il tempo

Materie:Tesina
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Testo

IL TEMPO
Tesina pluridisciplinare
liceo scientifico
L’EVOLVERSI FISICO-FILOSOFICO DEL CONCETTO DI TEMPO
Il problema del tempo è sempre stato presente nella riflessione filosofica di ogni epoca. Inizialmente abbiamo una concezione del tempo idealizzato come flusso unico e omogeneo, nel quale sono immerse le cose soggette a mutamento. Questa definizione presenta diversi punti di riferimento: cosmologici (filosofia pitagorica) e metafisici (filosofia platonica). Partendo dall’Essere unico e indivisibile di Parmenide, il suo discepolo Zenone (V sec. a.C.) per dimostrare l’impossibilità di pensare il tempo suddiviso in infiniti istanti, elabora il paradosso della freccia ferma: una freccia scoccata dall’arco non raggiunge mai il bersaglio se ammettiamo che il tempo sia composto di istanti successivi, infatti in ogni istante la freccia è ferma in un certo punto della traiettoria, se il tempo è un susseguirsi di istanti, per la freccia si verifica un susseguirsi di stati di quiete, pertanto essa, nel tempo, è ferma. Aristotele nella Fisica tramanda questo paradosso: “Terzo è questo argomento: che la freccia in moto sta ferma. Esso poggia sull’assunzione che il tempo sia composto di istanti: se infatti non si concede questo il ragionamento non corre. Zenone paralogizza. Se, dice, tutto è in quiete o si muove, quando sia lungo uno spazio uguale a sé, .”
Uno dei primi a tentare di dare una definizione esatta di tempo è Aristotele, uno dei pilastri della filosofia occidentale. Egli tratta questo tema nel IV libro della Fisica, in cui sostiene che il tempo sembrerebbe non esistere, in quanto è formato dal passato, che non esiste più, e dal futuro, che non esiste ancora (“Che dunque o non esista affatto, o che esista a stento e in modo oscuro, si potrebbe supporre da queste considerazioni. In effetti, una parte di esso è stata e non è, una parte sarà e non è ancora”). Respinge però questa idea identificando il tempo con “il numero del movimento secondo il prima e il poi”, il tempo è cioè connesso, ma non identificato, col divenire (concetto essenziale nella fisica aristotelica): ne rappresenta la numerazione, “Pertanto il tempo non è movimento, ma il movimento lo possiede in quanto misura. Eccone la prova: giudichiamo il più e il meno col numero, un movimento sarà maggiore e minore col tempo. Il tempo è, pertanto, un certo numero. E poiché il numero è in due sensi (infatti chiamiamo numero sia ciò che viene numerato, sia ciò che è numerabile, sia ciò con cui numeriamo), il tempo è ciò che è numerato e non ciò con cui misuriamo. E come il movimento è di volta in volta sempre diverso, così anche il tempo.” (Fisica). Aggiunge poi che ci sono elementi fuori dal tempo: la sostanza immobile, la sostanza dei principi primi e dell’Essere, che mai è stata creata, è per questo contrapposta alla sostanza sensibile (che pure può essere anche eterna) caratterizzata dal movimento e quindi dal tempo.
Sant’Agostino di Ippona
introduce una posizione del tutto nuova, basata sull’interiorizzazione del tempo e sulla sua riduzione a dimensione della coscienza. La riflessione sul tempo, oggetto dell’undicesimo libro delle Confessioni, trae avvio dal rapporto tra esso e la creazione: egli sostiene che il tempo è stato creato quando il mondo fu creato, Dio è eterno, nel senso che è senza tempo, in Dio non c'è né prima né dopo, ma solo un eterno presente. L'eternità di Dio è libera da ogni rapporto con il tempo, Egli non precedette la sua creazione del tempo, perché ciò implicherebbe che Egli stesse nel tempo, mentre Egli sta eternamente al di fuori della corrente del tempo.
“Che cosa è allora il tempo?” si chiede il filosofo cristiano, “La mia anima aspira a conoscere questo enigma terribilmente imbrogliato e prega Dio di illuminarlo, assicurandolo che il suo interesse per il problema non proviene da vana curiosità. Io ti confesso, o Signore, di ignorare ancora che cosa sia il tempo.” Continua poi: “né il passato né il futuro, ma soltanto il presente realmente è; il presente è solo un momento, e il tempo può essere misurato soltanto mentre passa”(Confessioni). Tuttavia, esistono realmente il tempo passato e il tempo futuro, passato e futuro vanno pensati come presente, rispettivamente come memoria e come attesa: “Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove, il presente circa il passato costituendo la memoria, il presente circa il presente l’intuizione, e il presente circa il futuro l’attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora ammetto e vedo tre tempi, e tre tempi ci sono”. A questo punto introduce un nuovo elemento, la soggettività del tempo: esso è misura dell’estensione dell’anima, poiché è nell’anima stessa che noi riusciamo a misurare la fuggevolezza del tempo, identificato come entità lineare: il futuro non c’è ancora ma v’è nell’anima l’attesa di esso; il passato non c’è più ma permane nell’anima la memoria di esso; il presente è privo di durata e trapassa in ogni istante ma dura nell’anima l’attenzione per le cose presenti. “Ne ho tratto l’impressione che il tempo non sia se non un’estensione. Di che? Lo ignoro. Però sarebbe sorprendente se non fosse un’estensione dello spirito stesso.[…] E’ in te, mio spirito che misuro il tempo.” (Confessioni).
La natura del tempo ha quindi una triplice dimensione passato-presente-futuro. L’analisi di ciò ha dimostrato l’incompatibilità di un’analisi oggettiva mettendo in risalto il soggetto; il passato e il futuro risultano perciò essere i modi dell’attività dell’anima, sotto forma di memoria, per il primo, e di attesa, per il secondo, entrambi sono ricondotti al presente, inteso come attualità delle percezioni appartenenti al soggetto. La dimensione in cui si ha il procedere del tempo è quindi quella di un “presente fluente” (presente-passato, presente-presente, presente-futuro). Ciò è però valido solo per la creatura finita, che vive dentro il tempo, mentre non è valido per Dio, presenza che costituisce la stessa eternità e che ha una totale e simultanea visione del passato, del presente e del futuro. È importante sottolineare che per il santo il problema deve essere affrontato su due piani: da una parte Dio e l’eternità nella loro permanenza attraverso ed oltre il tempo, e che costituiscono un punto di riferimento; dall’altra il creato, che si trova dentro il tempo ed è perciò soggetto al mutamento e all’instabilità
Agostino discute le teorie che identificavano il tempo con il movimento dei corpi celesti. Questi propongono anche la risoluzione al problema della misurazione, individuando nei movimenti dei corpi celesti il parametro per un riferimento oggettivo, ma tempo e movimento non possono essere identificati: il movimento è nel tempo, ma non è il tempo. Non si misura il tempo attraverso il movimento, ma viceversa; e la richiesta della regolarità dei corpi celesti non può essere un riferimento oggettivo (afferma Agostino in contrasto con il pensiero greco): infatti non c’è nulla che vieti a Dio di variegare o arrestare il moto degli astri, come è scritto nelle Sacre Scritture.
Già Aristotele aveva negato l’identificazione tra tempo e movimento; ma qui Agostino si muove su di un altro terreno, andando da un riferimento oggettivo all’esperienza dell’anima. Ciò corrisponde al movimento di ritrovare le verità nell’interiorità dell’uomo, che costituisce il perno di tutta la filosofia agostiniana (in interiore homine habitat veritas).
Isaac Newton
è il fisico che alla fine del Seicento completa le conoscenze fisiche acquisite nel corso di oltre un secolo di storia della scienza moderna in un “sistema” che godrà di grande fortuna. Il fisico, come si legge ne I principi matematici della Filosofia naturale, concepisce il tempo assoluto (o durata) come una dimensione oggettiva e metafisica che, con lo spazio, contiene gli oggetti naturali e di cui il tempo relativo, il tempo “numero” della tradizione aristotelica, è misura sensibile ed estesa mediante il movimento: “Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno...
Infatti i giorni naturali, che di consueto sono ritenuti uguali, e sono usati come misura del tempo, sono inuguali. Gli astronomi correggono questa inuguaglianza affinché, con un tempo più vero, possano misurare i moti celesti. È possibile che non vi sia movimento talmente uniforme per mezzo del quale si possa misurare accuratamente il tempo. Tutti i movimenti possono essere accelerati o ritardati, ma il flusso del tempo assoluto non può essere mutato. Identica è la durata o la persistenza delle cose, sia che i moti vengano accelerati, sia che vengano ritardati, sia che vengano annullati”.
Newton vede quindi nel continuum spazio-temporale (spazio assoluto-tempo assoluto) la manifestazione compiuta di uno spazio onnipresente ed eterno contenitore della realtà, il tempo assoluto scorre uniformemente ed è un supporto filosofico alle leggi della dinamica. Il carattere assoluto del tempo ha grande rilievo nello sviluppo della filosofia fino a Kant, ma trova subito un oppositore in Gottfried Wilhelm Leibnz, “eterno rivale” di Newton, che contesta il carattere oggettivo di ente metafisico attribuito da Newton al tempo, contrapponendovi una concezione tutta “relativa” del tempo e negando che esso potesse avere una realtà in se stesso e considerandolo come semplice relazione tra corpi.
Immanuel Kant
La filosofia scientifica moderna considera quindi il tempo (come lo spazio) realtà oggettiva, esistente per sé stessa; se Agostino aveva introdotto l’elemento soggettivo, sarà poi Immanuel Kant nel diciottesimo secolo a ricondurre il tempo e lo spazio completamente dentro il soggetto, cercando di salvare la scienza newtoniana senza postulare l’esistenza di un tempo assoluto. Kant affronta la problematica nella prima parte della Critica della Ragion Pura, detta Estetica trascendentale. L’Estetica trascendentale è in Kant “l’apprensione immediata dei dati sensibili e ordinati nelle varie forme a priori”. Egli afferma che noi conosciamo sensibilmente in quanto siamo modificati dall’esterno, dagli oggetti che agiscono sulla nostra capacità di rappresentazione. La sensazione è l’effetto prodotto in noi da tale azione, con la sensazione noi non conosciamo, infatti, gli oggetti come sono in se stessi, bensì come essi ci appaiono attraverso le modificazioni che producono in noi, per questo l’oggetto della conoscenza sensibile è chiamato da Kant fenomeno. Quindi spazio e tempo, che accompagnano necessariamente ogni nostra conoscenza sensibile, non possono essere una realtà oggettiva, come voleva Newton, e neppure una relazione propria degli oggetti in se stessi come voleva Leibniz, bensì debbono essere forme caratteristiche del nostro mondo soggettivo di ricevere le modificazioni sensibili da parte degli oggetti; Kant è convinto che la scienza, pur derivando in parte dall'esperienza, e pur nutrendosi continuamente di essa, presuppone anche, alla propria base, alcuni principi immutabili che ne fungono da pilastri: le forme pure a priori. Esse vanno quindi considerati come forme della nostra sensibilità, che condizionano ogni nostro modo di conoscere sensibilmente.
Nell’introduzione all’estetica trascendentale, Kant scrive:
“Mediante il senso esterno (una delle proprietà del nostro spirito) noi ci rappresentiamo gli oggetti come sono fuori di noi e tutti insieme nello spazio. Quivi sono determinate, o determinabili, la loro forma, grandezza e reciproche relazioni. Il senso interno, mediante il quale lo spirito intuisce se stesso, o un suo stato interno, non ci dà invero nessuna intuizione dell'anima stessa, come di oggetto; ma c'è tuttavia una forma determinata per la quale soltanto è possibile l'intuizione del suo stato interno, in modo che tutto ciò che spetta alle determinazioni interne vien rappresentato in rapporti di tempo. Il tempo non può essere intuito esternamente, come non può essere intuito lo spazio quasi qualcosa che sia in noi. Che cosa sono dunque lo spazio e il tempo? Sono entità reali? o sono soltanto determinazioni, o anche rapporti delle cose, ma tali che apparterrebbero ad esse anche in sé, ancorché non intuite, oppure son tali che appartengono soltanto alla forma dell'intuizione, e perciò alla costituzione soggettiva del nostro spirito, senza la quale cotesti predicati non potrebbero esser riferiti a veruna cosa?” (Critica alla ragion pura)
Poi dà la definizione di intuizione:
“Come dunque può essere nello spirito una intuizione esterna, che preceda agli oggetti stessi, e nella quale il concetto di questi possa esser determinato a priori? Evidentemente solo ad un patto, che essa abbia sua sede soltanto nel soggetto, come sua disposizione formale ad essere modificato dagli oggetti, e a conseguire per tal modo la loro immediata rappresentazione, cioè l'intuizione, dunque soltanto in quanto forma del senso esterno in generale.” (Critica alla ragion pura)
Kant dice che spazio e tempo non derivano dall’esperienza, ma sono condizioni a-priori dell’esperienza. Cioè precedono ogni esperienza sensibile e la rendono possibile come esperienza della spazio-temporalità delle cose. Questa è una parte della rivoluzione copernicana che Kant voleva operare per la filosofia: egli infatti nega che l’universo sia scritto in leggi oggettive accessibili alla ragione umana, le uniche leggi che riscontriamo nella realtà sono le nostre, in base a cui la ordiniamo.
Nel definire il tempo, queste sono le parole usate da Kant:
“Il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. Infatti, il tempo non può essere una determinazione di fenomeni esterni: non appartiene né alla figura, né al luogo, ecc.; determina, al contrario, il rapporto delle rappresentazioni nel nostro stato interno. E appunto perché questa intuizione interna non ha nessuna figura, noi cerchiamo di supplire a questo difetto con analogie e rappresentiamo la serie temporale con una linea che si prolunghi all’infinito nella quale il molteplice forma una serie avente una sola dimensione; e dalle proprietà di questa linea argomentiamo tutte quelle del tempo, fuorché questa sola; che le parti della linea sono simultanee, laddove le parti del tempo sempre successive. Da ciò risulta che la rappresentazione del tempo stesso è una intuizione, poiché tutti i suoi rapporti possono essere espressi per mezzo di una intuizione esterna.” (Critica alla ragion pura)
Friedrich Nietzsche
Se già il carattere oggettivo e assoluto del tempo e messo fortemente in dubbio, circa cento anni dopo Kant, Friedrich Nietzsche, il filosofo dello smascheramento, rifiuta la concezione lineare e quantificata del tempo, creando la dottrina dell’Eterno ritorno dell’Uguale, il più abissale dei suoi pensieri, come lui stesso lo ha definito.
Questa teoria viene presentata, sebbene mai chiaramente esplicitata, nell'opera Così parlò Zarathustra, in cui il pensiero di Nietzsche trova il suo massimo compimento. La dottrina, già accennata ne La gaia scienza è suggestivamente formulata nel capitolo "la visione e l'enigma", in particolare nel passo in cui Zarathustra, il profeta dell'eterno ritorno, assiste all'enigmatica visione di: “un giovane pastore, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto?. [...] la mia mano tirò con forza il serpente tirava e tirava - invano! Non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca : "mordi! Mordi! Staccagli il capo!" il pastore poi morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva. Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!”. (Così parlò Zarathustra).
Interpretando simbolicamente il passo, il morso del pastore (l'uomo metafisico disgustato dall'idea dell'eterno ritorno, a sua volta simboleggiato dalla circolarità del serpente) è l'atto con cui l'uomo, fondando lo stesso eterno ritorno, si libera dalla malattia e dalle catene e diventa superuomo. La dottrina dell'eterno ritorno non è la semplice ripresa della concezione greca di un tempo circolare, e non è neanche riconducibile ad una semplice critica allo storicismo o alla precedente concezione lineare e meccanicistico-deterministica del tempo, secondo cui ogni momento non ha il suo senso dentro di sé, ma nei momenti che lo precedono e lo seguono. Il tempo che Nietzsche propone è un tempo in cui si assiste ad un eterno ripetersi dell'attimo che si risolve in se stesso, che presenta unità di essere e significato: “Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell'essere. Tutto muove, tutto torna a fiorire, eternamente corre l'anno dell'essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l'essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l'anello dell'essere. In ogni attimo comincia l'essere; attorno ad ogni "qui" ruota la sfera del "là". Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell'eternità”. (Così parlò Zarathustra).
Per comprendere la portata innovativa della dottrina di Nietzsche dell'eterno ritorno dell'uguale non è sufficiente analizzarne soltanto l'aspetto teorico, si devono infatti considerare le implicazioni pratiche che questa idea comporta nella vita dell'uomo e nella società una volta che essa viene accettata. Il problema non consiste quindi nel voler suggerire una nuova concezione del tempo ma nel produrre un uomo, un oltreuomo, un "über-mensch" capace di volere la ripetizione eterna della propria esistenza, quindi di aderire entusiasticamente alla vita:
“Se un giorno o una notte un demone strisciasse dentro la tua più solitaria solitudine e ti dicesse: “questa vita, questo che adesso tu vivi ed hai vissuto, dovrai viverla ancora una volta e un numero infinito di volte; e non vi sarà niente di nuovo, ma tutto ritornerà, ogni dolore e ogni piacere, ogni pensiero ed ogni sospiro, ogni cosa piccola o grande, e tutto nello stesso ordine... anche questo ragno, e questo chiaro di luna tra gli alberi, ed anche questo momento, ed io stesso” […] Non ti getteresti per terra digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? […] Se quel pensiero si impadronisse di te, farebbe di te un altro da quello che sei. Di fronte a tutte le cose ti porresti la domanda: “Vuoi questo di nuovo e per innumerabili volte?”, e questa domanda graverebbe come un peso tremendo su ogni tuo atto.” (La gaia scienza)
Sigmund Freud
A pochi anni di distanza un altro originale apporto alla riflessione sul tempo viene da Sigmund Freud, l’altro filosofo dello smascheramento (insieme a Nietzsche e Marx), pur non dedicandosi specificamente a questo argomento egli fa emergere alcune nuove connotazioni dello scorrere temporale che avranno molta influenza sui seguenti sviluppi letterari europei.
Freud, il cui merito è di avere modificato radicalmente la psicologia e la psichiatria, giunge, attraverso lo studio dei fenomeni isterici, alla convinzione che esiste nell'uomo uno strato profondo che non perviene mai alla coscienza pur avendo la capacità di agire su di essa: l'inconscio.
Il flusso del tempo, attraverso la visione psicoanalitica, si sposta quindi dalla sfera dei processi coscienti a quella dei più profondi e nascosti processi dell'inconscio, dove si svolge la maggior parte della vita mentale dell'uomo. Pertanto, secondo Freud, il rapportarsi dell'uomo con il tempo ha una successione cronologica (presente, passato e futuro) soltanto nei processi coscienti: cioè il flusso cronologico del tempo è unicamente frutto dell'attività cosciente e conserva i suoi momenti, distinti l'uno dall'altro, alla superficie della coscienza. Nel mondo dell'inconscio l'organizzazione di tali elementi cronologici perde una qualsiasi successione ordinata ed i momenti temporali emergono dall'inconscio mescolati insieme e contestualmente presenti: cioè presente, passato e futuro, nel passaggio da un momento all'altro, non hanno successione cronologica.
Ad esempio ne L'interpretazione dei sogni, la maggiore delle opere di Freud sulla natura delle nostre tendenze inconsce, e nella sua tesi sul sogno quale appagamento di un desiderio latente negli strati profondi della nostra mente, è possibile trovare esempi del venire meno, a livello di inconscio, della razionalizzazione cronologica del tempo: nei sogni infatti il passato si ripropone nel presente e il futuro viene immaginato, situazioni, immagini, sensazioni passate o future si presentano come reali e presenti ed i relativi momenti, a livello di inconscio, mancano assolutamente di successione cronologica e sono mescolati con il libero passaggio da un momento all'altro.
Nel giro di pochi anni si ha poi la definitiva caduta della concezione assoluta del tempo, attraverso la critica scientifica di Einstein e quella più filosofica di Bergson.
Henri Louis Bergson
Nel processo di valorizzazione dell’esperienza interiore sviluppatosi a partire dalla seconda parte dell’Ottocento, ha un ruolo importante Henri Louis Bergson, con cui la scienza, assurta con il Positivismo ad unico mezzo per l'interpretazione del reale, viene ridimensionata dalla filosofia del vissuto a strumento di comprensione approssimativo e meccanico dei fatti, e sostituita dalla testimonianza della coscienza che, attraverso intuizioni estemporanee, può penetrare nell'essenza più profonda delle cose.
All’interno del percorso bergsoniano ruolo fondamentale ha il tempo: “E cosi fui indotto ad occuparmi dell'idea del Tempo. Mi accorsi, non senza sorpresa, che in meccanica e in fisica non si tratta della durata propriamente detta e che il tempo di cui si parla è tutt'altra cosa. Mi chiesi allora dove fosse la durata reale e dove potesse esistere e perché la nostra matematica non avesse presa su di essa. E cosi fui gradualmente condotto dal punto di vista matematico e meccanicistico, in cui mi ero dapprima posto, al punto di vista psicologico” (da una lettera a un amico).
La teoria di Bergson sull'idea del tempo trae avvio dalla distinzione tra tempo della scienza e tempo della coscienza. Il tempo della scienza di cui si avvale la fisica, la matematica e in particolare la psicologia positivista, è un tempo spazializzato, che è contraddistinto da istanti determinati, differenti gli uni dagli altri, misurabili solo quantitativamente e come tali associabili a dei punti spazio, è inoltre reversibile, cioè sempre uguale. Questo concetto trova la sua immagine significativa in una collana di perle tutte ordinate ma che si susseguono tra loro distinte; mentre il filo, la base di tale susseguirsi, che le unisce “come non so quale essenza intemporale del tempo, è ciò che chiamo l’eternità. Eternità di morte, poiché essa altro non è che il movimento svuotato della mobilità che ne era la vita”(Introduzione alla metafisica).
Secondo Bergson vi è una tendenza comune a considerare alla stessa stregua i fenomeni temporali e quelli spaziali. L'idea di spazio viene inconsapevolmente introdotta nella rappresentazione della successione temporale, accostando cioè i nostri stati di coscienza in modo da percepirli l'uno accanto all'altro, come lungo una linea continua e collegando tali fatti psichici secondo un ordine cronologico o secondo il principio di causa-effetto.
La concezione del tempo di cui fa uso la scienza è senza dubbio fornita, secondo Bergson, di un certo grado di verità: esteriorizzando il tempo, come successione misurabile di istanti, la scienza riesce ad ottenere innegabili successi necessari alla vita pratica. Questa concezione nasconde però un grosso equivoco: quello di confondere il tempo con lo spazio e di esprimere la durata attraverso l'estensione.
“Tutte le nostre opinioni intorno agli oggetti, tutte le nostre operazioni sui sistemi che la scienza isola, si fondano sull’idea che il tempo non incide su di essi.[...] Il tempo astratto "t", attribuito dalla scienza a un oggetto materiale o a un sistema isolato, consiste solo in un numero determinato di simultaneità o, più in generale, di corrispondenze, il cui numero resta invariato, qualunque sia la natura degli intervalli che separano le corrispondenze. Quando si parla della materia bruta, si astrae sempre da tali intervalli; o, se si prendono in considerazione, è solo per introdurvi nuove corrispondenze, tra le quali potrà pur sempre accadere tutto ciò che si vorrà. Il senso comune, che si occupa solo di oggetti staccati — come la scienza, che considera solo sistemi isolati —, si colloca alle estremità degli intervalli, e non lungo il loro corso. E però, se, per ipotesi, il corso del tempo si svolgesse con una velocità infinita, sì che tutto il passato, il presente e l’avvenire degli oggetti materiali o dei sistemi isolati potesse squadernarsi in un sol colpo nello spazio, non vi sarebbe, tuttavia, nulla da cambiare né nelle formule dello scienziato né nello stesso linguaggio del senso comune. Il numero "t" non muterebbe significato: servirebbe sempre a misurare lo stesso numero di corrispondenze tra gli stati degli oggetti o dei sistemi e i punti di quella linea già tracciata che è il «corso del tempo».” (L’evoluzione creatrice)
Bergson contrappone così al tempo della scienza, che non fa altro che astrarre, quantificare e spazializzare, l'esperienza psicologica del nostro io, il tempo della coscienza, o della vita. Egli non nega che il tempo della scienza possa essere applicato alla nostra coscienza, ma ciò è senza dubbio limitante: la critica che Bergson mosse al Positivismo fu proprio quella di essersi fermato alla superficie senza riuscire a cogliere l'essenza profonda delle cose che si cela dietro la loro apparenza.
Nella vita psichica non è possibile distinguere singoli istanti: i fatti di coscienza non sono quantificabili, ne è possibile disporli lungo una linea retta. Il nostro mondo interiore è un fluire qualitativo, intensivo e dinamico che si compone di momenti che si compenetrano tra loro e si fondono l'uno nell'altro: è un processo costante in cui questi momenti psichici si susseguono sommandosi, arricchendosi progressivamente e sviluppandosi, in virtù di questi continui apporti ricevuti, alla maniera di una valanga.
Il flusso di coscienza è perciò una durata qualitativa che continuamente muta e si accresce. La proprietà del tempo è infatti quella di scorrere: il tempo già scorso è il passato, nel quale confluiscono tutti i nostri ricordi, sentimenti e sensazioni, che si riversano nel presente costituendo una realtà viva che a sua volta crea il futuro. La durata della nostra coscienza è così unità e associazione indistinta tra passato, presente e futuro, cioè una continuità dinamica e indivisa dei nostri stati di coscienza, che garantisce sviluppo progressivo e creazione del nuovo.
Al contrario ciò che la scienza definisce tempo, misurabile quantitativamente, è la proiezione della durata nello spazio, necessario alla vita pratica, ma lontano dalla nostra vera intima coscienza. Se la durata è definita come compenetrazione tra passato, presente e futuro, allora memoria, percezioni e aspettative, caratterizzanti le tre dimensioni temporali, non sono blocchi distinti e esteriorizzabili.
Per il filosofo francese in ogni momento la memoria si integra nella percezione, e il ricordo di intuizioni anteriori arriva a essere più importante dell’intuizione stessa (“percepire finisce per non essere altro che un’occasione per ricordare”). Il presente quindi coincide con l’immediato passato, non c’è una netta divisione tra ciò che è e ciò che è stato (“noi non percepiamo praticamente che il passato dal momento che il puro presente è l’inafferrabile progresso del passato che fa presa sul futuro”).
Nell’evoluzione creatrice Bergson a tale proposito scrive: “la nostra durata non è il susseguirsi di un istante a un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l'incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. E poiché si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente. La memoria, come abbiamo tentato di dimostrare, non è la facoltà di classificare ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro. Non c'è registro, non c'è cassetto; anzi, a rigor di termini, non si può parlar di essa come di una "facoltà": giacché una facoltà funziona in modo intermittente, quando vuole o quando può, mentre l'accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua. In realtà, il passato si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutt'intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori. La funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte del passato nell'incosciente per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l'azione che si prepara, compiere un lavoro utile. Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell'incosciente ci avvertono del carico che trasciniamo dietro a noi senza averne consapevolezza. Ma, se anche non ne avessimo chiara coscienza, sentiremmo vagamente che il passato è sempre presente in noi. Che cosa siamo, infatti, che cos'è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita, prima anzi di essa, giacché portiamo con noi disposizioni prenatali? Certo noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato; ma desideriamo, vogliamo, agiamo con tutto il nostro passato, comprese le nostre tendenze congenite. I1 nostro passato ci si rivela, dunque, nella sua interezza, con la pressione che esercita su di noi e sotto forma di tendenza, benché solo una piccola parte di esso si converta in rappresentazione chiara e distinta. Conseguenza di questa sopravvivenza del passato è l'impossibilità, per una coscienza, di passare due volte per l'identico stato. Le circostanze possono ben rimanere le stesse: la persona su cui agiscono non è più la stessa, perché la colgono in un momento nuovo della sua storia. La nostra personalità che va via via formandosi mediante il progressivo accumularsi dell'esperienza, muta continuamente; e però nessuno stato di coscienza, anche se resta identico alla superficie, si ripete mai in profondità. Questo perché la nostra durata è irreversibile: per poter riviverne anche un momento solo bisognerebbe annullare il ricordo di tutti i momenti successivi.” (L’evoluzione creatrice)
Quando parla di passato che si conserva da se stesso, Bergson una precisa distinzione tra memoria meccanica e spirituale. La memoria meccanica è quella di cui si fa uso ogni giorno per organizzare la vita, per ricordare temporaneamente delle nozioni. Questa forma di memoria è associata al ricordo immagine che ha una funzione pratica, in quanto contribuisce a costruire l'insieme di reazioni che si possono attuare di fronte agli stimoli dell'ambiente. Il ricordo-immagine è perciò la materializzazione, operata tramite il cervello, di un evento passato. Proprio in quanto tale, Bergson ritiene che esso non sia che una parte limitata e astratta di una memoria più complessa: la memoria spirituale. La memoria spirituale registra tutti gli avvenimenti della nostra vita man mano che scorrono, anche se noi non ne siamo pienamente coscienti. Non è una memoria logico-razionale ma intuitiva e immediata, che esplode nei momenti più inaspettati come ricordo puro se stimolato da particolari immagini suoni, profumi e in maniera irripetibile.
Albert Einstein
La caduta definitiva del concetto di tempo assoluto arriva attraverso l’opera di un fisico tedesco, che matematizza il relativismo temporale con una nuova teoria fisica: Albert Einstein. A partire dal 1900 diversi matematici e fisici (Larmor, Poincare, Lorentz, Fitzgerald) avevano intuito alcuni dei principi di quella che sarà la teoria della relatività, nel 1905 Einstein, con un articolo sulla rivista “Annalen der Physik” (intitolato Zur Elektrodynamik bewegter Korper, sull’elettrodinamica dei corpi in movimento), formulò la teoria della relatività ristretta (o relatività speciale), prevalentemente su principi generali di carattere filosofico, pochi anni dopo Hermann Minkowski ne diede una conclusiva espressione matematica, mentre è del 1916 la teoria della relatività generale (valida anche per sistemi di riferimento non inerziali).
La teoria della relatività del 1905 rompe definitivamente con la fisica classica di Galileo e Newton, introducendo una concezione completamente nuova dello spazio e del tempo. La teoria si basa sull’osservazione del moto di un corpo da parte di due osservatori in moto inerziale l’uno rispetto all’altro. Nella fisica classica tale studio era effettuato con le cosiddette trasformazioni di Galileo, considerato un sistema S’ in moto a velocità v lungo l’asse x rispetto a S, esse valgono:

postulando quindi l’esistenza di un tempo uguale per i due osservatori.
Successivamente allo studio di Maxwell sulle onde elettromagnetiche e all’esperienza di Michelson e Morley (1881), si dimostrò però che la luce aveva una velocità costante (c=300000 km/s) per ogni osservatore, indipendentemente dal moto di questo, fatto non conciliabile con le suddette trasformazioni.
La velocità costante della luce ha come diretta conseguenza l’abbandono della simultaneità assoluta di eventi, elemento mai messo in discussione precedentemente. Consideriamo ad esempio due laser L1 ed L2 situati sopra un vagone che viaggia lungo una linea ferroviaria, rivolti in direzione opposta, con due pannelli equidistanti che segnalano i due raggi laser. Un osservatore posto a terra può accendere contemporaneamente i due laser mediante uno stesso interruttore, immaginiamo che sulla linea transiti il treno su cui viaggia un secondo osservatore e che l'operatore a terra accenda i laser proprio nell'istante in cui il passeggero passa davanti all’osservatore posto a terra. Entrambi gli osservatori registrano gli istanti in cui vedono giungere i due laser ai pannelli. Il passeggero vedrà, naturalmente, giungere i raggi emessi dai laser nello stesso istante; l’osservatore a terra invece vedrà che il raggio laser proveniente da L2 raggiungerà il pannello prima del raggio proveniente da L1. Questo perché il treno (che si muove ad alta velocità) si sposta verso L2 di un certo tratto nell'intervallo di tempo finito che la luce impiega per raggiungerlo. L’osservatore a terra conclude quindi che l'arrivo dei due laser non avviene simultaneamente.
La conclusione, che può sembrare piuttosto sorprendente, è che due eventi, contemporanei per un osservatore, possono non essere tali per un altro. Un'espressione più rigorosa del risultato è: « Eventi che accadono nello stesso tempo, ma in luoghi diversi (le due pareti), in un riferimento mobile, da un osservatore esterno sono giudicati accadere in tempi diversi ».
Provando a scambiare la parola "tempo" con la parola "luogo". La frase dice: « Eventi che accadono nello stesso luogo, ma in tempi diversi, in un riferimento mobile, da un osservatore esterno sono giudicati accadere in luoghi diversi ».
Il suo contenuto è di un’evidenza quasi banale. Basta pensare ad un viaggiatore seduto nel suo scompartimento ferroviario che si mette a leggere il giornale: dal suo punto di vista egli apre legge e chiude il giornale nello stesso luogo, cioè sul suo sedile. Per una persona a terra i due eventi, apertura e chiusura del giornale, accadono in luoghi notevolmente diversi lungo la strada ferrata. Il fatto che noi accettiamo come ovvia la trasformazione di un intervallo di tempo in una distanza e giudichiamo invece quasi paradossale la trasformazione inversa di distanza in intervallo di tempo (tra due fatti non contemporanei), ha una sua ragione. Questa ragione risiede nella nostra abitudine: alla nostra osservazione si offrono ordinariamente quelle velocità che sono tra le più basse di tutte quelle possibili in natura. Perché non ci stupiamo se diciamo che il viaggiatore del treno apre il suo giornale in un certo posto e lo chiude - poniamo, dopo un quarto d'ora - in un altro posto lungo la ferrovia? Evidentemente perché abbiamo a che fare con una velocità molto familiare, quale può essere quella di un treno. Se il treno corre a 60 km/h, ad un intervallo di tempo di un quarto d'ora corrisponde una distanza percorsa di 15 km. Una simile distanza rientra nell'ambito delle nostre esperienze quotidiane e pertanto la accettiamo di buon grado. Se il treno si muovesse invece alla velocità della luce, nell'intervallo di 15 minuti esso percorrerebbe una distanza di 270 milioni di chilometri, e la cosa comincia a rientrare tra quelle da noi difficilmente immaginabili.
In definitiva il fatto che la relatività del tempo sia un concetto difficile da accettare dipende dalle caratteristiche della realtà in cui viviamo: l’astrofisico Antonino Zichichi in un suo articolo definisce due tipi di realtà, una chiamata tipo-Tempo (dominata dal tempo) e l’altra tipo-Spazio (dominata dallo spazio). La realtà a noi familiare è tipo-Tempo, infatti le quantità di tempo sono secondi, ore, anni, mentre le quantità di spazio vanno dal centimetro ai chilometri, corrispondendo a quantità di tempo piccolissime in base alla velocità della luce (ad esempio 3000 chilometri, una grande quantità di spazio, corrisponde solo a un centesimo di secondo). Sulla Terra abbiamo quindi tanto Tempo e poco Spazio, per questo è possibile distinguere il prima dal poi; ad esempio si può sempre dire che Cesare è nato prima di Napoleone perché essi sono separati da distanze di tempo enormi (circa 2000 anni) in confronto allo spazio che li separa, di appena pochi centesimi di secondo. Nella realtà tipo-Spazio in cui le distanze spaziali sono molto maggiori di quelle temporali, non esiste più una successione prima-poi. Se Napoleone fosse nato ad esempio su Andromeda Nebula (a una distanza di venti miliardi di miliardi di chilometri, corrispondenti a due milioni e duecentomila anni) non si potrebbe stabilire chi dei due fosse nato prima, osservatori diversi esprimerebbero pareri opposti.
Fin dal primo lavoro di Einstein sulla relatività, nel 1905, emerge chiaramente una nuova visione della natura in cui spazio e tempo non potevano più venire considerati come entità indipendenti. Nella teoria della relatività ristretta, l'entità fondamentale è lo spazio-tempo (o "continuo spazio-temporale"), una geometria nuova la cui precisa struttura fu poi stabilita nel 1907 da Hermann Minkowski, già professore di Einstein al Politecnico di Zurigo.
I fenomeni nello spazio-tempo possono venire descritti in infinite maniere, diverse ed equivalenti, dagli osservatori inerziali. Alcune variabili fisiche hanno lo stesso valore per tutti gli osservatori, e sono quindi assolute: per esempio la distanza spazio-temporale tra due eventi, che generalizza la distanza dello spazio tridimensionale. Molte altre variabili, invece, sono relative: per esempio (contrariamente al senso comune) la lunghezza di un oggetto o l'intervallo di tempo tra due eventi. Lo spazio-tempo rappresenta una realtà assoluta, non relativa, che viene vista sotto prospettive diverse dai diversi osservatori.
Tenendo conto di due postulati fondamentali (velocità della luce nel vuoto costante e invarianza delle leggi fisiche rispetto a sistemi inerziali) si possono calcolare le cosiddette trasformazioni di Lorentz, che sostituiscono quelle di Galileo:

in cui si ha l’esatta formula della differenza dei tempi misurata da due osservatori in moto. Queste trasformazioni portano varie conseguenze fisiche dirette (contrazione delle lunghezze, ridefinizione della velocità, equivalenza massa-energia), fra cui il concetto di dilatazione dei tempi; ciò rivoluzionò il confronto della durata di uno stesso fenomeno misurata da diversi osservatori.
Supponiamo per esempio che sia presente un osservatore proprio nel punto equidistante fra due orologi e che, all'inizio dell'esperimento, vi sia anche un osservatore in movimento che passi proprio in quel momento nello stesso punto centrale. Entrambi gli orologi, da fermi, segnano le sette e, in accordo con il programma dell'esperimento, da ognuno dei due orologi parte un segnale luminoso. Dal punto di vista dell'osservatore fermo nel punto equidistante dai due orologi, i due segnali luminosi, qualche istante dopo, giungono simultaneamente in quel punto. La stessa cosa però non è più valida dal punto di vista di quell’osservatore in moto che si trovava a passare, in quell’istante, per lo stesso punto intermedio fra i due orologi. Infatti, poiché questo si sta muovendo, dirigendosi verso uno dei due orologi e allontanandosi contemporaneamente dall'altro, la distanza che il primo segnale luminoso deve percorrere prima di raggiungere i suoi occhi risulta essere inferiore a quella che deve invece essere percorsa dal secondo segnale e quindi, tenuto in debito conto il fatto che la luce si muove con velocità costante, il primo impulso luminoso raggiungerà l'osservatore mobile prima di quanto non faccia il secondo. L'osservatore mobile ne dovrà allora dedurre, seguendo la medesima definizione operativa di simultaneità adottata in precedenza, che i due eventi non sono più simultanei e che quindi i due orologi non sono tra loro sincronizzati. Ne discende quindi che l'osservatore in moto e quello fermo nel punto intermedio fra i due orologi non sarebbero più assolutamente in accordo sulla sincronizzazione dei due orologi. Il tempo misurato nel sistema di riferimento mobile, risulta quindi diverso da quello misurato nel sistema fisso, secondo la formula
Questo risultato era stato proposto Hendrik Anton Lorentz che però imputava tale dilatazione temporale a un “vento d’etere” (fantomatica sostanza che doveva riempire lo spazio), nel 1902 Henry Poincarè propose che venisse data dignità fisica a un tempo “locale”, dipendente dall’osservatore, un anno più tardi Einstein pur mantenendo il risultato matematico calcolato da Lorentz, usò un approccio del tutto differente, negando l’esistenza dell’etere e seguendo l’idea di Poincarè.
È bene chiarire che la dilatazione dei tempi non è un effetto apparente, o un miraggio dovuto alle peculiarità dei nostri sistemi di misura del tempo, bensì un effetto reale e osservabile. In un sistema di riferimento che si muove rispetto a noi, il tempo scorre realmente a rilento; per chi sta in quel sistema, naturalmente, tutto pare procedere a ritmo normale, poiché anche gli "orologi interni" dei sistemi biologici battono in ritardo.
Più tardi la relatività generale, fra le molte considerazioni che comporta, infligge un altro colpo al concetto tradizionale di tempo, affermando che in prossimità di un corpo di massa relativamente grande come la Terra, il tempo scorre più lentamente, ad esempio un orologio posto sul Sole ci sembrerà scorrere più lento di uno vicino a noi sulla Terra.
Nel 1911 Einstein scrive: “Se un organismo vivente, dopo un volo arbitrariamente lungo ad una velocità approssimativamente uguale a quella della luce, potesse ritornare nel suo luogo di origine, egli sarebbe solo minimamente alterato, mentre i corrispondenti organismi rimasti già da tempo avrebbero dato luogo a nuove generazioni”. Questa sconcertante affermazione rappresenta una diretta conseguenza della dilatazione del tempo.
Questo risultato è stato molto discusso, con il paradosso dei gemelli: immaginiamo che l'orologio stazionario sia un organismo vivente di nome Isaac, mentre l'orologio viaggiante, sincronizzato col primo, sia un suo gemello di nome Albert. Nell'ipotesi che gli orologi biologici (ritmiche pulsazioni del cuore, battiti del polso) si comportino come gli ordinari segna tempo, supponiamo che il giorno del venticinquesimo compleanno Albert possa partire con una nave spaziale che si muove con velocità costante rispetto alla Terra e quindi rispetto a Isaac. Poiché nel veicolo spaziale in movimento tutti i fenomeni, compresi quelli biologici, scorrono più lentamente, anche l'invecchiamento di Albert avviene con un ritmo più lento. In altri termini, Albert, dopo avere fatto un lungo viaggio, ritornando sulla Terra, trova Isaac più invecchiato. Teoricamente, nell'arco della vita umana un astronauta potrebbe fare un viaggio verso una lontana stella e fare ritorno in un mondo del futuro, in quanto sulla Terra sarebbero trascorsi alcuni secoli.
Naturalmente l'effetto è tanto più consistente quanto maggiore è la velocità v della nave spaziale. Se invece la velocità v è piccola rispetto alla velocità c della luce, come avviene in tutti i voli spaziali che si stanno realizzando in questi anni, la dilatazione del tempo è praticamente trascurabile. Per esempio, supponiamo che Albert voli 10 anni del tempo misurato sulla nave spaziale con velocità v = 0,98 c rispetto alla Terra, per Isaac è passato un tempo:
Quindi al termine del volo Albert avrà solo 35 anni, mentre Isaac ne avrà 75, cioè Isaac invecchia più di Albert.
Il problema dei gemelli però sembra condurre a un paradosso. Infatti, quando Albert dalla sua nave spaziale guarda la Terra, osserva gli orologi di Isaac procedere più lentamente, perché anche questi sono in moto rispetto all'astronave; perciò Isaac dovrebbe invecchiare meno di Albert, non dovrebbe importare quale gemello compie il viaggio e quale torna a casa. Questo tipo di ragionamento però sarebbe esatto solo se il problema dei gemelli fosse esattamente simmetrico, se cioè i gemelli si trovassero sempre nelle stesse condizioni di moto. In realtà non è così perché Albert deve accelerare al momento della partenza e dell'arrivo; inoltre, per poter tornare sulla Terra deve invertire rotta e durante questa fase del volo la nave spaziale è soggetta ad accelerazioni. Albert ha quindi la possibilità di accorgersi di queste accelerazioni, perché si manifestano rispetto ad esso forze d'inerzia che agiscono su di lui e su tutti gli oggetti dell'astronave. Succede quindi nella nave spaziale qualcosa di nuovo rispetto a Albert, mentre Isaac non subisce nulla di tutto questo. Il problema è perciò asimmetrico ed è per questo motivo che, eseguendo con attenzione un corretto calcolo, Albert al suo ritorno sulla Terra trova effettivamente Isaac più vecchio. Questo è comunque un effetto fisico del tutto reale, anche se non può essere sperimentalmente verificato finché non si raggiungeranno velocità non trascurabili rispetto a quella della luce, e almeno per il momento non se ne vede la possibilità. L’astronauta russo Sergei Avdeyev, trascorrendo più di due anni sulla stazione orbitante russa MIR, una delle macchine più veloci costruite dall’uomo (8 Km/s), ha fatto un balzo nel futuro di circa un cinquantesimo di secondo, un’inezia, ma questo è il più grande viaggio del tempo compiuto dal genere umano.
LA DIMENSIONE TEMPO NELL’ARTE E NELLA LETTERATURA
STORIA DELL’ARTE
Fino all’Ottocento la pittura ha tentato di riprodurre sulla tela una realtà a tre dimensioni, cercando di dare l’illusione della profondità. A partire dalla fine del secolo, la rappresentazione esatta della realtà è sentita come limitazione della libera creatività artistica, si cercano quindi nuovi modi di rappresentare la realtà introducendo la quarta dimensione: il tempo.
In Francia nella seconda metà dell'Ottocento, in contrapposizione alle tradizioni pittoriche contemporanee e dello stile promosso dall'Accademia delle belle arti di Parigi, si sviluppa la corrente impressionista.
Tradizionalmente l'Accademia imponeva i modelli ai quali tutta l'arte francese avrebbe dovuto uniformarsi, gli impressionisti rifiutano questi dettami, preferendo dipingere paesaggi, scene di strada e aspetti della vita quotidiana, con una tecnica del tutto innovativa basata sull’abolizione del chiaroscuro, del disegno e della visione prospettica, il soggetto in sé perde d’importanza, mentre accostando colori puri si vuole rendere l’impressione che esso produceva. Protagonista di questo movimento è senza dubbio Claude Monet, che esalta l’importanza della percezione visiva come atto fondamentale per la realizzazione del quadro. Tra le sue numerose opere, fra il 1892 e il 1894 egli esegue una serie di dipinti (circa 50), che ritraggono una parte della facciata della cattedrale di Rouen in diverse ore del giorno e in diversi periodi dell’anno. Egli ritrae sempre lo stesso soggetto, ma non è interessato alla cattedrale (ne riprende infatti solo una porzione) quanto alla luce che vi si riflette in modo sempre diverso, in ogni quadro cambia l’ora, la luce l’istante; Clemenceau scrisse: “le tele avrebbero potuto essere cinquanta, cento, mille, quante i minuti della nostra vita”, ogni tela è unica perché rappresenta un momento unico in cui la cattedrale viene osservata. In definitiva mentre la forma della facciata rimane costante attraverso ogni cambiamento di luce, la ripetuta rappresentazione di questa segna la sua realtà, e la sua natura durevole diventa ambigua, fuggevole e frammentaria. Il periodo molto lungo impiegato da Monet per completare le opere nello studio fu forse determinato dal desiderio di ricostruire la continuità, la quale si poteva ottenere soltanto attraverso la pittura, attraverso ciò che egli aveva descritto come “il paragone e la successione di tutta la serie”.
Definito post-impressionista, Paul Cezanne riprende dalla corrente impressionista il dipingere en plain air e la ricerca della massima luminosità dei colori, ma se ne stacca presto; attua infatti la cosiddetta compenetrazione di piani, cioè schiaccia tutto su un piano facendo slittare gli altri in modo che si mescolino, cosicché spesso il cielo si fonde con il primo piano. Inoltre egli “solidifica” l’impressionismo, dà infatti più corposità alle figure (anche all’aria), usando pennellate più pesanti (diverse dalle rapide pennellate impressioniste), così facendo geometrizza la natura componendola in precise figure. Cezanne ha dichiarato: “tutto quello che vediamo si dilegua, la natura è sempre la stessa, ma nulla resta di essa, di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della durata, deve farcela gustare eterna”, l’artista deve quindi penetrare all’interno degli oggetti per coglierne l’essenza. Come Monet anche Cezanne è alla ricerca del “brivido della durata”, anch’egli dipinge un paesaggio (quello della montagna Sainte-Victoire) innumerevoli volte e sempre in modo diverso, cercando di esprimere la durata con una profondità data non dalla prospettiva ma dai colori, mostrando lo spessore e la corposità dell’aria: la dimensione tempo quindi in Cezanne si identifica con la durata, ed è data dalla solidità.
Il pittore francese è anche il punto di riferimento fondamentale dal quale all’inizio del Novecento muove la corrente cubista, cui esponenti sono Pablo Picasso e Georges Braque. Imputando una certa superficialità di osservazione all’impressionismo, essi vogliono rendere il proprio modo personale di interpretare il mondo esterno, che non deve essere solo visto, ma anche capito: i cubisti vogliono rendere il significato della realtà filtrato attraverso il proprio io (e quindi soggettivo), ma entrato a far parte della coscienza, maturato, compreso e quindi durevole. La novità del cubismo è che esso è riuscito a rendere, nella bidimensionalità della tela, la conoscenza della realtà non limitata all’aspetto di essa che appare all’occhio da un qualsiasi punto di vista, ma abbracciata totalmente: quando noi vediamo un oggetto e lo percepiamo nelle tre dimensioni dell’ottica naturale, deformandone conseguentemente le proporzioni, sappiamo quali siano le misure reali perché la nostra conoscenza è costituita da esperienze precedenti che, elaborate dalla ragione e memorizzate, ci permettono di capirlo. La memoria è quindi la quarta dimensione indispensabile per la conoscenza. I cubisti non vogliono, dunque, riprodurre la realtà come la vediamo, perché non è in quella forma che la conosciamo. Essa deve quindi essere scomposta nelle sue innumerevoli facce e ricomposta accostando le une alle altre sulla superficie della tela: solo nell’apparente bidimensionalità possiamo apprezzarla globalmente (come accade nella nostra coscienza), vedendola contemporaneamente da ogni lato possibile. La quarta dimensione, oltre ad avere un significato volumetrico-spaziale, ha anche quello temporale: la visione totale dell’oggetto ci trasmette la sua durata, ovvero il suo permanere in sintesi nella coscienza. Visto che questa sintesi è intuitiva ed esclusivamente personale non esiste un metodo unico per smembrare la realtà; di conseguenza ogni artista procede secondo il proprio modo di comprenderla, esprimendo se stesso.
Per quanto riguarda l’Italia l’avanguardia artistica che ebbe maggior successo fu senza dubbio il futurismo. Nella sua interartisticità il futurismo ha in ogni campo fra i suoi temi fondamentali quello della dinamicità e del movimento, ma uno studio più approfondito sulla dimensione tempo si ha soprattutto nella pittura.
Per gli artisti futuristi il problema era catturare la forma unitaria del corpo che si muove e dello spazio in cui si muove, rappresentare la vita nel suo infinito succedersi, “Per noi il quadro - scrive Boccioni - è la vita stessa intuita nelle sue trasformazioni dentro all’oggetto e non fuori”. Nel Manifesto Tecnico dei Pittori Futuristi (1910), inoltre, si legge: “La nostra brama di verità non può più essere appagata dalla Forma né dal colore tradizionali! Il gesto per noi non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà decisamente la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la resistenza dell’immagine nella retina le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari.”
L’artista vuole quindi penetrare l’intima realtà delle cose, non più fermare l’attimo ma esprimerne il dinamismo, mettendo l’osservatore “dentro” la tela; e in questa intenzione è ravvisabile un forte influsso delle teorie bergsoniane sulla durata. In gran parte delle tele futuriste troviamo questo tentativo di non fermare il movimento, ma di farlo vivere nel tempo: Giacomo Balla, in opere come Bambina che corre sul balcone e Dinamismo di un cane al guinzaglio rende visivamente il movimento delle gambe della bambina che corre e delle zampe e della coda del cane attraverso la rappresentazione simultanea di sequenze temporali successive: il movimento è colto nell’unità dell’intuizione.
In “Visioni simultanee” Umberto Boccioni (ritenuto il maggior esponente dell’arte futurista) tenta di riprodurre simultaneamente l’impatto della vorticosa attività umana ricevuto da una donna affacciandosi a un balcone, seguendo un suggerimento dello stesso Bergson, che suggeriva agli artisti di non limitarsi a riprodurre la città ma di penetrarla per passeggiarvi all’interno.
Una simile riflessione è presente anche nell’architettura futurista di Antonio Sant’Elia. Col Manifesto dell’architettura futurista del 1914, e con le tavole della Città Nuova, Sant’Elia coglie elementi futuristi e razionalisti proponendo un’architettura legata alla funzionalità, senza sovrapposizioni ornamentali, fatta di materiali nuovi (cemento armato, vetro, ferro), leggera, pratica e semplice, audace e temeraria. Ma anche nell’architettura per Sant’Elia non devono mancare la dinamicità e il movimento, fra gli otto punti del manifesto sopraccitato si legge infatti:
3. “Che le linee oblique e quelle ellittiche sono dinamiche, per la loro stessa natura, hanno una potenza emotiva superiore a quelle delle perpendicolari e delle orizzontali, e che non vi può essere un’architettura dinamicamente integratrice all’infuori di esse;”
8. “Da un’architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città. Questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del Futurismo, che già si afferma con le Parole in libertà, il Dinamismo plastico, la Musica senza quadratura e l’Arte dei rumori, e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista.”
ENGLISH LITERATURE
Between 1900 and the end of the World War I in 1918, a literary movement, called Modernism, broke with the realistic tradition of Victorian fiction, following the example given by Henry James. The most important changes were the fragmentation of the traditional ideas of place and time and the consequent collapse of the traditional plot with a story that has a beginning and an end, as well as clearly identificable characters and setting; a new idea of the representative function of the literature, with the accent on psychological truth, rather than an realistic details, led to an use of complex language which often refused traditional syntax, grammar and punctuation
Bergson's conception of time had a great influence on Modernism and on the use of the “Stream of Consciousness Technique”. The greatest shock to traditional ways of ordering reality was the breakdown of time divisions. Instead of the accepted and clearly distinct ideas of past, present and future, philosophers began to conceive time as a continuous flux in which only individual consciousness identified significant moments. The most influential thinker in this field was the French philosopher Henry Bergson. Virginia Woolf later said that human perception depends not on measurable time but on the way that mind is affected by it; consequently in her novels or in Joyce's the space of a few hours can contain a whole life, a minute can be more important and last more than a year if the significant action happens inside, not outside the mind. These revolutionary concepts of the human mind and its relation to the outside world could hardly be expressed in traditional ways. The technical solution adopted by most Modernists, in both prose and verse, was “the stream of consciousness”, so called because it tried to reproduce the continuous flow of human thought (the definition was originally coined by William James, the brother of the novelist Henry). This style puts together apparently distant or incongruous ideas and images, presenting them with no rational order but rather as they would pass through the unconscious mind.
James Joyce was the first and the most important amongst the great experimentalists of the 20th century. He was born in Dublin from a good family in decline and was educated in his native town, but he decided to cut himself free from his family, country and religion by escaping from Ireland into permanent self-exile, living in Paris, Trieste (where he met Italo Svevo) and Zurich. The importance of Joyce is that he had renewed the literature. His novels are very different from the tradition, in fact he doesn't respect the chronological order, he uses the association of ideas and flashback and he eliminates the presence of the omniscient narrator, expressing the points of view of many characters. He became famous with his neologism and his "exploration" of the language.
In Dubliners, he represents Dublin, his city of birth, as the symbol of the entire world, like a dead background. The stories are divided into four parts, like the human life, and are descriptions of spiritual, political and social paralysis of the city. The fifteen novels reflect an Ireland disappointed, annoyed and displeased. Soul and feelings become dry, the characters of these stories, apparently banal, try to escape from the immobility of their country.
In general the attention of the author is concentrated not to record the external behaviours of the characters but mainly all the thoughts, sensations and reactions that mix together in a progressive flux of mental associations coming from the unconscious. This particular narrative technique is called stream of consciousness and represents the most meaningful element of novelty in his work.
The stream of consciousness is a psychological category, based on a casual and unintentional mixture of ideas, emotions and impressions of a person who is not thinking to it voluntarily but on the contrary is letting his mind flow freely if stimulated by particular visual elements, sounds, smells. So the characters don't express through dialogues but through interior monologues, not presented as thoughts that are logically coherent and syntactically regular but instead as immediate, often fragmentary ones, not orderly in the sequence and with not clearly understandable expressions.
It allows the reader to penetrate directly into the mind of the character, showing darkest sides of psyche, with a succession of combined and indistinct temporal moments, bringing to the surface the deepest impressions, images and remembrances without a chronological sequence. Time dimension dissolves and past, present and future are linked only to the flow of our conscience.
In this way it's evident that the interest of the author is addressed not to the relationships of the characters with society, but for his/her interiority, so that he introduces us directly into the mind, where the thoughts are in chaotic and initial form.
So the main elements of time’s conception for Joyce are:
-Every episode or detail is equally significant and can be the object of description or investigation in a novel;
-Any moment is equally entitled to represent the life of an individual;
-Each single moment contains in itself not only traces of our present but also of our past and our future;
-Sometimes happens that one occasional event, or impression, may suddenly be charged with the significance of a revelation: epiphany.
Virginia Woolf was one of the most original novelists of the 20th century as well as one of the most distinguished literary critics of her time. Throughout her life she moved in the company of writers, artists, critics and philosophers, as John Maynard Keynes, Bertrand Russell, E.M. Forster and her husband Leonard. Inevitably, not being in close contact with ordinary people, Woolf’s writings concentrated more on moments of great sensitivity. However she had constantly to fight a mental instability which led to frequent breakdowns and eventual suicide at the age of 59.
One of her most famous novel is undoubtedly To the Lighthouse. This novel is divided into three “temporal panels” united by the symbolic thread of a trip, planned by Ramsay family during a holiday. The central character is Mrs Ramsay, a very beautiful and melancholic woman. The multiple angles by which Mrs Ramsay is observed, or rather the various consciences, the various persons around her and the “stream of consciousness” of the Mrs Ramsay herself, constitute a polyphonic representation of the difference between chronological and interior time. In fact the true protagonist of her work is the time: time, as perpetual stream, threatens person’s integrity and the reality of the concrete experience. So Virginia Woolf records in what she calls “moments” or “moments of existence” the authenticity of the life. The relation between the “moment” and the stream of the time is, in her novels, analogous to that between personal identity and external world.
LETTERATURA ITALIANA
Per quanto riguarda l’Italia l’influsso delle nuove teorie sul tempo di Bergson e Freud si vede soprattutto nelle opere di Italo Svevo, e in particolar modo ne La coscienza di Zeno, suo capolavoro del 1923.
La coscienza di Zeno è una sorta di autobiografia di un ricco commerciante triestino che egli scrive, su consiglio dello psicoanalista che lo sta curando, volgendosi indietro a riconsiderare gli eventi della sua vita. Il romanzo è scritto in prima persona da Zeno Cosini, il protagonista, il quale è contemporaneamente l'attore e il narratore della storia che lo riguarda.
Il romanzo è preceduto da una prefazione, a firma del dottor S. psicoanalista, che spiega come ciò che segue sia il memoriale di un suo paziente (Zeno Cosini), steso come preparazione ed aiuto alla terapia a cui Zeno si è sottoposto per poi ribellarsi ed abbandonare l'analista, il quale intende vendicarsi rendendo pubblico il manoscritto privato. La costruzione del racconto non è un’autobiografia compiuta ma un'analisi retrospettiva di episodi della vita del protagonista.
La trama narrativa procede su due distinti piani temporali: uno è quello dell'attualità, il tempo del racconto ("L'adesso che scrivo" come dice Zeno) nel quale si svolgono la redazione delle memorie e la cura psicoanalitica e l'altro, il tempo del vissuto, riguarda esperienze e fatti evocati e riportati al momento attuale della narrazione da parte di Zeno. La trama si viene così articolando in capitoli, ciascuno dei quali imperniati su un nucleo tematico che ripercorre un evento del vissuto del protagonista: il vizio del fumo, la morte del padre, la storia del suo fidanzamento e matrimonio con Augusta, la sua vita fra la moglie e l'amante, la storia dei suoi affari commerciali con Guido e la fine della cura psicanalitica con l’arrivo della guerra.
Si tratta di capitoli nei quali scompaiono la struttura e le sequenze temporali del romanzo tradizionale (non c'è storia da narrare e non c'è una successione logica-temporale da seguire) ma che procedono per argomento nel susseguirsi di eventi che il protagonista rivive in libera successione con il fluire dei ricordi. E' un continuo alternarsi di passato e di presente, con una molteplicità di punti di vista e di retrospettive, nella realtà senza tempo della coscienza. Ed infatti protagonista del romanzo è proprio la coscienza nella quale si intrecciano e si mescolano disordinatamente i frammenti della memoria al di fuori di ogni percorso cronologico.
Nella sua prefazione a La coscienza di Zeno Eugenio Montale (uno dei primi a comprendere la grandezza dell’opera), scrive: “Nella Coscienza di Zeno non c’è più il senso temporale ed è facile spiegarsene le ragioni. Chi si volge indietro non può far sì che il tempo sia reversibile: può solo rioccuparlo parzialmente estraendolo dai giacimenti della memoria; ma parlo di “occupazione” perché il tempo recuperato non svolge il suo filo, anzi ristagna… La Coscienza di Zeno è perciò una grande commedia psicologica e di costume, una rappresentazione che non ha un vero inizio e non ha propriamente termine.”
La coscienza non è più un’unità identica ed ordinata ma si scompone e si ricompone continuamente attraverso un complesso poliedrico di esperienze, di ricordi, di sentimenti, di desideri rivissuti da Zeno nello smarrimento e nel buio della sua realtà esistenziale; con un senso della durata temporale molto vicino al pensiero di Bergson, Svevo gioca su molti piani con continui rimandi e rispondenze, con modi simili a quelli usati negli stessi anni da Virginia Woolf e James Joyce.
L'io narrante confronta ieri e oggi, con giudizi e con riflessioni, senza un ordine cronologico riportando alla luce episodi occultati per anni nelle stratificazioni dell'inconscio, lo stesso Svevo afferma “il passato è sempre nuovo, come la vita procede esso si muta perché risalgono a galla delle parti che parevano sprofondate nell’oblio mentre altre scompaiono”.
Poiché Svevo non segue una progressione logico-narrativa, ma procede secondo un ordine che obbedisce all’analogia e all’associazione di idee, in passato alcuni critici hanno accostato il “flusso di coscienza” dell’Ulysses di Joyce al monologo interiore di Zeno: ma se ci sono alcuni punti in comune (la narrazione che procede a episodi autonomi, spontaneamente), tuttavia ci sono ben evidenti differenze tra le due opere, che nascono con una struttura radicalmente diversa: Zeno nel suo monologo ricostruisce il proprio passato per iscritto, costruendo logicamente il discorso, con un ordine preciso, selezionando il materiale; quella del protagonista dell’Ulisse (Mr Bloom) invece è una registrazione diretta e immediata dei contenuti della mente, al presente, senza alcun controllo, in un processo da cui sono escluse coscienza e volontà; inoltre Bloom parla tra sé, mentre Zeno si rivolge a un preciso destinatario (il dottor S.) e questo lo porta a esercitare un controllo sul discorso, cosicché esclude alcune parti che non vuole far conoscere al dottore.
LETTERATURA LATINA
Lucio Anneo Seneca è forse la personalità di maggior rilievo dell’età neroniana Nato in Spagna, trascorre gran parte della sua vita a Roma, dove opera attivamente in politica, come precettore e consigliere di Nerone, nel 62 d.C. si allontana dalla gestione politica dell’impero e nel 65 è costretto al suicidio in seguito alla congiura dei Pisoni. Ha lasciato una vastissima produzione letteraria che comprende opere filosofiche (dieci Dialogi e due trattati), dieci tragedie, un’opera satirica (Apokolokyntosis), un epistolario e un’opera di carattere scientifico (Naturales Quaestiones), questa ricchezza e varietà di opere rispecchia la sua ampiezza di interessi, che comprendono la filosofia, la politica, la scienza e la letteratura, senza dimenticare l’attenzione alla società in cui vive e l’applicazione pratica della virtù, e testimoniano una cultura vasta e multiforme, nata dallo studio critico di varie ideologie, fra cui spicca sicuramente la dottrina stoica.
Uno dei temi presenti nella trattazione senecana è la riflessione sul tempo, che assume una connotazione etica ed è visto in relazione all’uso che ne viene fatto e all’avvicinarsi della morte. Questa è una delle tematiche che appare trasversalmente in quasi tutta la sua produzione, in particolare il De brevitate vitae (trattato in forma dialogica) è interamente dedicato all’uso (e allo spreco) che viene fatto del tempo, con una riflessione sulla durata della vita; lo stesso tema e presente nel sesto libro delle Naturales Quaestiones, dedicato ai terremoti e ai vulcani, in cui riflette sulla morte, e in alcune delle Epistulae ad Lucilium (in particolare le epistole 1, 12, 49, 76, 93 e 101). Dalla lettura di queste parti emerge un senso di fuga del tempo e precarietà delle cose; “il tempo fugge con la massima velocità […], mentre siamo intenti alle cose presenti non ce ne accorgiamo, tanto lieve passa nella sua corsa precipitosa”, scrive all’amico Lucilio, dimostrando di vivere il tempo nel timore che non sia sufficiente all’uomo (“il tempo scorre veloce e ci lascia avidissimi di sé, né il futuro, né il passato sono in mio potere: io sto sospeso all’attimo fuggente”), con un’inquietitudine sempre viva che si traduce nell’immagine del tempo paragonato ad un fiume in piena. Il risultato è quindi un’ammonizione a fare un uso attento e consapevole del tempo, infatti dichiara: “sono tanto più indignato nel vedere che alcuni sprecano in cose inutili la maggior parte di questo tempo, che non basta neppure per le cose necessarie, anche quando è speso con molta cura”. Secondo Seneca gli uomini perdono il loro tempo in occupazioni vane e si accorgono di quanto esso sia prezioso solo quando si vedono vicini alla morte, il saggio invece amministra con cura ogni momento che gli è concesso, e vive ogni giorno come se fosse l’ultimo, consapevole che “omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est”, tutte le cose appartengono a altri, solo il tempo è nostro, mentre gli altri concedono il loro tempo ad altri senza dargli peso (“re omnium preziosissima luditur”, si gioca con la cosa più preziosa di tutte). La concezione stoica del tempo visto nel suo dinamismo viene quindi ripresa da Seneca che vede il tempo nell’unica dimensione del presente, solo in esso può essere colta con pienezza la vita, “[la vita] di cui non ci rendiamo conto mentre procedeva, ci accorgiamo che è passata”. Per questo l’invito di Seneca è protinus vive, vivi adesso, non più tardi.
DALLA LUNA AL CESIO, CONVENZIONI E MISURE SEMPRE PIU’ PRECISE
La storia della misurazione del tempo parte dall’antica osservazione dei corpi: ventimila anni fa i cacciatori, segnavano con tacche incise sulle ossa i passare dei giorni fra le varie fasi del ciclo lunare; anche i calendari dei Sumeri, erano ancorati al periodico apparire e mutare del nostro satellite e così pure quelli Babilonesi del millennio successivo. I maya misero a punto inoltre, a scopo rituale e astrologico, un calendario molto complesso, in cui si integravano diverse suddivisioni ispirate da Venere oltre che dal sole e dalla luna.
L’osservazione degli astri ispirò anche gli uomini dell’antica Britannia che eressero il gigantesco cerchio di pietra di Stonehenge per un fine più complesso: la previsione delle eclissi solari.
Il primo misuratore del tempo giornaliero fu probabilmente la meridiana egizia del 1450 a.C., che assunse poi, nel corso dei secoli, svariatissime forme. Dai tempi remoti le meridiane furono dotate di diverse scale da usarsi nei diversi periodi dell'anno. L'orologio ad acqua, o clessidra, è della stessa epoca: con esso lo scorrere del tempo è misurato dal passaggio dell'acqua attraverso un foro da un recipiente ad un altro ad esso collegato. Analoga e contemporanea alla clessidra ad acqua è quella a sabbia, tuttora in uso. Questi tre strumenti rimasero per migliaia di anni gli unici misuratori del tempo giornaliero.
Gli orologi meccanici apparvero per la prima volta nel tredicesimo secolo d.C., ed erano azionati da pesi. La scoperta da parte di Galileo della legge sul moto del pendolo, che pare egli facesse osservando l'oscillazione d'una lampada nella cattedrale di Pisa, apri nel 1581 un'era di maggior precisione per la misurazione del tempo.
L'accurata misurazione meccanica del tempo deve basarsi su qualche movimento a ripetizione assolutamente regolare. Il primo meccanismo fu l'asse del bilanciere, in cui un paio di palette attaccate a un braccio oscillante ingranano alternativamente con i denti d'una ruota a denti frontali mossa da un peso in discesa. La regolarità nel movimento dell'asse del bilanciere dipendeva dall'attrito e, benché fosse soddisfacente in un'epoca in cui la precisione non aveva grande importanza, questo non era un buono strumento per misurare il tempo. Il più antico orologio esistente di questo tipo risale al 1386 e si trova nella cattedrale di Salisbury; un orologio molto simile a questo esiste a Wells (fu trasformato poi in pendolo) e un altro a Rouen. L'orologio di Wells dimostra quanta passione ci fosse allora per i meccanismi complessi, oltre che per la vera e propria misurazione del tempo. Il battere delle ore è effettuato da figure mobili, quattro cavalieri a cavallo, e l'orologio mostra pure la data e la fase della Luna. L'orologio astronomico di Giovanni De Dondi, costruito nel periodo che va dal 1348 al 1362 e del quale ci rimangono descrizioni dettagliate, non solo indicava i movimenti del Sole, della Luna e dei pianeti, ma conteneva anche un calendario perpetuo delle feste mobili della Chiesa.
Il moto apparente del Sole nella sfera celeste è stato a lungo considerato un criterio sul quale fondare la misura del tempo. In ogni luogo e in qualunque giorno, l'ora del mezzogiorno è definita dalla culminazione del Sole al meridiano celeste locale, ossia dal passaggio del Sole nel punto più alto del cerchio massimo passante per lo zenit del luogo di osservazione e per i poli della sfera celeste. L'intervallo di tempo tra due successivi passaggi del Sole attraverso il medesimo meridiano celeste è il giorno solare, per tradizione suddiviso in 24 ore. Poiché il moto di rotazione della Terra non è uniforme, la durata del giorno solare varia durante l'anno; di conseguenza per la determinazione dell'ora civile si introdusse come riferimento il giorno solare medio, misurato sulla base di un Sole immaginario che viaggi con velocità costante durante tutto l'anno.
L'ora civile, che è basata sull'ora solare, fu introdotta nel 1883, in seguito a un accordo internazionale, al fine di evitare le complicazioni che sarebbero sorte nella stesura degli orari ferroviari se ciascuna comunità avesse usato l'ora locale. La superficie terrestre fu divisa in 24 fusi orari, a partire dal meridiano di longitudine zero passante per il Royal Greenwich Observatory, nell'Inghilterra meridionale, e perciò detto meridiano di Greenwich. All'interno di ciascun fuso, individuato in relazione alla sua posizione a est o a ovest di Greenwich, tutti gli orologi segnano la stessa ora convenzionale. In linea di principio, i fusi orari sono fasce che si estendono per 15° di longitudine; di fatto, tuttavia, al fine di facilitare le attività commerciali, i limiti di queste fasce sono tracciati in modo da adattarsi alle frontiere internazionali e ai confini naturali fra le varie regioni all'interno di un medesimo stato. Sulle navi, gli orologi sono spesso regolati sull'ora locale di Greenwich, che viene detta ora media di Greenwich (GMT, Greenwich Mean Time). Gli astronomi usano essenzialmente lo stesso sistema, cui danno la denominazione di tempo universale (UT, Universal Time).
Il tempo sidereo è invece misurato assumendo come riferimento la posizione delle stelle fisse. L'anno sidereo, definito come l'intervallo di tempo che intercorre tra due successive congiunzioni del Sole con una stessa stella, è di 365 giorni, 6 ore, 9 minuti e 9,5 secondi; la sua durata è quindi diversa da quella dell'anno solare che vale 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45,5 secondi.
Il giorno solare e il giorno sidereo medi non sono sufficientemente precisi a causa delle irregolarità del moto di rotazione della Terra intorno al suo asse: il periodo di rotazione della Terra, che subisce lievi fluttuazioni annuali, aumenta di circa un millesimo di secondo ogni cento anni (rallentamento secolare). Nel 1940, per superare questo inconveniente, fu introdotto il tempo delle effemeridi, basato sull'annuale moto di rivoluzione della Terra attorno al Sole; come il tempo sidereo, esso assume come punto di riferimento l'equinozio di primavera. È usato soprattutto dagli astronomi quando è richiesto il più alto grado di precisione nel calcolo della posizione dei pianeti e delle stelle.
Fino al 1955 l'unità di tempo in uso nella scienza, il secondo, era definito, con riferimento al moto di rotazione della Terra, come 1/86.400 del giorno solare medio.
L'evoluzione della scienza, tuttavia, richiese una definizione più precisa e rigorosa cosicché nel 1967 il secondo fu ridefinito come la durata di 9.192.631.770 oscillazioni della radiazione emessa dall'atomo di cesio-133.
Tuttavia nel corso dei millenni, sulla Terra il giorno, l'intervallo di tempo che va da un sorgere del Sole all'altro, si è allungato: il tempo che impiega la Terra a girare attorno al proprio asse, nel moto di rotazione, è lentamente cresciuto e tuttora continua a farlo. Il fenomeno è dovuto all'attrazione gravitazionale esercitata dalla Luna sulla Terra, responsabile non solo delle maree, la variazione del livello delle acque marine. La forza di attrazione, infatti, si esercita anche su tutto il globo terrestre che tende a essere frenato e la sua rotazione viene frenata. Di conseguenza, il giorno si allunga. Le stime ci danno un rallentamento di due millesimi di secondo ogni secolo circa. Studi sui fossili testimoniano a loro volta di un avvenuto rallentamento della rotazione terrestre di 2,7 ore in 500 milioni di anni. Quando ancora attorno al pianeta non si era formato lo strato di ozono il giorno era di sole 21 ore.
Il 23 ottobre 1998 (ore zero, minuti zero, secondi zero.) nasce il beat una nuova misura del tempo. Ha creare questa nuova misura del tempo sono stati Nicholas Negroponte (famoso scienziato americano che ha fondato Media-Lab ), e Nicholas Hayek, presidente della Swatch. Secondo questi scienziati il tempo doveva costituire un riferimento unico sul tutto il pianeta , senza essere più assoggettato ai vincoli dei fusi orari.
Così hanno deciso di creare un tempo unico, dividendo la giornata in mille beat, ognuno dei quali dura esattamente un minuto e 26,4, secondi. Il beat si sta diffondendo rapidamente soprattutto come unità di misura del tempo su Internet, che avendo abolito le distanze non poteva essere ancora legato al tempo locale.

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