Il dolore

Materie:Tesina
Categoria:Multidisciplinare

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Testo

Tesina di Maturità per Liceo Scientifico
Di Lorenzo S.
IL DOLORE
- Latino: Seneca / S.Agostino
- Italiano: Ungaretti / Montale / carrellata generale
- Filosofia: Schopenhauer /Freud
- Storia: la crisi del 1° dopoguerra
- Arte: Munch
- Inglese: Eliot

Tema eterno di riflessione è la presenza nel mondo del dolore e del male: dalla tragedia al filone platonico e neoplatonico (che ripone la felicità nell’aldilà e nel possesso del Bene assoluto e divino), dal giansenismo di Pascal a Rousseau, fino a più moderni intellettuali. Non solo ogni essere umano ma ogni creatura vivente lo ha provato: chi in modo acuto e atroce, chi meno, però tutti ne sappiamo qualcosa.
Non è poi solo il problema del dolore in generale che ci tormenta quanto il significato che noi uomini cerchiamo di dare a questo dolore. Perché, infatti, ci chiediamo, dobbiamo soffrire? Perché deve soffrire, soprattutto, l'innocente? Perché, se c'è un Dio, permette tanto dolore e la sofferenza dei giusti?

Vediamo come gli intellettuali hanno affrontato la questione, partendo dal mondo antico ed in particolare:
da SENECA
Seneca risponde a questa domanda, postagli ipoteticamente da Lucillio, nel “De Providentia” dicendo che ai buoni e ai giusti non capitano mali, ma solo disagi. Il dolore è un disagio, non un male. Il buono riesce a trasformare il disagio in una cosa sopportabile, che non lo turba, che lo accresce nella virtù: allora solo superando prove e ostacoli sempre maggiori, si diventa più forti interiormente. E’ un eroismo derivante da una visione atletica dell’uomo, un’idea stoica-morale ed epicureista del saggio, che va alla ricerca della libertà contro le passioni e i desideri irrazionali che da ogni parte lo aggrediscono e lo minacciano. La sola infelicità è il non avere possibilità di mettere alla prova le proprie forze, la propria resistenza.
Per raggiungere la sapientia, allora, ci si deve impegnare a tempo pieno nella lotta, contro gli impulsi, privandolo della pace dell’anima (che ritroverà solo con la morte). Non rimane che ricercare la virtù, attraverso la teoria epicurea del “vivi nascosto”.
Per quanto riguarda il mondo cristiano,
AGOSTINO
La sofferenza dell’uomo risiede nella sua stessa natura, limitata e instabile sin dall’inizio. Questo a causa della primitiva e superba rinuncia all’Eden: il peccato originale. Allora l’uomo è infirmus, senza possibilità di guarigione: questa lacerazione lo mantiene in uno stato di continua inquietudine, che è nostalgia di pienezza e di gioia, traccia del paradiso perduto, che c’induce a tendere ad esso e a Dio: “Inquieto è il nostro cuore finchè non riposi in te” (dice Agostino). Il santo riprende il neoplatonismo, soprattutto dopo aver letto Plotino, e lo cristianizza. Perciò il male non esiste come sostanza, ma è solo privazione del bene, delle cose create da Dio, che è la verità e, finché l’uomo non lo trova, non sarà mai felice. La ricerca s’interroga su tutto, non si abbandona a credere, e affronta continuamente le difficoltà. Essa ci purifica dall’incalzare delle passioni verso una rinascita. La fede è la condizione di questa ricerca, ma è al termine di essa, come dono della Grazia divina. Solo dentro di noi stessi, nella memoria, troveremo Lui, come certezza fondamentale che supera i dubbi. : ciò che è sforzo di liberazione, volontà tesa a cercare e ad amare Dio, è null’altro che l’azione della Sua Grazia in noi.
La superbia della volontà che si allontana consapevolmente da Dio e si attacca a ciò che è inferiore è il peccato. Non vi è male maggiore di esso: è l’abolizione della speranza e della ricerca, che ci fa attaccare al materialismo come se fosse Dio, rinunciando a Dio. Quanto Il male fisico, è semplicemente una conseguenza del peccato, del male morale; il corpo, con i suoi desideri, è d’ostacolo alla vita dell’anima. Il cammino di ognuno di noi dovrà tendere al recupero e alla valorizzazione di quel poco di bene prodotto lungo la strada, come dirà poi Calvino.
Spostando lo sguardo sui poeti moderni, notiamo che
UNGARETTI
Anche per Ungaretti l’uomo è una fragile creatura, è un “nomade”, un girovago, alla “folle ricerca di un paese innocente”, dove sia possibile sentirsi in armonia con l’universo, x sottrarsi al “consumarsi senza fine del tutto”. Ungaretti, avverte che l’uomo sarà sino alla fine in balìa di un viaggio verso la morte senza alcuna possibilità d’intervento, perennemente profugo, sradicato, strappato via da un punto fermo in cui riconoscersi e in cui placare la sua sostanza umana (da qui il titolo, ma non definitivo, della 1° raccolta “Allegria di naufragi”). La poesia d’Ungaretti nasce in mezzo alla guerra e al dolore: l’impatto con questa realtà imperiosa della guerra, i suoi orrori e i suoi massacri, lo portano a prendere coscienza delle contraddizioni del vivere umano tra tensione vitale e morte incombente. La guerra, dunque, mettendo l’uomo senza protezione e senza diaframmi di fronte al suo destino, lo rivela nella sua nudità primordiale, nella sua fragilità, nella sua solitudine, nella sua innocenza. Tutta la vita appare vuota desolazione, una “corolla di tenebre” (dice il poeta). Tuttavia è proprio in questa totale disperazione che si può percepire l’infinito nelle cose (come la poesia Mattino) attraverso la parola nuda e scavata, scabra e disseccata, per ritrovare una propria verginità, è l’espressione di questa condizione umana; le parole vengono isolate e scandite, in maniera da evidenziare la carica di significati espressionistici e di valori simbolici di cui ciascuna di esse è portatrice: sentimenti, oggetti, paesaggi. Di qui l’uso dell’analogia, la frantumazione della metrica tradizionale, l’abolizione totale o parziale della punteggiatura, l’emergere delle parole dagli spazi bianchi tra un verso e l’altro; quasi naufragassero in un immenso mare.
Ma analizziamo meglio gli sconvolgimenti che porta dietro di sé questa guerra:
STORIA
Sicuramente un’enorme perdita di vite umane 8,5 Milioni (circa il 60% delle forze mobilitate), come mai prima non era accaduto. Ciò è dovuto ad un nuovo modo di concepire la guerra: diventa una guerra di posizione, dove non accade nulla; ci sono attese snervanti e solo sporadici assalti della fanteria, con un illogico spreco di vite umane, solo per guadagnare pochi metri. È oltretutto una guerra dove la tecnologia e la sperimentazione scientifica entrano prepotentemente, con armi sempre più letali (bombe e gas). Per quanto riguarda le conseguenze all’interno degli stati, la guerra porta alla sconfitta e al disgregamento, con la nascita di nuovi stati, degli imperi centrali multinazionali (Russo/Austro-Ungarico/Turco) e del Reich germanico. Tutti allora precipitano in una crisi economica, politica e sociale gravida di sviluppi negativi: il valore della moneta diviene insignificante, l’aumentare dell’inflazione e della disoccupazione danno vita a forti contrasti tra le classi, e a nuovi movimenti dittatoriali e nazionalistici. “I trattati di pace non tendono alla rinascita economica dell’Europa, a trasformare in buoni vicini gli imperi centrali disfatti, a consolidare i nuovi stati dell’Europa; non promuovono neppure una stretta solidarietà economica fra gli stessi alleati” (Jhon Maynard Keyness). Allora anche nei paesi vincitori la produzione risulta inferiore alla domanda e si registrano inflazione, calo del potere d’acquisto e disoccupazione. Le industrie, infatti, come anche le campagne, non sono in grado di assorbire tutta la manodopera costituita dai reduci di guerra; oltretutto esse devono riconvertire la loro produzione (non più bellica) trovando notevoli difficoltà. La difficile situazione porta allora ad un aumento delle tensioni sociali: s’inasprisce l’avversione delle masse popolari nei confronti della grande borghesia e degli affaristi, che avevano accumulato grandi ricchezze durante la guerra. Scioperi e agitazioni si verificano un po’ dappertutto in Europa (in Italia c’è la “controrivoluzione preventiva” attuata dal fascismo, a cui Giolitti non riserva più di tanto interesse).
La guerra determina profondi mutamenti anche nella società: sottolineando il decisivo contributo femminile alla vita del paese nei settori più diversi, modificando la mentalità dei soldati, che ora sono decisi a far sentire la loro voce nelle scelte politiche fondamentali; nasce anche l’organizzazione del consenso per attuare un monopolio ideologico attraverso la ritualizzazione della vita sociale, con l’appianamento delle differenze tra pubblico e del privato, passando da una società liberale classica, alla moderna società di massa (con grandi progetti e miti collettivi). La guerra si risolve in uno scombussolamento e caduta di valori, di tradizioni, d’idee, ma i combattenti sostengono l’idea che il mondo cambierà e diventerà più giusto. Aumentano così i partiti dei lavoratori e le organizzazioni sindacali che provocano dei veri e propri tentativi di rivoluzione contro i governi.
Concludendo questo sguardo d’insieme sul primo dopoguerra, bisogna anche sottolineare l’affermazione dell’egemonia Statunitense, oltre alla comparsa del Giappone. Le potenze dell’intesa vincono la guerra ma perdono la pace (cioè il dopoguerra).
La guerra è stata perciò un fattore d’accelerazione perché nuove tendenze venissero alla luce in forma anticipata e concentrata.
Sigmund Freud
La voce più autorevole che si assume il compito di riflettere sul rapporto tra la civiltà occidentale e la guerra proviene da Sigmund Freud (1865 - 1939). Anche il padre della psicoanalisi non era rimasto immune dal turbine di patriottismo che aveva attraversato l'Europa. Ma dopo solo un anno di guerra, coglie tutta la complessità e la drammaticità del problema in Caducità (1915). Egli tratterà questa tematica anche nel “carteggio con Einstein” nel 1932 da un’iniziativa della Società delle Nazioni, per contribuire a individuare una qualche possibilità di evitare il ricorrente pericolo di guerra, e di rafforzare, gli orientamenti pacifisti. Freud esamina da un punto di vista strettamente psicoanalitico, le ragioni per cui “sia stato facile infiammare gli uomini alla guerra”. C’è la presenza di una pulsione di morte che rivolta all’esterno essa si manifesta come odio e aggressività. Tutto ciò non significa, tuttavia, che si debba abbandonare per sfiducia l’impegno pacifista.
Ma torniamo al discorso sul dolore: Freud il Disagio della civiltà nel 1929, dove analizza le cause dell'infelicità umana e i modi per porvi rimedio. Egli crede che la vita, così come c’è imposta, è troppo dura per noi (con le dure esigenze insite nelle leggi di natura, da una parte, e nelle imposizioni sociali, dall’altra).
Nell'imporre un potere esterno alla persona del singolo, nel limitarne la libertà individuale, la civiltà provoca dei danni gravissimi all'individuo medesimo, in quanto obbliga l'uomo a frenare un numero considerevole di desideri e di pulsioni, a rinunciare al soddisfacimento di molte esigenze profonde del suo essere, ovvero a deviarle in atti che non lo soddisfano pienamente.
Gli uomini stessi, come scopo e intenzione della loro vita hanno la felicità, vogliono diventare e rimanere felici. Questo desiderio ha due facce:
1. mira all’assenza del dolore e del dispiacere
2. mira all’accoglimento di sentimenti intensi di piacere.
Il principio di piacere domina l’operare fin dall’inizio, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero. Qualsiasi perdurare di una situazione agognata dal principio di piacere produce soltanto un sentimento di moderato benessere. Le nostre possibilità d’essere felici risultano quindi limitate già dalla nostra costituzione. La sofferenza ci minaccia da tre parti:
1. dal nostro corpo destinato a deperire;
2. dal mondo esterno che può infierire con forze distruttive;
3. dalle nostre relazioni con altri uomini (da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra).
Nessuna meraviglia se ci riteniamo felici per il solo fatto di scampare all’infelicità. Il compito di evitare il dolore relega nello sfondo quello di procurarsi il piacere. La diagnosi accoglie in forma attenuata il modello pendolare (oscillante tra il dolore e la noia) di Schopenhauer, con la differenza che Freud nota che è la civiltà, in quanto tale, a reprimere la vita libidica del singolo e la ricerca individuale della libertà e del piacere, attraverso l'imposizione di valori, principi e norme di comportamento lontani dalle esigenze profonde dell'essere umano (“L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.”).
A. Schopenhauer
Schopenhauer, a differenza della ricerca del piacere, introduce un principio irrazionale che è La Volontà.
“Miliardi d’esseri non vivono che per vivere e continuare a vivere. Dio non esiste perché l'Assoluto è la Volontà di vivere” dice.
La Volontà di vivere si manifesta nel mondo fenomenico attraverso due fasi:
1. Nelle idee;
2. E nei vari individui del mondo, che sono la moltiplicazione delle idee. Dalla materia organica inconsapevole (dietro le meraviglie del creato si cela la lotta e la sofferenza di tutte le cose) all'uomo, pienamente consapevole, che soffre di più.
La vita così è dolore, infatti volere significa desiderare, trovarsi in uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che non si ha. Appagando il desiderio, ne rimangono altri insoddisfatti. Infatti, nessun oggetto del volere è in grado di dare un appagamento durevole, mentre il desiderio è eterno ed infinito, perché appena uno è soddisfatto, ne sorgono altri infiniti (essendo la volontà inesauribile) che portano ad un infinito soffrire. E anche se i desideri potessero finire, il dolore continuerebbe ad esserci, perché ci verrebbe ad essere la noia, un vuoto terribile peggiore d’ogni altra sofferenza. Il godimento e le gioie non sono altro che cessazione del dolore.
L'individuo è lo zimbello della natura, anche quando crede di realizzare il suo godimento (non c'è per esempio amore senza sessualità: l'amore procreativo viene avvertito come peccato e vergogna poiché è la perpetuazione di creature destinate a soffrire).
Il nostro camminare si risolve in una successione di cadute evitate un’agonia continuamente impedita, una morte differita. Le ansie per la conservazione della vita, in mezzo ad esigenze così difficili da soddisfare e sempre rinascenti, bastano ad occupare tutta la vita. E ciò che da tanta forza per resistere è:
1. La paura di morire (il suo è un veleggiare fragile verso la morte). Anche se:
I dolori e le torture della vita possono farci desiderare essa;
2. Il desiderio di liberarsi dal peso dell’esistenza, di sfuggire alla noia.
La riflessione Schopenhaueriana, in definitiva, ricorda il pessimismo cosmico di Leopardi: Schopenhauer aveva infatti letto il poeta italiano.
Anche Manzoni nei Promessi Sposi propone una visione della storia dell'umanità simile: essa è un continuo susseguirsi di catastrofi, che sembrano provenire da qualcosa d’inspiegabile. Le sofferenze non sono interpretabili solo come punizioni divine o come prove da superare, ma pongono quesiti che restano senza risposta (basta considerare la conclusione del romanzo: a Renzo che orgogliosamente e ingenuamente crede di aver trovato il senso delle vicende da lui vissute negli errori che ha commesso e negli insegnamenti che ne ha tratto, Lucia ribatte di non aver commesso errori, di non essere mai andata a cercarsi i guai che la hanno colpita ugualmente). In tutto il mondo romantico troviamo allora un sentimento di Sehnsucht, che produce insoddisfazione, inquietudine, malinconia e sofferenza, che si è incapaci di eliminare.
INGLESE
Also Coleridge carries out a reflection on the human pain. Similarly to the first phase of Leopardian’s thought (HISTORICAL PESSIMISM). The unhappiness doesn’t depends to the human nature, but is the progress of the civilization that has destroyed the illusions of happiness belongings to the ancients. Now the man knows the true condition and is left to a suffering aware and unbearable.
We can compare this with the "La ballata...",where the epopee of the protagonist is like that of the man. He receives gifts from the nature, but he doesn’t recognize them. He is ungrateful and the nature takes revenge leaving him alone. He will be able to find peace only when he will have annulled his offence through suffering.
ELIOTT
Eliot has other opinions about suffering: he soon rejected the romantic conventions, and created a new poetic technique. He needs to convey an emotion without a direct statement, but indirectly: the objective correlative.
One of the most significant poems of Eliot is The Waste Land. It is a desert land. His inhabitants do not exist. Modern civilisation does nothing but spoil what was once gracious, lovely, ceremonious, and natural.There is no plot in the poem, but only a sequence of images, sometimes ambiguous, apparently unconnected and open to various interpretations but linked to each other by the technique of association
of ideas (Joyce).
The main themes of The Waste Land are:
• the meaningful link with the past: it is introduced in the poem both as a mythic past and historical past. The past often merges with the present and by juxtaposition, makes it look even more squalid and lifeless;
• Modern man's alienation from society;
• Emotional starvation;
• relationship between the medieval inferno and modern life.
• nightmarish world inhabited by people that are spiritually dead, since their lack of faith has turned their lives into a sterile, arid waste land.
• Defeatist personal depression in the guise of a full, impersonal picture of society.
• the emptiness and sterility of modern life. Eliot presents sterility at various levels:
o natural: the land is dry, rocky, polluted and unfruitful;
o social: people find it difficult to communicate with each other and are unable to love; spiritual: people no longer believe in religious values and in Christ as the spiritual Saviour.
MONTALE
Montale, nelle sue liriche, non solo riprende la tecnica del correlativo oggettivo, ma questi temi di denuncia e dolore verso il mondo. Lo riscontriamo nella poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”; qui il poeta ha dato voce all'angoscia di tutta la generazione che aveva conosciuto la guerra e la sua inutilità, temeva il comunismo, subiva recalcitrante fascismo e nazismo e assisteva atterrita all'avvicinarsi della seconda guerra mondiale: un mondo che pareva sul punto di sgretolarsi e dissolversi. Nella poesia il male di vivere è personificato e reso reale dal verbo “ho incontrato”, quasi a riportarlo sul piano delle cose tangibili; non vengono utilizzati paragoni o analogie per descriverlo, ma si denunciano le situazioni e le cose che direttamente lo rappresentano, emblemi in cui si mostrano la sofferenza e il dolore il rivo strozzato che gorgoglia, l’incartocciarsi della foglia riarsa e il cavallo stramazzato, la pietraia, che esprime la desolazione e la sterilità, e il meriggio, del sole a picco, simbolo del disfacimento. “Il male di vivere” non è solo una condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, ma l’incapacità dell’uomo di comunicare; è isolamento, frattura, vita strozzata, poiché siamo un “cuore scordato”. E’ il male dell’“essere”, in quanto c’impedisce di avere delle certezze, di conoscere la realtà e noi stessi. “Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me”, afferma il poeta; di qui il senso di finitezza, di impotenza, di non-vita, di esperienza del nulla; e dunque negatività, inutilità, aridità. Il titolo stesso della prima raccolta poetica montaliana, “Ossi di seppia”, richiama a cose inaridite, prosciugate, senza vita. La raccolta dichiara anche l’impotenza del poeta di fornire un messaggio di speranza; con lui, su riconoscono anche gli intellettuali europei ed italiani: da Svevo a Pirandello, da Proust a Eliot a Kafka.
PIRANDELLO & Svevo & Kafka
In Pirandello, la sofferenza lo accompagna inevitabilmente in ogni "scoperta" relativa alla natura dell’esistenza. La vita è concepita come energia vitale inesauribile, che genera infelicità nell’essere umano, giacché questo s’illude di poter fermare questo flusso in una forma stabile e pacifica.
Pirandello individua chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell’inferno tecnologico che riduce l’uomo a semplice manovella (Serafino Gubbio), creando la “malattia industriale”: incomunicabilità, alienazione, “noia”, indifferenza, aridità, impotenza.
A questo si aggiunge che l’uomo ha bisogno di credere che la vita abbia un senso; così ciascuno è costretto ad assumere tante "forme" o "maschere", quanti sono i ruoli che gli vengono imposti dagli altri. Ne deriva un’identità infinitamente mutevole poiché dipendente da un giudizio estraneo e relativo: così il personaggio si guarda vivere (Mattia Pascal).
Questi temi sono affrontati anche da Svevo: esprime un uguale giudizio negativo sulla società del suo tempo e sulla crisi dell’uomo. Svevo, nei suoi romanzi, descrive il problema dell’uomo che non sa e che non può inserirsi nella società a cui appartiene. Svevo è un po' come Kafka, ed è un po' come l'imputato del “Processo”, perché la vita è un processo, una prigione. In Svevo tutto è malato, ma ognuno pensa d’essere sano (solo gli intellettuali lo hanno capito) e allora questa “normalità” porta alla distruzione, profetizzata nell’ultima pagina della coscienza di Zeno. In Kafka la normalità acquista invece i caratteri assurdi dell’insignificanza e del nulla della natura umana. Il lettore prova ad indagare, per scovare il senso (del dolore, della colpa), ma alla fine tutto è solo oppressivo e inspiegabile e la morte non risolve nulla. Nella trappola dell’esistenza, come i personaggi kafkiani, si trova Woyzzeck, il protagonista dell’opera di Buchner, resa famosa dopo quasi un secolo dall’adattamento teatrale d’Alban Berg: nella sua vita lo stato di salute mentale e le condizioni di vita risultano intrecciati in un unico problema e date le premesse, la sola conseguenza possibile non potrà che essere la tragedia.
ARTE
“Camminavo lungo la strada con due amici- quando il sole tramontò- il cielo si tinse all’improvviso di un rosso sangue- mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto- sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco- i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura- sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.
Con queste parole Edward Munch descrive la sua opera più famosa: “IL GRIDO” del 1895. Anche se Munch viene considerato un individualista, è posto comunque alle radici dell’espressionismo; questo movimento riflette la situazione sociale nel periodo della prima Guerra Mondiale e gli artisti usano colori e forme per esprimere paure, angoscia, sensazioni dolorose che l’uomo prova durante la sua vita: i colori, acidi e violenti, hanno un significato simbolico, la sinuosità lineare conferisce al segno una valenza allucinata; infatti l’artista dipinge non quello che vede ma quello che sente dentro: così l’angoscia trasforma un bel tramonto in un incubo insostenibile.
In primo piano vi è una figura serpentinata come il cielo dal viso senza forma simile ad una larva, con gli occhi spalancati e gialli. Essa si porta le mani alle orecchie quasi come non volesse udire il grido disperato che sale dall’interiorità: il grido della nascita, dell’essere gettati nel mondo e pure già condannati, il GRIDO DELLA MORTE.
L’uomo avverte l’angoscia, il disagio verso il mondo e urla non tanto per risolvere il problema, quanto per comunicare il suo stato d’animo (come Kraus un grido di dolore istintivo, che non può più tacere, contro il demonio della massificazione morale della cultura di fronte ai problemi); alle spalle della figura vi è un ponte, emblema degli ostacoli della vita, il cui andamento obliquo attira l’osservatore nel quadro. Sempre in secondo piano, poi, notiamo persone che si allontanano: esse rappresentano la falsità dei rapporti umani.
Questo tesso tema viene affrontato da Munch in altre due opere: “ANGOSCIA” e “DISPERAZIONE”. L’uomo, circondato da persone, non vi ha alcun tipo di comunicazione, rimanendo isolato e chiuso in se stesso.

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