoriosa operazione militare, il Battaglione viene smobilitato e Sironi, che ne aveva fatto domanda, parte per il Corso Allievi Ufficiali del Genio che si tiene a Torino; ne uscirà sottotenente a metà del '17. Viene destinato a Pieve di Cadore. In questa zona Sironi rimane dislocato con l'8° Corpo d'Armata, sino alla fine della guerra ed il 1° gennaio del 1919 egli risulta essere a Vittorio Veneto.
Nel 1919 Sironi converge silenziosamente verso temi metafisici, trattati, tuttavia, nella solita personalissima maniera, con le figure più che mai scandite nei vigorosi chiaroscuri. Tanto da accostarlo più che ad un De Chirico, con la sua pittura nitida, pulita, a certa pittura nordica, tedesca, vicino a Grotz o Permeke. Anche i "paesaggi urbani" restano temi di impostazione metafisica da un lato, e assolutamente brutali, nell’angoscioso realismo, dall’altro. In essi tutto è chiaro, poiché nessun elemento è casuale e nella presa dell’immagine è individuabile anche l’ora: l’alba d’inverno. Ancora nel luglio del 1919 sposa a Roma Matilde Fabbrini, da cui avrà due figlie, Aglae e Rossana. Nell’ottobre espone alla "Casa d’Arte Bragaglia" in Via Condotti, la sua prima mostra personale, recensita, non senza polemiche, da Mario Broglio su "Valori Plastici". Riparte quindi per Milano dove lo attendono altri due impegni: il primo è la partecipazione alla "Grande mostra futurista" a Palazzo Cova, il secondo la collaborazione al mensile del "Popolo d'Italia", "Ardita". Continua, inoltre, le collaborazioni come illustratore con le altre testate già citate. Nel '20 Sironi è un affezionato frequentatore dei "mercoledì" culturali in casa di Margherita Sarfatti a Milano, critico d’arte e mecenate degli artisti milanesi. Alla fine dell’anno partecipa, in veste futurista, alla Mostra italiana dell’Esposizione d’Arte Moderna di Ginevra, venendo notato come una delle figure italiane più significative dell’intera rassegna. Frattanto le convinzioni politiche di Sironi, lo spingono verso Mussolini e i suoi. Quando nel '22 Mussolini sale al potere, Sironi diviene illustratore e grafico del quotidiano organo del Partito Fascista: "Il Popolo d’Italia". Ancora nel 1922 una svolta: Sironi, assieme ad altri sei pittori (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi) e sotto gli auspici della Sarfatti, fonda, nella "Galleria Pesaro" di Milano, il movimento "Novecento", o più propriamente, "Sette pittori del Novecento". La Sarfatti, ideologa, programmatrice e, soprattutto, portatrice della spinta politica proveniente direttamente da Mussolini, pone subito il gruppo in antagonismo con "Valori Plastici", ideato e promosso nel '18, unitamente all’omonima rivista, da Mario Broglio a Roma. Dunque un’ennesima opposizione Milano - Roma in campo artistico? Parrebbe di si. C’è tuttavia da dire, come scrive Fabio Benzi, che "il movimento milanese - almeno agli esordi - si pone in stretta dipendenza - sia pure in negativo per quanto riguarda le 'scelte' - dalle ideologie di Valori Plastici, (...) in un rapporto oppositivo ed antagonistico che, nella polemica reazione alle ideologie romane, mostra un debito significativo". Sironi aderisce a "Novecento" portandovi tutto il peso della sua personalità artistica, quindi in modo non gregaristico, ma, al contrario, ponendo in campo tutte le sue idee e sperimentazioni precedenti: un protagonista, insomma. Egli si prefigge di orientare la sua arte verso una rivisitazione, meditata ed originale, del classicismo greco e romano, con un occhio (come nel "La modella dello scultore", A.1922) alle ombre e ai chiaroscuri di Caravaggio.
La prima uscita del gruppo dei "Sette pittori del Novecento" è dell’anno seguente (marzo 1923), sempre alla "Galleria Pesaro" e con la straordinaria presenza di Benito Mussolini alla serata inaugurale. La seconda importante tappa del gruppo è l'allestimento di una mostra alla XIV Biennale di Venezia. A tale importante manifestazione il gruppo si presenta con solo sei artisti, visto che Oppi era riuscito, attraverso suoi canali,
ad ottenere una sala d’esposizione personale. Il gruppo dei "sei" perde anche altri due aderenti, Dudreville e Malerba, in seguito anche alle numerose accuse di "esterofilismo" e altre dure critiche apparse su vari giornali.
All’indomani della mostra, la Sarfatti giunge alla determinazione di dare al gruppo valenze e prerogative nazionali e a questo scopo decide di organizzare, per il 1926, la 1a grande mostra del "Novecento italiano", da allestirsi a Milano. Le adesioni piovono alla Sarfatti da tutta Italia e il 14 febbraio 1926 appunto, la mostra viene inaugurata al Palazzo della Permanente di Milano, con 110 artisti rappresentati e con la "solita" presenza di Mussolini alla vernice.
Era intanto entrato a far parte del Comitato artistico direttivo della Biennale monzese che nel '27 tiene la sua terza edizione. In quella sede espone caricature ed illustrazioni realizzate per "Il Popolo d’Italia", incontrando grande fortuna critica. Nell’ottobre dello stesso anno partecipa ad un’altra mostra di artisti italiani (Campigli, De Chirico, Tozzi, De Pisis, ecc.) allo Stedelijk Museum di Amsterdam e alla fine dell’anno realizza il manifesto del "Crepuscolo degli dei" di Wagner, rappresentato alla Scala di Milano. Nel 1928 partecipa con nove opere alla XVI Biennale di Venezia e ad una mostra di "Sette pittori moderni" tenuta nelle sale della Galleria Milano. Inizia inoltre una collaborazione con l’architetto Muzio con il quale cura la sistemazione del Padiglione della Stampa italiana alla mostra "Pressa" di Colonia e del Padiglione del "Popolo d’Italia" alla Fiera di Milano.
Ancora firmato dai due è l’allestimento, nel maggio del '29, del Padiglione della Stampa italiana all’Esposizione internazionale di Barcellona. Fra marzo e aprile (1929) Sironi aveva intanto partecipato ad altre mostre. Innanzitutto alla rassegna di novecentisti italiani organizzata dalla Società des Beaux-Arts di Nizza (mostra ripetuta in giugno anche a Ginevra presso la Galleria Moos), poi alla mostra presso la "Galleria Milano" (a Milano) dove esponevano gli stessi artisti dell’anno prima ed infine, alla II Mostra del Novecento italiano, sempre tenuta alla Permanente di Milano. Anche in questa seconda edizione non mancano le polemiche di artisti e critici. Il tentativo di "aprire" ad altre tendenze artistiche, operato dalla Sarfatti, non raccoglie i frutti sperati (ad esempio il rifiuto di partecipare dei futuristi). I1 1930 si apre con la partecipazione di Sironi, sempre in ambito collettivo, alle mostre della Kunsthalle di Basilea e Berna. In questo modo la Sarfatti e il Comitato direttivo di "Novecento", cercavano di dare respiro e legittimazione internazionale al Movimento, ma la polemica interna, come detto, non sembrava sopirsi, rinfocolata com’era soprattutto dal movimento di "Strapaese" di Soffici e da "Valori Plastici" di Broglio. Anche quest’anno è denso di avvenimenti, come l’inserimento di Sironi nel "direttorio" della IV Triennale di Milano (trasferita da Monza) in cui, sempre con Muzio, realizza una mostra delle arti grafiche. Segue la sua partecipazione alla XVII Biennale di Venezia e alla Mostra del Novecento Italiano a Buenos Aires e realizza, per la prima volta, le scene teatrali per "L’isola misteriosa" di U. Betti, messa in scena al Teatro Manzoni di Milano. Sempre nel '30 Sironi incontra Maria Alessandra (Mimì) Costa, giovanissima modella, graziosa e avvenente. È un grande amore a prima vista. L’ormai quarantacinquenne artista stava immalinconendo in una "routine" anche burocratica, tutt’altro che esaltante. Si separa dalla Fabbrini e decide di vivere con Mimì. Quel grande amore lo scuote, lo fa ringiovanire di colpo, di nuova linfa alla sua pittura. Negli anni subito seguenti abbiamo la possibilità di assistere ad un evento magico per pochi artisti (si pensi a Picasso e Matisse): l’ingresso nell’arte della gioia di vivere. La serie di tempere e tecniche miste dipinte per integrare i progetti di interni di palazzi e motonavi presentati dall’arch. Pulitzer, ne sono una prova lampante. In esse Sironi crea, inventa, si sbizzarrisce in una cromìa quanto mai varia, chiara, allegra; in composizioni sempre nuove, libere, originali che non di rado toccano, o addirittura sconfinano, nell’informale. È questo un periodo assolutamente fecondo: sono di certo gli anni più felici della sua vita.
Dal 1932 comincia a dedicarsi al problema della pittura murale e ne scrive su "Il Popolo d’Italia" il 10 gennaio. A marzo espone con altri ventuno artisti italiani alla "Galleria Bernheim" di Parigi. Durante l’estate partecipa alla XVIII Biennale di Venezia. A ottobre si inaugura la Mostra della Rivoluzione Fascista (decennale) a Roma (Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale) e a Sironi è affidato l’incarico di realizzare alcune delle sale più importanti, quelle cioè della "Marcia su Roma", il "Salone d’onore" e la "Galleria dei fasci", con un grande bassorilievo, "L’Italia in marcia". Realizza, infine, anche il manifesto della mostra. Anche negli anni che seguono l’attività di Sironi è sempre molto fitta di eventi artistici. Nel 1935 espone in Polonia, a Firenze, a Parigi (Jeu de Paume) e partecipa alla seconda edizione della Quadriennale di Roma. Sempre a Roma affresca l’Aula Magna dell’università appena costruita da M. Piacentini. Si tratta di un tema raffigurante "L’Italia fra le Arti e le Scienze", di ben 200 metri quadri, di sapore retorico, che viene poi riveduto e corretto nel dopoguerra da un altro pittore, tale C. Siviero, al fine di cancellarne le insegne fasciste.
Nel '38 o '39 progetta una "Annunciazione" (vetrata concava policroma) per l’Ospedale Niguarda di Milano ed è presente alla Mostra del Dopolavoro presso il Circo Massimo di Roma. Nel '39 e '40 scolpisce due grandi bassorilievi per la nuova sede di "Il Popolo d’Italia"; espone in una collettiva alla "Galleria Barbaroux" di Milano e in una rassegna di artisti italiani nel Kunsthaus di Zurigo. Nel '41 espone a Cortina d’Ampezzo (Coll. Rimoldi), Milano ("Galleria Il Milione") e Genova (Gallerie "Genova" e "Rotta"). Progetta le scene per il "Dottor Faust" di Busoni, messo in scena da Salvini all’VIII Maggio Musicale Fiorentino. Fra il '42 e il '43 partecipa ad altre esposizioni in gallerie di Milano, Venezia, Firenze e Zurigo. Collabora particolarmente con la "Galleria del Milione" di Milano. Alla fine della guerra è costretto a sfollare per evidenti motivi politici, avendo infatti aderito, in precedenza, alla Repubblica Sociale Italiana. Ripara a Dongo e a Bellagio. Termina così la lunga parentesi che aveva visto Sironi impegnato fra arte, politica, burocrazia, architettura e illustrazione. La sua vita continua, da ora sino alla morte, nell’esclusivo impegno di artista puro, anche se, accanto alla produzione da cavalletto, non finirà mai di predicare la grande importanza della pittura murale. Nel 1952 Sironi contrae una malattia alle ossa. Per questo i suoi soggiorni a Cortina diventano sempre più frequenti. Egli, a Cortina, è ospite dell’albergatore e collezionista Mario Rimoldi; è curato all’ospedale ortopedico Rizzoli Codivilla dal suo amico primario Prof. Antonio Allaria. Lo segue e accompagna ovunque il suo allievo, il pittore Italo Squitieri. Le lunghe passeggiate in montagna, le gite e le escursioni sembrano giovare alla sua salute. Difatti la malattia, in un primo momento, appare in netto regresso, con somma gioia di tutti i suoi amici. Ma, purtroppo, in seguito, i lunghi soggiorni a Milano lo ripiombano in un clima umido ed insalubre. Di qui il progressivo aggravarsi della malattia che lo condurrà alla morte. Ancora nel '52 espone alla "Galleria del Cavallino" (Venezia) in una mostra antologica con opere dal '22 al '35. La scelta è in chiara polemica con la Biennale di Venezia dello stesso anno. Nel '53 prepara una "personale" per la "Galleria Per" di Oslo, e la "Galleria del Milione" di Milano organizza una mostra di sue importanti opere, itinerante in molte città degli Stati Uniti. Nel '54 espone nell’ampia mostra antologica dedicata alle celebrazioni dei "Trent’anni della Triennale" di Milano. L’Accademia di San Luca (Roma) gli assegna il Premio "Luigi Einaudi" e il Ministero della Pubblica Istruzione La Medaglia d’Oro come "Benemerito della cultura". Nel '56 diventa membro dell’Accademia di San Luca.
Nel maggio 1960, la "Galleria Schwarz" di Milano allestisce una importante mostra di Picasso e Sironi. L’artista spagnolo, infatti, aveva sempre tenuto Sironi in somma considerazione, definendolo un "vero artista". Ancora nel '60, nell’ambito della XXX Biennale di Venezia, vengono presentate otto opere, dal 1908 al '17, che costituiscono una selezione del periodo futurista di Sironi. La rassegna, difatti, è il primo importante tributo a questo movimento storico in Italia.
Nel maggio 1961, infine, viene attribuito a Sironi il Premio Città di Milano, che risulta essere l’ultimo omaggio al grande Artista, visto che il 13 agosto, dopo essere stato ricoverato in una clinica milanese, Sironi muore all’età di settantasei anni. Viene tumulato nel cimitero di Bergamo, vicino alla madre ed alla prediletta figlia Rossana.
La moda negli anni ‘30
L’Italia e l’autarchia
In Italia, il fascismo cerca di portare avanti il discorso di una moda nazionale, pubblicizzata soprattutto attraverso i grandi matrimoni dell’epoca (Umberto di Savoia e Maria Josè, Edda Mussolini e Galeazzo Ciano), in consonanza con lo spirito nazionalistico che successivamente diverrà autarchico.
La primavera del ’32 vede Firenze al centro di una iniziativa tesa a portare in luce la creatività sartoriale italiana.Al teatro della Pergola si tiene infatti la Mostra della moda italiana, alla quale partecipano le più insigni sartorie cittadine.
Moda e nazionalismo
Nell’estate del 1933 la principessa di Piemonte si fa fotografare con indosso costumi regionali italiani: è un incentivo a riflettere sull’importanza di un abito di stile nazionale. Maria Josè stessa, benché avesse con sé un fornitissimo guardaroba di abiti francesi e di tessuti di Fiandra, vi rinuncia fin dal momento del suo arrivo in Italia; vuole vestire solo italiano, e fornisce così un esempio importante.
Pochi anni dopo, a Milano, si cerca di lanciare la prima bambola “conformata” col fisico di una donna matura (simile in qualche modo alla Barbie americana degli anni ’60), ma l’esperimento italiano, in cui si veste la bambola con costumi regionali, fallisce commercialmente. Si vede come in questo tentativo si richiami il concetto di donna “fattrice”, nonché di abito nazionale.
A Torino,Roma, Milano e Firenze, come del resto in ogni altra parte del paese, i grandi sarti continuano a ispirarsi alla moda francese.
La moda italiana di sartoria non è dedicata alle masse, bensì alle donne alto-borghesi, alle nobili, alle nuove ricche, ed è a queste che viene demandato il compito di fare sfoggio in tutto il mondo dei lussuosi prodotti italiani.
Nel 1932 si giunge all’approvazione, da parte del governo fascista, un disegno di legge per la costituzione a Torino dell’”Ente Autonomo per la Mostra Permanente”. Questo provvedimento è inteso a organizzare tutti i settori dell’abbigliamento e ad assicurare una produzione che abbia in Italia tutto il suo ciclo,dalla creazione dei modelli a quella degli accessori e degli ornamenti. Si programmano anche due mostre annuali da tenersi a Torino. Un nuovo decreto legge del 1935 intende mettere maggior ordine nel settore abbigliamentario. Il nome dell’istituzione diviene “Ente Nazionale della Moda”, ed ogni attività di questo settore è tenuta a farvi riferimento: da questo settore è tenuta a farvi riferimento: da questo momento in poi le italiane dovranno vestire secondo i voleri del Duce e gli improrogabili disegni della patria. Viene istituita la marca di garanzia per i modelli riconosciuti “di ideazione e produzione nazionale”. Rigidissimo diventa il controllo sulle case di moda, tant’è che nelle collezioni è obbligatorio avere almeno il 35% (che in seguito diventerà il 50%) di modelli originali italiani, sia per il resto delle creazioni possono continuare ad essere interamente realizzate su originali patron francesi.
Una nuova immagine intanto si fa’ strada, quella della donna florida dalle curve dolci; la ritroviamo, oltre che sulle riviste italiane, nei maggiori saloni parigini, tra i quali spicca quello di Schiaparelli, che punta su modelli dalla vita sottile, le spalle ampie e il busto in evidenza. Così, nonostante la volontà di differenziarsi il regime si trova ad andare di pari passo con la tanto aborrita moda d’oltralpe.
Ma gli attacchi alla Francia non terminano qui. Infatti, nel 1937, l’”Ente Nazionale della Moda” si occupa dell’influenza che i vestiti possono avere sulla demografia incolpando un certo gusto parigino di fuorviare le signore dalla loro sacrosanta funzione procreatrice, e di proporre un’immagine femminile che tutto incarna fuorché il ruolo della madre.
Nell’ambito delle materie tessili,nel 1937 l’Italia conta su 300mila famiglie coloniche dedite alla cura dei bachi da seta,mentre si programma, visto l’enorme disavanzo economico, la produzione di cotone nelle colonie recentemente conquistate; è già stata fondata una compagnia per il cotone d’Etiopia e si pensa di integrare questo filato con almeno 50% di rayon in fiocco.
E’ di questi anni la creazione, compiuta dall’italiano Ferretti di una fibra tessile sostitutiva della lana ricavata dalla caseina del latte e denominata prima Lanital e successivamente Merinova.
Molta fortuna nello stesso periodo trova anche un’altra fibra artificiale: la viscosa che, creata nel 1895, ha particolare successo dal 1919 in poi. Destinata in gran parte a sostituire la seta e il cotone, è presente assieme al Lanital e al Rayon in tutte le mostre del tessile autarchico. Intanto, nel 1938, in America viene prodotto il Nylon che però arriverà sui nostri mercati solo nel secondo dopoguerra. Gli anni dell’autarchia sono quelli del trionfo delle “zeppe” di Ferravamo, creatore che si sbizzarrisce nei più svariato modelli, utilizzando il sughero di Sardegna come succedaneo per le suole, solitamente realizzate in cuoio straniero. Molti lo seguiranno nella voga da lui lanciata ma nessuno, nonostante l’abilità di molti artigiani di quegli anni, riuscirà ad imitare la calzabilità e la comodità delle sue scarpe.
Questa è dovuta soprattutto agli accurati studi anatomici che Ferravamo conduce, allo scopo di definire prima di tutto una sana postura del corpo.
Le tendenze negli anni ‘30
Madeleine Vionnet, nel 1935, rivisita il passato reinterpretando il Settecento; la Garbo, attraverso il successo del film “La regina Cristina”, impone un Seicento molto di maniera; ci si ispira ancora una volta alla Grecia antica, al Medioevo. Vionnet, rifacendosi anche all’Ottocento, crea un abito a volani per la cui gonna occorrono dieci metri di stoffa; per i giornali è l’abito più largo della stagione.
Continuano a imperare i colori scuri e tra questi il nero, il violaceo, il verde cupo. Tra i tessuti trionfano i crespi, opachi e rilevati, i velluti e i rasi lucidissimi, i cellophane e lamè, che vanno a sottolineare la linea sirena, aderente come una guaina. Profonde scollature evidenziano il dorso femminile, incorciate, a bretelle tipo kalasiris. Le paillettes invadono le superfici unite dei tessuti, o ornano le giacche e le tuniche lisce; si portano a pranzo, a cena; a teatro e anche al cinema.
Per il giorno invece si portano abiti di lana dal taglio sobrio e semplice, con orlo quasi alla caviglia; la linea però rimane quasi dritta. La pelliccia è usata più come rifinitura che come capo di per sé, e di nuovo compaiono i manicotti.
All’inizio dell’anno vanno i berretti grandi di feltro e di velluto, poi ecco la moda dei berretti alti, “detti alla tirolese”. Si vedono piccole “toques”, e la veletta fin sul naso.
Le foggie hanno nomi stravaganti: budino, dottore di Oxford, alla cosacca, alla fascista, a pentolino.
Quanto alla moda legata all’automobile, la signora in “Balilla” si veste col mantellone di lana a grandi risvolti, accompagnato dalla sciarpa colorata. Si afferma anche la gonnapantalone, in tweed e in panno. I bottoni sono grandi e sulle maniche compaiono anche grosse cifre.
Dappertutto in Italia c’è un gran fermento per la moda nazionale; interpreti ne sono i disegnatori Grau, Brunetta, Sabina, e due giovani signore romane che si firmano Vaga.
Il regime impone la canapa e l’Orbace sardo, reinterpretati in modo da renderli meno ruvidi e scomdi, ma il successo è scarso.
Nel 1937 la pubblicità si concentra tutta sull’abito italiano, e le immagini delle creazioni straniere diminuiscono sensibilmente sui giornali. Si pubblicizzano la ginnastica, l’estetica “senza cosmetici”, le cure contro l’obesità e anche quelle contro la magrezza. Nelle rubriche si parla di tutti quei sarti che hanno tentato uno stile italiano.
Nel 1938 continua questa imposizione e celebrazione della moda italiana, specialmente attraverso la riproduzione fotografica. Si affermano le case Solomon a Roma, Trombetta a Genova, Valsecchi a Milano.
Sulle riviste si legge: “L’eleganza della donna non è più in contraddizione con la salute, né in antagonismo alla bellezza della razza.”
Si tenta di riportare in auge la moda impero che ben si adatta a forme più floride. La moda italiana, pur rimanendo di livello internazionale, si trasforma e si piega alle necessità estetiche e sociali, alle risorse industriali, artistiche e artigianali del Paese.
Anche nella moda domina l’autarchia. Ma il mondo si avvia verso la tragedia del secondo conflitto e, mentre le signore rubano con gli occhi i cappelli “scarpa” di Schiaparelli, si decidono le sorti di milioni di persone.
Per la moda italiana si aprirà, pur tra le difficoltà, un periodo di intensa sperimentazione.
Passato il conflitto i sarti, reduci nei loro atelier dai vetri oscurati per il coprifuoco, saranno pronti a dare vita ad una creatività di nuovo vigore.
Bibliografia e fonti consultate
- Peppino Ortoleva – Marco Revelli “Storia dell’età contemporanea”, Ed. scolastiche Bruno Mondatori
- Carmen Betti, “L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista”, La Nuova Italia
- Michele De Giorgio, “Le italiane dall’Unità a oggi”, Laterza
- Delfina Tromboni, “Donne contro”
- Marisa Carlà, “Epoche e culture”, Volume 2, Tomo III Palombo Editore
- Dispense scolastiche
- Enciclopedia Motta
- Cristina Giorgetti, “Manuale di storia della moda e del costume” Cantini
- Gli articoli di giornale,
- Codici e le leggi
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