Dorothy Richardson e lo Stream of Consciousness Novel

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Dorothy Richardson e lo Stream of Consciousness Novel, analisi di Pointed Roofs.
PREMESSA
Questo lavoro si propone di mettere in luce la genialità di Dorothy Richardson, scrittrice del primo Novecento che, pur avendo contribuito a mutare il corso della moderna narrativa, a tutt’oggi è a mala pena nominata nelle storie della letteratura inglese.[1]
Dopo aver tratteggiato per grandi linee, in una sezione introduttiva, il clima culturale dei primi anni del nostro secolo e il posto che Dorothy Richardson occupa in tale contesto, l’attenzione si è focalizzata sul romanzo Pointed Roofs, prima tappa del pellegrinaggio della scrittrice e si è esaminata in concreto la tecnica che Richardson sperimentava in questo suo primo lavoro, scardinando le modalità narrative consuete e inaugurando l’inedita forma dello stream of consciousness.
In conclusione si tenta di dimostrare che il merito della scrittrice è ben più grande di quello, generalmente attribuitole, di aver spianato la strada a scrittori più conosciuti come Joyce e Woolf. A lungo dimenticati, i volumi di Pilgrimage cominciano appena oggi ad essere oggetto di interesse da parte della critica, e forzano i confini elitari del modernismo letterario.
Al termine di questo studio, molto resta ancora da dire sulla narrativa richardsoniana. La complessità e vastità della sua opera hanno imposto di limitarci ad una sola delle tredici tappe del percorso che, in Pilgrimage, la scrittrice si propose di affrontare. Tale condizione era necessaria a patto di voler condurre un’analisi esaustiva e chiarificante che non fosse un excursus panoramico, ma permettesse di evincere dall’esame delle singole parti l’originalità e la validità del metodo che Richardson, sotto la spinta delle mutate condizioni culturali, si apprestava ad elaborare.
Con rammarico, ci siamo soffermati, dunque, soltanto sul capitolo-volume iniziale della sua lunga opera ciclica.
INTRODUZIONE
L’età dell’ansia, tempo di sperimentazione
Con l’avvento del XX secolo si apriva un’epoca nuova, sullo spartiacque tragico della prima guerra mondiale.
Si trattò di un periodo assai complesso e tormentato, che, nonostante numerosi tratti comuni, assunse connotazioni diverse in ogni singolo contesto nazionale.
In Inghilterra tale fase è stata designata dall’autorevole studioso Mario Praz come “età dell’ansia”, dal titolo di una poesia di Auden che poneva l’accento sulla misera condizione dell’uomo “poor muddled maddened mundane animal”, preda della malevola autorità e del cieco caso (wilful authorithy and blind accident).[1]
Diverse furono le componenti che concorsero a determinare questo senso di smarrimento e d’insicurezza.
Per ciò che riguarda l’ambito più strettamente politico, l’Inghilterra perdeva la propria posizione di predominio, minacciata da nuove forze emergenti – Stati Uniti, Giappone – e dalla Germania bismarkiana, mentre all’interno sempre più si avvertivano gli attriti e le
contraddizioni propri di una società classista.
Lo stabile equilibrio, che aveva consentito ai vittoriani di crogiolarsi in un facile ottimismo, sembrava essere crollato. Il nuovo clima d’instabilità metteva in luce la precarietà di tutto un sistema di valori ritenuti universalmente validi ed imprescindibili.
Sul piano culturale si affermava in Inghilterra lo stesso fervore di rinnovamento che caratterizzò l’Europa del tempo, conseguenza delle profonde trasformazioni in ambito scientifico e filosofico che avevano messo in crisi il dominante positivismo ottocentesco.
Nel campo delle scienze naturali determinanti furono le acquisizioni di Max Plank ed Albert Einstein. Il primo, con la teoria dei quanti, apriva le porte all’esplorazione teorica e sperimentale del mondo atomico e subatomico. Nasceva la meccanica quantistica indeterminata, secondo cui esistono eventi fisici destinati a non essere mai completamente conosciuti. Il secondo, con la teoria della relatività, frantumava la concezione di spazio e tempo come entità assolute.
In sostanza ad essere messa in discussione era l’oggettività e l’universale validità del sapere scientifico.
Affermava, a questo proposito, Benedetto Croce: “Le cosiddette
scienze naturali, (…), riconoscono esse medesime di essere sempre circondate da limiti: limiti i quali non sono poi altro che dati storici e intuitivi. Esse calcolano, misurano, pongono eguaglianze, stabiliscono regolarità, foggiano classi e tipi, formulano leggi, mostrano a loro modo come un fatto nasca da altri fatti; ma tutti i loro progressi urtano sempre in fatti che sono appresi intuitivamente e storicamente. Perfino la geometria afferma ora di riposare tutta su ipotesi, non essendo lo spazio tridimensionale o euclideo se non uno degli spazi possibili, che si studia di preferenza perché riesce più comodo. Ciò che di vero è nelle scienze naturali, è o filosofia o fatto storico; ciò che vi è di propriamente naturalistico è astrazione o arbitrio”[2].
Nel campo delle scienze umane una grande rivoluzione apportarono le teorie di Sigmund Freud, il quale rompeva decisamente con il determinismo psicologico positivistico per dimostrare che le azioni umane sono il risultato di impulsi irrazionali, istinti, paure, desideri repressi annidati in uno strato sommerso dell’io, cui diede il nome di inconscio.
Ancora sul terreno filosofico si affermavano le nuove
concezioni del tempo di William James e Henry Bergson.
Il primo elaborava la teoria del presente specioso, per cui il presente altro non è che un continuo fluire dall’immediato passato (“non più”), all’immediato futuro (“non ancora”).
Bergson, invece, criticava il concetto di tempo come sequenza d’istanti che si succedono in ordine cronologico, rappresentabili come una linea che si distende nello spazio. Vero tempo è quello vissuto, condensato nell’esperienza della coscienza, non misurabile quantitativamente, né inquinato dall’idea di spazio, ma costituito da una “durata” unitaria e globale: “Ci sono (…) due concezioni possibili della durata, l’una pura di ogni mescolanza, l’altra in cui interviene di nascosto l’idea di spazio. La durata assolutamente pura è la forma che assume la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e gli stati interiori. (…) Ma abituati a quest’ultima idea (quella dello spazio), ossessionati anzi da essa, la introduciamo a nostra insaputa nella nostra rappresentazione della successione pura; giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da percepirli simultaneamente, non più l’uno nell’altro, ma l’uno accanto all’altro; in breve proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la successione prende per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi”[3].
La “durata” bergsoniana è, dunque, un continuo fluire in cui il passato non si perde ma penetra prepotentemente nel presente: “In realtà il passato si conserva da se stesso automaticamente. Esso ci segue tutt’intero in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino nel presente che esso sta per assorbire in sé, (…). Che cosa siamo, infatti, che cos’è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita, prima anzi di essa, giacché portiamo con noi disposizioni prenatali?”[4]
La portata di queste nuove idee fu tale da privare l’uomo del Novecento del conforto di qualsiasi certezza, sprofondandolo in sentimenti di angoscia, ansia e relatività.
Sul piano letterario, tale atmosfera di disagio e di smarrimento si tradusse nel rifiuto del naturalismo e nella impossibilità di un’indagine obiettiva ed oggettiva del reale, di cui si percepiva l’estrema insicurezza e
precarietà.
Si apriva un’età di arditissime sperimentazioni, volte all’acquisizione di nuove tecniche espressive e conoscitive che rispondessero all’esigenza da parte degli scrittori di un’organizzazione diversa della struttura letteraria.
Si assisteva in questi anni, in ambito narrativo, al passaggio dal romanzo d’origine essenzialmente borghese (volto alla rappresentazione della realtà sociale e finalizzato alla creazione di tipi umani incarnanti gli aspetti più caratteristici della propria epoca, secondo valori pubblici universalmente condivisi) ad un tipo di narrazione che aveva spostato il proprio centro di focalizzazione dalla società all’individuo, da una visione oggettiva e collettiva della realtà a sottili interpretazioni individuali di ciò che abbia maggior significato nelle esperienze umane.
La realtà appariva inconoscibile e disarticolata, in quanto non poteva più esistere nessuno sguardo inquadratore che la riunificasse. Il narratore onnisciente ottocentesco, detentore di un bagaglio di conoscenza tale da potersi porre al di sopra e all’interno del personaggio, nella posizione di burattinaio o di spettatore consapevole, perdeva la sua centralità e le sue sicurezze. L’onniscienza lasciava il posto al punto di domanda.
Si trasformava, in rapporto alla nuova concezione del tempo, anche l’organizzazione della materia del romanzo: siccome “l’uomo è la somma di tutte le proprie esperienze emotive, e questa somma è una presenza costante e pregnante nella sua coscienza, è la sua coscienza stessa, allora non v’era più scopo di condurre il personaggio attraverso una serie di ‘esperienze rivelatrici’; per mettere in luce tutta la sua storia e le sue potenzialità, bastava condurre un’attenta esplorazione della sua personalità, un’esplorazione che poteva iniziare in un momento qualsiasi della sua vita e esplicarsi in un arco di tempo anche molto breve, anche in un solo giorno”[5].
Non più, quindi, la certezza di un tempo lineare e progressivo all’interno del quale ordinare gli eventi secondo un rapporto di consequenzialità. La narrazione si faceva verticale piuttosto che orizzontale, mirava a raggiungere la profondità piuttosto che l’estensione.
Di fronte a questo nuovo modo di procedere, il corposo realismo ottocentesco appariva privo di spessore, come la resa di uno sguardo che registra ogni cosa ma si muove solo in superficie.
Si passava, in sostanza, da una rappresentazione del mondo
esteriore a quella della realtà più segreta ed interiore, in cui l’individuo era
visto come prigioniero del proprio flusso di coscienza.

Flusso di coscienza: definizione
A seguito dell’influenza esercitata, nel campo delle lettere, dalle nuove acquisizioni filosofiche e scientifiche e dalle ricerche di Freud e di Jung, i maggiori esponenti della narrativa europea a cavallo fra Ottocento e Novecento si proposero di sondare i più profondi e inesplorati livelli della vita psichica, raccogliendo arditamente la sfida di tradurre in parole ciò che è inespresso, inconoscibile e anteriore alla verbalizzazione stessa.[6]
Maturava l’esigenza di una nuova tecnica che permettesse di registrare sulla pagina scritta la simultaneità di sensazioni, sentimenti, idee, in ogni momento della durata o tempo interiore, affinché l’opera divenisse “Image exacte de notre logique intime, reflet de notre réalité profonde”[7].
Tale tecnica è quella che noi italiani, assieme ai francesi e ad altri popoli, chiamiamo monologo interiore. In Inghilterra esistono, invece, due espressioni: interior monologue (diretta traduzione dal francese) e stream of consciousness. La presenza simultanea di queste due opzioni linguistiche, ha generato una confusione terminologica ben difficile da districare.
Prima di soffermarci sulle diverse posizioni assunte dalla critica, sarà opportuno ricordare l’origine di entrambi i termini e le prime volte in cui furono usati. L’espressione stream of consciousness è legata all’ambito della psicologia, in quanto formulata per la prima volta dallo psicologo William James (fratello di Henry James) nel capitolo nono dei Principi di Psicologia, intitolato The stream of thought. Per confutare la concezione della coscienza come una successione di frammenti, elaborata da Hume, lo studioso scriveva: “Such word as ‘chain’ or ‘train’ do not describe it fitly as it presents itself in the first instance. It is nothing joined; it flows. A ‘river’ or a ‘stream’ are the metaphors by which it is most naturally described. …let us call it the stream of thought or subjective life”[8].
La felice espressione passò ben presto all’ambito della
letteratura, introdotta da May Sinclair, che in una sua recensione del 1918
l’applicava ai romanzi di Dorothy Richardson.
Nella sua accezione attuale l’espressione monologo interiore (vnutrenji monolog), invece, comparve per la prima volta nel 1856 in un saggio del critico russo Cernicevski sui Racconti di Sebastopoli di Tolstoj, ma, osserva Carapezza, “il termine vi ricorre quasi casualmente, una sola volta e senza particolari sottolineature”[9], mentre “a conferirgli il posto attuale nella terminologia critica fu (…) Valery Larbaud”[10].
Il poeta e romanziere francese incontrò Joyce nel 1920 e due anni più tardi, dopo aver letto l’Ulisse pubblicò, sull’opera, un articolo assai entusiastico, che diede inizio ad un acceso dibattito sul monologo interiore.
Della nuova tecnica egli stesso aveva tentato una prima definizione nella sua prefazione alla terza edizione del romanzo di Dujardin, Les lauriers sont coupés, dove scriveva: “Une de ces formes avait particulièrement frappé les esprits par sa nouveauté, sa hardiesse, et les possibilités qu’elle offrait pour exprimer avec force et rapidité les pensées les plus intimes, les plus spontanées, celles qui paraissent se former à l’insu de la conscience, et qui semblent antérieures au discours organisé. C’est à cette forme qu’on a donné, en France et peu après la publication de Ulysses, le nom de monologue interieur”[11].
Sempre nella prefazione all’opera di Dujardin, Larbaud riporta la definizione più autorevole e attendibile di monologo interiore: quella di James Joyce. Rifiutandosi di accettare la paternità del nuovo genere narrativo, che Larbaud gli attribuiva, Joyce indicava in Dujardin il suo precursore, nel cui romanzo (apparso nel 1888) “…le lecteur se trouvait…installé, dès les premières lignes, dans la pensée du personnage principal et c’est le déroulement ininterrompu de cette pensée qui, se substituant complètement à la forme usuelle du récit, apprenait au lecteur ce que fait ce personnage et ce que lui arrive”[12].
Passato inosservato al tempo della sua pubblicazione, il romanzo di Dujardin veniva in questo modo riabilitato e considerato germe
di quelle che sarebbero state le caratteristiche del romanzo novecentesco.
Forte della sua nuova posizione, lo scrittore francese, nel 1931, in un testo dedicato a Joyce e al monologo interiore (Le monologue interieur. Son apparition, ses origines, sa place dans l’oeuvre de James Joyce e dans le roman contemporain) ne dava la definizione seguente: “Le monologue interieur est, dans l’ordre de la poésie, le discours sans auditeur et non prononcé, par lequel un personnage exprime sa pensée la plus intime, la plus proche de l’inconscient, antérieurement à toute organisation logique, c’est-à-dire en son état naissant, par le moyen de phrases directes réduites au minimum syntaxial, de façon a donner l’impression tout venant”[13]. Si trattava, insomma di un artificio per il quale il lettore era direttamente introdotto “nella vita interiore del personaggio senza alcun intervento di spiegazione o di chiosa da parte dell’autore”[14].
Sebbene Dujardin individuasse, come soggetto della nuova tecnica, i ‘pensieri anteriori ad ogni organizzazione logica’, nel suo romanzo
si susseguono ricordi, progetti, desideri, fantasticherie in forma già verbale e razionalizzata. Il Debenedetti sostiene che si possa più propriamente far rientrare l’opera di Dujardin nella categoria del soliloquio, piuttosto che in quella del monologo: “…fa meraviglia che Joyce abbia detto in maniera tanto perentoria di avere trovato lì il modello del suo monologo. Semmai vi aveva trovato l’esempio di una delega totale del compito di raccontarsi rilasciata al personaggio, di un nuovo modo di raccontarsi con cui il personaggio assolve quella delega, scoprendosi dentro e fuori, informandoci dell’azione e comunicandoci il proprio modo di viverla o il proprio commento, insomma le proprie armoniche interiori a ciò che succede: tutto questo attraverso un succedersi fittissimo di notazioni, prelevate istante-per-istante”[15].
Unico merito da Debenedetti attribuito a Dujardin consiste nell’aver aggiunto alle tre dimensioni, che normalmente si percepiscono in una visione ‘stereoscopica’ del personaggio, una quarta, insieme spaziale e temporale: “La novità di Dujardin è di fare occupare simultaneamente al personaggio il posto in cui si trova, quello a cui lo riporta il ricordo e
quello in cui lo proietta la sua immaginazione del futuro”[16].
Malgrado le incontestabili imperfezioni e goffaggini, Dujardin
era stato il primo a basare l’intera sua opera sulla forma del monologo interiore, apportando al genere narrativo una considerevole innovazione, che solo il maturare dei tempi e l’evolversi delle condizioni culturali avrebbero permesso di comprendere.
Bisogna sottolineare che né Larbaud né Dujardin utilizzarono nei loro trattati il termine stream of consciousness, la cui nozione veniva da loro riassorbita in quella di monologue intérieur[17].
Diversi studiosi e critici di lingua inglese, a partire dagli anni ’50, ritennero invece necessaria una netta separazione fra i due termini sulla base della loro appartenenza ad ambiti culturali distinti.
A giudizio di Robert Humphrey il monologo interiore era soltanto una delle tecniche che serviva alla rappresentazione letteraria dello stream of consciousness, che tuttavia riteneva “properly a phrase for psychologists”[18].
Alla definizione di monologo interiore data da Dujardin, egli ne opponeva una più semplice e precisa: “Interior monologue is, then, the technique of representing psychic content and processes at various levels of conscious control; before they are formulated for deliberate speech”[19].
Rifacendosi al testo di Humphrey, anche Scholes e Kellog osservavano come, trovandosi spesso combinati nella letteratura moderna, monologo interiore e flusso di coscienza non venivano più distinti e s’ignorava quanto fossero diverse le loro storie: “Il ‘flusso di coscienza’, affermavano i due studiosi, è propriamente un termine psicologico più che letterario. Descrive un certo tipo di processo psicologico (…) il termine flusso di coscienza sarà usato per designare qualsiasi presentazione in campo letterario di esempi di pensiero illogico, non grammaticale e prettamente associativo”[20]. Il monologo interiore veniva invece descritto come “termine letterario (…) sinonimo di soliloquio muto (…) presentazione immediata e diretta dei pensieri (non espressi a voce) di un personaggio, senza che vi sia la mediazione di alcun narratore”[21].
In base a questa distinzione, i due autori facevano risalire le origini del monologo interiore ad un passato molto più lontano rispetto a quello in cui affondava le radici il flusso di coscienza: “Come espediente narrativo il monologo interiore ha una storia molto più antica del flusso di coscienza (…) Alcuni autori che svilupparono e sfruttarono il monologo nel mondo antico sono: Omero, Apollonio Rodio, Virgilio, Ovidio, Longo e Senofonte di Efeso”[22].
Intanto anche in Francia si cominciava a mettere in discussione la stessa espressione monologo interiore. Nel 1966 Michel Raimond scriveva: ““L’expression monologue intérieur (…) est (…) quelque peu contradictoire puisqu’elle suggère l’idée de parole, mais aussi de solitude, de profondeur, d’un en-deçà de la parole. Les expressions anglaises stream of thought (courent de pensée), puis stream of consciousness (courent de conscience) puis thought train (enchaînement de la pensée) font mieux apparaître le caractère de deroulement des états de conscience”[23].
Venti anni dopo Genette, ritenendo “goffa” la definizione di
monologo interiore, proponeva di sostituirla con quella di discorso immediato: “…dato che l’essenziale, come non è sfuggito a Joyce, non è tanto il fatto che sia interiore, ma che sia immediatamente emancipato (‘fin dalle prime righe’) da qualsiasi tutela narrativa”[24].
Ritenendo fondata la separazione fra monologo interiore e stream of consciousness designeremo col primo termine una delle tecniche del romanzo del flusso di coscienza del quale cercheremo, nelle prossime pagine, di tracciare la genealogia.

Antecedenti dello stream of consciousness
Nella sua storia della letteratura inglese, Mario Praz individua due genealogie: “l’inglese che segue la linea Sterne – Meredith – James – Conrad, la francese che passa per Diderot – Rousseau – Stendhal – Flaubert”[25]. A questi ultimi aggiungerei come ulteriore tappa l’immancabile nome di Proust. Ritengo, inoltre, che non si possa trascurare il grande contributo apportato da autori come Svevo o dai russi Tolstoj e Dostoevskij.
Vediamo ora in che modo ciascuno di questi scrittori contribuì alla nascita del nuovo romanzo.
In anticipo di due secoli sugli scrittori novecenteschi, Sterne applicava alla narrativa la teoria lockiana delle associazioni d’idee, nella resa singolarissima di una nuova dimensione temporale, quella che Bergson
avrebbe teorizzato due secoli più tardi. Nel suo Tristam Shandy, usando una narrazione in prima persona, Sterne spostava l’attenzione dalla successione cronologica di avventure ed eventi (tipica del romanzo realistico) a ciò che il personaggio pensa e sente, in un sovrapporsi di episodi apparentemente non correlati fra loro. Come si vede l’originale tecnica da lui inventata molto aveva in comune con il particolare modo di scrivere in cui in seguito si sarebbero cimentati i romanzieri del Novecento.
Del Meredith sottolineeremo la particolare vena psicologica, nonché l’interesse per i problemi relativi al modo di acquistare coscienza di sé.
Quanto a Henry James, poi, con le sue opere egli gettava le basi del moderno romanzo psicologico. Con geniale intuizione riduceva il campo visivo dall’onniscienza classica alle percezioni, ai pensieri e alle opinioni del personaggio, dal cui punto di vista l’azione veniva filtrata, mentre l’autore doveva sembrare assente dall’opera e in nessun modo doveva intervenire a dirigere o manovrare lo svolgersi degli eventi.
Anche Conrad contribuiva in modo determinante allo sviluppo
di nuovi moduli narrativi. Introducendo una o più figure di narratori, egli permetteva al lettore di guardare agli eventi da prospettive diverse e molteplici; inoltre, nel seguire pensieri e ricordi dei suoi personaggi Conrad spostava l’azione avanti e indietro nel tempo, manipolando la tradizionale sequenza temporale.
La genealogia francese di Mario Praz parte da Diderot, che dal suo temperamento vigoroso e appassionato era indotto ad una scrittura tutt’altro che logicamente e rigorosamente costruita: egli componeva con spontaneità ed intrecciava i temi seguendo le sue associazioni d’idee.
Tappa successiva è Rousseau con le Rêveries du promeneur solitaire, in cui l’intrecciarsi dei ricordi segue un procedimento che anticipa quello che più tardi sarà adottato da Proust e si riconnette agli Essais cinquecenteschi di Montaigne: i monologues bavardés che Larbaud colloca all’origine della sua storia dei precedenti del monologo interiore[26].
Quanto a Stendhal, straordinarie furono le sue intuizioni, mai portate a compimento nei suoi romanzi, circa l’effetto estremamente realistico realizzabile attraverso un’ipotetica ed improbabile forma narrativa in cui l’autore, come uno stenografo invisibile, riuscisse a tener dietro al rapido corso dei pensieri e dei sentimenti del protagonista: “On pense beaucoup plus vite qu’on ne parle. Supposons qu’un homme pût parler aussi vite qu’il pense et sent, que cet homme une journée entière prononçat de manière à n’être entendu que d’un seul homme tout ce qu’il pense et sent, qu’il y eût, cette même journée, toujours à côté de lui un sténographe ivisible qui pût écrire aussi vite que le premier penserait et parlerait. Supposons que le sténographe, après avoir noté toutes les pensées et sentiments de notre homme, nous les traduisît le lendemain en écriture vulgaire, nous aurions un caractère peint pendant un jour aussi ressemblant que possible”[27]. In questo modo Stendhal teorizzava ciò che soltanto un secolo più tardi, nella prosa novecentesca, avrebbe raggiunto una piena maturazione.
Altra tappa è Flaubert che fece uso dello stile indiretto libero e dell’adozione del punto di vista del protagonista, attraverso i quali il narratore cedeva, man mano e in maniera sempre più diretta, la parola al
personaggio.
Citiamo, infine, Proust che non compare nella ricostruzione genealogica di Praz, ma che pare inevitabile ricordare per il totale sconvolgimento da lui operato nella tradizionale dimensione narrativa.
Ponendosi alla ricerca del tempo perduto, l’autore s’inoltrava nel labirintico terreno della memoria per trovare, con un’operazione a ritroso, un nuovo significato dell’esistenza. Tale operazione si realizzava attraverso le “intermittenze del cuore”, attimi rivelatori che richiamano le “epifanie” di Joyce e che nascono da percezioni del reale in grado di sollecitare la messa in moto del processo involontario della memoria, alterando il nostro ritmo d’esistenza e consentendo al passato di confluire nel presente.
In base a questi presupposti, nell’opera di Proust ad una trama lineare si sostituiva un intreccio di continui rimandi temporali: analessi, prolessi, espansioni e contrazioni della durata contrassegnavano il ritmo narrativo. Inoltre, adottando la prima persona, Proust spostava il punto d’osservazione dall’esterno all’interno della vicenda, sovrapponendo il ruolo del personaggio a quello del narratore, il cui compito diveniva
semplicemente quello di un’imparziale registrazione.
Dello stream of consciousness ritroviamo qualche avvisaglia anche nel romanzo russo. Si pensi al confuso intreccio di pensieri e percezioni esterne nel monologo interiore della Anna Karenina di Tolstoj, colta nei momenti che precedono il suicidio. Ma più vicino agli scrittori del nostro secolo è, forse, Dostoevskij, nelle cui opere trova posto il brulichio del pensiero in formazione. Egli è colui che, prima di Joyce, ha portato la forma del monologo “à toute la perfection diverse et subtile que cette forme littéraire pouvait attendre”[28].
Grande fu pure il contributo apportato dal romanziere italiano Italo Svevo, amico di Joyce e fra i primi in Italia ad avere familiarità con le teorie freudiane, nei cui romanzi si rileva la presenza delle più innovative tecniche narrative: dalla dissoluzione del personaggio all’assunzione del tempo interiore come asse portante della narrazione e all’invadente monologo interiore del personaggio.
Tuttavia una sostanziale differenza separa la grande narrativa psicologica dai romanzi dello stream of consciousness: nella prima troviamo il personaggio che consapevolmente si narra e si analizza, i secondi
pretendono d’essere l’imparziale annotazione di pensieri e sentimenti che, all’insaputa del personaggio, l’autore ha misteriosamente colto e rappresentato.

Le tecniche e i maggiori esponenti dello stream of consciousness novel
Come Robert Humphrey sottolinea, i cosiddetti romanzieri dello stream of consciousness escogitarono ognuno un proprio metodo da seguire nella rappresentazione della coscienza: “…the techniques for presenting stream of consciousness are greatly different from one novel to the next, it has led to the dilemma one has when one acknowledges that a particular piece of writing displays stream of consciousness technique and then turns to an entirely different kind of technique which has generally been labeled stream of consciousness also and sees no great similarity between the two. (…) then, we shall be dealing with techniques and not with the stream of consciousness technique”[29].
Di seguito Humphrey propone una classificazione delle
tecniche di rappresentazione basilari, che possiamo ritenere come la più attendibile e a cui tutti gli studiosi successivamente si sono rifatti.
Humphrey indica, come fondamentali per la rappresentazione del flusso di coscienza, quattro tecniche: 1) monologo interiore diretto, 2) monologo interiore indiretto, 3) descrizione onnisciente, 4) soliloquio[30]. Come si vede si tratta sia di vere e proprie innovazioni formali che di rielaborazioni e revisioni delle modalità narrative tradizionali.
Una disamina di queste tecniche e degli autori nelle cui opere compaiono con maggiore frequenza, tenendo presente tuttavia che spesso esse si mescolano in un unico romanzo, aiuterà senz’altro ad una visione più chiara del genere letterario dello stream of consciousness e dei suoi maggiori rappresentanti.
Cominceremo, quindi, con il chiarire che cosa sia il monologo interiore diretto, quello di cui si accredita l’invenzione a Dujardin.
Essenziale caratteristica di questa tecnica è, innanzi tutto, l’uso della prima persona: l’istanza narrativa viene a cancellarsi quasi completamente in modo tale che l’impressione è quella di una registrazione oggettiva dello scorrere e dell’incoerente concatenarsi di pensieri, immagini,
sensazioni, ricordi nella mente del personaggio.
Mancano, quindi, interventi o commenti autoriali che possano funzionare da guida o fornire spiegazioni al lettore, il quale da solo deve riuscire ad orientarsi nella vicenda. Trattandosi, infatti, della descrizione di processi interiori, non si può formalmente ipotizzare la presenza di un lettore, o di un destinatario, o di un pubblico.
Osserva Debenedetti che “la condizione sine qua non del monologo interiore è la completa assenza di testimoni; qualunque testimone inibirebbe il flusso e la possibilità di confessarlo”[31].
Visto che a parlare nel romanzo è la voce interiore del personaggio, il linguaggio utilizzato è proprio del suo particolare modo di esprimersi; il tempo in cui si svolge il discorso narrativo è il presente, dato che l’illusione che s’intende creare è quella d’immediatezza e di contemporaneità fra i pensieri nel loro svolgersi e la loro rappresentazione.
L’esempio classico di monologo interiore diretto è quello di Molly Bloom nell’ultimo capitolo dell’Ulisse. In esso il lettore si ritrova a seguire i vagabondaggi della coscienza della donna, che svegliata dal rientro
del marito (il quale le giace ora a fianco addormentato) attende di riprendere
sonno. Ne ricordiamo il frammento iniziale: “Yes because he never did a thing like that before as ask to get his breakfast in bed with a couple of eggs since the City Arms hotel when he used to be pretending to be laid up with a sick voice doing his highness to made himself interesting to that old faggot Mrs. Riordan that he thought he had a great leg of and she never left us a farthing all for masses for herself and her soul greatest miser ever was actually afraid to lay out 4d for her methylated spirit telling me all her ailments…”[32]. Il passo continua, così, attraverso strati di coscienza sempre più profondi, finché Molly non si addormenta e si conclude il romanzo.
Vediamo quali sono gli elementi che ci consentono di definire questo brano monologo interiore diretto: è scritto in prima persona, senza il minimo intervento da parte dell’autore e senza un presupposto uditore; il flusso dei pensieri di Molly è rappresentato così come si suppone si svolga all’interno della sua mente: le idee si accavallano velocemente
ed una interrompe l’altra; il carattere d’incoerenza è ancor più sottolineato
dalla totale assenza di punteggiatura.
Ben si presta tale tecnica all’intento che il grande scrittore irlandese si proponeva di raggiungere attraverso la sua narrativa: “It is a method for doing what Joyce wanted to do, and that is to present life as it actually is, without prejudice or direct evaluations. It is then the goal of the realist and the naturalist. The thougths and actions of the characters are there, as they were created by an invisible, indifferent creator. We must accept them, because they exist”[33].
Tornando alla classificazione di Humphrey, vediamo in che modo opera il monologo interiore indiretto.
Nel monologo indiretto, attraverso l’uso della terza persona, viene data al lettore l’impressione della continua presenza di un’istanza narrativa superiore, che invece nel monologo diretto, come abbiamo visto, manca completamente.
Attraverso i propri interventi, per quanto limitati, l’autore può
adempiere a due importanti funzioni – quella di guida per il lettore e quella
di selezione dei materiali – senza peraltro intaccare la fluidità e verosimiglianza della rappresentazione.
Diremo con Humphrey che: “Indirect interior monologue is, then, that type of interior monologue in which an omniscient author presents unspoken material as if it were directly from the consciousness of a character and, with commentary and description, guides the reader through it. It differs from direct interior monologue basically in that the author intervenes between the character’s psyche and the reader. The author is an on the scene guide for the reader. It retains the fundamental quality of interior monologue in that what it presents of consciousness is direct; that is, it is in the idiom and with the peculiarities of the character’s psychic processes”[34].
Humphrey indica Virginia Woolf come la scrittrice che maggiormente fece uso di questa tecnica; propongo, a mò di d’esemplificazione, il conosciutissimo passo d’apertura di Mrs Dalloway:
“Mrs Dalloway said she would buy the flowers herself. For Lucy had her work cut out for her. The doors Would be taken off their hinges; Rumpelmayer’s men were coming. And then, thought Clarissa Dalloway, what a morning ­– fresh as if issued to a children on a beach. What a lurke! What a plunge! For so it has always seemed to her, when, with a little squeak of the hinges, which she could hear now, she had burst open the French windows and plunged at Bourton into the open air. How fresh, how calm, stiller than this of course, the air was in the early morning; like the flap of a wave; the kiss of a wave, chill and sharp and yet (for a girl of eighteen as she was) solemn, feeling as she did, standing there at the open window, that something awful was about to happen…”[35].
Rispetto al monologo di Joyce quello di Virginia Woolf è
caratterizzato da maggiore logicità e da un effetto di unità esteriore che può farlo apparire maggiormente convenzionale. Il Debenedetti affermò addirittura che i risultati cui la Woolf era pervenuta non potevano dirsi davvero così innovativi. Nel romanzo della scrittrice, infatti, “tutto si connette al lume della psicologia più diurna e visibile, sul filo delle associazioni logiche, mentali, sensorie”. L’opera non è altro, quindi, che una “intensificazione più selettiva, più infinitesimale, se così può dirsi del tipo d’investigazione del personaggio quale ci presentava, sia pure in aspetti più macroscopici, il romanzo tradizionale”[36]. Il critico, insomma, sosteneva che soltanto nella forma diretta si poteva a giusto titolo parlare di monologo interiore.
In realtà c’è una comunanza di fondo che avvicina il monologo di Molly Bloom a quello di Clarissa Dalloway ed è il carattere voluto e costruito d’incoerenza e di disunità, tipico della coscienza, che si ravvisa nelle continue divagazioni rispetto ad un argomento dato o nei riferimenti intenzionalmente lasciati in sospeso. Pur adottando metodi diversi, i due autori avevano mirato allo stesso risultato, quello di un’efficace resa del funzionamento dei processi mentali.
Altra tecnica di rappresentazione, a detta di Humphrey, è la descrizione del flusso di coscienza fatta da un narratore onnisciente: “…in which an omniscent author describes the psyche through conventional methods of narration and description”[37]. Questa che è in realtà una tecnica tradizionale, appare, in combinazione con le altre, nelle opere di gran parte degli scrittori di stream of consciousness, i quali seppero farne un uso davvero originale ponendovi al centro un soggetto nuovo: quello della realtà interiore.
E’ nei romanzi di Dorothy Richardson che tale tecnica appare con maggiore frequenza, alternata dapprima soltanto con frammenti di monologo interiore indiretto e poi, negli scritti più maturi, anche con scampoli di monologo interiore diretto. Vedremo più avanti in che modo le tecniche suddette si mescolano nella creazione richardsoniana.
L’ultima tecnica inclusa da Humphrey nella sua classificazione è quella del soliloquio, che si differenzia dal monologo interiore in quanto presuppone un uditorio immediato a cui il monologante si rivolge nella comunicazione dei suoi intimi pensieri, sentimenti ed idee relativi allo svolgersi degli eventi esteriori. Pur concentrati nella resa della realtà soggettiva, i romanzieri che fecero uso di tale tecnica non rinunciavano
alla trama e all’azione. Osserva a questo proposito Humphrey: “…novels using soliloquy represent a successful combination of interior stream of consciousness with exterior action. In other words, both internal and external character is depicted in them. The method for achieving this could not have been interior monologue, for greater coherence and more unity were needed than that technique provides; nor did simple description prove sufficiently variable. It was the soliloquy which was flexible enough to carry the double load”[38].
Di questo metodo troviamo mirabili esempi nel romanzo The Waves di Virginia Woolf. Senza commenti o spiegazioni autoriali, il romanzo si costruisce attraverso i ‘soliloqui drammatici’(così denominati dalla stessa scrittrice[39]) dei sei personaggi: Bernard, Rhoda, Jinny, Louis, Neville e Susan.
Si legga il passo seguente: “ ‘I love’ said Susan ‘and I hate. I
desire one thing only. My eyes are hard. Jinny’s eyes break into a thousand
lights. Rhoda’s like those pale flowers to which moths come in evening. Yours grow full and brim and never break. But I am already set on my pursuit. I see insects in the grass. Though my mother still knits white socks for me and hems pinafores and I am a child, I love and hate’. ‘But when we sit together, close,’ said Bernard, ‘we melt into each other with phrases. We are edged with mist. We make an unsubstantial territory’. ‘I see the beatle,’ said Susan. ‘It is black, I see; it is green, I see; I am tied down with single words. But you wander off; you slip away; you rise up higher, with words and words in phrases’”.[40]
Sebbene l’intervento di ciascun protagonista sia introdotto dalle parole ‘Susan disse’, ‘Bernard disse’, è chiaro che non si tratta di una conversazione: il rivelare e rivelarsi del personaggio, pur se rivolto formalmente ad un potenziale interlocutore, è interiore e non pronunciato.
Per queste vie i più abili scrittori del Novecento modellavano la loro inedita e innovativa modalità di scrittura.
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[1] The Age of Anxiety di W. H. Auden, cit. in M. Praz, Letteratura inglese dai romantici al Novecento, Milano, BUR, 1992, p. 233. (“povero confuso folle mediocre animale).

[2] Benedetto Croce, cit. in R. Marchese/A. Grillini, Scrittori e opere 3, Milano, La Nuova Italia, 1988.

[3] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. it. di G. Bartoli, Torino, Borimghieri, 1964, pp. 107-8.

4 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, in Le opere, trad. it. di P. Serini, Torino, Utet, 1971,
pp. 155-6

[5] D. Daiches, Storia della letteratura inglese 3, Milano, Garzanti, 1992, p. 263.
[6] Si riprende liberamente il discorso di A. Carapezza, Lo stenografo invisibile, Palermo, Quaderno 8 nuova serie, Università degli studi di Palermo, 1995, p. 13. La lettura di tale saggio mi è stata particolarmente utile per l’organizzazione di questo paragrafo.
[7] Jean de Pierrefeu, Journal des Débats, 19 dicembre 1923, cit. in M. Raimond, La Crise du Roman des Lendemains du Naturalisme aux Années ’20, Paris, José Corti, 1966, p. 266. (“Immagine esatta della nostra intima logica, riflesso della nostra realtà profonda”).
[8] W. James, Principles of Psychology, London, 1907, p. 620. (“Parole come ‘catena’ o ‘successione’ non la descrivono adeguatamente così come si presenta in primo luogo. Non è niente di concatenato; essa fluisce. ‘Fiume’ o ‘corso d’acqua’ sono le metafore con cui si descrive più naturalmente … lo chiameremo flusso del pensiero o della vita soggettiva”).

9 A. Carapezza, op. cit., p. 14.
10 Ibidem.

[11] V. Larbaud, Préface alla terza edizione di E. Dujardin, Les lauriers sont coupés, Messien Paris, 1925, p. 6. ( “Una di queste forme aveva particolarmente colpito gli spiriti per la sua novità, la sua arditezza, e le possibilità che offriva di esprimere con forza e rapidità i pensieri più intimi, più spontanei, quelli che paiono formarsi all’insaputa della coscienza, e che sembrano anteriori al discorso organizzato. E’ a questa forma che si è dato, in Francia e poco dopo la pubblicazione dell’Ulisse, il nome di monologo interiore”).

12Ivi, p. 7. (“…il lettore si trovava…immesso, fin dalle prime righe, nel pensiero del personaggio principale, ed è lo svolgimento ininterrotto di questo pensiero che, sostituendosi completamente alla forma abituale di racconto, informa il lettore di ciò che il personaggio fa e di quanto gli accade”.)

[13] E. Dujardin, Le monologue interieur. Son apparition, ses origines, sa place dans l’oeuvre de James Joyce et dans le roman contemporain, Paris, A. Messein, 1931, p. 256. ( “Il monologo interiore è, nell’ordine della poesia, il discorso senza ascoltatore e non pronunciato, mediante il quale un personaggio esprime il suo pensiero più intimo, più vicino all’inconscio, anteriore a qualsiasi organizzazione logica, cioè in forma embrionale, con frasi dirette ridotte al minimo della sintassi, in modo da dare l’impressione del ‘casuale’”.)
[14] Ibidem.
[15] G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1981, p. 612.

16 Ivi, p. 615.
17 Cfr. A. Carapezza, op. cit., p. 21.
18 R. Humphrey, Stream of consciousness in the Modern Novel, Berkley, Los Angeles, Londra, University of California Press, 1954, p. 1. (“propriamente una frase per psicologi”).

[19] Ivi, p. 24. (“Il monologo interiore è, allora, la tecnica di rappresentazione dei contenuti e dei processi psichici a vari livelli di controllo cosciente; prima che vengano formulati in un discorso deliberato”).
[20] R. Scholes – R. Kellog, La natura della narrativa, Bologna, Il Mulino, 1970, p. 233.
[21] Ibidem.

[22] Ivi, p. 224.
[23] M. Raimond, op. cit., p. 17. (“L’espressione monologo interiore (…) è (…) un po’ contraddittoria poiché suggerisce l’idea di parola, ma anche di solitudine, di profondità, di un al di qua della parola. Le espressioni inglesi stream of thought (corrente di pensiero), poi
stream of consciousness (corrente di coscienza) poi thought train (concatenazione del pensiero) mostrano meglio il carattere di svolgimento degli stati di coscienza”).
[24] G. Genette, Figure III, Torino, Einaudi, 1986, p. 221.
[25] M. Praz, La letteratura inglese dai romantici al Novecento, Milano, Rizzoli, 1992, p. 261.
[26] V. Larbaud, Préface, cit., p. 10.
[27] Stendhal, Filosofia nova, cit. in Attilio Carapezza, op. cit., p. 13. (“Si pensa molto più velocemente di quanto si parla. Supponiamo che un uomo potesse parlare altrettanto velocemente di quanto pensa e sente, che quest’uomo per un’intera giornata pronunciasse in modo da essere ascoltato da un solo uomo tutto ciò che pensa e sente, che ci fosse, quella stessa giornata, sempre accanto a lui uno stenografo invisibile che potesse scrivere altrettanto velocemente di quanto il primo pensi e parli. Supponiamo che lo stenografo, dopo aver annotato tutti i pensieri e i sentimenti del nostro uomo, ce li traducesse il giorno successivo in scrittura comune, noi avremmo un personaggio dipinto nel corso di una giornata tanto somigliante quanto possibile”).
[28] A. Gide, Dostoïevsky, cit. in M. Raimond, op. cit., p. 262. (“a tutta la perfezione multiforme e sottile cui questa forma letteraria poteva pervenire”).

[29] R. Humphrey, op. cit., p. 23. (“…le tecniche per rappresentare il flusso di coscienza sono enormemente diverse da romanzo a romanzo; ciò ha condotto al dilemma che ci si trova ad affrontare quando si riconosce che un’opera narrativa esibisce la tecnica dello stream of consciousness e ci si volge poi ad un tipo di tecnica completamente diversa che è stata pure generalmente etichettata come stream of consciousness e non si vedono grandi somiglianze fra le due. (…) dunque, avremo a che fare con le tecniche e non con la tecnica del flusso di coscienza).
[30] Ibidem.
[31] G. Debenedetti, op. cit., p. 604.
[32] J. Joyce, Ulysses, New York, Random House, 1934, p. 723. Trad. it. di Giulio de Angelis, Milano, Mondadori, 1991, p. 698. (“Si perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo al City Arms hotel quando faceva finta di star male con la voce sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d’essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali…”).

[33] R. Humphrey, op. cit., pp. 15-16. (“E’ un metodo che ben si presta a fare ciò che Joyce voleva fare, e cioè presentare la vita così come veramente è, senza pregiudizi o valutazioni dirette. Si tratta, allora, del traguardo del realista e del naturalista. I pensieri e le azioni dei personaggi sono lì, come se fossero creati da qualche creatore invisibile ed indifferente. Dobbiamo accettarli perché esistono”).

[34] Ivi, p. 29.(“Il monologo interiore indiretto è, allora, quel tipo di monologo interiore in cui un autore onnisciente presenta del materiale non detto come se provenisse direttamente dalla coscienza di un personaggio e, con il commento e la descrizione, guida il lettore attraverso di essa. Esso differisce dal monologo interiore diretto principalmente in quanto l’autore interviene fra la psiche del personaggio e il lettore; l’autore è una guida sul campo per il lettore. Esso conserva la qualità fondamentale del monologo interiore nel fatto che quanto presenta della coscienza è diretto; ovvero si manifesta nel linguaggio e con le peculiarità dei processi psichici del personaggio”).
[35] V. Woolf, Mrs Dalloway, London, The Hogarth Press, 1963, pp. 5-6, trad. it. di Pier Francesco Paolini, Roma, Newton, 1997, p. 23. (La signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andata a comprarli lei. Poiché Lucy aveva avuto il suo bel da fare. Bisognava tirar giù le porte dai cardini: venivano gli operai di Rumpelmayer. Eppoi pensò Clarissa Dalloway, che mattinata!…limpida, come per farne dono ai bimbi su una spiaggia. Che delizia! Che tuffo! Sempre, infatti, le aveva fatto questo stesso effetto, a quei tempi, allorquando, spalancata la porta finestra – con un lieve cigolio dei cardini, che ancora le pareva di udire – lei si tuffava nell’aria aperta, a Bourton. Com’era fresca, là, com’era calma – e più silenziosa che qui ovviamente – l’aria del primo mattino: come il frangersi di un’onda; il bacio di un’onda; fresca e pungente eppure (per la fanciulla di diciott’anni ch’era allora) solenne: là alla finestra aperta, ella provava infatti un presagio di qualcosa di terribile ch’era lì lì per accadere…”).
[36] G. Debenedetti, op. cit., p. 606.
[37] R. Humphrey, op. cit., pp. 33-34. (“…in cui un autore onnisciente descrive la psiche attraverso metodi convenzionali come la narrazione e la descrizione”).

[38] Ivi, p. 38. (“… i romanzi che usano il soliloquio rappresentano una riuscita combinazione di flusso di coscienza interiore ed azione esteriore. In altre parole, in essi il personaggio è raffigurato sia dall’interno che dall’esterno. Il metodo per ottenere ciò non sarebbe potuto essere il monologo interiore, poiché sono necessarie una coerenza ed unità maggiori di quanto tale tecnica fornisca; né la semplice descrizione si dimostrò sufficientemente variabile. Fu il soliloquio, che era sufficientemente flessibile per portare il duplice carico”).
[39] V. Woolf, Diario di una scrittrice, Torino, Einaudi, 1953, p. 214.

[40] V. Woolf, The Waves, London, Penguin Books, 1992, p. 10. Trad. it. di Giulio De Angelis, Le Onde, Milano, Rizzoli, 1994, p. 16. (“ ‘Amo’ disse Susan ‘e odio. Desidero solo una cosa. Ho gli occhi duri. Quelli di Jinny si frangono in mille luci. Quelli di Rhoda sono come quei fiori pallidi a cui di sera s’accostan le falene. I tuoi diventan pieni e colmi e non si frangono mai. Ma io sono già sul mio sentiero di guerra. Vedo gl’insetti tra l’erba. Sebbene la mamma mi faccia sempre le calzette bianche e mi ricami i grembialini e io sia una bambina, pure amo e odio.’ ‘Ma quando sediamo vicini, insieme, io e te’ disse Bernard ‘ci fondiamo, parlando, l’uno nell’altra. Siamo alonati da una nebbiolina. Formiamo un territorio impalpabile, incorporeo.’ ‘Vedo lo scarabeo’ disse Susan. ‘E’ nero, lo vedo; no, è verde; sono legata alla terra, stretta da parole isolate. Ma tu ti distacchi e fuggi via, ti sollevi in alto con parole e parole e parole unite a formare frasi’ ”).

CAPITOLO I
Dorothy Richardson, la vita e l’opera

Dorothy Richardson, genio dimenticato
Figura estremamente significativa nel panorama culturale inglese del primo Novecento, Dorothy Richardson è stata lungamente trascurata da pubblico e critica. Pioniera dello stream of consciousness, ella fu la prima ad utilizzare tale tecnica nelle proprie opere, tracciando un percorso che presto, e con maggiore fortuna, altri scrittori avrebbero seguito.
Ma per quanto rilevante sia stato il contributo da lei apportato all’elaborazione dell’inedita forma narrativa, il suo nome non spicca fra gli autori più rappresentativi ad essa generalmente associati.
“The Genius They Forgot”, così s’intitola la prima importante biografia di Dorothy Richardson, che John Rosenberg pubblicò nel 1973, al centenario della sua nascita[1].
In vario modo si è tentato di trovare una spiegazione a quest’ingiusta e imperdonabile dimenticanza. Una ragione, suggerisce Rosenberg, potrebbe essere stata il riserbo con cui la stessa scrittrice proteggeva la sua privacy[2]. L’alone di mistero che circondava la sua vita, non contribuiva certo a renderla popolare e conosciuta. Altro fattore determinante fu la considerevole mole di Pilgrimage, lunga opera in tredici volumi, che scoraggiava possibili lettori ed estimatori. Senza contare che l’itinerario di una coscienza femminile risultò per molti un soggetto di scarso interesse, non in grado di mantener viva l’attenzione del lettore per l’intera durata dello scritto.
Negli anni Ottanta, la seconda ondata di femminismo portò ad una rivalutazione dell’opera di Richardson, nella quale si scopriva la ribellione di una donna intrappolata negli schemi di vita di un mondo prevalentemente al maschile.
Più recenti studi hanno puntato l’attenzione su aspetti diversi in
una complessiva riconsiderazione dell’opera.
Nel 1995 Carol Watts, nel suo volume Dorothy Richardson, tentava di chiarire in che modo la nascente arte cinematografica avesse influito nella composizione di Pilgrimage[3]. La stessa ottica informava il testo di Susanne Gevirtz, Narrative’s Journey: The Fiction and Film Writing of Dorothy Richardson[4], del 1996. Sempre in quell’anno a cura di George Thomson, veniva pubblicata la prima guida alla lettura di

Pilgrimage[5]; ed infine, nel 1997, Kristin Bluemel, nel suo Experimenting on the Borders of Modernism[6], nell’esaminare i caratteri innovativi della prosa richardsoniana ne metteva in luce un aspetto di fisicità e sessualità fino allora rimasto in ombra.
Dopo una fase buia cominciava a realizzarsi, quindi, negli anni ‘90, quanto Leon Edel aveva predetto ed auspicato poco tempo dopo la morte della scrittrice: “Dorothy Richardson offers us on certain pages, a remarkable emotional luminescence – as well as historically speaking, a record of the trying out of a new technique, the opportunity to examine a turning point in the modern English novel. There is a distinct possibility that a new generation of readers – if there continue to be readers at all – may truly discover Dorothy Richardson for the first time”[7].

Dorothy Richardson: la vita
Dorothy Richardson nacque ad Abingdon il 17 maggio 1873. Era la terza figlia di Charles Richardson, le cui massime aspirazioni sembravano essere quella di vivere e comportarsi come un gentleman e quella di avere un figlio maschio. Ma dopo la piccola Dorothy, arrivò un’altra bambina e il padre, non del tutto rassegnato, cominciò a trattare la terza delle sue quattro figlie, quella dal carattere più forte ed indomabile, come il maschietto che non aveva avuto.
Charles Richardson regalò alle figlie un’infanzia idilliaca, trascorsa nella spensieratezza e nei giochi, in una meravigliosa casa dai mattoni bianchi e con un ampio giardino recintato, che Dorothy ricorderà sempre come sfondo e fonte delle sue prime esperienze.
Man mano che le ragazze crescevano Charles organizzava per loro pomeriggi musicali, lezioni di piano, di tennis, balli.
Dorothy ricevette una buona educazione nel South West London College for Girls, una scuola il cui preside era stato discepolo di Ruskin e l’insegnante di letteratura era amico di Swinburne.
Col passare del tempo però la situazione economica della famiglia cominciò a peggiorare e la salute mentale della madre, da sempre piuttosto precaria, ne risentì negativamente. Diminuirono i trattenimenti e le escursioni, in casa non c’era quasi più servitù.
Nel 1890 la diciassettenne Dorothy rispose ad un annuncio sul Times, per un lavoro d’istitutrice in una scuola di Hannover. Seppure a malincuore, obbligati della necessità, i genitori decisero di lasciarla andare. La giovane conquistava così la sua indipendenza e prendeva le redini della sua vita. L’esperienza di Hannover fornirà il materiale per il suo primo romanzo, Pointed Roofs.
Tornata a casa, Dorothy trovava lavoro come insegnante in una scuola della squallida periferia del nord di Londra.
Nel 1893 il padre dichiarò bancarotta e gran parte delle proprietà familiari furono vendute. Da questa situazione i Richardson poterono risollevarsi solo grazie all’aiuto economico di Arthur Bachelor, allora fidanzato e poi marito di Kate, una delle sorelle.
Nel 1895 anche Jessie si sposava e Dorothy veniva assunta come governante da una famiglia della ricca borghesia. La sorella maggiore, Alice, si trovava nel Wiltshire, dove lavorava anche lei come governante, e dunque era per lo più Dorothy a doversi prendere cura della madre, che sprofondava sempre di più nella sua malattia. Il medico consigliò di farle fare un viaggio per cambiare aria e Dorothy accettò l’offerta, da parte di una parente, di un soggiorno ad Hastings. Le due donne avrebbero dovuto rimanervi un mese, ma una mattina, di ritorno da una passeggiata, Dorothy trovò la madre morta: si era uccisa tagliandosi la gola con un coltello da cucina.
La morte della madre segnava una svolta decisiva nella vita di Dorothy: la casa non esisteva più, i membri della famiglia si disperdevano, bisognava che anche lei andasse per la sua strada.
Le fu proposto un lavoro come segretaria e assistente presso lo studio dentistico londinese del figlio di vecchi amici di famiglia ed ella decise di accettare. Così si trasferì a Londra dove visse da sola, con il salario di una sterlina la settimana. Ma la libertà di cui godeva le faceva dimenticare l’estrema povertà; imparava ad andare in bicicletta, fumava, indossava i primi pantaloni, familiarizzava con nuove idee (il movimento delle suffragette, il socialismo fabiano, la religione dei quaccheri).
In questo periodo Dorothy conobbe H.G. Wells, con il quale intrecciò una relazione destinata a durare alcuni anni.
A poco a poco, dal lavoro di segretaria Dorothy passò a quello
di traduttrice e poi a quello di giornalista. Alcuni bozzetti da lei scritti per la
Saturday Review suscitarono una tale approvazione che le fu chiesto di scrivere un romanzo. Era il 1912 quando Richardson diede inizio alla monumentale opera alla quale dedicò il resto della sua vita, il romanzo in tredici volumi (di cui l’ultimo è rimasto incompiuto) che avrebbe avuto come titolo Pilgrimage.
Nel 1917, Richardson sposava Alan Odle, un artista sconosciuto, di sedici anni più giovane di lei e dalla salute piuttosto cagionevole. Alla morte di questi, nel 1948, la scrittrice si trasferì in Cornovaglia dove visse in totale solitudine fino al 1951 quando, malata di herpes zoster, sintomo probabile di un cancro, dovette essere ricoverata in un ospizio. Lì trascorse gli ultimi, dolorosi tre anni della sua esistenza, derisa e misconosciuta dagli altri ospiti e dalle infermiere.

L’opera
A parte numerosi articoli giornalistici ed una raccolta di racconti, dal titolo Journey to Paradise, Dorothy Richardson dedicò la sua intera esistenza, sebbene a intervalli, alla composizione di Pilgrimage, un novel in progress in 13 volumi basato sugli avvenimenti della sua vita.
Dopo la pubblicazione del primo volume–capitolo, Pointed
Roofs, avvenuta nel 1915, comparvero in successione: Backwater (1916), Honeycomb (1917), The Tunnel (febbraio 1919), Interim (dicembre 1919), Deadlock (1921), Revolving Lights (1923), The Trap (1925), Oberland (1927), Dawn’s Left Hand (1931), e Clear Horizon (1935). Il dodicesimo volume, Dimple Hill, comparve nella prima edizione collettanea di Pilgrimage, risalente al 1938, che fu pubblicizzata come “the complete work of twelve parts, including one not hitherto published”[8].
Richardson non aveva concepito Dimple Hill come volume conclusivo dell’opera, ma i debiti che la legavano alla casa editrice, la J. M. Dent & Cresset Press, le impedirono di opporsi a tale progetto di pubblicazione.
Solo ventinove anni più tardi e dieci anni dopo la morte della scrittrice, il pubblico venne a conoscenza dell’esistenza di un tredicesimo volume, March Moonlight, cui Richardson aveva lavorato negli ultimi anni della sua vita, lasciandolo probabilmente incompiuto. Osserva infatti Fromm che i dieci capitoli dattiloscritti pervenutici contano soltanto 40.000
parole contro le 55.000 dei volumi precedenti[9]. E’ quindi ipotizzabile che soltanto i tre quarti del libro fossero stati completati dalla scrittrice prima che la morte interrompesse il suo lavoro.
Non si può neppure affermare con certezza che Richardson intendesse aggiungere all’opera soltanto un testo. George Thomson, per esempio, nella sua guida alla lettura di Pilgrimage, sostiene che in realtà la scrittrice avesse progettato un’intera sezione aggiuntiva di cui March Moonlight doveva essere solo il capitolo iniziale.[10]
A mio avviso, è probabile che Richardson intendesse proseguire l’opera fino al momento in cui l’eroina si siede per cominciare a scrivere ciò che il lettore ha appena finito di leggere, trovando così nella vocazione letteraria il senso della propria esistenza.
Comunque stiano le cose la delusione per l’iniziativa degli editori di pubblicare una versione definitiva dell’opera, cosa che denotava la loro stanchezza di fronte al continuo accumularsi di materiale; l’avvilimento causato dalla recente esperienza della guerra; la sofferenza provocata dal male che aveva cominciato a tormentarla furono tutti fattori che
rallentarono la composizione dell’opera e le impedirono di portarla a conclusione.
Pilgrimage rimase, quindi, ‘an unfinished whole’[11], un pellegrinaggio che non conduce a nulla e che per questo è stato giudicato da molti un fallimento, una successione indeterminata di episodi messi insieme senza un progetto coerente.
In realtà si tratta di ben altro: i titoli e il contenuto di ciascun romanzo si configurano come “le tappe del percorso di un labirinto. (…) metafora trasparente della vita intesa come viaggio”[12].
Nel labirinto il viaggiatore deve procedere senza una mappa, muovendosi nello spazio che si sviluppa davanti a lui senza sapere con sicurezza quale strada scegliere e basandosi sugli errori di percorso per cercare di orientarsi. Nel romanzo Richardson, in 2000 pagine, descrive il difficile cammino che Miriam, la protagonista, intraprende all’interno della propria coscienza per scoprire e costruire se stessa. A questa scoperta il personaggio perverrà attraverso il coraggioso atto dell’abbandono della casa paterna ed attraverso le esperienze e le conoscenze accumulate nel corso del suo viaggio.
Pilgrimage è, sotto questo aspetto, un Bildungsroman, un romanzo di formazione, in cui ciascun avvenimento esterno ha una sua influenza nello sviluppo della soggettività della protagonista.
Seguiamo brevemente le tappe che Miriam percorre: la storia ha inizio nel 1891, quando la giovane, per far fronte alle difficoltà economiche della famiglia, accetta un posto come istitutrice in un collegio femminile tedesco. Le difficoltà d’inserimento in un ambiente estraneo, gli errori involontari che la sua inesperienza e giovinezza la inducono a compiere le fanno perdere la fiducia in un possibile successo. Ella abbandona, quindi, i tetti aguzzi (Pointed Roofs) delle case di Hannover: è stato un tratto errato del percorso, si torna indietro (Backwater).
Di nuovo a casa, Miriam sceglie di continuare a lavorare, sempre come insegnante, in una scuola della periferia di Londra. La sua vita sembra essere tornata quella di una volta: ella si reinserisce nella vecchia cerchia d’amicizie, ritrova i suoi corteggiatori, riprende a frequentare i balli. Ma il senso d’indipendenza e di soddisfazione nello scoprire in sé la forza di costruire la propria vita, già sperimentato da Miriam a Hannover, le impedisce di continuare per la strada consueta. La giovane accetta, quindi, un posto come governante in una famiglia borghese, ricca ma volgare e ignorante. Diversa per sensibilità e cultura Miriam si scontra con la rigida struttura della società vittoriana, quasi un alveare (Honeycomb), in cui la donna è principalmente moglie e madre e si vede negata ogni ambizione intellettuale o la possibilità di esprimere liberamente se stessa.
Miriam comprende che bisogna trovare una via d’uscita. Ecco, dunque, che le si prospetta un nuovo corridoio (The Tunnel): l’opportunità di lavorare a Londra come segretaria-assistente in un gabinetto dentistico. Questa nuova esperienza la porterà a contatto con gli ambienti più svariati: Miriam frequenta concerti, partecipa alle riunioni dei socialisti fabiani, conosce il movimento delle suffragette, entra in contatto con numerosi scrittori, tra cui Hypo Wilson, marito di una sua ex-compagna di scuola.
Tutte queste nuove realtà disorientano Miriam che, alla ricerca della strada da seguire, si ferma a riflettere su se stessa (Interim). Nella pensione in cui alloggia arriva un ebreo russo emigrato, Michael Shatov, con cui Miriam vive la prima esperienza d’amore. Nonostante la sincerità dei propri sentimenti, la giovane tuttavia si rende conto di non poter accettare un legame definitivo, che porrebbe fine alla sua ricerca.
Il matrimonio con Shatov sarebbe un vicolo cieco (Deadlock), bisogna esplorare nuovi sentieri. Diverse e svariate vie le si aprono dinanzi (Revolving Lights): Miriam diventa una donna politicamente impegnata, Hancock, il medico presso il quale lavora, le chiede di sposarlo, Wilson la coinvolge in una compromettente relazione amorosa.
Una serie di circostanze concorrono a provocare in Miriam un forte stress: il trasloco in un appartamento che aveva deciso di condividere con un’amica, poi rivelatasi estremamente invadente e moralista; il rapporto sempre più complesso con Hypo Wilson; la pressione del lavoro. Sull’orlo di una crisi nervosa Miriam decide di fuggire da questa situazione in cui si sente intrappolata (The Trap) e si mette quindi in viaggio per Oberland.
Il lungo viaggio compiuto da sola, nella notte, l’aiuta a giungere ad una risoluzione: lascerà il lavoro di segretaria per diventare una giornalista. Imboccherà, dunque, un nuovo sentiero e sceglierà un’altra direzione (Dawn’s Left Hand). Durante il percorso arriva l’emozione della pubblicazione del suo primo libro, una traduzione, e quella di un vero legame d’amicizia con Amabel, giovane femminista militante che stabilisce con lei un rapporto di comunicazione emotiva perfetta, quale non le era mai stato possibile stabilire con gli uomini.
Miriam scopre di aspettare un bambino, frutto della sua relazione con Hypo; lo confessa a Michael che le chiede di sposarlo subito per regolarizzare la sua situazione, ma ella rifiuta. Partecipa poi, per la prima volta, ad una dimostrazione per il suffragio universale, durante la quale Amabel viene arrestata e processata. Miriam, sottoposta a grave stress emotivo e fisico, proprio quando aveva deciso di tenere il bambino, lo perde a causa di un aborto spontaneo.
A questo punto, tutto le diventa chiaro (Clear Horizon): rinuncerà a qualsiasi legame e solo nella scrittura troverà piena realizzazione. Messasi di nuovo in viaggio, Miriam si rifugia questa volta presso una famiglia di quaccheri, i Roscola, in una fattoria in cui vive a contatto con la natura (Dimple Hill). Il soggiorno è brevemente interrotto dal suo ritorno a Londra in occasione del matrimonio di Michael e Amabel.
Alla fattoria uno dei Roscola s’innamora di lei, ma Miriam sente di non poter appartenere a quel mondo e decide di rimettersi in cammino. Ventiquattro anni sono passati dacché la luna di marzo l’aveva accompagnata nel suo primo viaggio verso la libertà. Una nuova luna di marzo (March Moonlight) la conduce alla meta: una stanza a Londra, in una soffitta, lontana da tutti, dove poter scrivere in solitudine.
Pilgrimage nella cultura del suo tempo
L’accoglienza che il mondo letterario inglese riservò all’opera di Richardson è piuttosto varia e ben pochi furono coloro che seppero davvero apprezzare i meriti della scrittrice.
Le reazioni più favorevoli furono quelle di Ford Madox Ford e John Cowper Powys. Il primo definì Richardson come “the most abominably unread recent novelist”[13], e l’autrice stessa lo ritenne l’unico ad aver realmente compreso il vero significato della sua opera: “Ford saw what without – realising – its – effect – upon – the – developm. – of – the – novel (odious word) I was moved to do”[14]. Powys, positivamente impressionato dalla lettura di Pilgrimage, dedicava a Richardson un breve entusiastico saggio in cui accostava Miriam ai grandi eroi della letteratura occidentale, Amleto e Faust: “To find (Miriam’s) speriors in intellectual interest one is compelled to turn to such world-famous figures as Hamlet and Faust. But even Hamlet and Faust do not fill the spiritual gap, do not supply the sub-conscious material, claimed, as her right, by Miss Richardson’s young woman. Why not? Because both of these are essentially projections of the male quest for essence of human experience; and Miriam is a projection of the female quest for this essence”[15].
Meno entusiasta, H. G. Wells scriveva, nel 1917, che Richardson “had probably carried impressionism in fiction to its further limits”[16], estremi ai quali egli guardava con sospetto.
Anche Kathrine Mansfield non era molto propensa ad appoggiare ‘lo stile ambizioso’ di Pilgrimage che giudicava, nella sua recensione a The Tunnel, frutto di un egoismo ingiustificabile: “Miss Richardson has a passion for registering every single thing that
happens in the clear, shadowless country of her mind. One cannot imagine her appealing to the reader or planning out her novel; her concern is primarily, and perhaps, ultimately, with herself. “What cannot I do with this
mind of mine!” one can fancy her saying”[17].
Grande interesse dimostrò invece Virginia Woolf, ancora alla ricerca di una propria forma, anche se nelle sperimentazioni di Joyce e Richardson, intravedeva il rischio di una narrazione rigidamente soggettiva: “Suppongo che il pericolo sia nel dannato egocentrismo; che a mio parere rovina Joyce e Richardson: si è abbastanza pieghevoli e ricchi da provvedere una parete che ci divida dal libro senza che essa divenga, come in Joyce e Richardson, limite e costrizione?”[18].
In una recensione a The Tunnel Woolf dimostrava successivamente di aver saputo leggere le valenze estetiche profondamente innovative dello stile della Richardson: “I capitoli che creano tensione e i capitoli che la sciolgono; i tipi che sono sempre tipici; le scene piene di passione e le scene piene di umorismo; l’elaborata ricostruzione della realtà; la concezione che informa e abbraccia il tutto. Tutte queste cose vengono buttate via e rimane solo, denudata e esposta, senza principio e senza fine, la coscienza di Miriam Henderson, a registrare l’una dopo l’altra, e l’una sopra l’altra, parole, grida, urla, note di violino, frammenti di conferenze, a seguire queste impressioni mentre passano come un lampo per la mente di Miriam, risvegliando incongruamente altri pensieri, e intrecciando incessantemente i multicolori e innumerevoli fili della vita”[19].
Chi conosce il sistema compositivo della Woolf sa bene che è questa la strada per la quale ella avrebbe proseguito, portando la lezione appresa da Richardson ad un massimo grado di raffinatezza e perfezione.
Elogiata o criticata, Richardson, in ogni caso, era innegabilmente degna di considerazione, per l’innovazione che consapevolmente si era proposta di apportare ai metodi di narrazione convenzionali. Senza il supporto di un ambiente culturalmente ed economicamente favorevole, senza la possibilità (allora preclusa al sesso femminile) di seguire un regolare corso di studi, Richardson era una self–made–woman che, con la sua genialità e basandosi soltanto sulle sue capacità, era riuscita a preparare la strada per quella grande rivoluzione
narrativa di cui altri scrittori avrebbero poi raccolto gli allori.

“L’equivalente femminile del contemporaneo realismo maschile”
Per comprendere in che modo la figura di Dorothy Richardson si colloca all’interno della tradizione letteraria inglese, sarà utile tener conto di quanto la scrittrice stessa, nella prefazione alla prima edizione collettanea di Pilgrimage, affermava a proposito del ruolo da lei esercitato nella narrativa sperimentale del primo Novecento.
La scrittrice spiegava come, avendo conosciuto ed apprezzato il grande maestro del realismo, Balzac, ed il suo primo seguace inglese, Arnold Bennett, non poteva che provare insoddisfazione nei confronti dei successivi romanzieri realisti che “alle lenti rosacee del telescopio degli scrittori di romance, avevano sostituito un banale vetro per narrare proteste in chiave biografico autobiografica”[20].
Decisa ad intraprendere la carriera letteraria, Dorothy
Richardson si rifiutava di proseguire la tradizione realista che era stata, fino allora, prevalentemente al maschile; d’altro canto respingeva anche l’idea di
entrare nel “battaglione di donne che scrivono storie d’amore”[21]. Ella sceglieva, invece, per sé un sentiero solitario “…attempting to produce
a feminine equivalent of the current masculine realism”[22].
Come molti critici non mancarono di rilevare, infatti, Pilgrimage era un testo realista, nel senso che la scrittrice ritraeva con accurata precisione gli eventi della sua vita nello sfondo dei fatti storici e culturali della sua epoca. Persone, fatti, luoghi e riferimenti temporali trovavano effettivo riscontro nella realtà, per questa ragione l’opera, che copre l’arco di tempo compreso fra il 1890 e il 1915, risulta essere la fedele registrazione di quello che Bryher definì: “The slow progression from the Victorian period to modern age”[23].
La cura nei dettagli, dimostrata nelle lunghe e particolareggiate descrizioni, testimonia pure il particolare intento realistico della scrittrice, il cui stile Ford Madox Ford definiva nei termini seguenti: “ The chief characteristic…is an extreme, almost Flemish, minuteness of rendering of objects and situations perceived through psychologies of the character”[24].
Si trattava, comunque, di un realismo diverso rispetto a quello di Wells e dei suoi contemporanei, da cui Richardson si distaccava per approdare ad un nuovo tipo di narrazione soggettiva e focalizzata interiormente, nella resa della realtà della coscienza, in cui immagini e percezioni del presente e del passato si fondono all’interno della mente osservatrice e contemplativa della protagonista.
La scrittrice non si limitava, quindi, a presentare l’immobile e statico affresco del suo tempo, del suo ambiente, delle vicende della sua esistenza privata: ella registrava l’essenza della vita stessa e ne coglieva l’incessante e pulsante divenire, presentandolo ai nostri occhi come se stesse svolgendosi in quel momento. Nelle parole di May Sinclair: “By presenting what happens in the mind, Miss Richardson seizes reality alive”[25].
Questo nuovo tipo di realismo poneva, dunque, al centro dell’attenzione l’esplorazione psicologica del personaggio, secondo un procedimento inaugurato da Henry James e che Richardson intravedeva già in un passo tratto dal V libro de Gli anni dell’apprendistato di Wilehlem

Meister di Goethe, a suo dire un vero e proprio “manifesto letterario”, in cui si esprimeva l’esigenza di un nuovo uso del personaggio: “In the novel, reflections and incidents should be featured; in drama, character and action. The novel must proceed slowly, and the thought – processes of the principal figure must, by one device or another, hold up the development of the whole….The hero of the novel must be acted upon, or, at any rate, not himself the principal operator….Grandison, Clarissa, Pamela, the Vicar of Wakefield, and Tom Jones himself, even where they are not acted upon, are still retarding personalities and all the incidents are, in a certain measure, modelled according to their thoughts”[26].
Ad ogni modo Richardson pure aveva piena consapevolezza dei suoi meriti, se poteva scrivere che, poco tempo dopo la travagliata pubblicazione del primo volume di Pilgrimage (Pointed Roofs), il sentiero solitario da lei intrapreso era diventato una strada popolata, dove s’incontravano numerosi passanti fra cui “…a woman mounted upon a magnificently caparisoned charger, (…) a man walking, with eyes devoutly closed, weaving as he went a rich garment of new words wherewith to clothe the antique dark material of his engrossment”[27]. Le due figure cui Richardson fa riferimento sono, con ogni probabilità Woolf e Joyce.
Continuava la scrittrice: “News came from France of one Marcel Proust, said to be producing an unprecedently profound and opulent reconstruction of experience focused within the mind of a single individual”[28].
Richardson appariva, dunque, perfettamente consapevole dell’importanza del contributo da lei apportato alla nascita del nuovo genere
narrativo, per il quale cominciavano ad apparire varie definizioni.
L’espressione stream of consciousness, coniata da May
Sinclair, non incontrava le simpatie della scrittrice che nel 1933, intervistata da S. Kunitz, l’aveva descritta come caratterizzata da ‘completa imbecillità’[29].
Nel Foreword Richardson spiegava le ragioni del suo dissenso (non è opportuno a suo giudizio paragonare la coscienza ad un flusso: i pensieri fluiscono, mentre il nucleo centrale della mente rimane stabile), giudicando più appropriati i termini in uso oltre oceano, ‘slow motion photography’ e ‘interior monologue’.
Riprendeva più tardi l’argomento, in un’intervista con Vincent
Bröme: “Stream of consciousness is a muddle-headed phrase. It’s not a
stream, it’s a pool, a sea, an ocean. It has depth and greater depth and when you think that you have reached its bottom there is nothing there and when you give yourself up to one current you are suddenly possessed by another”[30].
Ad ogni modo, qualunque terminologia si voglia scegliere, con Pointed Roofs nasceva una nuova tecnica e Richardson era cosciente di esserne stata l’iniziatrice. A questo romanzo rivolgeremo ora la nostra attenzione per scoprire in che modo le premesse innovatrici della scrittrice trovarono, sin dall’inizio della sua carriera letteraria, una realizzazione pratica.
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[1] John Rosenberg, Dorothy Richardson The Genius They Forgot: A Critical Biography, London, Duckworth, 1973.
2Ivi, p. ix.

[3] C. Watts, Dorothy Richardson, Plymouth, Northcote House, 1995.
[4] S. Gervitz, Narrative’s Journey: The Fiction and Film Writing of Dorothy Richardson, New York, Peter Lang Publishing, 1996.
[5] G. Thomson, Reader’s Guide: Pilgrimage, Greensboro, ELT Press, 1996.
[6] K. Bluemel, Experimenting on the Borders of Modernism, Athens, University of Georgia Press, 1997.
[7] Leon Edel, “Dorothy Richardson, 1882-1957”, Modern Fiction Studies, 4 (Winter 1958), pp. 165-8, cit. in S. Sciarrino, Pilgrimage di Dorothy Richardson o dell’itinerario di una coscienza, Palermo, Quaderno 8 nuova serie, Università degli studi di Palermo, 1995, p. 67. (“Dorothy Richardson ci offre in certe pagine una straordinaria luminescenza emozionale – così come, dal punto di vista storico, una registrazione della sperimentazione di una nuova tecnica, l’opportunità di prendere in esame una svolta nel romanzo moderno inglese. C’è la concreta possibilità che una nuova generazione di lettori – se continueranno ad esserci lettori – possa davvero scoprire Dorothy Richardson per la prima volta”).

[8] G. Fromm, Dorothy Richardson: A Biography, Athens e Londra, University of Georgia Press, 1994, p. 310. (“L’opera completa, in dodici parti, inclusa una mai pubblicata ”).

[9] Ivi, p. 370.
[10] Cfr. G. Thomson, op. cit., p. 54.

11 K. Bluemel, op. cit., p. 1, ‘un insieme non terminato’.
12 E. Siciliani, Documenti per una Auto/Biografia minima, Bari, Adriatica Editrice, 1988,
p. 42.

[13] Ford Madox Ford, The March of Literature, cit. in Bluemel, op. cit., p. 178. (“La romanziera moderna abominevolmente meno letta”).

14 Lettera di D. Richardson a Henry Savage, 6 gennaio 1950, in G. G. Fromm, Windows on Modernism, Athens e Londra, University of Georgia Press, 1995, p. 629. (“Ford vide senza – comprendere – i suoi – effetti – sullo – sviluppo – del – romanzo (odiosa parola) quello che io mi proponevo di fare”).

[15] J. Cowper Powys, Dorothy M. Richardson, Londra, Joiner and Steele, 1931, p. 6. (“Per trovare superiori (a Miriam) in interesse intellettuale si è costretti a volgersi a figure famose in tutto il mondo quali Amleto e Faust. Ma persino Amleto e Faust non colmano il vuoto spirituale, non forniscono il materiale sub-cosciente, rivendicato come proprio diritto dalla giovane eroina di Miss Richardson. Perché no? Perché entrambi sono proiezioni della ricerca maschile dell’essenza dell’esperienza umana; e Miriam è proiezione della ricerca femminile di questa essenza”).
[16] H. G. Wells cit. in G. G. Fromm, Dorothy Richardson: A Biography, cit., p. 105/6. (“Aveva portato l’impressionismo nella narrativa ai suoi estremi”).

[17] K. Mansfield cit. in K. Bluemel, op. cit., p. 19. (“Miss Richardson ama registrare qualsiasi cosa accada nella regione chiara e senz’ombre della sua mente. Si può immaginare il fascino esercitato sul lettore e il modo in cui pianificava il suo romanzo; sua prima preoccupazione, e forse unica, era se stessa. “Cosa non posso fare con questa mia mente!” si può immaginare che dicesse”).

18 V. Woolf, Diario di una scrittrice, Torino, Giulio Einaudi Editori, 1981, p. 44.

[19] M. Barret (a cura di), Virginia Woolf: Le donne e la scrittura, Milano, La Tartaruga edizioni, 1995, p. 200.

[20] E. Siciliani, op. cit., p. 55.
[21] Ibidem
[22] D. M. Richardson, Foreward alla prima edizione collettanea di Pilgrimage, Londra, Dent and Cresset Press, 1938, 4 voll., p. 9. (“…tentando di produrre l’equivalente femminile del contemporaneo realismo maschile”).
[23] W. Bryher, cit. in C. Watts, op. cit., p. 4. (“La lenta evoluzione dal periodo Vittoriano all’età moderna).
[24] F. M. Ford, cit. in G. Thomson, op. cit., p. 4. (“La principale caratteristica…è una minuziosità estrema, e quasi fiamminga, nella resa di oggetti e situazioni percepiti attraverso la psicologia dei personaggi”).

[25] M. Sinclair, cit. in G. Thomson, op. cit., p.5. (“Presentando ciò che accade nella mente, la signorina Richardson coglie la realtà viva”).

[26] W. Goethe cit. in D. Richardson, Foreward, cit. p. 11. (“Nel romanzo dovrebbero essere messi in rilievo riflessioni ed eventi; nel dramma, il personaggio e l’azione. Il romanzo deve procedere lentamente, e la successione dei pensieri del protagonista deve, tramite un espediente o l’altro, sostenere lo sviluppo dell’insieme…. L’eroe del romanzo deve essere oggetto dell’azione, o, comunque non deve essere lui il maggiore responsabile dell’azione…. Grandison, Clarissa, Pamela, il Vicario di Wakefield, e lo stesso Tom Jones, anche quando non sono oggetto d’azione, sono comunque personalità che producono un rallentamento della vicenda e tutti gli eventi sono, in certa misura, modellati secondo i loro pensieri”).
[27] D. Richardson, Foreword, cit., p. 10. (“Una donna, su un destriero magnificamente bardato, (…) un uomo dagli occhi devotamente chiusi, che avanzava tessendo una ricca veste di nuove parole con cui rivestire l’antico, oscuro materiale della sua meditazione”).
28 Ibidem. (“Giungevano notizie dalla Francia di un certo Marcel Proust, che si diceva stesse producendo una ricostruzione dell’esperienza di una profondità e ricchezza senza
precedenti focalizzata dall’interno della mente di un singolo individuo”).
29 S. Kunitz, Authors Today and Yesterday, cit. in E. Siciliani, op. cit., p. 32.

30 Vincent Bröme, A Last Meeting with Dorothy Richardson (1951), in E. Siciliani, op. cit., p132. (“Stream of consciousness è una frase confusa. Non è un flusso, è uno stagno, un
mare, un oceano. Ha immense profondità e quando pensi di averne raggiunto il fondo non trovi nulla, e quando ti lasci andare ad una corrente improvvisamente sei posseduto da un’altra”).

CAPITOLO II
Pointed Roofs

Pointed Roofs: stesura e pubblicazione

Nel 1912 Dorothy Richardson era un’affermata giornalista e traduttrice, ma non aveva pubblicato alcun romanzo. Aveva ricevuto numerose pressioni da parte degli editori della Saturday Review che, entusiasmati da alcuni suoi bozzetti narrativi, la incitavano a cimentarsi in un romanzo, ma insoddisfatta delle tradizionali convenzioni narrative, Dorothy non aveva ancora trovato una sua personale maniera di scrivere. Riandando agli esordi della sua attività letteraria, nel 1943 la scrittrice dichiarava: “The material that moved me to write would not fit the framework of any novel I had experienced. I believed myself to be, even when most enchanted, intolerant of the romantic and realistic novel alike. Each, so it seemed to me, left out certain essentials and dramatised life misleadingly. Horizontally. Assembling their characters, the novelists developed situations, devised events, climax and conclusion. I could not accept their finalities”[1].
Dopo molti tentativi falliti Richardson non aveva ancora una chiara concezione del libro che intendeva scrivere, ma era certa che alcune condizioni le avrebbero sicuramente giovato: prima di tutto aveva bisogno di lasciare Londra e di ritirarsi in isolamento.
Fu in quel periodo che Jack Beresford, suo amico e scrittore allora piuttosto noto, le offrì un soggiorno in Cornovaglia. Egli e la moglie Beatrice possedevano un’abitazione a St. Ives, vicino alla quale c’era un piccolo cottage riadattato da una vecchia cappella in rovina. Lì Dorothy avrebbe potuto ritirarsi in solitudine e scrivere indisturbata. Era una buona occasione ed ella non se la lasciò sfuggire. Vi si recò in ottobre e vi trascorse alcuni mesi in una solitudine pressoché completa, circondata dalla magica atmosfera dello scenario della Cornovaglia, che le ricordava le vacanze a Dawlish o a Weymouth nell’infanzia.
Mai prima di allora era stata così libera da qualsiasi distrazione: “Suddenly the world had dropped away. But never had humanity been so close. Everything took a terrific intensity”[2].
S’immerse, quindi, in un intenso lavoro di scrittura, ma solo per

accorgersi che non c’era vita in ciò che scriveva.
Richardson era alla ricerca di un romanzo che fosse un’entità vivente indipendentemente dal suo autore, non una realtà riportata, riflessa. Per questo necessitava di un metodo interamente nuovo e a poco a poco due cose cominciarono a farsi chiare nella sua mente: innanzi tutto voleva scrivere un romanzo su ciò che conosceva e la sua stessa vita era tutto ciò che poteva davvero affermare di conoscere; in secondo luogo si rese conto che nel romanzo che andava progettando la protagonista, Miriam, era sola: non c’era nessuno lì per descriverla. Bisognava, quindi, che venisse colta mentre direttamente si trovava di fronte alle esperienze della sua vita; eventi e situazioni dovevano essere raccontati soltanto attraverso la sua voce; sin dalle prime parole Miriam doveva essere gettata nella marea della propria esistenza, ed il lettore insieme con lei.
In base a queste convinzioni, Dorothy lavorò ad un nuovo inizio per il suo romanzo ed improvvisamente tutto cominciò a funzionare: “The novel had begun to be alive, and Miriam existed as its centre, on her own. She, the author, wasn’t in it”[3]. La nuova tecnica narrativa aveva al proprio
centro la coscienza della protagonista.
Dopo cinque mesi trascorsi in totale concentrazione e dimentica di sé (si preoccupava ben poco persino di mangiare), Richardson portava finalmente a termine il suo primo romanzo: Pointed Roofs.
Agli inizi del 1913 la scrittrice tornò a Londra e mostrò il manoscritto a J. D. Beresford, che ne riconobbe i meriti e la incoraggiò a mandarlo ad un editore. Il manoscritto fu restituito con una nota di scuse: non si riusciva a capire quale fosse l’argomento trattato nel romanzo.
Dorothy si rese conto della difficoltà di pubblicazione per un’opera scritta in una vena tanto personale, così rinunciò e nascose il manoscritto rifiutato in un baule, dove rimase per altri due anni. Nel 1915 si convinse a mandarlo alla Duckworth, la casa editrice fondata dal fratello di Virginia Woolf, Gerald Duckworth. Beresford la indirizzò al critico e consulente letterario Edward Garnett, che lesse Pointed Roofs e ne rimase favorevolmente colpito. Il romanzo gli sembrava un esempio di “impressionismo femminile” e pensò che valesse la pena di pubblicarlo. Duckworth accettò la sua raccomandazione e fu stabilita per settembre la data di pubblicazione. Beresford ne avrebbe scritto l’introduzione.
Dorothy voleva che il suo romanzo fosse intitolato Pilgrimage,
mentre Pointed Roofs doveva essere il sottotitolo: prima parte di un più vasto insieme. Ma prima che il libro fosse rilegato si scoprì che Pilgrimage era anche il titolo di un altro romanzo e non poté, quindi, essere usato. Pointed Roofs fu pubblicato nell’autunno del 1915 e annunciato dalla Duckworth come “A First Novel of Unusual Merit”.
Al suo apparire Pointed Roofs suscitò un grande interesse da parte della critica. Fu difficile negare che si trattasse di qualcosa di veramente nuovo ed anche le recensioni negative che l’opera ricevette dimostrarono serietà di lettura. Con cautela e con curiosità la critica inglese veniva a trovarsi di fronte a questo “strano oggetto che, in mancanza di definizioni adeguate, continuò a chiamare romanzo”[4].
J. D. Beresford, nella lunga quanto poco eloquente Introduzione, in cui tentò – a suo modo e in maniera piuttosto confusa – di dare spiegazione al nuovo metodo, descriveva il romanzo come “la cosa più soggettiva che avesse mai letto” e al tempo stesso come “realismo oggettivo”. Nonostante l’apparente contraddittorietà, l’affermazione ha una sua logica: secondo Beresford, Richardson era riuscita a rappresentare con estrema oggettività qualcosa di strettamente privato e personale, la realtà soggettiva della coscienza. Quella della scrittrice era definita “a new attitude towards fiction”: Dorothy Richardson era “ the first novelist who had taken the final plunge….had gone head under and become a very part of the human element she...described”[5].
La prima recensione di Pointed Roofs comparve sul Sunday Observer da parte di un anonimo autore che era riuscito a cogliere meglio, rispetto a Beresford, la novità del romanzo: “The book somehow reads as if the reader did not exist (...) no allusion was explained or incoherence apologized for”[6].
Il lettore si trovava cioè abbandonato a se stesso, mentre l’autore sembrava aver perduto la centralità e l’importanza del suo ruolo. Questo non aveva però disturbato la lettura dello sconosciuto recensore: il romanzo gli era apparso indimenticabile ed in nessun modo oscuro, anzi, al contrario “clear with a clarity as keen as the gables of the charming ‘pointed roofs’”[7]. In breve si trattava di un’opera che non poteva passare inosservata.
La recensione della Saturday Review era invece una stroncatura, sebbene gli editori fossero stati i primi ad incoraggiare Dorothy a scrivere un romanzo. L’anonimo autore aveva titolato la sua recensione “An Original Book”, ma, come sottolinea Fromm, anche l’originalità concessa al libro veniva presentata come una dubbia virtù8. Insomma il testo veniva descritto come un caso patologico (“a fictional pathology”), “a charted dissection of an unsound mind. It lays bare the working of a sick imagination”9. In luogo di una trama o di una tematica ben definita presentava “pages upon pages of foolish or fevered fantasies”10.
Soltanto più tardi, nel 1918, la novità dello stile di Richardson sarebbe stata finalmente compresa fino in fondo e avrebbe trovato la sua definizione. In quell’anno May Sinclair pubblicava, contemporaneamente su The Little Review e The Egoist, la recensione ai primi tre capitoli-volumi di Pilgrimage (Pointed Roofs, Backwaters, Honeycomb), in cui coniava un’espressione rimasta a definire la narrativa sperimentale del primo Novecento: “the stream of consciousness novel”.
“I find it impossible to reduce to intelligible terms this
satisfaction that I feel. To me these three novels show an art and method and form carried to punctilious perfection. Yet I have heard other novelists say that they have no art and no method and no form, and that it is this formlessness that annoys them. They say that they have no beginning and middle and no end, and that to have form a novel must have an end, a beginning and a middle...there is a certain plausibility in what they say, but it depends on what constitutes a beginning and a middle and an end. In this series there is no drama, no situation, no set scene. Nothing happens. It is just Miriam Handerson’s stream of consciousness going on and on”11.
Ma il 1915, data della pubblicazione del romanzo, non era ancora pronto per una simile scrittura. Il libro era in anticipo sui tempi, sia nel modo di ritrarre la coscienza, sia nel fatto che la coscienza era quella di una donna. Concorreva poi a rendere inviso l’argomento trattato la guerra in corso e l’ostilità nei confronti dei tedeschi. Come osserva il recensore del Times Literary Supplement: “An exact chronicle of life in a German girls’ school a quarter of a century ago is perhaps of all themes which a novelist might choose the least likely to appeal the public at the present moment”12.

Il plot
Nell’isolamento in Cornovaglia Dorothy era arrivata alla conclusione che avrebbe scritto dell’unica cosa che poteva davvero affermare di conoscere: la propria stessa vita. Pensò a modificare nomi di persone e di luoghi affinché non fosse troppo palese l’identificazione fra lei e il suo personaggio, quindi iniziò la narrazione in medias res, tornando ai suoi diciassette anni e alla sua esperienza ad Hannover, la prima volta in cui aveva agito in maniera indipendente.
Riassumere i principali accadimenti del romanzo è compito assai difficile: Richardson aveva inteso ricreare la sua coscienza di allora. Più che una successione di eventi si tratta, quindi, del continuo fluttuare della mente che, stimolata dai fatti dell’esperienza quotidiana, si sposta avanti e indietro nel tempo. Non è, dunque, possibile ricostruire l’azione, in quanto azione non vi è, si cercherà piuttosto di seguire le associazioni mentali del personaggio centrale, per ricomporre poco per volta le tessere del mosaico della sua vita.
Incontriamo Miriam, la protagonista del romanzo, il giorno prima della sua partenza per la Germania. Come Dorothy prima di lei, la giovane sta per lasciare l’amata casa paterna per diventare insegnante d’inglese in un collegio femminile all’estero. Da sola nella sua stanza che ‘non avrebbe più riavuto il suo vecchio aspetto’13, Miriam attende l’arrivo delle sorelle, in preda ad un turbinio di ricordi, aspettative, rimpianti. L’imminenza del viaggio la induce alla contemplazione di tutto ciò che sta lasciando: “The sense of all she was leaving stirred uncontrollably as she stood looking down into the well-known garden”14. Il giardino, simbolo d’innocenza e inizio della consapevolezza di sé, è un’immagine ricorrente in tutti i capitoli-volumi di Pilgrimage.
Continuano le associazioni mentali della protagonista: il suono di un organetto la riporta ai giorni della scuola; il fuoco del camino le fa pensare all’estate; l’estate le fa ricordare ‘a white twinkling figure’15,
probabilmente un suo corteggiatore di Barnes.
L’arrivo di Eve ed Harriett interrompe le sue meditazioni e le tre sorelle s’intrattengono in una breve conversazione, durante la quale Miriam cerca da loro una parola di conforto: ella è ancora, in questo capitolo-volume, profondamente insicura ed ha costantemente bisogno di
essere rassicurata sulle proprie qualità, sul proprio aspetto e su tutto ciò per cui si sente esposta al giudizio degli altri.
La narrazione si sposta, quindi, al giorno successivo, quello della partenza. Miriam si risveglia dopo un brutto sogno e compie, con Harriett, il ‘vecchio cerimoniale’ con cui le due sorelle, che avevano fino ad allora diviso lo stesso letto, si salutavano ogni giorno, da bambine, sporgendosi a testa in giù ognuno dalla propria parte ed emettendo strani versi.
Mentre si sta vestendo e preparando per partire, la giovane riceve da Harriett quella che per lei è una vera rivelazione: scopre di essere ammirata da tutti i membri della sua famiglia. La sua sorpresa è grande: “I’m pretty – they like me – they like me. Why didn’t I know?”16, ma evita ancora, di guardarsi allo specchio per timore che l’immagine rinviata
faccia di nuovo vacillare la sicurezza appena acquisita.
Nel secondo capitolo ritroviamo Miriam già in viaggio. Mentre attraversa l’Olanda, la sua mente è affollata dalle immagini di casa, dai ricordi del distacco dai suoi familiari.
In treno la giovane riflette sul lavoro che l’aspetta e su ciò che sta lasciandosi alle spalle.
All’inizio del terzo capitolo Miriam sta esercitandosi al pianoforte, in quella che presumiamo essere una stanza del collegio. E’ il giorno dell’arrivo di una nuova studentessa, Ulrica Hesse. Anche la piccola Emma Bergman sta eseguendo una melodia.
Miriam si ricorda della prima volta in cui l’ha sentita suonare, il giorno successivo al suo arrivo a scuola, era rimasta impressionata dalla sua bravura e dal suo trasporto. Continuano le riflessioni di Miriam sulla prima sera trascorsa al collegio di Waldrasse.
Parte del quarto capitolo è ancora occupata dai ricordi di Miriam del suo secondo giorno a scuola, quando la direttrice, Fräulein Pfaff, le aveva spiegato quali sarebbero stati i suoi compiti ed ella si era trovata per la prima volta davanti ad una classe.
La narrazione torna, quindi, al presente (il giorno dell’arrivo di
Ulrica Hesse), e diviene da questo momento meno dettagliata e più frammentaria.
Nel quinto capitolo siamo alla terza domenica in collegio, Miriam accompagna le ragazze ad assistere alla messa e riflette su quanto diversa sia la celebrazione del rito rispetto alle chiese inglesi.
Nel sesto capitolo Miriam descrive le sue reazioni alle quotidiane occupazioni, nel settimo racconta di aver accompagnato le ragazze ai bagni pubblici. Nell’ottavo capitolo assiste alla lezione di uno degli insegnanti, Pastor Lahmann e trascorre il pomeriggio giocando a sciarade con le ragazze. Il giorno successivo è quello della gita a Hoddenheim.
La partenza di Minna (un’altra delle allieve) è l’avvenimento centrale del nono capitolo. La giovane torna a casa dai genitori e Miriam l’accompagna alla stazione. Prima di partire Minna le offre di andare a vivere da lei, al termine del periodo scolastico, e di farle da istitutrice. Miriam ne è molto contenta.
I restanti tre capitoli descrivono l’ultimo periodo al collegio, che trascorre fra le lezioni e le passeggiate, queste ultime sempre più frequenti con l’arrivo della stagione calda.
Le vacanze estive sono alle porte e Miriam, dopo sei mesi di permanenza al collegio, è quasi certa che non potrà essere confermata nel suo posto: durante una conversazione, Fräulein Pfaff le ha detto che, nonostante dimostri una certa vocazione per l’insegnamento, ha ancora molta strada da compiere e soprattutto dovrà imparare a modificare le sue maniere, sostituendo un fare più gradevole alla sua rigidità e al suo gelido formalismo.
Una provvidenziale lettera di Eve, che porta la notizia del fidanzamento della sorella minore Harriett, la informa anche che può tornare a casa. Con la partenza si conclude la prima tappa del pellegrinaggio di Miriam alla ricerca di se stessa.

Un nuovo romanzo, un nuovo rapporto con il lettore
“Richardson experimental writing required experimental reading”17, afferma K. Bluemel e, infatti, di fronte ad uno stile così nuovo e difficile, il lettore comune si trovò impreparato. Un simile sconvolgimento delle tradizionali modalità di scrittura implicava un analogo stravolgimento nella lettura.
Non si trattava più, semplicemente, di seguire un percorso prefissato dalla sequenza delle pagine: perduto il proprio ruolo tradizionalmente passivo, il lettore doveva avventurarsi “nel testo e guardarsi intorno con uno sguardo altrettanto ‘innocente’ di quello dell’artista che scopre un nuovo mondo”18.
Leggere, quindi, come volontà di intraprendere un viaggio, un’avventura alla scoperta delle verità contenute nella coscienza. “Adventure for the reader” è, appunto, il titolo che Richardson diede alla sua recensione del 1939 a Finnegans Wake di James Joyce. In essa la scrittrice spiegava come il nuovo romanzo consentisse al lettore un libero movimento all’interno del testo: “Opening just anywhere its pages, the reader is immediately engrossed. Time and place, and the identity of characters if any happen to appear, are relatively immaterial. Something may be missed. Incidents may fail of their full effect through ignorance of what has gone before. But the reader does not find himself, as inevitably he would in plunging thus carelessly into the midst of the dramatic novel complete with plot, set scenes, beginning, middle, climax and curtain, completely at sea. He finds himself within a medium whose close texture
like that of poetry, is everywhere significant ”19.
In un romanzo, cioè, che ha perduto le tradizionali coordinate spazio-temporali e in cui trova espressione il processo di continua evoluzione della coscienza del personaggio, il lettore non ha più bisogno di una lettura ordinata e sequenziale. Qualunque frammento del testo, cui corrisponde un frammento del flusso di pensieri, è portatore di significato ed è indipendente seppur legato a ciò che precede e che segue.
Tali precetti e convinzioni nascevano in Richardson dalla propria esperienza di lettura, cui ella soleva accingersi cominciando “dalla metà oppure dalla fine”20. In un’opera letteraria, dunque, scrivere e leggere vengono ad essere parti di un unico processo creativo, per cui scrittore e lettore affronteranno insieme un’avventura nei meandri della scrittura.
L’artista, infatti, che vive l’esperienza creativa come “a
perpetual communication with a larger self”21 farà da guida nel duro pellegrinaggio verso la profonda realtà interiore; il lettore s’immergerà nel romanzo come in un: “…conducted tour (...) into the personality of the author who, willy-nilly, and whatever be his method of approach, must present the reader with the writer’s self-portrait. (...) In either case he will reveal wether directly or by implication his tastes, his prejudices and his phylosophy. (...) It is the revealed personality of the writer that ultimately attracts or repeals”22. Volente o nolente, dunque, nella sua opera l’autore rivela se stesso. Richardson ne era fortemente convinta e in un’intervista del 1933 affermava: “The author out of sight and hearing is present if we seek him only in the attitude towards reality, inevitably revealed: subtly by his accent, obviously by his use of adjective, epiteth and metaphor”23.
Erina Siciliani sottolinea il fatto che “da molte parti si sostiene che un qualsiasi discorso sul modernismo, inteso come messa in scena della coscienza che si riflette anche nelle strutture verbali, deve dichiararsi sinonimo dell’autobiografia”24. Vedremo nelle prossime pagine in quale senso si possa parlare di autobiografia nell’opera di Richardson.

Romanzo e autobiografia
Il testo del romanzo presenta più di una convergenza con eventi reali della vita di Dorothy Richardson.
Dopo la pubblicazione di Pointed Roofs e man mano che uscivano i successivi capitoli-volumi di Pilgrimage, nessuno, se non la famiglia dell’autrice e i suoi amici più stretti, si accorse della natura autobiografica del libro. Infatti si conosceva ben poco di Dorothy Richardson, persino la sua età rimaneva avvolta nel mistero. Mancavano le informazioni che avrebbero consentito un confronto fra il suo lavoro e la sua personale esistenza.
La scrittrice aveva sempre sostenuto che il miglior modo di accostarsi ad un artista era “… meet him first in his achievements”25, ed era convinta che i “fatti” avessero un’importanza del tutto secondaria. Per questa ragione aveva sempre rifiutato ostinatamente di fornire anche le più semplici notizie su se stessa, protestando che ben poco c’era da dire.
Si era creata una gran confusione sui suoi dati biografici, tanto che nel 1920 R. Brimley Johnson, in Some contemporaries novelists, le aveva attribuito per errore il romanzo di un’omonima scrittrice americana, Joy of Youth. A causa di quest’equivoco, nel 1928 il New York Times accompagnava la recensione di Oberland (il nono volume di Pilgrimage) con la fotografia della sua omonima. Fu uno shock per Richardson, come in seguito raccontò in una lettera a Prescott: “A shock it was, both on account of its air of unconsciously fastidious middle-class refeenment (…) & what was far worse, its expression of patient resignation”26.
La scrittrice fu assai contrariata nel vedersi rappresentata da un’immagine tanto antitetica alla sua e, nonostante avesse sempre rifiutato di mostrarsi al pubblico (agli editori di The Little Review che nel 1929 le avevano chiesto una fotografia recente, Richardson aveva mandato la foto di una bimba di un anno, nuda e imbronciata), nel 1931 si decise a concedere alla rivista Everyman il permesso di pubblicare una sua fotografia, insieme ad un’intervista che doveva precedere la pubblicazione di Dawn’s Left Hand.
Alcuni dati autobiografici comparvero in un suo breve racconto del 1933, Beginnings: A Brief Sketch, in cui Richardson descriveva i primi anni della sua vita attraverso una narrazione che era trasfigurazione poetica del mero dato realistico. I primi contatti della scrittrice col mondo esterno venivano rappresentati attraverso la sua esplorazione della natura (un bosco o il giardino di casa) e l’incanto provato davanti al profumo dei fiori o al ronzio degli insetti; la vetrata di una chiesa di Oxford appariva come porta d’accesso ad una nuova realtà; le prime emozioni d’amore si manifestavano nel fantasticare sul profilo di un volto.
Altre pagine autobiografiche della Richardson rimasero inedite fino alla sua morte: la lettera a Silvia Beach del dicembre 1934, che comparve sia in inglese che in francese nel volume commemorativo pubblicato dal Mercure de France nel 1963, Silvia Beach, 1887 – 1962;
Data for Spanish Publisher, scritto nel 1943 per un editore spagnolo che
intendeva pubblicare la traduzione in spagnolo di Pilgrimage e comparso solo nel giugno 1959 sul London Magazine a cura di Joseph Prescott ed infine Old Age ritrovato fra i manoscritti inediti della cognata della Richardson, la scrittrice Rose Isserlis Odle e pubblicato nel 1967 su Adam International Review in un numero speciale dedicato a Richardson e Proust.
La prima a parlare di Pilgrimage come di un testo autobiografico fu Gloria Glinkin Fromm che, nella prefazione alla sua biografia di Richardson, scriveva: “In 1963 I published an essay in PMLA that was the first account of Dorothy Richardson’s life and art. It showed that Pilgrimage was indeed an autobiographical novel and that any portrait of Dorothy Richardson (as she herself insisted) must take its fundamental lines from her own novel because it was there that she felt she had really revealed herself”27. Per la studiosa, quindi, arte e vita erano inscindibili in Richardson e dunque uno studio approfondito sulla scrittrice richiedeva una feconda collaborazione fra critico e biografo.
Alla luce di quanto Fromm aveva dimostrato, altri studiosi considerarono Pilgrimage come un’opera autobiografica. Tra questi ricordiamo Avrom Fleishman e Gillian Hanscombe.
Quest’ultimo, tuttavia, notava come l’opera di Richardson si
distaccasse dal genere autobiografico tradizionalmente inteso: “Pilgrimage is not fiction because the events recorded by its narrative and the characters it introduces, are direct replications of Richardson’s own life experiences. On the other hand, it is not autobiography, since we are given no explicit chronology, no objective accounts of people and events and no assurance that the authorial voice and the persona’s voice are always to be identified as synonimous”28.
In sostanza anziché presentarci un resoconto oggettivo degli avvenimenti della sua vita passata, Richardson tentava di immedesimarsi in quella che era stata la sua coscienza nelle differenti fasi della sua esistenza.
E’ lecito domandarsi fino a che punto sia possibile ricostruire verosimilmente pensieri, sensazioni e impressioni di un periodo ormai trascorso, registrandoli così come realmente si presentavano nel loro fluire. Inoltre l’azione del tempo inevitabilmente aveva creato un distacco sempre più ampio fra l’io di Dorothy e quello di Miriam, fra gli eventi reali e il ricordo che la scrittrice ne conservava o l’uso che decideva di farne nella
narrazione.
Quindi, in Pilgrimage è autobiografico il riferimento a fatti, luoghi e persone che effettivamente hanno fatto parte della vita dell’autrice; è invece creazione artistica l’organizzazione degli eventi narrati.
L’opera di Richardson, dunque, si configura come “a curious essay in autobiography”, secondo la definizione data d H. G. Wells nel 1934.
L’intento che Richardson si proponeva in Pointed Roofs e nei successivi volumi era di ritrarre nel suo sviluppo la coscienza di Miriam “from ‘the early vagueness’ to an ‘increasing articulateness’, so that at each stage the narrative would take on a slightly altered tone, filtered through the new Miriam who was constantly evolving”29.
Rappresentare non solo gli eventi della vita di qualcuno ma anche l’evolversi della sua coscienza era un progetto grandioso e senza precedenti, che vedeva altri due autori, in quel medesimo tempo, impegnati in una simile impresa: James Joyce in A Portrait of the Artist as a Young Man e Marcel Proust in Du côté de chez Swann, romanzi che furono pubblicati quasi contemporaneamente a Pointed Roofs: “All three were at
once autobiographical and subjective novels. All were about people who markedly resembled their creators, and all were preoccupied if not obsessed with the consciousness of their central characters”30.
“Nel panorama europeo emergevano contemporaneamente tre voci che si muovevano in modo del tutto indipendente, e quasi certamente senza nessuna conoscenza reciproca (…) verso una nuova forma di racconto del sé, scrivevano strane autobiografie per raccontare con modalità inconsuete, al di fuori e contro le modalità tradizionali, ‘una vita’”31.
La novità dell’opera di Richardson stava anche nel materiale “al femminile” che questa conteneva. Con grande aderenza alla realtà Richardson aveva rappresentato il costituirsi di un’identità femminile nel passaggio tra il tardo periodo vittoriano e l’epoca eduardiana, facendo della sua eroina l’interprete di tutta una generazione di donne durante una fase di transizione culturale.

Pointed Roofs, romanzo femminista
Anche se Dorothy Richardson avrebbe probabilmente rifiutato
di essere definita ‘femminista’ (visto che al suo tempo il termine si applicava a donne impegnate nella lotta per ottenere il diritto di voto ed altre forme di uguaglianza politica e sociale, cui ella non prese mai parte) molti ravvisano nella sua opera elementi di femminismo. Esso trova espressione nella presa di coscienza della psicologia e della mente femminili come distinte da quelle maschili e nella scelta di volerne dare raffigurazione all’interno del romanzo. Scelta coraggiosa visto che si trattava di un soggetto che, fino ad allora, non era stato tenuto in grande considerazione nella letteratura inglese.
Richardson sentiva estranea quella tradizione alla quale come artista avrebbe dovuto dare il suo contributo e attribuiva questa diversità alla sua femminilità, impegnandosi a scrivere “The feminine equivalent of the current masculine realism”32.
La scrittrice non era artisticamente soddisfatta di un’oggettiva
rappresentazione della vita nel suo svolgersi materiale ed esteriore, in quanto essa escludeva tutto ciò che era, per lei, davvero importante e ascriveva alla sua femminilità la sua diversa modalità di percezione.
Fra i primi a notare ‘questa discrepanza fra ciò che l’autrice aveva da dire e la forma che la tradizione le offriva per dirlo’33 fu V. Woolf, che nella sua recensione a Revolving Ligths osservava: “Questa scrittrice ha inventato, o, se non inventato, sviluppato e applicato ai suoi fini, una frase che si potrebbe definire la frase psicologica del genere femminile. E’ di fibra più elastica della vecchia frase, è capace di estendersi al massimo, di sostenere le più fragili particole, di abbracciare le forme più vaghe”34. Fin qui nulla ci suggerisce che solo le donne scrittrici possano avere accesso ai contenuti psicologici che danno forma ad una simile frase. Anzi la Woolf riconosce che “Anche scrittori dell’altro sesso hanno usato frasi di questo genere tendendole al massimo”35.
Woolf individuava però una differenza sostanziale fra Richardson e questi scrittori; e lo faceva spostando la sua attenzione dal testo all’autrice e all’intento che quest’ultima si era proposta: “Dorothy Richardson ha modellato la sua frase coscientemente, in modo che potesse discendere nel profondo ed esplorare le fessure della coscienza di Miriam Henderson”36. In definitiva quella della Richardson “è la frase di una donna, ma solo nel senso che viene usata per descrivere la mente di una donna” e Richardson è la scrittrice adatta e capace di creare tale frase in quanto “non prova né orgoglio né paura di fronte a quello che potrebbe scoprire nella psicologia del suo sesso”37.
In questo modo la Woolf poneva i termini del dibattito femminista intorno a Pilgrimage. Donne e scrittrici s’identificarono nella giovane protagonista Miriam, in cui Dorothy aveva riflesso la sua stessa determinata volontà d’indipendenza. Come artisticamente Dorothy era portata a distaccarsi dalle forme tipiche di una tradizione letteraria al maschile così nella vita cercò instancabilmente di sfuggire, o di superare, o modificare i comportamenti che la società si attendeva da lei in quanto donna.
La problematica del femminismo in Richardson nasce dal suo
scontrarsi contro l’impossibilità per la donna di realizzarsi come individuo
al di là del ruolo femminile socialmente e tradizionalmente codificato.
Ciò si riflette nella sua opera, in cui Miriam non riesce ad
identificarsi nelle donne dagli ‘odiosi sorrisi’, segni di acquiescenza e facile appagamento: “They would smile those hateful women’s smiles – smirks- self-satisfied smiles as if everybody were agreed about everything”38.
D’altra parte ella neppure s’identifica con il mondo maschile, odia gli uomini per il senso di superiorità che provano nei confronti delle donne. Di ciò vi sono, in Pointed Roofs, numerosi esempi. Mentre si trova in viaggio per Hannover insieme al padre Miriam vorrebbe chiedergli un’informazione, ma evita di farlo per non dargli l’occasione di fare sfoggio di superiorità intellettuale e culturale: “If only he could answer a question simply, and not with a superior air as if he had invented the thing he was telling about”39. In un’altra circostanza Miriam rimarrà offesa dall’aria condiscendente degli insegnanti tedeschi, annoiati perché costretti ad impartire a delle donne i loro precetti40.
Ancora, Miriam non sopporta i sermoni dei predicatori:“Listening to sermons was wrong…people ought to refuse to be preached at by these men…those men’s sermons were worse than women smiles…”41.
Come Hanscombe sottolinea42, il rifiuto del predicatore nasconde il rifiuto di un’autorità alla quale ci si aspetta che Miriam si sottometta; ed è l’autorità maschile (“questi uomini”) quella a cui ella si sta ribellando.
Non ritrovandosi né nel mondo delle donne né in quello degli uomini, Miriam si trova al di fuori di entrambi, alla ricerca di se stessa; “I don’t like men and I don’t like women. I am a misanthrope”43.
Il conflitto tra mondo maschile e mondo femminile è il nodo centrale in Pilgrimage. Comprenderne l’importanza è fondamentale, altrimenti potrebbe apparire semplice propaganda l’esplicito femminismo
che pervade l’opera e che, in tal caso, ne sarebbe strutturalmente estraneo.
Miriam non può accettare il ruolo femminile in cui si sente inibita e costretta e in lei contrastano, dunque, il suo essere donna e il suo
essere se stessa. Ciò la induce all’isolamento e al rifiuto del matrimonio.
E’ interessante il passo di Pointed Roofs in cui Miriam, ancora diciassettenne immagina di sposare un tedesco: “There would be a garden and German springs and summers and sunsets and strong kind arms and a shoulder. She would grow so happy. No one would recognize her as the same person. She would wear a band of tourquoise-blue velvet ribbon under her hair and look at the mountains….No good. She could never get out to that. Never. She could not pretend long enough. Everything would be at an end long before there was any chance of her turning into a happy German woman. Certainly with a German man she would be angry at once”44.
La frase indicativa del brano è “no one would recognize her as the same person”: il matrimonio significa, per Miriam, diventare un’altra
donna ed è, dunque, una minaccia per l’integrità della sua personalità.
Miriam vuole essere accettata per se stessa, mentre le sembra che il mondo esterno sia in grado di riconoscere l’identità di una persona solo in base al ruolo che le ha assegnato e che essa è capace di svolgere. A questa realtà Miriam – e Dorothy Richardson attraverso di lei – si ribella e la rifiuta.
Potrebbe sembrare strano che in vita Dorothy abbia accettato di sposare Alan Odle. Bisogna considerare, tuttavia, la natura di questo matrimonio. Alan era un artista originale ma sconosciuto, di quindici anni più giovane di lei, un uomo dalla salute tanto debole che le forze armate lo avevano rifiutato per il compimento del servizio militare. Dorothy pensava persino che non sarebbe mai riuscito a sopravviverle. La scrittrice accettò questo matrimonio come un patto di reciproca compagnia e fu per Alan una madre più che una moglie.
Negatasi al matrimonio Miriam non troverà realizzazione neppure nel rapporto amoroso con un uomo, in cui solo i sensi partecipano, ma la mente rimane fredda, non coinvolta, lontana. Troverà pienezza di vita
emotiva, invece, nell’amicizia con delle donne.

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[1] D. Richardson, Data for Spanish Publisher, apparso per la prima volta a cura di Joseph Prescott su The London Magazine VI, Giugno 1959. Si tratta di un saggio autobiografico scritto per un editore spagnolo che intendeva pubblicare la traduzione di Pilgrimage, la quale fu però bloccata dalla censura franchista per immoralità e anarchismo. (“Il materiale che mi spinse a scrivere non sarebbe stato adatto alla cornice di alcun romanzo che avevo sperimentato. Credevo, anche nei momenti di maggiore incanto, di essere ugualmente intollerante del romanzo e di tipo romantico e realistico. Ciascuno di essi, così mi sembrava, lasciava fuori certi elementi essenziali e drammatizzava la vita in modo ingannevole. Orizzontalmente. Mettendo insieme i propri personaggi, i romanzieri sviluppavano situazioni, escogitavano eventi, climax e conclusione. Non potevo accettare le loro finalità”).
[2] J. Rosenberg, op. cit., p. 52. (“Improvvisamente il mondo era svanito. Ma l’umanità non era mai stata così vicina. Tutto assumeva un’intensità immensa”).

[3] Ivi, p. 54. (“Il romanzo aveva cominciato ad essere vivo, e Miriam esisteva come suo centro, da sola. Ella, l’autrice, non c’era”).

[4] E. Siciliani, op. cit., p. 20.
[5] J. D. Beresford, “Introduzione” alla prima edizione di Pointed Roofs, Londra, Duckworth, 1915. Cit. in G. Thomson, op. cit., p. 156. ( “Un nuovo atteggiamento nei confronti della narrativa”; “la prima romanziera ad aver ad aver effettuato l’estrema immersione.…si era buttata a capofitto ed era divenuta parte integrante dell’elemento umano...che descriveva”).
[6] Anon., A Fine Novel, “Sunday Observer”, 5, 1915. Cit. in G. G. Fromm, Dorothy Richardson: A Biography, cit., pp. 79-80. (“Il libro in qualche modo suona come se il lettore non esistesse (...) nessun’allusione veniva spiegata o incoerenza giustificata”).
[7] Ibidem. (“Chiaro di una chiarezza acuta quanto le falde degli affascinanti ‘tetti aguzzi’”).

8 G. G. Fromm, op. cit., p. 80.
9 E. Siciliani, op. cit., p.21. (“Una dissezione pianificata di una mente incapace di intendere e di volere. Dimostra chiaramente il lavoro di un’immaginazione malata”).
10 G. G. Fromm, op. cit., p.80. (“Pagine su pagine di fantasie folli e febbrili”).
11 M. Siclair, The Novels of Dorothy Richardson, in “Egoist”, Aprile 1918, pp. 57-59, cit. in K. Bluemel, op. cit., p. 21. (“Trovo impossibile ridurre a termini intelligibili la soddisfazione che provo. Per me questi tre romanzi mostrano un’arte, metodo e forma portati a puntigliosa perfezione. Tuttavia ho sentito altri romanzieri dire che non hanno arte, metodo e forma e che è questa mancanza di forma che li disturba. Dicono che essi non hanno inizio, parte centrale e fine, e che per avere forma un romanzo deve avere una fine, un inizio e una parte centrale…c’è una certa plausibilità in quello che dicono ma dipende da ciò che costituisce un inizio e una parte centrale e una fine. In questa serie non c’è dramma, situazione, ambientazione. Non succede niente. C’è solo il continuo flusso di coscienza di Miriam Henderson”).
12 Cit. in J. Rosenberg, op. cit., p. 57. (“La cronaca esatta della vita in una scuola femminile tedesca un quarto di secolo fa è, forse, di tutti i temi che un romanziere avrebbe potuto scegliere, quello che probabilmente avrebbe meno attratto il pubblico al momento presente”).

13 D. M. Richardson, Pointed Roofs, Londra, Virago Press, 1979, p.15.
14 Ibidem. (“Il senso di tutto ciò che stava lasciando si risvegliò incontrollato mentre in piedi guardava giù al ben noto giardino”).
15 Ivi, p. 16. (“Una figura bianca e scintillante”).

16 Ivi, p. 24. (“Sono carina – piaccio loro – piaccio loro. Perché non lo sapevo?”).
17 K. Bluemel, op. cit., p. 14. (“La scrittura sperimentale di Richardson richiedeva una lettura sperimentale”).

18 E. Siciliani, op. cit., p. 35.
19 D. M. Richardson, Adventure for Readers, Life and Letters, 22, luglio 1939, p.47. (“Aprendo le pagine in un punto qualsiasi, il lettore è immediatamente assorbito. Tempo e spazio e l’identità dei personaggi, se pure accade che alcuno compaia, sono relativamente immateriali. Può darsi che qualcosa vada perduta. Può darsi che gli episodi perdano la loro piena efficacia poiché s’ignora ciò che è accaduto prima. Ma il lettore non si ritrova completamente in alto mare, come accadrebbe inevitabilmente tuffandosi così incautamente nel bel mezzo di un romanzo drammatico completo di trama, ambientazione, inizio, centro, culmine e sipario. Si ritrova all’interno di un mezzo la cui struttura, fitta come quella della poesia, è ovunque significativa”).
20 D. M. Richardson, Novels, “Life and Letters”, IV, Marzo 1948, p. 188.

21 D.M. Richardson, The Quakers Past and Present, Constable, Londra; Dodge, New York, 1914, cit. in E. Siciliani, op. cit., p. 35. (“perenne comunicazione con un io più ampio”).
22 D. M. Richardson, Novels, cit., pp. 190-91. (“Una visita guidata (…) nella personalità dell’autore che, volente o nolente, qualunque sia il suo metodo d’approccio, deve consegnare al lettore l’autoritratto dello scrittore. (…) E’ in ultima analisi la personalità dello scrittore quale si rivela che attrae o ripugna”).
23 S. Kunitz, cit. in E. Siciliani, op. cit., pp. 18-19. (“L’autore, lontano dalla vista e dall’ascolto, è presente, se lo cerchiamo, solo nell’atteggiamento verso la realtà che inevitabilmente rivela: in modo sottile tramite il suo accento, in modo ovvio tramite l’uso di
aggettivi, epiteti e metafore”).

24 E. Siciliani, op. cit., p. 17.
25 D. M. Richardson, Preface a These Moderns Some Parisian close ups di Dumas F. Ribadeau, 1932, cit. in E. Siciliani, op. cit., p. 18. (“…incontrarlo dapprima nelle sue realizzazioni”).

26 Lettera di D. Richardson a J. Prescott, 1 giugno 1951, in E. Siciliani, op. cit., p. 115. (“Fu uno shock, sia in considerazione della sua aria di raffinatezza borghese inconsciamente fastidiosa (…) e, quel che era molto peggio, della sua espressione di paziente rassegnazione”).
27 G. G. Fromm, op. cit., p. XVII. (“Nel 1963 pubblicai su PMLA un saggio che era il primo resoconto della vita e dell’opera di Dorothy Richardson. Esso mostrava che Pilgrimage era veramente un’opera autobiografica e che qualsiasi ritratto di Dorothy Richardson (come ella stessa insisteva) doveva prendere le proprie linee fondamentali dal suo stesso romanzo perché era lì che sentiva di aver davvero rivelato se stessa”).

28 G. Hanscombe, op. cit., p. 25. (“Pilgrimage non è invenzione romanzesca perché gli eventi registrati dalla sua narrazione e i personaggi che introduce sono dirette riproduzioni delle stesse esperienze di vita di Richardson. D’altra parte, non è autobiografia perché non c’è data nessun’esplicita cronologia, nessun resoconto oggettivo di persone ed eventi e nessun’assicurazione che la voce dell’autrice e quella del personaggio siano sempre da identificare come sinonimi”).
29 J. Rosenberg, op. cit., p.71. (“Da una ‘iniziale vaghezza’ ad una ‘crescente articolazione’ cosicché ad ogni stadio la narrazione assumesse un tono leggermente alterato, filtrato attraverso la nuova Miriam in continua evoluzione”)

30 G. G. Fromm, op. cit., p. 81. (“Tutti e tre erano insieme romanzi autobiografici e soggettivi. Tutti trattavano di personaggi che somigliavano spiccatamente ai loro creatori, tutti erano assillati se non ossessionati dalla coscienza dei loro personaggi centrali”).
31 E. Siciliani, op. cit., p. 29.

32 D. Richardson, Foreward scritta per la prima edizione collettanea di Pilgrimage, cit., p. 9. (“L’equivalente femminile del corrente realismo maschile").

33 Cfr. Virginia Woolf, in M. Barret (a cura di), Virginia Woolf: Le donne e la scrittura, Milano, La Tartaruga edizioni, 1995, p.199.
34 Ivi, p. 202.
35 Ibidem.

36 Ibidem.
37 Ibidem.

38 D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 31. (“Avrebbero ostentato quegli odiosi sorrisi delle donne – sorrisi autocompiaciuti come se tutte fossero d’accordo su tutto”).
39 Ivi, p. 31. (“Se solo avesse potuto rispondere ad una domanda con semplicità, e non con un’aria di superiorità come se avesse inventato la cosa di cui stava parlando”).
40 Ivi, pp. 73-78.

41 Ivi, p. 73. (“Ascoltare i sermoni era sbagliato…la gente dovrebbe rifiutare di farsi fare prediche da questi uomini…i sermoni di quegli uomini erano peggio dei sorrisi delle donne…”).
42 G. Hanscombe, op. cit., p. 64.
43 D. M. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 31. (“Non mi piacciono gli uomini e detesto le donne. Sono una misantropa”)

44 Ivi, p. 167. (“Ci sarebbe stato un giardino e primavere tedesche ed estati e tramonti e forti braccia gentili ed una spalla. Sarebbe diventata così felice. Nessuno l’avrebbe riconosciuta come la stessa persona. Avrebbe indossato una fascia di nastro di velluto azzurro–turchese fra i capelli e avrebbe guardato le montagne….Non andava bene. Non sarebbe mai riuscita ad arrivare a questo. Mai. Non avrebbe potuto fingere così a lungo. Tutto si sarebbe concluso molto prima che ci fosse qualsiasi possibilità per lei di trasformarsi in una felice donna tedesca. Di certo con un uomo tedesco si sarebbe subito irata”).
CAPITOLO III
Pointed Roofs e lo stream of consciousness
Come si è visto, in Pointed Roofs e nei successivi volumi di Pilgrimage, autobiografia e femminismo non sono che corollari di quella che è, in definitiva, la principale caratteristica ed innovazione della scrittura richardsoniana: l’inaugurazione di un metodo, nato dall’esigenza di dare espressione ai moti interiori e alle più segrete pulsioni dell’animo, col risultato singolare di farci sentire insediati al centro di una mente altrui.
Nella realtà interiore temporalità e spazialità venivano ad assumere una valenza ben differente e soggettiva. Cambiava anche la prospettiva dalla quale si dipanava l’azione: l’ottica del romanzo non era più quella di un narratore extradiegetico, ma con diversi espedienti l’autrice intendeva dare al lettore l’impressione di vedere le cose così come Miriam intimamente le viveva. Si rendeva pure necessario un modo diverso di presentare il personaggio, non più visto nel suo aspetto fisico ed esteriore, ma conosciuto attraverso i pensieri, i ricordi, i sentimenti, le percezioni e gli impulsi più profondi.
Tempo, spazio, modo e voce, personaggi sono le categorie narrative che saranno
oggetto di studio nel seguente capitolo, in cui ci si propone di mostrare, attraverso l’analisi di Pointed Roofs, la portata profondamente innovativa del contributo che Richardson recava alla narrativa novecentesca
1. Il tempo
Dorothy Richardson e la nuova concezione del tempo

Attivamente impegnata nella vita culturale del suo tempo, Dorothy Richardson era lungi dall’ignorare le nuove correnti di pensiero nell’ambito filosofico. Sappiamo da Gloria Fromm che nel 1920 la scrittrice recensiva un testo di Barbara Low, Psycho-Analysis: a Brief Account of the Freudian Theory, così positivamente per quel tempo, da spingere gli editori del giornale, su cui la recensione doveva apparire, ad aggiungere una nota in cui si distaccavano dall’ottica dell’autrice ed esprimevano la loro opinione, secondo la quale “The followers of Freud were pushing too far”[1].
Più tardi, tuttavia, come dimostra il corpus di lettere scritte fra il 1928 e il 1932, Richardson criticò Freud e il metodo psicanalitico, rifiutando l’idea di sottoporvisi e dichiarando di sapere ciò che un analista avrebbe scoperto in lei.
Qualche anno dopo scrivendo a Shiv K. Kumar avrebbe
rinnegato anche la diretta influenza dell’opera di Bergson, pur costretta a riconoscere che quest’ultimo “was putting into words something then
dawning within the human consciousness, an increased inadequacy of the clock as a time measurer”[2].
Sebbene se ne distaccasse, fu comunque, di certo, la sua familiarità con le scienze del pensiero a farle intravedere l’esistenza di una nuova dimensione temporale, non più come sequenza ma come agglomerazione, simultaneità. Citando ancora da Fromm: “Her known self was the ‘actor’, living through whole strands of life, not in succession, but…all in one piece. (…) Her ultimate aim (…) was to be in ‘current possession, from a single point of consciousness, of her whole experience intact’, and consequently -from the vast synthesis in her mind- to be able to arrange the immediate future”[3].
Passato e futuro si fondono nel continuo presente della coscienza, che ha il potere di dissolvere la distanza tra gli eventi stabilita dal tempo convenzionale. Per usare le parole di Richardson: “Knowledge of the past is the communal memory and is thereby not past, but alive and creative in the human consciousness today. It is the characteristic vice of the intellect to see the past as a straight line stretching out behind humanity like a sort of indefinite tail. In actual experience is more like an agglomeration, a vital process of crystallization grouped in and about the human consciousness, confirming and enriching individual experience, living unconsciously in individual nerve-cells (…) and consciously in individual intelligence, thanks only to Records”[4].
Realizzando nella sua opera ciò che aveva teorizzato in questo articolo, pubblicato da profana in una rivista di medicina, Richardson rivoluzionava la struttura narrativa tradizionale, rimpiazzando la catena “inizio-mezzo-fine” con un processo di cristallizzazione. Non più un “prima” e un “dopo” in ordinata successione, ma il filo del racconto – riflesso del filo della vita, come sequenza di tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio – si perdeva in un’ingarbugliata matassa.
Nei fatti Dorothy Richardson inaugurava una nuova estetica, in cui passato, presente e futuro coesistono in un’unica immagine e le relazioni fra loro sono continuamente intercambiabili a secondo della prospettiva da cui l’immagine viene focalizzata. Arte, quindi, come espressione della coscienza, al cui interno l’esperienza immediata esiste, attraverso la memoria, in modo perpetuo e al di fuori del tempo: “…for moments open out, reveal fresh contents every time we go back into them, grouping and regrouping them as we advance”[5].
In anticipo sugli altri scrittori coevi che poi l’avrebbero superata in fama e notorietà, Dorothy Richardson intraprendeva un viaggio, o meglio un “pellegrinaggio” verso un nuovo romanzo, ponendosi su di un sentiero simile a quello che contemporaneamente, in Francia, veniva percorso da Proust.

Richardson e Proust
Si parla spesso di influssi proustiani subiti da Richardson ma, come ci fa notare il Debenedetti, si sarebbe trattato di “un bel fenomeno di telepatia nel tempo, dal momento che nel 1915 Proust era praticamente un
ignoto”[6]. Più appropriata è, certamente, l’osservazione del francese Abel Chevalley che definì Richardson ‘proustienne avant Proust’. Solo verso la fine del 1922, infatti, i romanzi di Marcel Proust cominciarono a circolare nel mondo letterario londinese. I primi due volumi de Alla ricerca del tempo perduto arrivarono in Inghilterra nella traduzione di Scott Moncrieff e suscitarono tale interesse che Richardson era addirittura ansiosa di leggerli. Nel Novembre del 1922 scriveva, infatti, a P. Beaumont Owen Wadsworth: “I want if I can to beg borrow or steal them there books of Proust”[7].
Nel dicembre dello stesso anno quando già Richardson era già alla pubblicazione del suo settimo lavoro, Revolving Lights, riceveva in prestito i due volumi dall’amico. Il suo giudizio dell’opera di Proust fu entusiastico: “I am deep in the magic of Proust’s flowing morass. There are ways in which he outdoes everyone. Oh the sublime simple perfection of his art, even in translation (n.b. an almost perfect translation) the design, the detail, all one; the all of him in every part. To read him is a thousand things at once all overwhelming. Rapture, stupefaction, experience and adventure
running abreast in the van. I feel at present that I shall read again and again,
shall always be reading and everytime in a different way”[8].
Richardson continuò a adoperarsi per ottenere l’intera raccolta di tutti i volumi proustiani, sia in lingua originale che in traduzione, perché anche il marito Alan Odle potesse apprezzarli. Alla morte di Scott Moncrieff scrisse poi immediatamente a Knopf (che curava l’edizione inglese di A la recherche du temps perdu) proponendosi per portare a termine il lavoro di traduzione del romanzo di Proust.
La profonda ammirazione di Richardson è giustificata da una forte affinità che la legava al grande contemporaneo francese; nello stesso momento ed indipendentemente l’uno dall’altro, i due scrittori percorrevano una medesima strada che li avrebbe condotti a rivoluzionare le forme narrative tradizionali.
“Proust’s novel evidently shares with Pilgrimage a central
focus on the process of memory itself”, afferma Carol Watts nel suo volume
dedicato a Dorothy Richardson[9] e continua citando un’osservazione di Walter Benjamin a proposito del romanzo di Proust che si può applicare ugualmente alla narrativa di Pilgrimage: “Only the actus purus of recollection itself, not the author or the plot, constitutes the unity of the text”[10].
Si tratta, infatti, di due grandi opere cicliche ‘alla ricerca del tempo perduto’, in cui i frammenti fuggevoli della vita di ogni giorno producono un’archeologia della memoria. Il passato è vivo nel presente, continuamente evocato da suoni, profumi e sensazioni in cui fortuitamente ci si imbatte e che ridestano, nella coscienza, i ricordi.
Nella narrativa di Proust, comunque, il recupero del passato in definitiva implica la ricerca di uno stato di atemporalità, in Pilgrimage invece Richardson, pur tentata, non soccombe all’evasione in una simile condizione contemplativa. Il presente è per lei una combinazione sempre diversa di temporalità, che si ricrea e si rinnova con il passare degli anni.
Per usare le parole di Miriam: “While I write, everything vanishes but what I contemplate. The whole of what is called the past does
not stand ‘being still’. It moves growing with one’s growth. Contemplation is adventure into discovery; reality”.[11]
Ma c’è una ben più sostanziale differenza fra i due scrittori che Richardson stessa aveva percepito e sottolineato sin dal tempo della sua prima lettura dei volumi proustiani: “…he’s not, as has been said, writing through consciousness, but about consciuosness, a vastly different enterprise & one which allows him to let himself go completely and write, as he wishes”.[12]
Una tale libertà d’espressione non era, invece, concessa a lei, in quanto il suo romanzo doveva essere filtrato attraverso una coscienza giovane, ancora in fase di sviluppo, e quindi limitata. E’ questo il punto di maggior distacco fra la narrativa di Proust e quella di Richardson, per cui la prima è classificabile come romanzo psicologico e la seconda come stream of consciousness.

Temporalità in Pointed Roofs
Quando nel 1913, dall’isolamento in Cornovaglia emerse quella che doveva essere la prima parte di un più vasto insieme, già concepito come tale, Dorothy Richardson realizzava ciò che aveva percepito come la propria vocazione: un romanzo che si snodasse attraverso la coscienza della protagonista.
In modo inedito e per un sentiero non ancora battuto, Richardson lasciava accedere il suo lettore al labirinto dello spazio-tempo interiore. Il risultato era un’opera dalla trama decisamente non lineare, in cui la chiarezza di visione e la pianificazione globale venivano sostituite da un cammino tortuoso e ingarbugliato, la cui traccia si disvelava poco per volta, procedendo passo a passo. Diremo con Erina Siciliani che Richardson sostituiva all’organicità la frammentarietà: “La Richardson occupa un posto centrale nella costituzione di un’estetica che contrappone alla bellezza della globalità un’estetica dell’informe. La nuova categoria del frammento, che le viene costantemente rimproverata come mancanza, viene da lei investita di valore estetico che privilegia una poetica del costituirsi dell’opera come frammentarietà”.[13]
Frammenti di pensieri, di sensazioni, di impressioni, tutto ciò che narrava era il riflesso di piccoli fatti insignificanti sulla coscienza ondeggiante e cangiante del personaggio che, come un prisma toccato dalla luce, rimandava rifrazioni e dissolvenze. Ben si adatta a questo tipo di prosa la definizione di kaleidoscopic impressionism, datale da Carol Watts.[14]
Il soffermarsi su di un istante, su di una impressione comporta come necessaria conseguenza un rallentamento del tempo dell’azione. Inoltre l’irregolare comporsi di tali frammenti in sequenze narrative difficilmente avrebbe potuto coincidere con un’ordinata, cronologica successione. Dei tre livelli temporali genettiani: a) ordine, b) durata, c) frequenza, i primi due vengono completamente sconvolti nella narrativa del flusso di coscienza cui Richardson apriva le porte, ed è a questi due livelli che rivolgeremo la nostra attenzione.

L’ordine temporale
In un’opera narrativa l’ordine in cui vengono disposti gli avvenimenti della storia non è sempre uguale a quello “reale”, logico- cronologico. La possibilità, da parte dell’autore, di distorcere il tempo reale
nella comunicazione letteraria è un’espediente noto sin dall’antichità.
“Sappiamo come l’inizio in medias res” scrive Genette, “cui segue un flash back esplicativo diventi uno dei topoi formali del genere epico, e anche fino a che punto lo stile del romanzo sia rimasto fedele in questo artificio, a quello del suo lontano antenato, arrivando in pieno XIX secolo realista”[15].
Mentre però nel racconto classico qualunque inversione
dell’ordine degli eventi veniva effettuata in maniera esplicita e con chiare indicazioni (“prima che”, “dopo che”), nel romanzo moderno i punti di riferimento temporali vengono eliminati e il lettore deve da solo riuscire a raccapezzarsi nella vicenda.
Qualsiasi tipo di lavoro che adotti la coscienza come suo soggetto registrerà, infatti, una realtà temporale ben diversa e ben più complessa della lineare cronologia.
Come osserva Robert Humphrey: “The quality of consciousness itself demands a movement that is not rigid clock progression. It demands instead the freedom of intermingling past, present and imagined future”[16].
Questa condizione di ubiquità temporale, che sarà fondamentale caratteristica della letteratura modernista, si riscontra in Pointed Roofs. Nel romanzo, infatti, l’ordine degli eventi è quello determinato dai processi di libera associazione d’idee che hanno luogo nella coscienza di Miriam Henderson.
Consideriamo, per esempio, il segmento narrativo iniziale: “Miriam left the gaslit hall and went slowly upstairs. The March twilight lay upon the landings, but the staircase was almost dark. The top landing was quite dark and silent. There was no one about. It would be quiet in her room. She could sit by the fire and be quiet and think things over until Eve and Harriett came back with the parcels. She would have time to think about the journey and decide what she was going to say to the Fräulein. Her new Saratoga trunk stood solid and gleeming in the firelight. Tomorrow it would be taken away and she would be gone. The room would be altogether Harriett’s. It would never have its old look again. She evaded the thought and moved to the nearest window. The outline of the round bed and the shapes of the may-trees on either side of the bend of the drive were just visible. There was no escape for her thoughts in this direction. The sense of all she was leaving stirred uncontrollably as she stood looking down to the well-known garden. Out in the road beyon the invisible lime-trees came the rumble of wheels. The gate creaked and the wheels crunched up the drive, slurring and stopping under the dining-room window. It was the Thursday afternoon piano-organ, the one that was always in tune. It was early to-day. She drew back from the window as the bass chords began thumping gently in the darkness. It was better that it should come now than later on, at dinner-time. She could get over it alone up here. She went down the lenght of the room and knelt by the fireside with one hand on the mantelshelf so that she could get up noislessly and be lighting the gas if any one came in. The organ was playing The Wearin’ o’ the Green. It had begun that tune during the last term at school, in the summer. It had made her think of rounders in the hot school garden, singing-classes in the large green room, all the class shouting ‘Gather roses while ye may’, hot afternoons in the shady north room, the sound of turning pages, the hum of the garden beyond the sun-blinds, meetings in the sixth form study….Lilla, with her black hair and the specks of bright amber in the brown of her eyes, talking about free-will. She stirred the fire. The windows were quite dark. The flames shot up and shadows darted. That summer, which still seemed near to her, was going to fade and desert her, leaving nothing behind. To-morrow it would belong to a world which would go on without her, taking no heed. There would still be blissful days. But she would not be in them. There would be no more silent sunny mornings with all day ahead and nothing to do and no end anywhere to anything; no more sitting at the open window in the dining-room, reading Lecky and Darwin and bound Contemporary Reviews with roses waiting in the garden to be worn in the afternoon, and Eve and Harriett somewhere about, washing blouses or copying waltzes from the libray packet…no more Harriett looking in at the end of the morning, rushing her off to the new grand piano to play the Mikado and the Holy Family duets. The tennis-club would go on, but she would not be there. It would begin in May. Again there would be a white twinkling figure coming quickly along the pathway between the rows of hollyhocks every Saturday afternoon. Why had he come to tea every Sunday – never missing a single Sunday – all the winter? Why did he say: Play Abide with me’, ‘Play Abide with me’, yesterday, if he didn’t care? What was the good of being so quiet and saying nothing? Why didn’t he say: ‘Don’t go’, or: ‘When are you coming back?’? Eve said he looked perfectly miserable. There was nothing to look forward to now but governessing and old age. Perhaps Miss Gilkes was right….Get rid of men and muddles and have things just ordinary and be happy. ‘You can be perfectly happy without any one to think about….’ Wearing that large cameo brooch – long, white, flat-fingered hands and that quiet little laugh…. The piano organ had reached its last tune. In the midst of the final flourish of notes the door
flew open. Miriam got quickly to her feet and felt for matches”[17].
Incontriamo Miriam che, nel presente, preoccupata per qualcosa che dovrà accadere tra breve, cerca la solitudine e la quiete della sua stanza per potere pensare (A). Quindi immagina quello stesso ambiente nell’immediato futuro, quando il giorno seguente ella partirà, il suo baule sarà scomparso e la stanza apparterrà soltanto ad Harriett (B). Miriam ritorna al momento presente a contemplare, con un forte senso di attaccamento per tutto ciò che sta lasciando, il ben noto giardino. Giunge un
veicolo: qualcuno viene a suonare il piano come ogni giovedì (C). Ecco che il motivo intonato la riporta al passato, con un flash back in cui Miriam pensa all’ultimo periodo a scuola, ai canti, ai giochi, alle giornate calde, a Lilla che parlava del libero arbitrio (D). Di nuovo nel presente Miriam ravviva il fuoco e osserva le ombre guizzare sui muri (E); quindi pensa, nell’immediato futuro, ad altri giorni felici che si susseguiranno in quello che, fino ad allora, era stato il suo mondo e al quale, da domani, non apparterrà più (F). Segue un lungo elenco delle liete abitudini che sta per perdere (G) da cui, con una serie di associazioni, Miriam perviene al ricordo di qualcuno che avrebbe forse dovuto, il giorno prima, mostrarsi più interessato alla sua partenza (H). Quindi le torna in mente, sempre nel passato, l’immagine di Miss Gilkes che aveva probabilmente ragione quando le diceva che, per essere felici, bisognava liberarsi da uomini e disordini (I). Fine della canzone. Il flusso di pensieri di Miriam viene interrotto dall’improvviso aprirsi della porta (L).
Questo è l’ordine in cui gli eventi si presentano nella narrazione. Cerchiamo invece di rintracciarne la successione cronologica: 1) Infanzia di Miriam trascorsa nel lusso ed in abitudini liete sotto la protezione della sua famiglia; 2) ultimo periodo scolastico; 3) ieri; 4) momento presente; 5) futuro immaginato.
Volendo visualizzare la struttura temporale di queste prime due pagine del romanzo, disporremo su di un asse i segmenti-sequenze (contrassegnati dalle lettere) così come si presentano durante la narrazione; e su di un altro asse indicheremo le medesime posizioni in ordine cronologico (contrassegnate da numeri).Vedremo, quindi, l’intrecciarsi di riferimenti prolettici e analettici.
Il tutto può essere, forse più chiaramente, sintetizzato nella seguente formula: A/4- B/5- C/4- D/2- E/4- F/5- G/1- H/3- I/1- L/4.
Come si vede, B/5 ed F/5 sono sequenze prolettiche: Miriam immagina come quel mondo, di cui ella è parte integrante, continuerà ad andare avanti nonostante la sua assenza. Sono sequenze analettiche D/2, G/1, H/3, I/1 in cui oggetti o eventi presenti stimolano la memoria involontaria di Miriam che si tuffa, con allusioni più o meno brevi, nel proprio passato. Le sequenze A/4, C/4, E/4, L/4 sono quelle in cui il tempo della narrazione viene a coincidere col tempo della storia.
Questo particolare andamento temporale ha consentito a Richardson di rendere con efficacia le fluttuazioni del tempo interiore della protagonista.
Passando però dal livello micronarrativo al romanzo nel suo articolarsi, vediamo che l’anacronia funziona pure, in certi casi, come espediente tecnico autoriale per la strutturazione formale del testo.
Parlando per grandi linee, nel primo capitolo seguiamo in avanti il procedere della coscienza di Miriam fino al mattino della sua partenza. Nel capitolo secondo Miriam si trova già in viaggio. La lacuna d’informazione viene coperta analetticamente con i suoi ricordi del momento degli addii e della prima porzione di viaggio in treno in cui era stata accompagnata dalla sorella Sarah. Quindi, di nuovo avanti nel tempo, troviamo la descrizione del viaggio col padre. Nel terzo capitolo siamo già al collegio di Waldrasse, nel giorno, non meglio precisato, dell’arrivo di Ulrica Esse. Da lì la narrazione procede à rébours con la descrizione dell’arrivo di Miriam al collegio, l’incontro con le ragazze, l’ansia per la realizzazione del suo incarico, fino a ritornare al giorno dell’arrivo della nuova allieva. Si riprende in avanti fino al sesto capitolo. Quest’ultimo segmento narrativo costituisce una larga parentesi di tipo iterativo in cui vengono descritte le abitudini al collegio. Dal settimo capitolo la narrazione riparte senza ulteriori inversioni o vistose interruzioni.

La durata temporale
Saremo tutti d’accordo nell’affermare che nella nostra vita i giorni non sono tutti uguali: alcuni scorrono via con facilità, senza che neppure ce ne accorgiamo; in altri, invece, il tempo sembra essersi fermato e pare ci voglia un’eternità prima che giungano finalmente al termine.
Sono i nostri sentimenti, i nostri stati d’animo, le nostre passioni a determinare questa qualità elastica del tempo, che si dilata e si restringe secondo il nostro modo di sentire. Inoltre l’oblio è causa di numerose sfasature nella nostra percezione della distanza temporale, per cui un evento può apparirci molto più lontano nel passato o più vicino di quanto non sia in realtà.
Il tempo viene, quindi, ricordato o vissuto in maniera soggettiva, con le alterazioni e distorsioni proprie della coscienza di ciascuno e di cui Richardson e Proust, prima di altri, vollero farsi interpreti fedeli. A dimostrazione di ciò cercheremo di rintracciare nella prosa di Pointed Roofs numerose variazioni di durata o effetti di ritmo o ancora, in termini genettiani, ‘anisocronie’.[18]
Sono diversi gli espedienti utilizzabili per la risoluzione dei problemi della durata narrativa. A questo proposito Marchese distingue cinque forme fondamentali: la scena dialogata, il sommario, l’analisi, l’ellissi e la pausa[19]. Di queste l’unica ad essere assente nel romanzo di Richardson, come in gran parte della narrativa contemporanea, è il sommario. Con quest’ultimo termine s’intende, citando da Genette, “la narrazione in alcuni paragrafi o in alcune pagine di vari giorni, mesi o anni di esistenza senza particolari di azioni o di parole”[20].
Basilare elemento nella struttura del racconto classico, il sommario risulta essere davvero poco adatto ad un romanzo che parla dall’interno della coscienza del suo personaggio.
Come osserva Chatman: “Il mezzo più comune per riassumere, nella narrativa contemporanea, consiste nel lasciarlo fare ai personaggi, sia dall’interno della loro coscienza, sia dall’esterno nel dialogo. Ma non si tratta di riassunti nel senso classico del termine, dato che il rapporto non è tra la durata degli eventi e la loro descrizione, ma tra la durata del ricordo relativo agli eventi e il tempo che è necessario per leggerlo, rapporto che è più o meno di uguaglianza e quindi ‘scenico’. L’aspetto riassuntivo è secondario, un sottoprodotto dell’azione raziocinante[21].
Propongo come esempio il sesto capitolo di Pointed Roofs. Si tratta di un lungo excursus sulle abitudini al collegio, attraverso i pensieri, i ricordi e le considerazioni di Miriam, senza alcun riferimento che ci permetta di comprendere in quale punto ella si trovi nello svolgersi temporale della storia. Avendo constatato, in quei giorni, la mancanza di pianificazione delle giornate scolastiche in collegio e l’atteggiamento condiscendente degli insegnanti annoiati di impartire lezioni a delle ragazze, Miriam si accorge di quanto diversa era stata la sua personale esperienza scolastica: nel collegio che aveva frequentato i professori erano sinceramente interessati all’apprendimento delle allieve e non veniva loro insegnato solamente a ricamare, rammendare, suonare e cantare.
La mancanza di un’attività lavorativa ben programmata nel collegio tedesco genera una certa atmosfera d’ansia ed attesa, perché non si sa mai quali occupazioni riempiranno la giornata. Oltre a svolgere le sue lezioni di lettura e conversazione in inglese Miriam viene spesso incaricata di accompagnare le ragazze a visite presso medici specialisti, cui devono periodicamente sottoporsi. In queste occasioni ha potuto constatare la minore professionalità dei medici tedeschi rispetto a quelli inglesi. Altre volte, insieme alla giovane insegnante di francese, conduce le ragazze da Kreipe, un ristorantino nel pieno cuore della Germania dove si sente libera e responsabilizzata. Anche i giorni delle passeggiate arrivano senza essere stati programmati. Per Miriam sono un tormento e un’umiliazione: si sente goffa e impacciata e si rende conto che il suo compito sarebbe quello di far conversare le ragazze in inglese, ma non riesce ad intavolare discussioni. Questo la fa sentire in colpa nei confronti della Fräulein e le fa pensare di non svolgere bene
il proprio lavoro.
Certo è che questa lunga sezione narrativa costituisce un’accelerazione del ritmo del racconto se consideriamo che, dalla terza domenica dopo il suo arrivo, dove eravamo rimasti nel V capitolo, ci ritroviamo, nel VII capitolo, già in primavera. Ma si tratta di un tipo di sintesi diversa dalla rapida carrellata sul passato quale avrebbe potuto essere ad esempio: “Al collegio le giornate si succedevano senza un preciso programma, fra lezioni, escursioni, brevi vacanze e passeggiate”.
Richardson racconta azioni, considerazioni, stati d’animo che non si riferiscono a un particolare momento della storia, ma ad una serie di momenti analoghi in quello che, più che sommario, potremmo definire racconto iterativo. Racconto, cioè, in cui “un’unica emissione narrativa assume contemporaneamente varie manifestazioni dello stesso evento”[22].
Con il suo carattere analettico-memoriale, questo tipo di racconto, in Richardson, è più vicino alla scena che al sommario.
Frequenti sono, invece, i casi di analisi o estensione, espediente per il quale “il racconto rallenta e si dilata rispetto al tempo degli eventi”[23]. Si legga questo brano tratto dal terzo capitolo: “The high
room, the bright light, the plentiful mirrors, the long sweep of lace curtains, the many faces - the girls seemed so much more numerous scattered here than they had when collected in the schoolroom-brought Miriam the sense of the misery of social occasions. She wondered whether the girls were nervous. She was glad that music lessons were no part of her remuneration. She thought of dreadful experiences of playing before people. The very first time, at home, when she had played a duet with Eve – Eve playing a little running melody in the treble-her own part a page of minims. The minims had swollen until she could not see whether they were lines or spaces, and her fingers had been so weak after the first unespectedly loud note that she could hardly make any sound. Eve said ‘louder’ and her fingers had suddenly stiffened and she had worked them from the elbows like sticks at the end of her trembling wrists and hands. Eve had noticed her dreadful movements and resented being elbowed. She had heard nothing then but her hard, loud minims till the end, and as then she stood dizzily up someone had said she had a nice firm touch, and she had pushed her angry way from the piano across the hearthrug. She should always remember the clear red-hot mass of the fire and the bottle of green Chartreuse warming on the blue and cream tiles. There were probably only two or three guests, but the room had seemed full of people, stupid people who had made her play. How angry she had been with Eve for noticing her discomfiture and with the forgotten guest for her silly remark. She knew she had simply poked the piano. Then there had been the annual school concerts, all the girls almost unrecognizable with fear. She had learned her pieces by heart for those occasions and played them through with trembling limbs and burning eyes-alternately thumping with stiff fingers and feeling her whole hand faint from the wrist on to the notes which fumbled and slurred into each other almost soundlessly until the thumping began again. At the musical evenings, organized by Eve as a winter set-off to the tennis-club, she had both played and sung, hoping each time afresh to be able to reproduce the effects which came so easily when she was alone or only with Eve. But she could not discover the secret of getting rid of her nervousness. Only twice had she succeded-at the last school concert when she had been so miserable to be nervous and Mr Strood had told her she did him credit and, once, she had sung Chanson de Florian in a way that had astonished her own listening ear-the notes had laughed and thrilled out into the air and come back to her from the wall behind the piano…. The day before the tennis
tournament[24].
Miriam si prepara ad assistere all’esibizione pianistica delle
ragazze del collegio. Il tempo diegetico è quello impiegato dalle ragazze per entrare nel saal e sistemarsi e ad esso s’intreccia il ricordo delle esibizioni pubbliche e del grande imbarazzo che Miriam, in queste occasioni, aveva provato. Come si vede la durata del racconto è ampliata rispetto alla storia, nella descrizione di ciò che attraversa la mente di Miriam durante questo breve arco di tempo.
Con l’ellissi si salta ed omette una parte della storia. Anche quest’espediente è presente nel romanzo, che – ricoprendo il periodo di un anno scolastico – non poteva riprodurre per intero il flusso continuo dei pensieri della protagonista, durante un così vasto lasso di tempo.
Se ne trovano esempi sin dal primo capitolo: con perfetta regolarità, le prime sei pagine seguono l’andamento della coscienza di Miriam in due segmenti narrativi, dalla sua solitaria meditazione all’arrivo delle sorelle e alla sua conversazione con loro. Alla fine del secondo segmento narrativo, Miriam segue con gli occhi la sorella Eve che esce dalla stanza. Nel terzo segmento narrativo siamo già passati al suo risveglio, il giorno successivo. Il periodo che intercorre fra questi due punti temporali viene omesso dalla scrittrice.
Per quanto riguarda la scena dialogata, possiamo applicare a Richardson quanto osservato da Genette sui romanzi di Proust: “Al contrario della tradizione anteriore, che faceva della scena un luogo di concentrazione drammatica, quasi totalmente svincolato dagli impedimenti descrittivi o discorsivi, e ancor più dalle interferenze anacroniche, la scena proustiana (…) sostiene all’interno del romanzo un ruolo di ‘focolaio temporale’ o di polo magnetico per ogni tipo d’informazione o di circostanze annesse: quasi sempre gonfia per non dire ingombra di digressioni d’ogni sorta, retrospezioni, anticipazioni, parentesi iterative e descrittive, interventi didascalici del narratore, ecc.”[25].
Propongo come esempio un brano tratto dal IX capitolo: “Suddenly she was aware that Minna was asking her whether, if it was decided that she should leave school at the end of the term, she, Miriam, would come and live with her. Miriam beamed increduluosly. Minna crimson-faced, with her eyes on the pavement and hurrying along explained that she was alone at home, that she had never made friends –her mother always wanted her to make friends – but she could not – that her parents would be so delighted – that she, she wanted Miriam, ‘You, you are so different, so reasonable – I could live with you’. Minna’s garden, her secure country house, her rich parents, no worries, nothing particular to do, seemed for a moment to Miriam the solution and continuation of all the gay day. There would be the rest of the term –increasing spring and summer –Fräulein divested of all mystery and fear, and then freedom –with Minna. She glanced at Minna –the cheerful pink face and the pink bulb of nose came round to her and in an excited undertone she murmured something about the Apotheker. ‘I should love to come –simply love it’, said Miriam enthusiastically, feeling that she would not entirely give up the idea yet. She would not shut off the offered refuge”[26].
Lo scambio di battute fra Miriam e Minna, una delle allieve del collegio, è inframmezzato da riflessioni che rivelano le immediate reazioni dell’una alle affermazioni dell’altra, da anticipazioni di un possibile futuro insieme; e contengono brevi riferimenti all’aspetto esteriore di Minna, che consentono di immedesimarsi nel modo in cui Miriam percepisce la
presenza dell’altra.
Per quel che concerne le pause descrittive rimando al capitolo sullo spazio.
Come abbiamo visto, dunque, distaccandosi e piegando ai propri fini le istanze narrative tradizionali, Richardson dà al proprio romanzo una cadenza temporale ed un ritmo completamente nuovi.
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[1] G. G. Fromm, Dorothy Richardson. A Biography, cit., p.174. (“I seguaci di Freud stavano spingendo troppo lontano”).

2 Lettera di Dorothy Richardson a Shiv K. Kumar, 10 Agosto 1952, cit. in C. Watts, op. cit., p.22. (“Stava traducendo in parole qualcosa che allora albeggiava all’interno della coscienza umana, un senso crescente d’inadeguatezza dell’orologio come misuratore del tempo”).
[3] G. G. Fromm, Dorothy Richardson: A Biography, cit., p. 173. (“Il suo io conosciuto era ‘l’attore’, che viveva attraverso interi fili di vita, non in successione, ma in un tutt’uno. (…) Il suo fine ultimo (…) era di essere ‘sempre in possesso, da un singolo punto della coscienza, della sua intera esperienza intatta’, e di conseguenza – partendo dalla vasta sintesi della mente – di essere capace di organizzare l’immediato futuro”).
[4] D. Richardson, Comments by a Layman, “Dental Record”, n. 351, Agosto 1918, cit. in K. Bluemel, op. cit., p. 144. (“La conoscenza del passato è memoria collettiva, e quindi essa non è passata ma viva e creativa oggi nella coscienza umana. E’ vizio caratteristico dell’intelletto vedere il passato come una linea dritta che si tende dietro l’umanità come una sorta di coda indefinita. Nell’esperienza reale è più simile ad un’agglomerazione, un processo vitale di cristallizzazione raggruppato nella coscienza umana, che conferma e arricchisce l’esperienza individuale, che vive a livello inconscio nelle cellule nervose (…) e a livello cosciente nell’intelligenza individuale grazie e solo grazie ai ricordi”).

[5] D. Richardson, Excursion, p.103, cit. in K. Bluemel, op. cit., p. 163. (“…perché i momenti si schiudono, rivelano freschi contenuti ogni volta che ritorniamo dentro di loro, componendosi e ricomponendosi mentre procediamo”).

6 G. Debenedetti, op. cit., p.607.
7 Lettera a Percy Beaumont Owen Wadsworth, 11 Novembre 1922, in G. G. Fromm, Windows on Modernism, cit., p. 62. (“Voglio, se posso, prendere in prestito o rubare i libri di Proust”).

[8] Lettera di D. Richardson a Percy Beaumont Owen Wadsworth, Dicembre 1922, Ivi, p. 64. (“Sono sprofondata nella fluente palude di Proust. Ci sono modi in cui supera chiunque. Oh la sublime, semplice perfezione della sua arte, anche se in traduzione (n.b. una traduzione quasi perfetta) il disegno, il dettaglio, tutt’uno; c’è tutto di lui in ogni parte. Leggerlo è mille cose all’improvviso, tutte travolgenti. Rapimento, stupore, esperienza e avventura scorrono fianco a fianco. Al momento ho la sensazione che lo leggerò e rileggerò e sarà sempre in modo diverso”).

[9] C. Watts, op. cit., p. 11. (“Il romanzo di Proust condivide evidentemente con Pilgrimage il ruolo centrale che occupa la messa a fuoco del processo della memoria stessa”).
[10] Ibidem. (“Solo l’actus purus del ricordo stesso, non l’autore o la trama, costituisce l’unità del testo”).
11 D. Richardson, Pilgrimage IV, Londra, Virago Press, 1979, p. 657. (“Mentre scrivo ogni
cosa svanisce tranne ciò che contemplo. L’insieme di ciò che si chiama passato non rimane immobile. Si muove crescendo con la crescita di ognuno. La contemplazione è un’avventura che va verso la scoperta; realtà”).
[12] Lettera di D. Richardson a Percy Beaunomt Owen Wadsworth, Dicembre 1922, in G. G. Fromm, Windows on Modernism, cit., p. 64. (“…egli non scrive, come è stato detto, attraverso la coscienza, ma sulla coscienza, impresa estremamente diversa che gli consente di lasciarsi completamente andare e di scrivere, come vuole”).
[13] E. Siciliani, op. cit., p.40.
[14] C. Watts, op. cit., p. 65.

[15] G. Genette, Figure III, Torino, Einaudi, 1968, p.84.
[16] R. Humphrey, op. cit., p. 50. (“La qualità della coscienza stessa richiede un movimento che non è quello della rigida progressione dell’orologio. Richiede, invece, la libertà di mescolare passato, presente e futuro immaginato”).
[17] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 15. (“Miriam lasciò la sala illuminata da lampade a gas e salì lentamente le scale. Il crepuscolo di marzo si stendeva sui i pianerottoli, ma la scala era quasi al buio. Il pianerottolo su in cima era completamente buio e silenzioso. Non c’era nessuno in giro. Ci sarebbe stato silenzio nella sua stanza. Avrebbe potuto sedere vicino al fuoco, starsene tranquilla e riflettere fino al ritorno di Eve e Harriett con i pacchi. Avrebbe avuto il tempo di pensare a ciò che avrebbe detto alla Fräulein Il suo nuovo baule di Saratoga spiccava massiccio e scintillante alla luce del fuoco. Domani sarebbe stato portato via. La stanza sarebbe appartenuta completamente ad Harriett. Non avrebbe mai più avuto il suo vecchio aspetto. Scacciò il pensiero e si mosse verso la finestra più vicina. Il contorno dell’aiuola rotonda e le forme dei biancospini in entrambi i lati della curva del viale d’accesso erano appena visibili. Non c’era fuga per i suoi pensieri in quella direzione. Il senso di tutto ciò che stava lasciando si risvegliò incontrollato mentre in piedi guardava giù al ben noto giardino. Fuori, dalla strada, oltre l’invisibile tiglio proveniva il runore di ruote. Il cancello cigolò e le ruote scricchiolarono su per il viale d’ingresso, stridendo e fermandosi sotto la finestra della sala da pranzo. Era l’organo del giovedì pomeriggio, quello sempre intonato. Era in anticipo oggi. Si ritrasse dalla finestra mentre le corde di tono basso cominciavano a battere gentilmente nell’oscurità. Era meglio che fosse arrivato adesso e non più tardi, a ora di cena. Avrebbe potuto farcela da sola qui su. Attraversò la lunghezza della stanza e si inginocchiò accanto al fuoco con una mano sulla mensola del camino in modo da potersi alzare silenziosamente e accendere il gas nel caso che qualcuno fosse entrato. L’organo suonava The Wearin’ o’ the Green. Aveva cominciato quel motivo durante l’ultimo periodo a scuola, in estate. Le fece venire in mente il rounders nel caldo giardino della scuola, classi che cantavano nell’ampia camera verde, tutta la classe che gridava ‘Raccogli le rose ora che puoi,’ pomeriggi caldi nella stanza ombreggiata esposta a nord, il fruscio delle pagine girate, il ronzio del giardino oltre le persiane, le riunioni nella sala da studio della sesta classe ….Lilla, con i suoi capelli neri e le macchioline d’ambra intensa nei suoi occhi castani, che parlava del libero arbitrio. Ravvivò il fuoco. Le finestre erano completamente buie. Il fuoco si attizzò e le ombre guizzarono. Quell’estate, che sembrava ancora così vicina a lei, stava per svanire e abbandonarla, senza lasciarsi nulla dietro. L’indomani sarebbe appartenuta ad un mondo che sarebbe andato avanti senza di lei, senza prestarvi attenzione. Ci sarebbero stati ancora giorni felici. Ma lei non ne avrebbe fatto parte. Non ci sarebbero più state mattine silenziose con tutto il giorno davanti e niente da fare e nessuna fine a niente in nessuna parte; non si sarebbe più seduta accanto alla finestra aperta della sala da pranzo, intenta a leggere Lecky e Darwin e Riviste Contemporanee rilegate con le rose che aspettavano in giardino di essere colte nel pomeriggio, e Eve e Harriett in giro da qualche parte, a lavare camicette o copiare valzer dal pacchetto della biblioteca…non più Harriett che faceva capolino alla fine del mattino, e la spingeva verso il grande pianoforte nuovo per suonare i duetti Mikado e Holy Family. Il tennis club sarebbe andato avanti, ma lei non ci sarebbe stata. Sarebbe cominciato a maggio. Di nuovo una figura bianca scintillante sarebbe arrivata velocemente lungo il sentiero fra le fila di malvarosa ogni sabato pomeriggio. Perché era venuto per il tè ogni domenica – senza perdere una singola domenica – tutto l’inverno? Perché ha detto: ‘Suona Abide with me, ‘Suona Abide with me, ieri, se non gl’importava? A che pro esser tranquillo e non dir nulla? Perché non ha detto: ‘Non andare,’ o: ‘Quando torni?’? Eve disse che sembrava tremendamente afflitto. Non c’era nulla di cui essere impaziente ora se non il lavoro d’istitutrice e la vecchiaia. Forse Miss Gilkes aveva ragione. …Sbarazzati degli uomini e degli impicci e accontentati delle cose comuni e sii felice. ‘Puoi essere assolutamente felice senza nessuno a cui pensare…’Indossando una spilla con cammeo – lunghe mani bianche dalle dita piatte e quella piccola risata sommessa ….L’organo aveva raggiunto l’ultimo motivo. Nel mezzo della finale fioritura di note la porta si spalancò. Miriam si abbassò rapidamente e cercò a tastoni i fiammiferi”).
[18] G. Genette, op. cit. , p.137.
[19] A. Marchese, L’officina del racconto, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 1983, p.145.
[20] G. Genette, op. cit., p.145.
21 S. Chatman, Storia e discorso (1978), Parma, 1981, p.78, cit. in A. Marchese, op. cit., p. 147.
[22] G. Genette, op. cit., p.165.
[23] A. Marchese, op. cit., p.146.

[24] D.Richardson, Pointed Roofs, cit., pp. 41-42.(“L’alta stanza, la luce luminosa, i numerosi specchi, la lunga distesa di tende di merletto, le tante facce-le ragazze sembravano molto più numerose sparpagliate qui rispetto a quando erano riunite in classe - ciò diede a Miriam il senso della miseria delle occasioni sociali. Si domandò se le ragazze erano nervose. Era contenta che le lezioni di musica non fossero parte del suo compenso. Pensò alle terribili esperienze di suonare davanti alla gente. La primissima volta, a casa, quando aveva suonato un duetto con Eve-Eve suonava una piccola veloce melodia nella parte acuta - la sua parte una pagina di minime. Le minime si erano gonfiate finché non aveva potuto più vedere se fossero linee o spazi, e le sue dita erano diventate così deboli, dopo la prima nota così inaspettatamente alta, che difficilmente poteva produrre alcun suono. Eve aveva detto ‘più forte’ e le sue dita si erano improvvisamente irrigidite e le aveva manovrate dai gomiti come bastoncini alla fine dei polsi e delle mani tremanti. Eve aveva notato i suoi terribili movimenti e si era risentita delle gomitate. Non aveva più sentito nulla poi, se non le sue difficili alte minime fino alla fine, e allora mentre stava in piedi in preda alle vertigini qualcuno aveva detto che aveva un grazioso tocco fermo, e lei si era rabbiosamente spinta dal piano al tappetino davanti al fuoco. Avrebbe sempre ricordato la massa calda e rossa del fuoco e la bottiglia di Chartreuse verde che si riscaldava sulle mattonelle color blu e crema. Probabilmente c’erano solo due o tre ospiti, ma la stanza era sembrata piena di persone, persone stupide che l’avevano fatta suonare. Quanto si era irata con Eve per aver notato il suo imbarazzo e con l’ospite dimenticata per la sua stupida osservazione. Sapeva che aveva semplicemente colpito il piano. Poi c’erano stati i concerti annuali a scuola, tutte le ragazze quasi irriconoscibili dalla paura. Aveva imparato a memoria i suoi pezzi per quelle occasioni e li aveva suonati con arti tremanti e occhi brucianti-alternativamente picchiando con dita rigide e sentendo l’intera mano indebolirsi dal polso fino alle note che brancolavano e si legavano l’una all’altra quasi silenziosamente finché non riprendeva di nuovo a picchiare. Nei pomeriggi musicali organizzati da Eve come chiusura invernale del tennis-club, aveva sia suonato che cantato, sperando ogni volta di nuovo di essere capace di riprodurre gli effetti che le venivano così facilmente quando era sola o soltanto con Eve. Ma non riusciva a scoprire il segreto per liberarsi dal nervosismo. Solo due volte c’era riuscita - all’ultimo concerto della scuola quando era stata troppo infelice per essere nervosa e Mr Strood le aveva detto che credeva in lei e, una volta, aveva cantato la Chanson de Florian in un modo che aveva stupito persino se stessa - le note avevano riso e fremuto fuori nell’aria ed erano ritornate indietro a lei dal muro dietro il piano….il giorno prima del torneo di tennis”).
[25] G. Genette, op. cit., p. 160.
[26] D. Richardson, Pointed Roofs, pp. 125-126. (“Si rese improvvisamente conto che Minna stava domandando proprio a lei, Miriam, se era deciso che avrebbe lasciato la scuola alla fine del trimestre, di venire ad abitare con lei. Miriam sorrise radiosamente incredula. Minna, dal volto color cremisi, con gli occhi fissi al marciapiedi affrettandosi spiegò che era sola a casa, non aveva mai fatto amicizie –la madre voleva sempre che si facesse degli amici –ma lei non poteva –che i suoi genitori sarebbero stati deliziati –che lei, lei voleva Miriam, ‘Tu sei così diversa, così ragionevole –potrei vivere con te’. Il giardino di Minna, la sua sicura casa di campagna, i suoi ricchi genitori, nessuna preoccupazione, niente di particolare da fare, sembrò per un momento a Miriam la soluzione e la continuazione di tutta l’allegra giornata. Ci sarebbe stato il resto del trimestre –primavera ed estate alle porte –la Fräulein privata di tutto il mistero e la paura, e poi la libertà –con Minna. Diede uno sguardo a Minna –il vivace viso rosa e il bulbo rosa del naso le vennero intorno e in tono sommesso ed eccitato lei mormorò qualcosa a proposito del farmacista. ‘Amerei venire –lo amerei semplicemente’, disse Miriam
entusiasticamente, sentendo che non avrebbe ancora completamente abbandonato l’idea. Non avrebbe tagliato fuori il rifugio offertole”).

2. Lo spazio
La percezione dello spazio in Pointed Roofs
Lo spazio è struttura portante del discorso narrativo ed è inseparabile dagli altri elementi costitutivi del racconto: azioni, agenti, eventi vengono dati nello spazio, forma generale in cui s’inquadra ogni determinata rappresentazione. Per usare le parole di Bourneuf e Ouellet: “Lo spazio ‘reale’ e ‘immaginario’, si trova dunque associato, o persino incorporato al personaggio, come lo è all’azione e allo scorrere del tempo”[1].
Anche nei romanzi di flusso di coscienza, quindi, in cui gli autori sono più preoccupati di approfondire la vita interiore dei personaggi che di inquadrarli in ambienti esterni, l’elemento spaziale è una componente d’innegabile e fondamentale importanza.
A cambiare è, comunque, il modo di percepire e rappresentare lo spazio che, nel clima di relatività del primo Novecento, non è più pensabile come realtà assoluta in se esistente o come dimensione esteriore.
Conseguentemente nei romanzi dello stream of consciousness
la percezione dello spazio si fa soggettiva e l’ambiente che fa da sfondo alle opere appare filtrato attraverso l’esperienza del personaggio principale.
E’ ciò che accade in Pointed Roofs in cui “…the reader sees what she (Miriam) sees and is never told what any of the other characters sees”[2]. Si legga ad esemplificazione il seguente passo: “Miriam noticed rounded puffs of white cloud standing up sharp and still upon the horizon. Cottages begun to appear at the roadside. Standing and moving in the soft air was the strong sour smell of baking Schwarzbrot. A big bony – browed woman came from a dark cottage and stood motionless in the low doorway, watching them with kindly body. Miriam glanced at her face – her eyes were small and expressionless, like Anna’s…evil – looking. Presently they were in a narrow street. Miriam’s footsteps hurried. She almost cried aloud. The façades of the dwellings passing slowly on either hand were higher, here and there one rose to a high peak, pierced geometrically with tiny windows. The street widening out ahead showed an open cobbed space and cross-roads. At every angle stood high quite peaked houses, their faces shining warm cream and milk-white patterned with windows. They overtook the others drawn up in the roadway before a long low wooden house. Miriam had time to see little gilded figures standing in niches, in row all along the façade and rows of scrollwork dimly painted, as she stood still a moment with beating heart behind the group”[3].
Soltanto seguendo lo sguardo della protagonista il lettore scopre l’ambiente circostante di cui non si ha, quindi, una visione globale. Gli oggetti sono enumerati dettagliatamente nell’ordine in cui entrano nel campo percettivo del personaggio. Lo spazio della storia è, quindi, fissato dall’esperienza della protagonista.
Osserva ancora Hanscombe: “Attention to details of phisical place is a consistent feature in Pilgrimage, used not merely as an aesthetic device but also as a structural one, since the narration does not rely for its cohesion on the dramatic disposition of plot and character characteristic of the nineteenth – century novel. Since the writer does not permit perceptions other than Miriam’s, details of time and place must provide a framework for the reader’s awareness of the external world as the only possible counterbalancing reality to Miriam’s consciousness. This is a principal reason why the sequence is not surrealistic; we are never in any doubt that the external world ‘really’ exists for Miriam, but we are aware, also, that its existence can only be realized through the filter of personal consciousness”[4].
In Pointed Roofs ad essere espressa è, dunque, la ricostruzione del mondo esterno operata all’interno della coscienza della protagonista, in cui alle immagini percepite si mescolano e si sovrappongono quelle immaginate e ricordate, com’è evidente nel brano che segue: “The crossing was over. They were arriving. The movement of the little steamer that had collected the passengers from the packet-boat drove the raw air against Miriam’s face. In her tired brain the grey river and the flat misty shores slid constantly into a vision of the gaslit dining-room at home… the large clear glowing fire, the sound of the family voices. Every effort to obliterate the picture brought back again the moment that had come at the dinner-table as they all sat silent for an instant with downcast eyes and she had suddenly longed to go on forever just sitting there with them all. Now in the boat she wanted to be free for the strange grey river and the grey shores. But the home scenes recurred relentlessly”[5].
Miriam si trova sul battello diretto in Olanda. Ella è simultaneamente dentro e fuori la scena, cosciente e tuttavia assorbita dal flusso d’immagini visive che corrono e si succedono all’interno del suo spazio mentale, riaffiorando dalla sua vita inconscia.
Il romanzo di Richardson trova, quindi, ambientazione in un nuovo e differente campo d’azione, quello definito da Walter Benjamin come ‘inconscio ottico’ (‘optical unconscious’), “…different above all in this, that in place of space interwoven with the consciousness of human beings, one is presented with a space unconsciously interwoven”[6]. Uno spazio, dunque, aperto come un campo visivo in cui le percezioni del soggetto portano traccia dei suoi impulsi e desideri più profondi.
Dei problemi relativi alla rappresentazione dello spazio parleremo nelle pagine seguenti.
La descrizione in Pointed Roofs
La descrizione è la modalità di racconto atta alla rappresentazione delle strutture dello spazio e, come la narrazione, essa è un atto linguistico che si traduce con una sequenza di parole.
Studiando i rapporti che legano queste due forme di discorso
narrativo, Genette osserva: “La narrazione s’interessa di azioni o d’eventi considerati come puri processi, e perciò pone l’accento sull’aspetto temporale e drammatico del racconto; la descrizione invece, indugiando su certi oggetti e certi esseri colti nella loro simultaneità, e anzi considerando i processi stessi come spettacoli, sembra sospendere il corso del tempo e contribuisce a dilatare il racconto nello spazio. Questi due tipi di discorso sembrerebbero esprimere due atteggiamenti antitetici davanti al mondo e all’esistenza, uno più attivo, l’altro più contemplativo e perciò, secondo un’equivalenza più tradizionale, più poetico”[7].
Tradizionalmente, dunque, la descrizione è una sequenza di stasi, in cui l’autore si sofferma nella rappresentazione di luoghi, oggetti e personaggi, interrompendo il ritmo della narrazione. Per questa ragione essa viene genericamente designata come pausa descrittiva, ma questa denominazione ben poco si adatta all’opera di Richardson.
In Pointed Roofs la scrittrice, come si è detto, intendeva dare espressione allo spazio così come questo veniva ricostruito all’interno della coscienza della protagonista; la descrizione è, dunque, focalizzata su Miriam.
Questo tipo di descrizione non determina in nessun caso una pausa nel racconto, perché ogni sosta corrisponde ad una sosta contemplativa della stessa protagonista e quindi il brano descrittivo non esce mai dalla temporalità della storia. Si legga come esempio il passo seguente: “The sky seen from the summer-house was darker still. There were no massed clouds, nothing but a hard even dark copper-grey, and away through the gap distant country was bright like a little painted scene. On the horizon, the hard dark sky shut down. At intervals thunder rumbled evenly, far away. Miriam stood still in the middle of the summer-house floor. It was half-dark; the morning saal lay in a hot sultry twilight. The air in the summer-house was heavy and damp. She stood with her half-closed hands gathered against her. ‘How perfectly magnificent’, she murmured, gazing out through the half-darkness to were the brightly coloured world lay in a strip and ended against the hard sky”[8].
Dopo una violenta pioggia improvvisa, Miriam ammira il paesaggio immerso in una cupa atmosfera temporalesca. Non si tratta di una descrizione extratemporale in cui è il narratore che, abbandonando il corso della storia, s’incarica, in prima persona ed esclusivamente di informare il suo lettore, di descrivere uno spettacolo che nessuno guarda: la descrizione, che procede come se accompagnasse lo sguardo della protagonista, più che fornire informazioni circa l’oggetto contemplato è piuttosto racconto ed analisi dell’attività percettiva del soggetto contemplante, delle sue impressioni, scoperte, entusiasmi, cambiamenti di distanza e prospettiva.
Ritroviamo una situazione analoga pure nel brano seguente: “Walking along a narrow muddy causeway by a little river overhung with willows, girls ahead of her single file and girls in single file behind, Miriam drearily recognized that it was June. The month of roses, she thought, and looked out across the flat green fields. It was not easy to walk along the slippery pathway. On one side was the little grey river, on the other long wet grass, repellent and depressing. Not far ahead was the roadway which led, she supposed, to the farm where they were to drink new milk”[9].
Durante un’escursione organizzata dalla direttrice per portare le
ragazze a bere il latte fresco, Miriam è, come al solito, particolarmente sensibile al paesaggio circostante la cui descrizione, come si vede,
non è un momento statico ma d’intensa attività intellettuale, sensoriale ed anche fisica, visto che Miriam sta materialmente percorrendo quei luoghi.
Con tale procedimento la modalità descrittiva viene ad essere riassorbita dalla narrazione: non ci sono pause descrittive in Pointed Roofs, in quanto la descrizione, in Richardson, è tutto tranne che sospensione dello svolgimento del racconto.
La simbologia dello spazio in Pointed Roofs
“La descrizione” osservano Bourneuf e Ouellet “può costringerci a guardare la realtà che essa pretende di porre dinanzi ai nostri occhi e questa realtà sola, oppure può volere suggerire di più”[10].
Il linguaggio spaziale può, insomma, farsi veicolo di valori “altri”, non spaziali, rivelando in tal modo il rapporto tra l’individuo (autore o personaggio) e il mondo circostante.
Come afferma Lotman: “La lingua dei rapporti spaziali risulta uno dei mezzi fondamentali di comprensione della realtà. I concetti di ‘alto-basso’, ‘destra-sinistra’, ‘vicino-lontano’, ‘aperto-chiuso’, ‘limitato-illimitato’, ‘discontinuo-continuo’ sono materiale per la costruzione di modelli culturali con un contenuto assolutamente non spaziale, e prendono il significato di ‘prezioso-non prezioso’, ‘buono-cattivo’, ‘proprio-altrui’, ‘accessibile-inaccessibile’, ‘mortale-immortale’, eccetera. I più comuni modelli sociali, religiosi, politici, morali del mondo, con l’aiuto dei quali l’uomo nelle varie fasi della sua storia spirituale interpreta la vita che lo circonda, risultano inevitabilmente essere caratteristiche spaziali”[11].
In Pilgrimage, come s’è detto, il titolo stesso suggerisce la metafora del viaggio, del labirinto, dell’errare insoddisfatto del personaggio di luogo in luogo. Il labirinto è palese traduzione dell’angoscia dell’uomo di fronte al mondo in cui non trova una propria collocazione.
Vediamo in che modo tale sistema simbolico si attua in Pointed Roofs, prima tappa di questo irrequieto vagare.
Volendo applicare al romanzo di Richardson la bipartizione dello spazio in esterno (ES) ed interno (IN), proposta da Lotman[12] si avrà lo schema seguente:
Dietro all’opposizione semantica interno > esterno si trova l’antitesi fra “sicurezza” e “paura”, “stabilità” e “precarietà”, “infanzia” ed “età adulta”.
“Uno spazio chiuso, limitato,” afferma Marchese “ha come frontiera emblematica una circonferenza”[13]. Il giardino di Babington, ricordo dell’infanzia di Miriam, è cinto da mura di mattoni rossi ed è quindi uno spazio limitato in cui, nel contatto con la natura, la bambina, spensierata e
circondata dall’alone familiare protettivo, s’accorge d’esistere e prende coscienza di se stessa. Per usare le parole di Watts: “If this event seems to represent an ideal epiphanic moment for Richardson, it would seem to be because the child’s consciousness discovers itself in a rapturous and animistic compact with the natural world”[14].
Quella del giardino è un’immagine ricorrente non solo in Pointed Roofs ma in tutti gli altri capitoli-volumi di Pilgrimage, ed anche nel bozzetto autobiografico Beginning A Brief Sketch e nel racconto intitolato, appunto, The Garden.
In Pointed Roofs tale immagine compare per la prima volta
mentre sul treno in viaggio per Hannover Miriam, sul punto di addormentarsi, ripercorre confusamente la vita dei suoi nonni, l’incontro dei suoi genitori e la sua infanzia: “Marriage… the new house… the red brick wall at the end of the garden where young peach – trees were planted… running up and downstairs and singing…both of them singing in the rooms and the garden …she sometimes with her hair down and then when visitors
were expected pinned in coils under a little cap and wearing a small
hoop … (…) her mother’s illness, money troubles – their two years at the sea to retrieve…the disappearence of the sunlit red-walled garden always in full summer sunshine with the sound of bees in it, or dark from windows”[15].
Il giardino di Babington (Abingdon nella realtà) è rievocato come lo spazio in cui Miriam colloca la propria infanzia e, qui come nei primi volumi di Pilgrimage, è il luogo della felicità, della solitudine, della scoperta della propria identità e dell’inizio della consapevolezza di sé. Per usare le parole di Fromm: “…among the flowers and the bees and the sunlight, the sense that she existed first began; and for the rest of her life, whenever she was in a garden she felt the irresistible urge to celebrate existence”[16].
L’immagine del giardino compare pure nel brano seguente:
“She remembered (…) someone carrying Harriett – and green green, the
brightest she had ever seen, and anemones everywere, she could see them distinctly at this moment – she wanted to put her face down into the green among the anemones. She could not remember how she got there or the going home, but just standing there – and green and the flowers and something in her ear buzzing and frightening her and making her cry, and somebody poking a large finger into the buzzing ear and making it very hot and sore”[17].
Di questo passo Kristin Bluemel suggerisce un’interessante
interpretazione: la scena evocherebbe, secondo lei, l’antico mito del
giardino dell’Eden, in cui la bimba vaga felice come un’anima pura e incorrotta. “The frightening buzz, invading finger, and painful feeling of ‘hot and sore’ become the sexual evil that signifies the end of innocence and the beginning of consciousness and knowledge”[18].
La scena è, quindi, simbolo del passaggio da uno stato
d’innocenza ad uno di consapevolezza, dall’infanzia all’età adulta, passaggio doloroso e sofferto per Miriam: “Instead of Miriam functioning as an Eve-like feminine agent of sexual fall, she is positioned as a feminine victime of a deflowering or rape originating in the incomprehensible codes of an outside, adult world”[19].
Miriam, dunque, è forzata dall’irruzione del mondo adulto ed esterno a lasciare la propria posizione riparata e sicura all’interno della famiglia per avventurarsi alla ricerca di una propria dimensione al di fuori di questa.
E’ a questo punto della vita della giovane che, in Pointed Roofs, la narrazione inizia: quando le difficoltà economiche del padre e la malattia nervosa della madre hanno causato la scomparsa dell’amato giardino, ‘the well-known garden’ che ella si sofferma a contemplare dalla finestra della sua camera con un doloroso senso di perdita, in procinto di partire per la Germania e lasciare la casa paterna.
Hannover rappresenta per Miriam un nuovo punto di partenza, l’inizio di un nuovo sentiero in cui deve riuscire a camminare da sola: “She
was grown up. She was the strong-minded one. She must manage”[20]. Per quanto impaurita, Miriam non vede il mondo esterno come minaccioso ed ostile. In viaggio i campi olandesi le appaiono sereni e sicuri e, arrivata in Germania si sente confortata dalla tranquillità del paesaggio e dal modo di fare della gente: “She had scented something, a sort of confidence, everywhere, in her hours in Holland, the brisk manner of the German railway officials and the serene assurance of the travellling Germans she had seen, confirmed her impression. Away out there, the sense of imminent catastophe that had shadowed all her life so far had disappeard. Even there in this dim carriage, (…), she felt that there was freedom somewhere at hand. Wathever happened she would hold to that”[21].
Venuto meno il clima di equilibrio e di stabilità all’interno della famiglia, Miriam avverte sulle sue spalle tutto il peso delle sopravvenute difficoltà e se ne sente soffocata. La partenza per la Germania è, dunque, al tempo stesso, un allontanamento forzato e una fuga.
Hannover, la bella antica città con i curiosi edifici di mattoni e le case dai tetti rossi appuntiti di cui Miriam immediatamente s’innamora, rappresenta per lei la seducente prospettiva di una vita indipendente e, come osserva Watts, di uno spazio autonomo in cui conoscersi e realizzarsi: “In this arena of reassuring European otherness she can play out the attractions of conformity and difference that will mark her in complex ways throughout the narrative of Pilgrimage”[22].
[1] R. Bourneuf e R. Ouellet, L’Universo del Romanzo, Torino, Einaudi, 1982, p. 101.
[2] G. Hanscombe, Introduzione a Pilgrimage, Londra, Virago Press, 1979, p. 1. (…il lettore vede quello che lei (Miriam) vede e non gli viene mai detto ciò che qualunque altro personaggio vede).
[3] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., pp.114-15. (“Miriam notò larghi sbuffi arrotondati di nuvolaglia bianca che sovrastavano l’orizzonte, intensi ed immobili. Cominciarono ad apparire villini lungo il bordo della strada. Fermo o in movimento nell’aria lieve era l’odore forte ed aspro di cottura al forno Schwartzbot. Una donna dalla fronte grande e scarna veniva da uno scuro villino e stava immobile nel basso ingresso, guardandoli con aspetto cordiale. Miriam diede una rapida occhiata al suo volto – gli occhi erano piccoli e privi d’espressione, come quelli di Anna…cattivi. Presto furono in una strada stretta. Miriam affrettò i passi. Quasi gridava forte. Le facciate delle abitazioni che sfilavano lentamente da ciascun lato erano più alte, qua e là una raggiungeva un’alta vetta, traforata geometricamente da piccole finestre. La strada che si allargava davanti mostrava uno spazio aperto acciottolato ed incroci. Ad ogni angolo stavano alte, quiete case appuntite, le facciate di un caldo color crema e bianco-latte sagomate da finestre. Superarono le altre disposte lungo la strada prima di una casa di legno lunga e bassa. Miriam ebbe il tempo di vedere piccole figure dorate in delle nicchie, in fila lungo la facciata, e file di volute dai colori sbiaditi, mentre si fermava un attimo in coda al gruppo col cuore che le batteva ”).
[4] G. Hanscombe, op. cit., p. 45. ( “L’attenzione ai dettagli dello spazio fisico è una consistente caratteristica in Pilgrimage, usata non soltanto come un espediente estetico ma anche strumentale, dato che la narrazione non fa affidamento per la propria coesione sulla disposizione della trama e del personaggio tipici del romanzo del diciannovesimo secolo. Dato che la scrittrice non permette altre percezioni che quelle di Miriam, i dettagli di tempo e di spazio devono fornire una cornice alla consapevolezza del mondo esterno da parte del lettore come unico possibile contrappeso alla realtà della coscienza di Miriam. Questa è la principale ragione per cui la sequenza non è surrealista; non abbiamo alcun dubbio che il mondo esterno ‘realmente’ esiste per Miriam, ma siamo coscienti, anche, che la sua esistenza non può essere afferrata che attraverso il filtro della coscienza personale”).
[5] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 26. (“La traversata era terminata. Stavano arrivando. Il movimento del vaporetto che aveva raccolto i passeggeri dal postale spingeva l’aria fredda sul viso di Miriam. Nella sua mente stanca il grigio fiume e le sponde velate dalla nebbia scivolavano costantemente in una visione della sala da pranzo illuminata a gas a casa…il grande fuoco chiaro ed ardente, il suono delle voci familiari. Qualsiasi sforzo di cancellare l’immagine riportava di nuovo indietro quel momento a tavola in cui tutti erano rimasti per un istante seduti in silenzio con gli occhi chini e lei improvvisamente aveva desiderato di andare avanti per sempre così sedendo semplicemente con tutti loro. Ora nell’imbarcazione voleva essere libera sullo strano fiume grigio e le sponde grigie. Ma le scene di casa si ripresentavano implacabilmente”).
[6] W. Benjamin, cit. in C. Watts, op. cit., p. 23. (“…diverso innanzi tutto in questo, che invece dello spazio intrecciato con la coscienza degli esseri umani, ci è presentato uno spazio intrecciato inconsciamente”).
[7] G. Genette, Figure II La parola letteraria (1969), Torino, Einaudi, 1972, p. 33.
[8] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 151. (“Visto dal chiosco il cielo era ancora più buio. Non c’erano nuvole fitte, solo un forte e scuro color grigio rame, e lontano attraverso la breccia la distante campagna era luminosa come una piccola scena dipinta. All’orizzonte si chiudeva il cielo scuro. Ad intervalli regolari rombava un tuono, in lontananza. Miriam stava immobile nel mezzo del chiosco. Era per metà buio; il saal del mattino stava immerso in un caldo soffocante crepuscolo. Nel chiosco l’aria era pesante e umida. Ella stava con le mani semichiuse raccolte su di sé. “Che assoluta magnificenza’, mormorò, fissando attraverso la semioscurità laddove il mondo luminosamente colorato giaceva in una striscia e terminava contro il cielo pesante”).
[9] Ivi, p.132. (“Camminando per una stretta infangata strada sopraelevata lungo un fiumiciattolo su cui sporgevano dei salici, ragazze davanti a lei in fila indiana e ragazze in fila indiana dietro, Miriam si rese conto desolatamente che era Giugno. Il mese delle rose, pensò, e guardò i campi verdi e piatti. Non era facile camminare lungo il sentiero sdrucciolevole. Da una parte stava il fiumiciattolo grigio, dall’altra erba alta ed umida, ripugnante e deprimente. Non lontano davanti c’era la strada che portava, supponeva, alla fattoria dove sarebbero andate a bere il latte appena munto”).
[10] R. Bourneuf e R. Ouellet, op. cit., p. 116.
[11] J. M. Lotman, cit. in A. Marchese, op. cit., pp.112-113.
12 Ivi, p. 114.
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[13] A. Marchese, op. cit., p.113.
[14] C. Watts, op. cit., p. 21. (“Se questo episodio sembra rappresentare un momento ideale, epifanico per Richardson, sembrerebbe esserlo perché la coscienza della bambina scopre se stessa in una unione estatica ed animistica con il mondo naturale”).
[15] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 32. (“Il matrimonio…la nuova casa…il muro di mattoni rossi alla fine del giardino dove giovani alberi di pesco erano piantati…correndo su e giù per le scale e cantando…cantando entrambi nelle stanze e nel giardino…lei a volte con i capelli sciolti e quando aspettavano visite appuntati in crocchie sotto un cappellino e con un piccolo cerchietto (…) la malattia della madre, problemi economici – i due anni trascorsi al mare per riprendersi…la scomparsa del giardino dalle mura rosse illuminato dal
sole sempre nella piena luce estiva e col ronzio delle api, o buio dalle finestre”)
16 G. G. Fomm, Dorothy Richardson. A Biography, cit., p. 9. (“… fra i fiori e le api e la luce del sole, la sensazione d’esistere cominciò per la prima volta; e per il resto della sua vita, ogni volta che si trovava in un giardino ella sentiva l’irresistibile impulso di celebrare l’esistenza”).
_ftnref16
[17] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., pp. 68-69. (“Ricordava (…) qualcuno che portava Harriett – e il verde verde, il più luminoso che avesse mai visto, e anemoni dappertutto, poteva vederli distintamente in questo momento – voleva immergere il viso nel verde fra gli anemoni. Non ricordava come fosse arrivata lì, né il ritorno a casa, ma solo d’esser stata lì – il verde e i fiori e qualcosa nel suo orecchio che ronzava che l’aveva spaventata e fatta piangere, e qualcuno aveva infilato un grosso dito nell’orecchio ronzante rendendolo bruciante e dolorante”).
[18] K. Bluemel, op. cit., p. 60. (“Il ronzio spaventoso, il dito invadente, le dolorose sensazioni di ‘bruciante e dolorante’ diventano il male sessuale che significa la fine dell’innocenza e l’inizio della coscienza e della conoscenza”).
[19] Ibidem. (“Invece di essere, come Eva, l’agente femminile della caduta sessuale, la sua posizione è quella della vittima femminile di una deflorazione o violenza che ha origine negli incomprensibili codici di un mondo esterno, adulto”).
[20] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p.30. (“Era cresciuta. Era la più determinata. Doveva cavarsela”).
21 Ivi, p.30. (“Aveva avvertito qualcosa, una sorta di fiducia, ovunque, nelle ore trascorse in
Olanda, i modi energici degli ufficiali di ferrovia tedeschi e la serena sicurezza degli altri viaggiatori tedeschi che aveva visto, confermarono la sua impressione. Lì fuori, il senso d’imminente catastrofe che aveva adombrato tutta
la sua vita fin qui era scomparso. Persino qui in questo oscuro vagone (…), sentiva che la libertà era lì da qualche parte a portata di mano. Qualunque cosa sarebbe successa ella si sarebbe aggrappata a questo”).
_ftnref21
[22] C. Watts, op. cit., p. 8. (“In questa arena di rassicurante diversità europea ella può sviluppare il senso di attrazione per la conformità e la differenza che la contraddistingueranno in modo complesso attraverso tutta la narrativa di Pilgrimage”).
3. Modo e voce

Modo e voce nella tecnica dello stream of consciousness

L’innovazione, forse, più grande apportata dal nuovo genere dello stream of consciousness è proprio quella riguardante il rapporto fra modo e voce.
Intendiamo per modo narrativo “la categoria che definisce (...) la regolazione quantitativa e qualitativa del messaggio”[1]. L’emittente, in altre parole, può scegliere la quantità d’informazioni più o meno particolareggiate da veicolare all’interno del suo romanzo, in maniera più o meno diretta, decidendo quindi di apparire ad una distanza variabile da ciò che narra; e può anche scegliere di trasmettere queste informazioni adottando la prospettiva, o visione, o punto di vista di uno o più personaggi. Secondo Genette, dunque, alla categoria del modo appartengono le due modalità della distanza e della prospettiva.
La voce è, invece, “l’istanza produttrice del discorso narrativo, da non confondersi con l’istanza di scrittura, così come il narratore è diverso dall’autore”[2].
In definitiva potremmo sintetizzare affermando che la categoria del modo è quella che permette, sia a livello dell’emittenza sia della ricezione, di determinare quale sia l’ottica attraverso la quale la vicenda viene filtrata (chi vede?); mentre quella della voce consente di identificare chi enuncia, chi parla.
In un romanzo in cui l’intento dell’autore sia quello di dare al lettore l’impressione di trovarsi insediato nella mente del personaggio, i confini tra modo e voce tendono a confondersi. Trattandosi di un tentativo di riproduzione dei processi interiori del soggetto, nello stream of consciousness novel pensieri, parole e percezioni pretendono di essere quelli che effettivamente attraversano la mente di lui o di lei. Scompare, dunque, la rassicurante figura del narratore onnisciente che nelle forme tradizionali di racconto aveva guidato spesso per mano il lettore lungo l’azione.
Posto che continui ad essere presente, il narratore ha, comunque, perduto il proprio ruolo di primo piano e tende a confondere la propria voce con quella del protagonista, fino ad arrivare ad un massimo grado di sperimentazione mimetica, in cui il narratore finge di cedere letteralmente la parola al suo personaggio. Osserva Genette che: “Una delle grandi vie d’emancipazione del romanzo moderno consisterà nello spingere all’estremo, o meglio al limite, questa mimesi del discorso, cancellando le ultime tracce dell’istanza narrativa e dando immediatamente la parola al personaggio”[3].
Prospettiva, distanza e voce sono, quindi, categorie fondamentali nella strutturazione del racconto e nel romanzo moderno vengono totalmente riorganizzate. Su questa strada si pose Dorothy Richardson quando nel 1913, avvertendo l’insufficienza dei metodi che la tradizione le offriva, si propose di oltrepassarli dando vita ad un nuovo tipo di narrazione.

La prospettiva in Pointed Roofs.

La prospettiva è il punto ottico a partire dal quale la vicenda viene filtrata; essa non necessariamente coincide con l’espressione o voce, sebbene le due istanze siano strettamente correlate fra loro. Il narratore può, per esempio, raccontare in prima persona fatti ed eventi così come lui stesso li ha percepiti, oppure può narrare in modo oggettivo gli avvenimenti dall’esterno, oppure ancora può immedesimarsi in un’ottica che non è la propria, scegliendo in questo caso se palesarsi o rimanere completamente
celato.
In Pointed Roofs la decisione di Richardson, come sappiamo, fu quella di lasciare che la stessa Miriam parlasse per sé, e la forma adottata fu quella di un racconto in terza persona a focalizzazione interna; in cui, cioè, il narratore pur non essendo uno dei personaggi, ne adotta però il punto di vista. Ne risultò una storia raccontata dalla protagonista, ma in terza persona, con evidente confusione fra personaggio focale e istanza narrativa.
Come Kristin Bluemel ci fa notare[4], l’illusione di dare liberamente accesso alla coscienza del personaggio è raggiunta sin dalla primissima pagina: “Miriam left the gaslit hall and went slowly upstairs. The March twilight lay upon the landing but the staircase was almost dark and silent. There was no one about. It would be quiet in her room. She could sit by the fire and be quite and think things over until Eve and Harriett came back with the parcels. She would have time to think about the journey and decide what she was going to say to the Fräulein”[5]. Evidentemente il romanzo esordisce in modo non convenzionale: non sappiamo chi è Miriam, nessun dettaglio introduttivo ci viene fornito, ci ritroviamo abbandonati nel mezzo di una storia alla quale, da soli, dobbiamo dare un senso.
“All we know is that someone called Miriam is at the center of our narrative world, that she is conscious of light and shadow and her immediate phisical surrounding, and that she is concerned about people who are somehow related to a journey”[6].
Dopo le prime tre righe, che potrebbero apparire piuttosto impersonali, l’espressione chiave, che ci permette di comprendere che la prospettiva adottata è quella di Miriam, è la seguente: “It would be quiet in her room”. Chiaramente non può trattarsi di una predizione da parte dell’autore. Richardson sta riproducendo il pensiero della sua eroina, la quale pregusta la solitudine della sua stanza in cui potrà ritirarsi per meditare in tutta tranquillità. Intento dell’autrice è, in sostanza, di celare al lettore la sua presenza e quella di un eventuale narratore la cui voce viene ad identificarsi con quella della protagonista.
Citando ancora Bluemel diremo che: “In Pilgrimage disguise
is so complete that it does not make sense to speak about a ‘narrator’; there is only the voice of the character”[7].
In questo modo di procedere si ravvisa la chiara influenza del modello narrativo jamesiano. La stessa scrittrice, imponendo al suo romanzo una restrizione del campo visivo limitato alle sole percezione di Miriam, riconosceva il suo debito nei confronti di Henry James e dell’uso del punto di vista che questi aveva fatto in The Ambassadors; romanzo che Richardson aveva letto, al suo apparire, nel 1903.
Inizialmente Dorothy aveva provato grande ammirazione per lo scrittore angloamericano che “Had achieved the first completely satisfying way of writing a novel”[8]. Più tardi prese, però, le distanze da questo suo modello. In una lettera del 1948 a Henry Savage, Richardson scriveva: “His style, fascinting at first meeting for me can only be, very vulgarly, described as a non-stop waggling of the backside as he hands out on a salver, sentence after sentence, that yes, if the words had no meaning, would weave its own spell. So what? One feels, reaching the end of the drama in a resounding
box, where no star shines & no bird sings.”[9]
Nonostante questo successivo cambiamento di opinione, nella sua opera Richardson dimostrava di aver perfettamente assimilato la lezione appresa attraverso la lettura del romanzo jamesiano, anche se ella s’inoltrava ancora di più sul terreno della sperimentazione.
Per sottolineare l’originalità del metodo di scrittura richardsoniano, Bluemel mette a confronto l’apertura di Pointed Roofs con quella di The Ambassadors. Come Richardson, anche James si guarda dal fornire quelle informazioni che nel racconto classico consentivano al lettore di orientarsi: presentazione dei personaggi, giustificazione dei loro pensieri e delle loro azioni; ma ad ogni modo il suo romanzo offre il conforto di una presenza narrativa: “An authoritative ‘I’ who emerges mid-paragraph to explain about the protagonist’s preoccupations. This ‘I’ is seldom seen thereafter, but its willingness to reveal itself at the start is one of the factors

that separates James’s and Richardson’s experiments with narrative”[10].
Inoltre in James l’ordine degli eventi è ancora sequenziale e il passaggio dal mondo dell’interiorità a quello degli accadimenti esteriori viene abilmente manipolato dall’autore attraverso interpretazioni e commenti. In sostanza, pur se la più caratteristica innovazione della sua opera consiste nell’aver spostato l’attenzione dalla realtà esterna ai contenuti mentali, James si ferma ad un livello che è ancora palesemente quello della verbalizzazione e della razionalità.
Richardson, invece, intendeva dare un’oggettiva rappresentazione della realtà interiore così come questa veniva effettivamente vissuta, al limite fra cosciente e subcosciente, senza mediazioni dell’intelletto e senza artificio alcuno che potesse manipolarne la ricezione da parte del lettore.
Concluderemo con Fromm dicendo che Richardson “Combined the lesson of Henry James with the lesson of Quaker life: an impersonal narrative, like ‘discovery about onself’, could be highly personal as well;
it could have an objective existence and a subjective identity”[11].

Distanza in Pointed Roofs.

Il narratore può decidere di situarsi a una distanza più o meno grande dalla vicenda raccontata. Risalendo a Platone, Genette opera, a questo proposito, una distinzione fra due modi narrativi opposti: “...a seconda che il poeta ‘parli a suo nome, senza cercare di farci credere che sia un altro a parlare’, (procedimento chiamato da Platone racconto puro), o che, al contrario ‘si sforzi in tutti i modi di darci l’illusione che non è Omero a parlare’, bensì un qualche personaggio, se si tratta di parole pronunciate: è quel che Platone chiama imitazione in senso proprio, o mimesi”[12].
Il racconto mimetico, in cui l’oggetto narrativo sembra raccontarsi da solo, è indicato come quello che si pone in assoluto ad una distanza minore. Tale realizzazione è quella alla quale Richardson mirò nel corso della stesura di Pointed Roofs e in tutta la sua produzione successiva. Pointed Roofs è, infatti, come abbiamo visto una storia raccontata da un
personaggio, ma in terza persona. In tal modo “Il lettore percepisce l’azione filtrata attraverso la coscienza di un determinato personaggio, ma la percepisce direttamente, esattamente nel modo in cui essa arriva a colpire quella coscienza, evitando la distanza inevitabilmente connessa alla narrazione retrospettiva in prima persona”[13], tipica della forma tradizionale di racconto autobiografico. Il concetto introduce alla distinzione sottilissima fra i due metodi di rappresentazione del flusso di coscienza, che Richardson alterna nel suo primo romanzo: descrizione fatta dal romanziere onnisciente e monologo interiore indiretto.
Citando Wilcock, il Debenedetti definisce il primo metodo come la “riproduzione del contenuto e dei processi della psiche del personaggio, mediante una descrizione onnisciente basata sui metodi della narrativa tradizionale”[14], e trova che differisca poco dal monologo interiore indiretto; questo viene descritto come una variante del monologo interiore diretto, che rivela la presenza del narratore attraverso l’uso della terza persona e, quando necessario, della descrizione e dell’esposizione.
Anche Humphrey, pur percependo una distinzione fra i due
metodi, è poco chiaro nell’esplicitarla: “The distinction is implicit in the
definition of the two techniques, especially in that part of the definition of indirect monologue which states that ‘an omniscient author presents unspoken material directly from the psyche’. This is the fundamental difference that separates them widely and that changes their respective possible effects, textures, and scopes”[15].
Si tratta della distinzione lieve che separa il discorso trasposto in stile indiretto, in cui il narratore può arbitrariamente riassumere o citare le parole dei personaggi, dal discorso trasposto in stile indiretto libero, ad un livello di mimesi più elevato, in cui il personaggio si esprime attraverso la voce del narratore.
Nel nostro caso ritengo più opportuno parlare di una distinzione fra pensiero indiretto e pensiero indiretto libero. Alcuni esempi da Pointed Roofs serviranno a chiarire meglio: “Clara Bergman followed, Miriam watched her as she took her place at the piano –how square and stout she looked and old, careworn, like a woman of forty. She had high square shoulders
and high square hips - her brow was low and face thin, broad and flat. Her eyes were like the eyes of a dog and her thin-lipped mouth long and straight until it went steadily down at the corners. She wore a large fringe like Harriett’s- and a thin coil of hair filled the nape of her neck. She played, without music, her face lifted boldly. The notes rang out in a prelude of unfinished phrases –the kind, Miriam noted, that had so annoyed her father in what he called new-fangled music- she felt it was going to be a brilliant piece –fireworks –execution –style –and sat up self-consciously and fixed her eyes on Clara’s hands. ‘Can you see the hands?’ she remembered having heard someone say at a concert. How easily they moved. Clara still sat back, her face raised to the light. The notes rang out like trumpet-calls as her hands dropped with an easy fling and sprang back and dropped again. What loose wrists she must have, thought Miriam”[16].
Il punto di vista è chiaramente quello di Miriam. Le sue
percezioni visive ed uditive appaiono comunque mediate in maniera piuttosto evidente dall’intervento dell’autore. Il metodo, dunque, è quello convenzionale della descrizione in terza persona. Una tecnica, osserva Humphrey, che risale almeno al Robinson Crusoe, con l’unica ma fondamentale differenza che la vita che essa rappresenta è quella interiore del suo personaggio[17].
Riprendiamo la lettura di un altro brano: “Miriam closed her eyes again. Luther… pinning up that notice on a church door…. (Why is Luther like a dispeptic blackbird? Because the Diet of Worms did not agree with him.) …and then leaving the notice on the church door and going home to tea…coffee…some evening meal…Käthe… Käthe…happy Käthe. …They pinned up that notice on a Roman Catholic church…and all the priests looked at them…and behind the priests were torture and dark places…Luther looking up to God…saying you couldn’t get away from your sins by paying money…standing out in the world and Käthe making the meal at home…Luther was fat and German. Perhaps his face perspired…Eine feste Burg; a firm fortress…a round tower made of old brown bricks and no windows…. No need for Käthe to smile…. She had been a nun…and then making a lamplit meal for Luther in a wooden German house…and Rome waiting to kill them”[18].
Anche qui c’è ancora l’uso della terza persona e dei tempi narrativi (imperfetto, passato remoto) però la distanza del racconto viene decisamente accorciata. Le frasi, separate dai puntini di sospensione, diventano sempre più autonome e appartengono più plausibilmente alla protagonista che all’autrice.
Si tratta di un esempio di pensiero indiretto libero, di cui sono spie l’insieme di segnali stilistici propri del discorso orale. Ripetizioni (“Käthe… Käthe…happy Käthe”), interrogazioni (“Why is Luther like a dyspeptic blackbird?”), esclamazioni, ecc., fanno sì che la voce di Miriam venga a confondersi con quella del narratore in modo da non poter chiaramente distinguere le parole dell’una o dell’altro.
La tecnica che prevale in Pointed Roofs è, comunque, la prima. Nella sua raffigurazione della psiche umana, Richardson partiva dunque dai tradizionali metodi di narrazione. Nei successivi capitoli-volumi di Pilgrimage avrebbe raggiunto un livello di sperimentazione sempre più alto, con l’uso più frequente del monologo interiore indiretto e, soprattutto negli scritti più maturi, anche di quello diretto.

La figura del narratore
Stabilita, ormai, l’innegabile presenza di un narratore all’interno dell’opera richardsoniana, mi pare opportuno sottolineare l’uso abbastanza singolare che la scrittrice fece di tale istanza narrativa, difficilmente riconducibile alla tradizionale forma dell’onniscienza classica.
Sebbene tutti i connotati formali indichino nella figura del narratore il responsabile dell’enunciazione, dal punto di vista contenutistico sappiamo che è il pensiero di Miriam ad esprimersi attraverso di essa. Bachtin definisce come “ibrido” un simile tipo di costruzione: “Chiamiamo costruzione ibrida un’enunciazione che per i suoi connotati grammaticali (sintattici) e compositivi appartiene ad un solo parlante, ma nella quale, in realtà, si confondono due enunciazioni, due maniere di discorso, due stili,
due “lingue”, due orizzonti semantici e assiologici”[19].
Si tratta del particolare carattere pluridiscorsivo della narrativa, che consente di riportare un “discorso altrui (…) in lingua altrui”[20] sempre, comunque, attraverso un’unica voce. Nel caso specifico, la voce narrante, pur senza scomparire del tutto, tende a farsi semplice strumento d’espressione, affinché possa emergere la vita interiore della protagonista.
In realtà, trattandosi di un racconto autobiografico, l’autore che narra di sè avrebbe dovuto coincidere con il personaggio principale; ma, come abbiamo visto, Richardson era riuscita a presentare se stessa come se stesse parlando di qualcun altro ed aveva, quindi, scelto un tipo di narrazione nascosta che sembrava essere un’oggettiva registrazione della vicenda nel suo svolgersi. Nonostante il racconto si compia al passato, infatti, l’impressione ricevuta non è quella di una narrazione a posteriori, ma simultanea all’azione.
Riprendendo Genette, Marchese definisce lo statuto del
narratore mediante il suo livello narrativo – ossia la collocazione del
narratore rispetto al discorso del racconto- e il suo rapporto con la storia.[21]
In base al primo parametro, definiremo il narratore di Pointed Roofs come extradiegetico, ossia situato allo stesso livello del pubblico. A livello di storia raccontata sarà, invece, classificato come eterodiegetico. “Si sente una voce che parla di eventi, personaggi e ambienti ma il narratore rimane nell’ombra”[22]: nonostante cerchi di mascherare la sua presenza, almeno in questo primo capitolo-volume, l’istanza del narratore non è mai completamente annullata, sempre avvertibile come io virtuale del verbo alla terza persona, potenzialmente capace, in qualunque momento, d’intervenire.
I suoi interventi sono comunque estremamente limitati: non ci sono commenti, similitudini o paragoni che possano essergli attribuiti; nessun giudizio, che non sia quello di Miriam, su fatti e personaggi; non ci sono anticipazioni sugli eventi successivi, sembra che il narratore ne sappia quanto il lettore e che entrambi assistano al dipanarsi della vicenda.
In alcune occasioni Richardson riesce a veicolare una visione più ampia, rispetto al punto di vista ancora limitato della giovane Miriam, come nell’episodio del corteggiamento da parte di Pastor Lahmann.
Anche in questo caso, però, non c’è una diretta intromissione della voce narrante a spiegare quello che Miriam nella sua ingenuità aveva avvertito senza riuscire a capire fino in fondo: “Pastor Lahmann had made her forget she was a governess. He had treated her as a girl. Fräulein’s eyes had spoiled it. Fräulein was angry about it for some extraordinary reason[23].
Miriam non si rende conto di aver suscitato la gelosia della Fräulein, non ne comprende il muto dramma, ma lo registra avvertendone inconsciamente la tensione. E’ la coscienza di Miriam a mostrare ciò che lei vive come qualcosa d’inspiegabile, ma che ad un lettore più disincantato si rivela nel suo reale significato.
Soltanto nel corso del sesto capitolo il narratore sembra aver preso in mano le redini del racconto: “During those early days Miriam realized that the school-routine, as she knew it – the planned days – the regular unvarying succession of lessons and preparations, had no place in this new world”[24].
A questo esordio, non determinato dal punto di vista temporale,
seguono riflessioni e ricordi di quanto era avvenuto durante diverse settimane di permanenza al collegio. Ci si domanda: è Miriam che si è fermata a rivivere questi fatti? Giacché nessuna indicazione nel testo ci autorizza a credere che si tratti di una volontaria rievocazione da parte della protagonista, appare più probabile che il narratore, pur senza distaccarsi dalla prospettiva di questa, abbia voluto accelerare il ritmo del racconto, selezionando gli eventi più significativi che si erano verificati.
Questo caso è comunque un’eccezione alla consueta modalità del racconto, perchè la presenza del narratore rimane ovunque limitata, discreta e nascosta, la sua funzione si è ridotta ad un’impersonale mediazione della storia; in modo non dissimile da quanto accadeva nella poetica del realismo. Di realismo si parlò, infatti, a proposito della prosa richardsoniana, sebbene la scrittrice volesse dare espressione ad una realtà nuova: quella della coscienza.

Il narratario

Per completare il quadro relativo ai problemi della categoria della voce, qualche parola si dovrà ancora spendere a proposito della
figura del narratario.
Sul piano della ricezione, al narratore corrisponde il narratario, che è colui al quale il racconto si rivolge. Spesso si tratta di un vero e proprio personaggio intradiegetico con cui il narratore interloquisce e scambia, talvolta, il proprio ruolo nella gestione dell’informazione.
Nel caso, comunque, di una narrazione extradiegetica, anche il narratario sarà extradiegetico e verrà, dunque, a coincidere con il lettore virtuale o ideale, con cui ogni lettore reale si può identificare. Ad ogni modo, sebbene un romanzo, in quanto atto comunicativo, debba necessariamente avere un destinatario, “il narratore extradiegetico può anche simulare (…) di non rivolgersi a nessuno”[25]. E’ questa la maggiore specificità della narrativa di stream of consciousness.
Così come il pensiero, essendo interiore, non può avere alcun interlocutore se non la stessa persona che lo ha concepito, allo stesso modo, in un tipo di narrativa che vuole esserne fedele registrazione si esclude la presenza di un eventuale destinatario.
Per il proprio carattere di privatezza e d’intimità, l’enunciazione in cui si produce il movimento della coscienza non può essere diretta a nessun ascoltatore. I romanzi di stream of consciousness non mirano
teoricamente a nessun pubblico e persino a nessun lettore.

Espedienti tecnici
La resa narrativa di qualcosa di così sfuggente e difficilmente conoscibile come il movimento della coscienza, non fu certo di facile realizzazione.
Già in Pointed Roofs Richardson vi riusciva attraverso l’uso di espedienti tecnici che avrebbe poi sempre più affinato e che riguardavano: a) la struttura del romanzo; b) l’uso della punteggiatura; c) l’applicazione di artifici cinematografici.
a) Per rappresentare il flusso interiore della coscienza, Richardson aveva adottato un’inedita strutturazione dell’opera. All’interno dei capitoli spazi bianchi separavano sequenze narrative, per lo più brevi, marcando il passaggio dalla scena dialogata al monologare interiore del personaggio, o lo stacco fra i vari frammenti che venivano così accostati e composti in una successione irregolare dal punto di vista della cronologia temporale.
Nella definizione di Erina Siciliani, si trattava di “un’accumulazione paratattica di episodi, con sovrapposizioni e alternanze di frammenti di scene a brani che mettevano per iscritto ciò che non era mai
stato detto, il movimento della coscienza”[26].
b) Profondamente innovativo e funzionale ai suoi intenti espressivi è l’uso che la scrittrice fece della punteggiatura. La punteggiatura, o meglio, la mancanza ed assenza di questa in Pointed Roofs e nei successivi capitoli-volumi di Pilgrimage fu, inevitabilmente, oggetto di critica da parte di recensori inorriditi, che protestarono contro un simile sconvolgimento di regole e leggi consacrate per la comprensione del senso della frase, sostituite arbitrariamente da manciate di punti che spezzavano le frasi e le separavano l’una dall’altra.
Più nessuna guida, quindi, per il lettore abbandonato ad una prosa incomprensibile, priva di logica, di rigore e di accuratezza nella forma.
Richardson commentò i problemi che i suoi esperimenti nella punteggiatura potevano causare al lettore nella prefazione alla prima edizione collettanea di Pilgrimage, nel 1938: “The present writer groans, gently and resignedly, beneath the reiterated tip-tap accusing her of feminism, of failure to perceive the value of the distinctively masculine intelligence, of pre-war sentimentality, of post-war Freudianity. But when her work is danced upon for being unpunctuated and therefore unreadable, she is moved to cry aloud. For here is truth. Feminine prose, as Charles Dickens and James Joyce have delightfully shown themselves to be aware, should properly be unpunctuated, moving from point to point without formal obstructions”[27].
Oscillando fra un atteggiamento difensivo ed uno di scusa,
Richardson, fra le tante critiche mosse alla sua opera, ammette come fondata quella rivolta alla mancanza di punteggiatura e alla conseguente difficoltà di lettura. Ma ciò è, a suo dire, proprio della prosa femminile, una prosa che intende sfuggire a qualsiasi ostacolo formale.
Una più chiara ed estesa esposizione della sua opinione a riguardo la troviamo nel saggio About Punctuation, pubblicato per la prima volta nel 1924. In esso Richardson prendeva posizione contro le molteplici accuse che la critica le aveva rivolto; ad una scrittura in cui “…the machinery of punctuation and type, while lifting burdens from reader and writer alike and perfectly serving the purposes of current exchange, have also on the whole, devitalized the act of reading; have tended to make it less organic, more mechanical”[28], contrapponeva il fascino nascosto degli antichi manoscritti che insegnavano a leggere non solo con lo sguardo ma pure con la mente: “…to keep eye and brain at their task of scanning a text that moves along unbroken, save by an occasional full-stop”[29].
Richardson esorta, quindi, il lettore a prendere coscienza della bellezza della scrittura sacrificata ad una sistematica separazione delle frasi. Gli esempi di questo tipo in tempi moderni sono, a suo dire, ben pochi. Oltre al tentativo di H. G. Wells, crudamente osteggiato dalla critica, è nella prosa di Henry James che la scrittrice trova la più alta e significativa realizzazione.
Sulla scia del grande scrittore anglo-americano Richardson s’impegnava in questa particolare sperimentazione dell’uso della punteggiatura, in risposta all’esigenza di dare espressione all’incomunicabile:
la coscienza.
Si legga il seguente passo come esemplificazione del suo modo di procedere: “It was a fool’s errand….To undertake to go to the German school and teach…to be going there…with nothing to give. The moment would come when there would be a class sitting round a table waiting for her to speak. She imagined one of the rooms at the old school, full of scornful girls.…How was English taught? How did you begin? English grammar...in German? Her heart beat in her throat. She had never thought of that...the rules of English grammar? Parsing and analysis...Anglo-Saxson prefixes and suffixes...gerundial infinitive.…It was too late to look anything up. Perhaps there would be a class tomorrow….The German lessons at school had been dreadfully good….Fräulein’s grave face…her perfect knowledge of every rule…her clear explanations in English…her examples….All these things were there, in English grammar….And she had undertaken to teach them and could not even speak German. Monsieur…had talked French all the time…dictées…lectures…Le Conscrit…Waterloo...La Maison déserte…his careful voice reading on and on…until the room disappeard…She must do that for her German girls. Read English to them and make them happy….But first there must be verbs… there had been cahiers of them…first, second, third conjugation….It was impudence, an impudent invasion…the dreadful, clever, foreign school….They would laugh at her…She began to repeat the English alphabet….She doubted whether faced with a class, she could reach the end without a mistake….she reached Z and went on to the parts of the speech”[30].
La breve sequenza narrativa, separata attraverso l’uso di spazi
bianchi da ciò che precede e da ciò che segue, segna l’inizio della
meditazione notturna di Miriam, in viaggio verso Hannover da sola, in treno, fra gli altri viaggiatori addormentati.
I puntini di sospensione che spezzano le frasi o si frappongono fra un periodo e l’altro indicano dei vuoti nel pensiero cosciente della protagonista e, a secondo delle circostanze, possono segnalare il passare del tempo, il venir meno dell’attenzione o la pressione del pensiero inconscio. Esiste, quindi, una stretta connessione fra punteggiatura e coscienza, come spiega Jean Radford nel suo volume su Dorothy Richardson: “While the narrator is allowed to present only the consciousness of the protagonist, the text represent the unconscious forces working within and through that consciousness. The words on the page (the representation of consciousness) are supplemented by a range of tipographical devices: ellipses, italics, segmented passages, gaps spaces in the text. These devices represent the repressions and gaps in consciousness, or that which is left unsaid or is unsayable….And in the text there are actually printed silences to register the activities of the unconscious which neither speech nor writing can reach”[31].
3) Altra tecnica impiegata per raffigurare il movimento della coscienza è, come si è detto, quella che consiste nell’applicare all’arte
narrativa espedienti propri del mezzo cinematografico.
Col suo dinamismo, la sua immediatezza e la sua complessa
temporalità il romanzo della Richardson, narrativa in cerca di una forma estetica, trova la sua equivalenza nel film.
Ci muoviamo nel mondo di Miriam attraverso la sua coscienza, il cui funzionamento non è dissimile da quello di una telecamera pian piano messa a fuoco e poi ritirata al termine della vicenda.
Il comporsi delle immagini nel testo, che dà luogo al curioso incastro temporale del romanzo, si realizza attraverso espedienti tipici dell’arte del cinema. Flashbacks, primi piani, dissolvenze sono i mezzi con cui ordinare il flusso delle immagini, in una forma che si avvicina a quella del montaggio.
I flashbacks sono molto numerosi nel romanzo, ma l’episodio forse più notevole, per la nitidezza dell’immagine veicolata, è quello in cui la melodia suonata da Clara durante la sua esibizione al pianoforte riporta alla memoria di Miriam il ricordo della ruota di un mulino che aveva visto nel Devonshire e l’armonia dei rumori che questo produceva nel muoversi: “Miriam dropped her eyes- she seemed to have been listening long- that wonderful light was coming again- she had forgotten her sewing- when presently she saw, slowly circling, fading and clearing, first its edge, and then, for a moment the whole thing, dripping, dripping as it circled, a weed-grown mill-wheel….She recognized it instantly. She had seen it somewhere as a child- in Devonshire- and never thought of it since- and there it was. She heard the soft swish and drip of the water and the low humming of the wheel. How beautiful…it was fading….She held it- it returned- clearer this time and she could feel the cool breeze it made, and sniff the fresh earthy scent of it, the scent of the moss and the weeds shining and dripping on its huge rim. Her heart filled. She felt a little tremor in her throat. All at once she knew that if she went on listening to that humming wheel and feeling the freshness of the air, she would cry”[32].
La rievocazione di quel lontano momento passato, insieme alle sensazioni e percezioni ad esso connesse, avviene con un’intensità tale da
riportarlo in vita, quasi come se Miriam lo stesse vedendo e vivendo in quel momento.
Un’altra sequenza estremamente significativa è quella in cui, all’ora del tè, Miriam approfitta del fatto che tutte le ragazze siano riunite insieme per osservarle una alla volta. Il suo sguardo si sofferma ora sull’una ora sull’altra, in una serie di primi piani attraverso i quali Richardson riesce ad offrirci una dettagliata panoramica dei diversi personaggi, pur senza distaccarsi dalla prospettiva della protagonista.[33]
Ricordiamo, inoltre, la scena finale in cui Miriam dal finestrino del treno in partenza guarda allontanarsi la stazione di Hannover. Lo
sguardo di Miriam, ferma in un paesaggio mobile, anticipa l’occhio della telecamera.
Esiste, quindi, una stretta connessione fra la prosa richardsoniana e la nuova arte cinematografica, come lettori e recensori non mancarono di rilevare. Seppure Pilgrimage non fu mai trasposto su celluloide, infatti, nel 1922 veniva descritto da Middleton Murry, in termini spregiativi, come “…an endless film (…) as tiring as a twenty-four-hour cinematograph without interval or plot”[34]; nel 1931 Bryher ne parlava,
invece, come del ‘vero film inglese che molti stavano aspettando’[35].
Il carattere peculiarmente filmico dell’opera di Dorothy Richardson nasce dal grande interesse che la scrittrice nutrì per il cinema, che definì come la ‘forma d’arte del futuro’.
Osserva Paul Tiessen: “Richardson’s stylistic innovation in her novel Pilgrimage, was deliberate; it was, moreover, inextricably related to (…) her experience of the movies, expecially the silents. (…) Richardson found in the silent film a stimulating narrative form that existed outside the realm of verbal discourse, (…). The silent film (…) was a spirit, free of
containment by spoken or written language”[36]
Assidua frequentatrice di cinematografi, a partire dal 1927 Dorothy Richardson iniziò a collaborare con Close up, prima rivista dedicata al cinema come arte, edita da W. Bryher, in cui comparve una serie di 21 saggi intitolata Continuous Performance. In essi la scrittrice si volgeva al mezzo cinematografico entusiasticamente e con alte speranze, fornendo
ampio materiale per il successivo dibattito circa il legame fra letteratura modernista e cinema. Anche in quest’ambito, comunque, il contributo apportato dalla scrittrice rimane ingiustamente nell’ombra. Come Tiessen sottolinea: “James Joyce, saying little about film, is routinely cited where there are discussions about 1920s literature and film; Dorothy Richardson, explicitly offering much and over a period of many years, is routinely ignored”[37]

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[1] G. Genette in A. Marchese, op. cit., p. 157.
[2] Ivi, p. 168.

[3] G. Genette, op. cit., p. 220.
[4] K. Bluemel, op. cit., p.4.
[5] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 15. (“Miriam lasciò la sala illuminata da lampade a gas e salì lentamente le scale. Il crepuscolo di marzo si stendeva per i pianerottoli, ma la scala era quasi al buio. Il pianerottolo su in cima era completamente buio e silenzioso. Non c’era nessuno in giro. Ci sarebbe stato silenzio nella sua stanza. Avrebbe potuto sedere vicino al fuoco, starsene tranquilla e riflettere fino al ritorno di Eve e Harriett con i pacchi. Avrebbe avuto il tempo di pensare a ciò che avrebbe detto alla Fräulein”).
[6] K. Bluemel, op. cit., p. 4. (“Tutto ciò che sappiamo è che qualcuno di nome Miriam è al centro del nostro mondo narrativo, che è cosciente di luce ed ombra e di ciò che immediatamente la circonda fisicamente e che ha a che fare con persone che sono in qualche modo legate ad un viaggio”).

7 Ivi, p. 37. (“In Pilgrimage la finzione è così completa che non ha senso parlare di un ‘narratore’; c’è solo la voce del personaggio”).
8D.Richardson, The Trap, Londra, 1938, Virago Press, p. 407. (“Aveva realizzato il primo modo pienamente soddisfacente di scrivere un romanzo”).

[9] Lettera di D. Richardson a Henry Savage, 25 Agosto 1948, in G.G. Fromm, Windows on Modernism, cit. p. 588. ( “Il suo stile, affascinante per me al primo incontro può solo essere, molto banalmente, descritto come un dimenarsi senza fine della parte posteriore mentre lui distribuisce, su un vassoio, frase dopo frase, che sì, se le parole non avessero significato eserciterebbero il loro fascino. E allora? Ci si sente, quando si raggiunge la fine del dramma, in uno scatola risonante, dove non splendono stelle e non cantano uccelli”).

[10] K. Bluemel, op. cit., pp. 4-5. (“Un ‘io’ autorevole che emerge a metà paragrafo per spiegare le preoccupazioni del protagonista. Questo ‘io’ s’incontra raramente da lì in poi, ma la sua volontà di rivelare se stesso all’inizio è uno dei fattori che separano gli esperimenti narrativi di James rispetto a quelli di Richardson”).

11 G. G. Fromm, op. cit., pp. 66-67. (“Combinò la lezione di Henry James con quella della vita dei quaccheri: una narrazione impersonale, come la ‘scoperta di sé’, poteva essere allo stesso tempo altamente personale; poteva avere sia un’esistenza oggettiva sia un’identità soggettiva”).
12 G. Genette, op. cit., p. 209.

13 N. Friedman, Point of view in Fiction, in “PMLA”, 1955, cit. in G. Genette, op. cit., p.215.
14 G. Debenedetti, op. cit., p. 607.

[15] R. Humphrey, op. cit., p. 35. (“La distinzione è implicita nelle definizioni delle due tecniche, specialmente in quella parte della definizione del monologo interiore indiretto in cui si afferma che ‘un autore onnisciente presenta materiale non espresso direttamente dalla psiche’. E’ questa la fondamentale differenza fra le due tecniche ed è una differenza che le

separa ampiamente e che cambia i loro possibili rispettivi effetti, strutture ed ambiti”).

[16] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., pp. 43-44. (“Seguì Clara Bergman. Miriam la guardò prendere posto al pianoforte –come pareva tozza e corpulenta e vecchia, consumata dalle preoccupazioni come una donna di quarant’anni. Aveva spalle e fianchi alti e tarchiati –la fronte era bassa e la faccia sottile, larga e piatta. I suoi occhi erano come quelli di un cane e la bocca dalle labbra sottili era lunga e dritta fino agli angoli in cui andava giù piano. Portava una larga frangetta come quella di Harriett e una crocchia le riempiva la nuca. Suonava senza spartito col volto arditamente sollevato. Le note risuonarono in un preludio di frasi infinite –del tipo, notò Miriam, che aveva tanto dato fastidio a suo padre, in ciò che chiamava new fangled music –sentiva che sarebbe stato un pezzo brillante –fuochi d’artificio –esecuzione –stile –e si sollevò timidamente e fissò gli occhi sulle mani di Clara. ‘Riesci a vedere le mani?’ si ricordò di aver sentito qualcuno dire ad un concerto. Con che facilità si muovevano. Clara sedeva ancora, col viso sollevato alla luce. Le note risuonavano come squilli di tromba mentre le sue mani si abbandonavano con facile slancio e scattavano all’indietro per poi abbandonarsi di nuovo. Che polsi sciolti deve avere, pensò Miriam”).
[17] R. Humphrey, op. cit., p. 34.
[18] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 169. ( “Miriam chiuse di nuovo gli occhi. Lutero…che affiggeva quella nota sulla porta di una chiesa…. (Perché Lutero è come un merlo dispeptico? Perché la Dieta di Worms non era stata d’accordo con lui.) …e poi la lasciava sulla porta della chiesa e andava a casa per il tè…il caffè…il pasto della sera…käthe… käthe…felice käthe…. Affissero la nota su una chiesa Cattolica Romana…e tutti i preti li guardavano…e dietro i preti c’erano torture e posti bui…Lutero che guardava in alto verso Dio…e diceva che non si può sfuggire ai propri peccati pagando soldi…s’imponeva nel mondo e käthe preparava il pasto in casa…Lutero era grasso e tedesco. Forse il suo volto sudava…Eine feste Burg; una salda fortezza…una torre rotonda fatta di vecchi mattoni marrone e senza finestre….Non c’era bisogno che käthe sorridesse….era stata una suora…e poi era finita a preparare un pasto alla luce di un lume per Lutero in una casa tedesca di legno…e Roma aspettava di ucciderli”).

[19] M. Bachtin, Estetica e romanzo (1975), Torino, 1979, Einaudi, p.112.
[20] Ibidem.

[21] A. Marchese, op. cit., p.168.
[22] S. Chatman, op. cit., p.212, cit. in A. Marchese, p. 171.

[23] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 130. (“Pastor Lahmann le aveva fatto dimenticare di essere un’istitutrice. L’aveva trattata come una ragazza. Gli occhi della Fräulein avevano rovinato tutto. La Fräulein era in collera per questo, per qualche straordinaria ragione”).

24 Ivi, p. 79. (“Durante quei primi giorni Miriam si rese conto che la routine scolastica così come lei la conosceva – i giorni programmati – l’irregolare, invariabile successione di lezioni e studio non aveva luogo in questo nuovo mondo”).

25 G. Genette, op. cit., p. 308.
[26] Erina Siciliani, op. cit., p.21.
[27] D. Richardson, Foreword, p. 12. (“La scrittrice in oggetto si lamenta, in modo gentile e rassegnato del reiterato tip- tap che l’accusa di femminismo, di incapacità nel percepire il valore dell’intelligenza prettamente maschile, della sentimentalità anteguerra e della tendenza a seguire Freud post-guerra. Ma quando le danze si scatenano sulla sua opera perché priva di punteggiatura e quindi illeggibile, ella è mossa a piangere forte. Perché questa è la verità. La prosa femminile, come Charles Dickens e James Joyce hanno deliziosamente mostrato di essere consapevoli, dovrebbe essere propriamente priva di punteggiatura, muovendosi da un punto all’altro senza ostacoli formali”).

[28] D. Richardson, About Punctuation, cit. in E. Siciliani, op. cit., p. 142. (“…il marchingegno della punteggiatura e dei caratteri tipografici, seppure sollevino di un peso sia lo scrittore che il lettore e servano perfettamente allo scopo dello scambio d’uso corrente, ha anche, nell’insieme, devitalizzato l’atto della lettura; tendendo a renderlo meno organico, più meccanico”).
[29] Ivi, p. 141. (“…mantenere l’occhio e il cervello fissi al loro scopo di esaminare un testo che scorre ininterrotto, ad eccezione di qualche punto occasionale”).

[30] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p.29. (“Era stata una follia….Impegnarsi ad andare alla scuola tedesca ed insegnare…andare lì…con niente da dare. Sarebbe arrivato il momento in cui ci sarebbe stata una classe seduta intorno ad una tavola ad aspettare che lei parlasse. Immaginò una delle stanze nella vecchia scuola, piena di ragazze sdegnose. Come veniva insegnato l’inglese? Da dove cominciare? La grammatica inglese…in tedesco? Il cuore le batté in gola. Non aveva mai pensato a questo….Le regole della grammatica inglese? Analisi…prefissi e suffissi anglosassoni…gerundio infinito….Era troppo tardi per rivedere qualsiasi cosa. Forse ci sarebbe stata una classe domani….Le lezioni di tedesco a scuola erano state terribilmente buone…il volto grave della Fräulein…la sua perfetta conoscenza di ogni regola…le sue chiare spiegazioni in inglese…i suoi esempi….Tutte queste cose erano lì nella grammatica inglese….E lei si era impegnata ad insegnarle e non sapeva neppure parlare in tedesco. Monsieur aveva parlato in francese per tutto il tempo…dictées…lectures…Le Conscrit…Waterloo…La Maison Déserte…la sua voce attenta che leggeva e leggeva…finché la stanza scompariva…doveva fare questo per le sue ragazze tedesche. Leggere loro in inglese e farle felici….Ma prima dovevano esserci i verbi…c’erano stati cahiers di verbi…prima, seconda, terza coniugazione….Era un’impudenza, un’impudente invasione…la spaventosa, brava scuola straniera….Le avrebbero riso in faccia….Cominciò a ripetere l’alfabeto inglese…Dubitava che davanti alla classe, avrebbe potuto raggiungere la fine senza neanche un errore….Raggiunse la Z ed, andò avanti alle parti del discorso”).

[31] Radford Jean, Dorothy Richardson, Bloomington, Indiana University Press, 1991, pp. 69-71. (“Mentre il narratore può presentare soltanto la coscienza della protagonista, il testo rappresenta le forze inconsce che operano all’interno e attraverso quella coscienza. Le parole sulla pagina (la rappresentazione della coscienza) sono integrate da una gamma di espedienti tipografici: ellissi, corsivo, passi segmentati, vuoti e spazi nel testo. Questi espedienti rappresentano le repressioni e i vuoti nella coscienza, o ciò che rimane non detto o è indicibile...E nel testo in realtà sono stampati silenzi per registrare l’attività dell'inconscio che né il discorso né la scrittura possono raggiungere”).
[32] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p.44. (“Miriam chiuse gli occhi- sembrava aver ascoltato a lungo- quella meravigliosa luce stava venendo di nuovo- aveva dimenticato il suo lavoro di cucito- quando subito vide girare lentamente, svanire e poi divenire chiaro, prima il bordo, e poi per un momento l’oggetto intero, grondante, grondante mentre girava, la ruota di un mulino pieno di erbacce….Lo riconobbe all’istante. Lo aveva visto da qualche parte da bambina- nel Devonshire- e non vi aveva più pensato da allora- ed eccolo lì. Sentiva il dolce fruscio e il gocciolare dell’acqua e il mormorio basso della ruota. Com’era bello….stava svanendo….Lo trattenne- ritornò- più chiaro questa volta e poteva sentire il venticello freddo che produceva, e odorare il suo fresco profumo di terra, odore di muschio ed erbacce luccicanti e gocciolanti dal suo vasto bordo. Il suo cuore si riempì. Sentì un piccolo tremore nella gola. Si accorse all’improvviso che se avesse continuato ad ascoltare il mormorio della ruota e a sentire la freschezza dell’aria, si sarebbe messa a piangere”).

[33] Ivi, p. 38-39.
[34] M. Murry, cit. in P. Tiessen, Einstein, Joyce, and the Gender Politics of English Literary Modernism, in “Kinema”, 1, Primavera 1993. (“…un interminabile film (…) stancante quanto 24 ore di cinecamera senza intervalli o trama”).

[35] C. Watts, op. cit., p. 58.
[36] P. Tiessen, op. cit. (“L’innovazione stilistica di Richardson nel suo romanzo, Pilgrimage, era intenzionale; essa era, inoltre, inestricabilmente legata (…) alla sua esperienza dei film, specialmente i muti (…). Richardson trovò nel film muto una stimolante forma narrativa che esisteva al di fuori del regno del discorso verbale, (…). Il film muto (…) era come uno spirito, libero dalle costrizioni del linguaggio parlato o scritto”).

[37] Ibidem. (“James Joyce, pur avendo detto poco sul film, è citato di routine laddove ci sono discussioni su letteratura e film negli anni ‘20; Dorothy Richardson, che esplicitamente offrì di più e per un periodo di molti anni, è di routine ignorata”).
4. I personaggi
Il personaggio nella narrativa di stream of consciousness: Miriam
Come scrive Bremond: “se gli eventi non sono prodotti da agenti né subiti da pazienti antropomorfi, non può darsi racconto, poiché è solo in rapporto ad un progetto umano che gli eventi prendono senso e si organizzano in una serie temporale strutturata”[1].
La figura del personaggio è, quindi, fondamentale per la costruzione dell’opera narrativa.
Nei racconti d’azione o d’avventura è l’intrecciarsi degli eventi ad assumere un interesse prioritario e il personaggio si riduce a semplice “agente”, subordinato alla funzionalità della trama.
Non così accade nei romanzi di stream of consciousness in cui, come osserva Humprey: “Writer is not usually concerned with plot of action in the ordinary sense; he is concerned with psychic processes and not physical actions”[2].
In questi romanzi, dunque, è il personaggio che funge da punto
focale della storia, composta non dalle sue azioni o dalle circostanze in cui si trova coinvolto, ma dalle sue percezioni, dai suoi pensieri e ricordi, ripercussioni interiori del suo esterno operare.
Per usare le parole di Bourneuf e Ouellet: il nuovo romanzo “non è più la scrittura di un’avventura” ed in esso “il personaggio si riduce il più delle volte ad una pura coscienza”[3]
Nel romanzo di tipo tradizionale è il narratore extradiegetico a presentare il personaggio, la cui entrata in scena viene di norma accompagnata da una dettagliata descrizione circa la fisionomia, l’età, lo status familiare e sociale, nonché gli attributi morali, psicologici, caratteriali e ideologici.
Si tratta di una presentazione dall’esterno, attraverso la quale il personaggio viene identificato preliminarmente ed etichettato in base al ruolo da lui svolto nella vicenda narrativa.
Un simile procedimento non può trovare applicazione nei romanzi di stream of consciousness, in cui ad essere privilegiata è la dimensione interiore del personaggio, per la rappresentazione della quale davvero poco utile risulta essere il quadro dei particolari biografici e fisici o il resoconto degli eventi più importanti della sua vita, che potrebbero essere forniti da un testimone esterno. Ciò che conta non è la verità dei fatti ma la verità morale racchiusa all’interno del personaggio e pertanto conoscibile solo da lui.
Nella narrativa del flusso di coscienza non troviamo, dunque, nessuna descrizione o presentazione del personaggio, il quale è invece colto nel pieno svolgersi della sua vita mentale, dall’interno della sua coscienza.
Se si esclude la mediazione di un narratore extradiegetico, d’altra parte non è nemmeno il personaggio che volontariamente e consapevolmente si autoanalizza e rende per noi visibile la sua interiorità: si tratta di una pura registrazione di ciò che accade nella mente del protagonista, tramite la quale il lettore va raccogliendo i dati necessari per ricostruirne la personalità.
Così in Pointed Roofs, adottando un tipo di racconto a focalizzazione interna, Richardson lascia che sia lo stesso personaggio a
rivelare se stesso, disseminando lungo la narrazione gl’informanti fisici,
psicologici e d’altro genere che lo riguardano.
Di Miriam, al suo ingresso in scena all’inizio del romanzo, non conosciamo altro che il nome (il cognome si saprà solo a pagina 48 del III capitolo). Di lei non si avrà mai una descrizione fisica precisa, solo seguendone la storia il lettore riuscirà alfine ad intravederne vagamente la fisionomia. Soltanto nel IV capitolo scopriamo, infatti, che ella non ha ancora compiuto diciott’anni e che non avendo una buona vista porta il pince-nez: “She Knew her pince-nez disguised her and none of these girls knew she was only seventeen and a half”[4]. Dovremo poi attendere addirittura fino a pagina 151 per sapere il colore dei suoi capelli e della sua carnagione: “Mother would like me this morning. I am German-looking today, pinky red, and yellow hair”[5].
Poco per volta acquisiamo, invece, una sempre maggiore conoscenza dei processi interiori della protagonista e prendiamo familiarità con i meccanismi della sua psiche.
Dalle più banali e quotidiane circostanze della sua vita, la
mente della giovane trae occasione per percorrere e ripercorrere se stessa, gettando luce ogni volta su un aspetto diverso. In tal modo Miriam si scopre e si conosce sempre più profondamente, s’impegna a migliorarsi e fortificarsi nel cammino difficile della sua crescita; e il lettore, che la segue in questo suo percorso, raccoglie gli indizi che si trovano sparsi e che si radunano a formare il quadro completo della sua personalità.
Così in procinto di partire per la Germania i pensieri della giovane rivelano la scarsa fiducia in se stessa, l’ansia e l’insicurezza che la tormentano con passeggeri attacchi di paranoia: “She had dreamed that she had been standing in a room in the German school and the staff was crowded round her, looking at her. They had dreadful eyes (…) they came and stood and looked at her, and saw her as she was, without courage, without funds or good clothes or beauty, without charm or interest, without even the skill to play a part. They looked at her with loathing”[6]. Miriam si sente, dunque, inerme, brutta e avverte il peso della sua condizione d’inferiorità dal punto di vista economico.
In una conversazione con la sorella Harriett ella si definisce insignificante[7] e sul treno per Hannover pensa a quanto è stata avventata ad accettare l’impegno d’insegnare inglese nella scuola tedesca, nonostante la
sua incompetenza: “It was a fool’s errand….To undertake to go to the
German school and teach…to be going there…with nothing to give”[8].
In molte occasioni Miriam avverte, poi, la sua diversità dagli
altri e la sua tendenza ad isolarsi e ad estraniarsi, per l’incapacità di
adattarsi, o per timidezza e timore di non essere accettata.
Si legga ad esemplificazione il passo seguente: “I’m unsociable, I suppose – she mused. She could not think of anyone who did not offend her. I don’t like men and I loathe women. I am a misanthrope. So’s pater. He despises women and can’t get on with men. We are different”[9].
La sua difficoltà nel rapportarsi con gli altri è pure evidente durante le passeggiate con le ragazze del collegio, con le quali Miriam non riesce ad intavolare alcuna discussione: “Miriam was beginning to know that she did not want to talk to her girls. (…) Elsa Spier had been the worst. (…) She remembered trying hard to talk, and making no impression upon the girl. (…) All her efforts and their efforts left them just as
pitiful”[10].
Questa goffaggine è dovuta alla sua timidezza, come la stessa Miriam poco dopo ammette a se stessa: “…if only she were not shy, if she had a different manner, she would find out”[11].
Senza uscire dall’ottica della protagonista, apprendiamo con lei il modo in cui viene giudicata dagli altri tramite i dialoghi.
Conversando con Miriam, il giorno prima della sua partenza, Eve la definisce risoluta e forte[12] e Harriett le svela quello che lei e gli altri membri della sua famiglia pensano circa il suo aspetto fisico: “Granny said you’ll be a bonny woman, and Sarah thinks you’ve got the best shape face and best complexion of any of us, and cook was simply crying her eyes out last night and said you were the light of the house with your happy pretty face, and mother said you’re much too attractive to go about alone, and that’s partly why pater’s going with you to Hanover, silly….You’re not plain”[13].
Al collegio tutti notano il suo comportamento serio e composto. “Miss Henderson is always a little earnest”[14], osserva Fräulein Pfaff al termine di una seduta di lettura e, nel proporle un lavoro nella sua casa come sua istitutrice, Minna la definisce diversa dagli altri e più ragionevole[15].
Al termine della permanenza al collegio, ancora Fräulein Pfaff la loda per la sua rettitudine e serietà, ma le rimprovera un distacco e una freddezza eccessiva, che non giovano al lavoro dell’insegnante: “To truly fulfil the most serious role of the teacher you must enter into the personality of each pupil and must symphatize with the struggles of each one upon the path on which our feet are set. (…) The teacher shall be sunshine, human sunshine, encouraging all effort and all lovely things in the personality of the pupil”[16]. La timidezza di Miriam è stata scambiata per distacco ed aggressività.
La personalità di Miriam, dunque, oltre a svelarsi attraverso i suoi pensieri, viene fuori anche dal fascio di relazioni che ella istituisce con gli altri personaggi del racconto.
Come afferma Marchese: il personaggio del romanzo è una fitta rete di rapporti, “…non è mai un pianeta isolato ma vive in un sistema astronomico complesso da cui (…) riceve luce, radiazioni, magnetismi”[17].
La figura di Miriam domina in tutto il romanzo riempiendolo di sé, ma il cammino intrapreso dalla giovane non può svolgersi se non attraverso il confronto con le altre persone: esso prevede il passaggio dentro e attraverso l’altro per divenire se stessa.
Il sistema dei personaggi in Pointed Roofs.
Nel suo studio su Pilgrimage, Thomson dedica un intero capitolo a chiarire l’identità dei diversi personaggi che compaiono all’interno dell’opera e ne individua addirittura 608 (se si escludono, dice, quelli che vengono solamente nominati)[18].
Si tratta di figure spesso indistinte e poco definite, che scompaiono e riappaiono inspiegabilmente dopo tanto tempo, proprio come
le persone che noi stessi incontriamo nella vita reale. L’effetto è quello di una caratterizzazione poco approfondita. Per usare le parole di Rosenberg:
“People are, in Miriam’s life and in the world of this novel, ultimately not too satisfactory. It is a novel much taken up with seeming failure in relationships; beginning with Miriam’s guilt over her parents; her own youthful awkwardness as a person; and her sense of the clutter of most relationships, since people, like thinking, tend to block one’s vision and one’s sense of reality”[19].
I personaggi vengono colti attraverso la prospettiva e la voce della protagonista. L’adozione dell’ottica di Miriam pone in un rapporto inversamente proporzionale le strategie di rappresentazione del personaggio centrale e di quelli minori: calati nella coscienza della giovane, abbiamo poche notizie circa il suo aspetto fisico ed un quadro invece più preciso della sua vita interiore; degli altri personaggi abbiamo una profusione di dettagli esteriori, ma la loro intima realtà rimane, per noi come per Miriam, un mistero.
Dei personaggi che popolano l’universo narrativo richardsoniano non ci viene, quindi, data una presentazione oggettiva, ma l’immagine che Miriam ne percepisce, dipendente in larga misura dalla sua visione del mondo.
Proiettando all’esterno la divisione che è all’interno della sua personalità, fra il ruolo di donna e le esigenze intellettuali e d’indipendenza che più l’avvicinano alla realtà degli uomini, Miriam distingue in maschili e femminili quelle che dall’interno della sua coscienza vengono avvertite come le voci del mondo esterno. Entro questi due ambiti ella cerca una sua difficile collocazione.
In base a tale visione tenteremo, nel romanzo in esame, una classificazione dei personaggi attraverso lo schema seguente:
DONNE
famiglia
mondo esterno
Madre di Miriam
Sorelle di Miriam
Fräulein
Pfaff
Allieve del collegio
UOMINI
Padre di Miriam
Pastor Lahmann
All’interno del nucleo familiare, la madre è per Miriam il primo e toccante esempio di come la sensibilità femminile soffochi, costretta a soggiacere al pragmatismo maschile. In Pointed Roofs ella non compare mai direttamente, sebbene la sua immagine sia più volte rievocata da Miriam nei suoi pensieri.
Sappiamo di lei, all’inizio del romanzo, che è angosciata dalle difficoltà economiche della famiglia e che fa parte assieme alle sorelle di Miriam della schiera di donne sottomesse che dimostrano, con irritanti sorrisi, la loro remissività: “She loathed women. They always smiled. All the teacher had at school, all the girls but Lilla. Eve did…maddeningly
sometimes…mother…it was the only funny horrid thing about her. Harriett didn’t…Harriett laughed”[20].
Sul treno per Hannover Miriam immagina la madre allegra e sorridente nei primi, felici giorni del suo matrimonio[21], mentre nelle ultime pagine del romanzo si rifiuta di rispondere alla Fräulein che le aveva chiesto
di parlarle di lei: “I can’t talk about her. (…)She’s such a little thing, said
Miriam, smaller than any of us”[22].
Il ritratto che emerge di Mrs Henderson è quello di una donna fragile e sensibile, inizialmente appassionata e allegra, che andrà pian piano
spegnendosi oppressa dall’incomprensione del marito e dalla scarsa considerazione in cui questi la tiene. Infelice e privata della fiducia in se stessa, ella finirà per impazzire e togliersi la vita.
Delle sorelle Harriett, la minore, quella a cui Miriam è più legata, è la più spontanea, vivace ed indocile. Ella compare subito, nel primo paragrafo di Pointed Roofs, in cui la sua spensieratezza contrasta con le preoccupazioni di Miriam per i problemi economici del padre e per l’imminente partenza. Ella sembra magicamente al di fuori dei problemi di cui l’età adulta costringe, invece, Miriam a rendersi conto. Ma, ancora più importante, Harriett è diversa e dagli uomini e dalle donne che si sforzano di compiacerli: ride anziché sorridere. Miriam è in gran sintonia con lei, come si vede nel brano che descrive il Gran Cerimoniale, saluto mattutino che le due sorelle si scambiavano sin da bambine sporgendosi a testa in giù ognuna dalla propria parte del letto in cui dormivano entrambe. Con Miriam,
vediamo comparire capovolto, da sotto il letto, il viso della sorella: “It was flushed in the midst of the wiry hair which stuck out all round it but did not reach the floor”[23]. In quel momento, assieme ad Harriett, sembra a Miriam che il mondo adulto con i suoi problemi sia del tutto svanito.
Anche la giovane Harriett finirà, comunque, per conformarsi alle regole e accetterà un ruolo prefissato, sposando un uomo ricco e conducendo una vita agiata assieme a lui.
Eve è, invece, la più razionale delle sorelle ed è una presenza confortante per Miriam che spesso cerca il suo sostegno. Coi suoi consigli ella cerca di stemperare l’animosità della sorella contro le convenzioni di un mondo al quale quest’ultima non sa adattarsi e la spinge ad essere più accomodante. Si legga il passo seguente in cui Miriam intrattiene con lei una conversazione immaginaria: “ ‘I didn’t tell you about the little one and her sister – they asked me to go to them for the holidays. The youngest said – it was so absurd – “you shall marry my bruzzer – he is mairchant – very welty” – absurd’. ‘Not absurd – you probably would have, away from that school’. ‘D’you think so?’ ‘Yes you would have been a regular
German, fat and jolly and laughing’. ‘I know. My dear, I thought about it. You may imagine. I wonder if I ought’. ‘Why didn’t you try?’ Why not? Why was she not going to try? Eve would, she was sure, in her place….”[24].
Assai meno presente è Sarah, la sorella maggiore, di cui sappiamo solo che è rigida, intransigente e religiosissima. Così conforme
alle convenzioni della società, ella è la più distante dalla sensibilità di Miriam, che, in viaggio per Hannover, vede in lei l’immagine del vecchio mondo dal quale sta distaccandosi: “How still Sarah had seemed to sit, fixed in the old life”[25].
A queste voci femminili fa da controparte, all’interno del ristretto ambito familiare, la figura paterna.
Miriam, pur essendo legata al padre, che ammira per la sua cultura e per il disprezzo della mediocrità, detesta i suoi tratti “maschili”: la superbia con cui ostenta la sua superiorità intellettuale e l’atteggiamento distaccato e condiscendente nei confronti della moglie e delle donne in genere, a suo giudizio meno dotate e capaci degli uomini.
Il medesimo comportamento Miriam lo riscontra, nel mondo esterno, in Pastor Lahmann, un insegnante del collegio. Durante una sua lezione, la giovane rimane indignata dallo scarso impegno – che nasconde disprezzo – con cui egli si accinge ad impartire i suoi insegnamenti alle giovani allieve: “Why did he read with that half – smile? She felt sure that he felt they were ‘young ladies’, ‘demoiselles’, ‘jeunes filles’. She wanted to tell him she was nothing of the kind and show him how to read”[26].
Qualche tempo dopo Miriam, che si trova ad essere oggetto delle attenzioni dell’uomo, è dapprima lusingata ma poi infuriata per le affermazioni di Lahmann, che la definisce ambiziosa solo per aver espresso una sua opinione politica e le prospetta un avvenire fatto di modestia ed aspirazioni limitate: ‘A little land, well – tilled, A little wife, well – willed,
are great riches’[27].
La direttrice del collegio, Lily Pfaff, è una donna di mezza età
dal temperamento estremamente volubile: ora affettuosa, ora irascibile e collerica. Preoccupata soprattutto di formare delle perfette padrone di casa, dalle maniere raffinate ed eleganti, capaci di cantare, suonare, conversare in più lingue, ella si cura poco dell’istruzione delle allieve: le lezioni si succedono irregolarmente, senza un orario prestabilito, le ragazze non hanno testi su cui studiare e tutto ciò che apprendono si limita, dunque, a quello che rimane loro impresso durante le spiegazioni.
Con i suoi pregiudizi e il suo attaccamento alle formalità, ella è all’opposto di Miriam, la quale rabbrividisce quando nel salutarla, sulla piattaforma della stazione di Hannover, l’ascolta affermare: “You and I have, I think, much in common”[28].
Le allieve del collegio, fra le quali spiccano Ulrica Hesse, Emma Bergmann e Minna Blum sono piccole donne il cui destino Miriam vede come già determinato da un’educazione volta a formare solo mogli felici e soddisfatte. La giovane protagonista non riesce a condividere le loro aspirazioni e le loro prospettive di vita che a lei sarebbero insopportabili.
Attraverso il confronto fra le due realtà che la circondano –
quella maschile e quella femminile – Miriam comprende di non potere appartenere a nessuna di loro. Se prima del suo viaggio a Hannover sognava di sposare un insegnante tedesco, una volta tornata a casa ella comincia a capire che il suo destino non potrà mai essere quello. Posta davanti al suo futuro, la giovane ha scoperto in sé la determinazione a non accettare legami che costituirebbero una minaccia per la sua autenticità interiore. Inizia a prospettarsi davanti a lei un cammino di solitudine.
[1] C. Bremond, cit. in A. Marchese, op. cit., p. 186.
2 R. Humphrey, op. cit., p. 86. (“Lo scrittore di solito non ha a che fare con una trama d’azione nel senso comune; egli ha a che fare con processi psichici e non con azioni fisiche”)
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[3] R. Bourneuf e R. Ouellet, op. cit., p. 197.
[4] D. Richardson, Pointed Roofs, cit., p. 55. (“Sapeva che il pince-nez la camuffava e nessuna di queste ragazze sapeva che aveva soltanto diciassette anni e mezzo”).
[5] Ivi, p. 151. (“Piacerei a mamma oggi. Ho l’aspetto di una tedesca, rosso-rosa, e i capelli biondi”).
[6] Ivi, p. 21. (“Aveva sognato di trovarsi in una stanza della scuola tedesca e tutto il corpo docente era affollato intorno a lei, intento a guardarla. Avevano occhi spaventosi (…) venivano e stavano lì e la guardavano, e la vedevano così com’era, senza coraggio, senza ricchezze o bei vestiti o bellezza, senza fascino o interesse, senza nemmeno l’abilità di recitare una parte. La guardavano con disgusto”).
7 Ivi, p. 23.
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[8] Ivi, p. 29. (“Era stata una follia….Impegnarsi ad andare alla scuola tedesca ed insegnare…andare lì… con niente da dare”).
[9] Ivi, p. 31. (“Sono asociale, suppongo – rifletté. Non riusciva a pensare a nessuno che non la disturbasse. Non mi piacciono gli uomini e detesto le donne. Sono una misantropa. Così è pure papà. Disprezza le donne e non riesce ad andare d’accordo con gli uomini. Siamo diversi)”.
[10] Ivi, p. 92-93. (Miriam cominciava a capire che lei non voleva parlare con le sue ragazze. (…) Elsa Spier era stata la peggiore (…) Ricordò di aver faticosamente tentato di parlare senza suscitare nella ragazza la minima impressione. (…) Tutti i suoi sforzi e i loro sforzi erano pietosi”).
[11] Ivi, p. 95. (“…se solo non fosse stata timida, se avesse avuto maniere differenti, avrebbe trovato il modo”).
12 Ivi, p. 19-20.
13 Ivi, p. 23-24. (“La nonna diceva che saresti diventata una donna graziosa, e Sarah pensa che
_ftnref12tu abbia il migliore ovale e la migliore carnagione fra tutte noi e la cuoca la notte scorsa ha
_ftnref13pianto tutte le sue lacrime e ha detto che tu eri la luce della casa con il tuo grazioso viso allegro, e la mamma ha detto che sei troppo attraente per andartene in giro da sola, ed in parte questo è il motivo per cui papà verrà con te a Hannover, sciocca….Non sei insignificante”):
[14] Ivi, p. 100. (“La signorina Henderson è sempre un po’ seria”).
[15] Ivi, p. 125.
[16] Ivi, p. 160. (“Per compiere veramente il serissimo ruolo dell’insegnante bisogna entrare nella personalità di ogni allievo e mostrare comprensione per le difficoltà di tutti coloro che incontriamo nel nostro cammino. (…) L’insegnante dev’essere la luce del sole, l’umana luce del sole, che incoraggia tutti gli sforzi e le positive inclinazioni nella personalità dell’allievo”).
[17] A. Marchese, op. cit., p. 206.
[18] G. Thomson, op. cit., p. 91.
_ftnref1919 J. Rosenberg, op. cit., p. 163. (“Le persone sono, nella vita di Miriam e nel mondo di questo romanzo, in definitiva non troppo soddisfacenti. E’ un romanzo per lo più costruito sull’apparente fallimento delle relazioni; a cominciare dal senso di colpa di Miriam nei confronti dei suoi genitori; la sua giovanile goffaggine come persona; l’avvertire come un ingombro la maggior parte dei legami, dato che le persone, come i pensieri, sono d’ostacolo alla visione e al senso individuali della realtà”).
[20] Ivi, pp. 21-22. (“Disprezzava le donne. Sorridevano sempre. Tutte le insegnanti a scuola l’avevano fatto, tutte le ragazze tranne Lilla. Eve lo faceva…in maniera esasperante a volte…sua madre…era l’unica cosa strana e spiacevole in lei. Harriett non lo faceva…Harriett rideva”).
21 Ivi, p. 32.
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[22] Ivi, p. 184. (“Non posso parlare di lei. (…)E’ così piccola, disse Miriam, più piccola di una qualsiasi di noi”).
[23]Ivi, p. 22. (“Era rosso in mezzo ai capelli ispidi che sporgevano tutt’intorno senza però raggiungere il pavimento”).
[24] Ivi, p. 166. (“ ‘Non ti ho detto della piccola e di sua sorella – mi hanno chiesto di andare da loro per le vacanze. La più giovane ha detto – era così assurdo – “Tu sposerai mio fratello – è commerciante – molto ricco” – assurdo’. ‘Non è assurdo – l’avresti probabilmente fatto, lontano da quella scuola’. ‘Pensi?’ ‘Sì saresti diventata una normale tedesca, grassa, allegra e ridente.’ ‘Lo so. Oh Dio, ci ho pensato. T’immagini. Mi domando se avrei dovuto’. ‘ Perché non hai provato?’ Perché no? Perché non avrebbe provato? Eve l’avrebbe fatto, ne era sicura, al suo posto….”.
[25] Ivi, p. 26. (“Come era sembrata sedere immobile Sarah, fissa nella sua vecchia vita”).
[26] Ivi, p. 106. (“Perché leggeva con quel mezzo sorriso? Era sicura che egli vedeva in loro delle ‘signorine’, ‘demoiselles’, ‘jeune filles’. Voleva dirgli che lei non era niente del genere e mostrargli come leggere”).
27 Ivi, p. 128. (“Un piccolo podere, ben dissodato, Una piccola moglie, ben voluta, Sono grandi ricchezze”).
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[28] Ivi, p.184. (“Penso che tu ed io abbiamo molto in comune”).
CONCLUSIONE
La coinvolgente prima tappa del pellegrinaggio di Miriam ci ha insegnato un’importante lezione: quella della lettura non come ricezione passiva, ma come ricerca, partecipazione, viaggio verso il profondo di sé attraverso la rivelazione offerta da una parola letteraria che la scrittrice ha voluto caricare della sua più intima verità.
Come Richardson c’insegna, il testo è luogo d’incontro in cui l’autore rivela se stesso a chi sa ascoltarlo. Saper leggere significa, dunque, sapersi porre in ascolto, affinché le parole non scorrano semplicemente sotto i nostri occhi senza destare in noi alcuna risposta.
Quella di Richardson è un’opera assai difficile per la quale la scrittrice aveva presupposto un lettore impegnato, dotato delle sue stesse capacità di concentrazione ed estatica contemplazione, disposto ad avventurarsi nella complessa realtà del testo per scavare, scrutare, esplorare.
Soltanto a prezzo di una tale operosità ci si apre, infatti, alla comprensione delle qualità fondamentali della narrativa richardsoniana: l’immediatezza, perspicacia e spontaneità con cui è rappresentata l’intensa vita interiore della protagonista, complessa trama di pulsioni emotive e percezioni del mondo esterno che, reale o ridestato dalla memoria involontaria, viene colto con la precisione di un’istantanea e la rapidità di una telecamera vagante.
A tale impegno di lettura si è tentato di far fronte in questo nostro lavoro, in cui ci siamo proposti due principali obiettivi: mostrare la profonda incomprensione e ostilità con cui l’opera di Richardson fu accolta e quindi successivamente ignorata o dimenticata; dimostrare come invece la scrittrice, nella ricerca di una sua privilegiata modalità d’espressione, stesse operando una vera e propria rivoluzione delle forme narrative tradizionali, affinché nel testo letterario confluisse una mutata concezione del mondo e della realtà.
Se ancora oggi c’è chi sostiene l’astrusità e oscurità dell’opera di Richardson, si può ben comprendere come al tempo della sua pubblicazione davvero pochi furono coloro che seppero riconoscerne i meriti.
In accordo con le correnti critiche più recenti, tuttavia, ci pare di poter dire che l’opera di Richardson fu, invece, una pietra miliare nell’ambito della letteratura modernista inglese del primo Novecento. Grazie alle straordinarie intuizioni della scrittrice, infatti, per la prima volta il romanzo trovava una singolarissima ambientazione: quella dello spazio–tempo della coscienza. Il fatto poi che si trattasse della coscienza di una donna, una pellegrina alla ricerca di una dimensione propria in cui vivere, conferisce all’opera ulteriori importanti significati.
Dall’inizio della consapevolezza di sé alla conquista della propria identità, il cammino della coscienza di Miriam Henderson diviene, infatti, emblematico dell’esperienza della nuova donna ma soprattutto, su più larga scala, esso è rappresentativo dell’esperienza della modernità stessa.
Il Pellegrinaggio è dunque molteplice: del lettore avanti e indietro nel testo in cerca di una profonda rivelatrice comunicazione che possa aprirgli una prospettiva nuova da cui guardare il mondo; di Miriam che si avventura attraverso le strutture e le convenzioni di una società prevalentemente al maschile per trovare se stessa ed affermarsi come persona; di Dorothy che, insoddisfatta dei mezzi narrativi a sua disposizione, s’avvia alla sperimentazione di una più efficace modalità d’espressione che le permetta di cogliere le più sottili sfumature del paesaggio interiore.
Così innovativa e pregna di significati, la narrativa richardsoniana
merita sicuramente più considerazione e un interesse certo maggiore di quello semplicemente storico. Essa è forse più controllata e meno poetica di quella di Virginia Woolf, meno emozionale di quella di Joyce, ma è di straordinaria intensità e vigore nel consegnarci, disadorna e inalterata, la vita nella sua più intima realtà.
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