pavese

Materie:Appunti
Categoria:Lettere
Download:256
Data:24.05.2005
Numero di pagine:14
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
pavese_1.zip (Dimensione: 13.4 Kb)
trucheck.it_pavese.doc     45.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

CESARE PAVESE

VITA
Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, il 9 settembre 1908 da una famiglia borghese di origini contadine. A sei anni perse il padre e ricevette dalla madre un’educazione austera. Compì gli studi a Torino, dove fu allievo di Augusto Monti, figura prestigiosa negli ambienti antifascisti torinesi, che ebbe una grande influenza sulla sua formazione culturale e letteraria. In questo periodo frequenta Monferini, Pinelli, Sturani e Vaudagna. Si laureò poi in Lettere e Filosofia, studiando le letterature classiche e quella inglese dal 1926 al 1929, con una tesi su Walt Whitman. Entrò in contatto con Bobbio, Ginzburg, Mila, Antonicelli, Argan, Foa, Geymonat ed Einaudi. Ottenne alcune supplenze fuori Torino e nel novembre 1930 gli muore la madre, Consolina. Nel ’33 s’iscrisse al Partito nazionale fascista ottenendo una supplenza in città. Tradusse numerose opere di alcuni scrittori americani e non solo, tra cui Lewis, Anderson, Masters, Joyce, Dos Passos, Steinbeck, Defoe, Stein, Dickens, Melville, Henriques e Conrad. Di alcuni di loro scrisse dei saggi che vennero pubblicati su “La Cultura”, una rivista di Cesare de Lollis di cui diventerà direttore quando nel ’34 Ginzburg sarà arrestato per attività sovversiva. Nel maggio ’35 la redazione della “cultura” viene tratta in arresto nelle Carceri nuove di Torino e Pavese, portato prima a Roma nelle carceri di Regina Coeli, venne condannato al confino a Brancaleone Calabro, dove rimase dal 3 agosto fino al marzo del ’36. Negli stassi anni stringe una relazione con la comunista Battistina Pizzardo, ma al ritorno a Torino scopre che, durante il confino si è fidanzata con un altro e si appresta al matrimonio. Lavora per Einaudi, Mondatori e Bompiani. Nel 1938 viene effettivamente assunto da Einaudi. Il suo ruolo nell’azienda divine sempre più importante, nel 1943 lavora a Roma con Alicata, Giolitti e Muscetta. L’8 settembre dello stesso anno l’Einaudi e sottoposta a un commissario e Pavese dà ripetizioni nel Collegio dei Padri Somaschi a Trevisio , presso Casale Monferrato, dove sotto falso nome (Carlo de Ambrogio) si trattiene fino al 25 aprile 1945. Dopo la Liberazione l’Einaudi riapre a Torino e lui riallaccia i rapporti con tutti i collaboratori. Nell’agosto dello stesso anno si trasferisce a Roma e coordina anche la sede locale dell’azienda. L’anno successivo torna a Torino. Nel frattempo promuove la nascita di numerose collane (Debenedetti e i classici italiani, Venturi e le scienze storiche, De Martino e l’etnologia, e, sempre con De Martino, la “Collezione di studi religiosi, etnologici, e psicologici”). Collabora anch3e con “l’Unità”, per cui tiene la rubrica “I dialoghi col compagno”. Nel 1950 vive una nuova infelice relazione con l’attrice americana Constance Dowling, nel giugno riceve il Premio Strega per “La bella estate”. La depressione, aggravata dai difficili rapporti umani, ebbe però il sopravvento e Pavese si uccise nell’albergo “Roma” di Torino la notte del 26 agosto.
Scrisse: “Ciau Masino”, silloge manoscritta di racconti che scrisse tra il ’31 ed il ’32 e che uscì postuma nel 1968, “Memorie di due stagioni” (nel 1948, “Il carcere” nel volume “Prima che il gallo canti”), “Lavorare stanca” (1934, raccolta di poesie), “Paesi tuoi” (1939, uscito nel 1942), “La tenda” (1940, nel 1949 “La bella estate”), “La spiaggia” (a puntate sulla rivista “Lettere d’oggi” del 1941), “Il mestiere di vivere” (1944), “Feria d’agosto” (1946), “Dialoghi con Leucò” e “Il compagno” (1947), “Il diavolo sulle colline” e “Tra donne sole” (escono con “La bella estate” nel 1949), “La luna e i falò” (1950).

IL SUICIDIO
L’idea del suicidio è stata corteggiata da Pavese per tutta la vita, collegandola sempre col tema amoroso. Il suicidio sarebbe un gesto eroico, un’affermazione della “dignità dell’uomo davanti al destino”. Pavese sostiene che l’autodistruttore è una persona innamorata della vita, che distrugge se stesso per “scoprire entro di sè ogni magagna, ogni viltà”; e per fare in modo che avvenga questa disposizione autodistruttiva, ricerca, s’inebria, gode di queste magagne e di queste viltà. L’autodistruttore, che “è soprattutto un commediante e un padrone di sé”, non trascura “nessuna opportunità di sentirsi e provarsi”. In un certo senso è un ottimista che “spera ogni cosa dalla vita”. Al suicidio, con tale disposizione, si può arrivare soltanto per imprudenza oppure se si cede alla “smania di costruzione, di sistemazione”, ossia ad un imperativo morale. L’autodistruzione è identificabile con una vita che a Pavese sembra di poca importanza: è la vita appunto che sta conducendo, che nel contempo in parte condanna ed in parte accetta con soddisfazione. L’autodistruzione si configura quindi come una manifestazione di insofferenza nei confronti dell’esistenza umana, una manifestazione che in Pavese viene descritta in forma tragica, in quanto l’autodistruzione è un modo per avvicinarsi sempre di più al suicidio, che però non viene mai messo in pratica da un uomo non “cresciuto moralmente”: “il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità”. Da un altro lato emerge, in contrapposizione all’autodistruzione, l’idea di un suicidio inteso come atto dimostrativo: “perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire?”; “E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto più importante di una vita” (30 novembre 1937). E ancora: “resta sempre che voler uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia suprema scelta, un atto inconfondibile” (8 gennaio 1938). Con queste parole l’autore sembra esortare l’uomo a non attendere la morte naturale e a non lasciarsi sfuggire l’opportunità di decidere da solo della sua esistenza. Attraverso il suicidio l’uomo vuole dimostrare qualcosa, esprimere la sua insoddisfazione nei confronti dell’esistere; questa scontentezza cade però nel momento in cui egli si avvicina alla morte e comprende la grande importanza della vita, il forte attaccamento ad essa. Pavese parla anche del suicidio per disperazione, dovuto alla sua impotenza di avere un rapporto con le donne: “Ci voleva l’impotenza, la convinzione che nessuna donna si goda la chiavata con me, che non se la godrà mai ed ecco quest’angoscia. Questo è veramente il dolore che accoppa ogni energia: se non si è uomo, se non si possiede la potenza di quel membro, se si deve passare tra donne senza potere pretendere, come si può farsi forza e reggere? C’è un suicidio meglio giustificato?” (23 dicembre 1937). per Pavese il suicidio appare come un gesto che l’uomo attua a causa della debolezza che egli sente e alla disperazione che egli prova di fronte all’impossibilità di realizzare la propria volontà. Pavese analizza anche il suicidio inteso come forma di chiara decisione di porre fine alla disperazione divenuta ormai un’abitudine: Pavese definisce coraggiosi coloro che soffrono profondamente, perché in questa maniera fanno del loro dolore una ragione di vita, che si tramuta poi in una motivazione del loro agire, ossia del fatto che compiono il suicidio, quindi afferma: “Hanno coraggio quelli che per indole sanno soffrire in modo irruente e totalitario: così si disarma la sofferenza, la si fa nostra creazione, elezione, rassegnazione. Giustificazione del suicidio” (10 novembre 1938). Nel 1946 Pavese inizia a concepire il suicidio come una soluzione utile a mettere in evidenza il vuoto ed il senso di smarrimento che si cela dietro alle soddisfazioni che derivano dal suo operato ed in seguito dal successo che sta ottenendo. Dopo aver espresso la sua contentezza per gli innumerevoli risultati raggiunti dal punto di vista letterario, Pavese afferma: “Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo” (1 gennaio 1946): nonostante possieda innumerevoli capacità, vive in una condizione di completo straniamento dalla realtà e di profonda solitudine. Man mano che si consolidano i raggiungimenti sia nella carriera di scrittore che in quella editoriale, in Pavese si accentua l’idea di materializzare il suicidio, in particolare a partire dal 1948. Lo scrittore comincia a percepire addirittura una forte mancanza di vitalità, anche dal punto di vista fisico. Tra le spinte al suicidio è presente anche la responsabilità politica: “La beatitudine del ‘48-’49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo – l’impotenza e il rifiuto a impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio” (27 maggio 1950). Pavese sembra quindi optare per il suicidio, in quanto si vede incapace di affrontare la vita sociale: il suo impegno politico coincide con un inutile gesto di ribellione, che finisce col confermare il suo senso di impotenza e di frustrazione di fronte all’esistenza. Nelle note dei giorni 9, 16, 20, 21 e 22 marzo 1950 vengono espressi profondi sentimenti per una donna da lui molto amata, Constance, per la quale prova una passione quasi adolescenziale, un desiderio di matrimonio, ma in seguito tutto si tramuta in un tentativo di rassegnazione ed in tragedia: l’amore risulta così inappagante ed impossibile, incapace di dare una risposta al senso di solitudine e di emarginazione. Il suicidio si presenta come manifestazione della volontà: “sempre gli è allacciata [all’amore] la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?” (23 marzo 1950). Da questa riflessione emergono le possibili motivazioni che potrebbero spingerlo ad un suicidio che non è da attribuire alla donna, ma ad una condanna che sembra pesare su Pavese: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla” (25 marzo 1950). Soltanto verso gli ultimi giorni della sua vita, il suicidio si configura come atto dimostrativo che lo scrittore indirizza alla donna ed afferma: “Il coraggio. Tutto starà nell’averlo al momento buono – quando non le nuocerò – ma che lo sappia, che lo sappia” (27 maggio 1950); o come una vendetta (“I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo”, 17 agosto 1950). Il 17 agosto 1950 Pavese scrive, come d’abitudine, il resoconto di quell’anno che, per lui, volgeva verso la fine: si tratta però anche del resoconto di un’intera vita, una spiegazione delle ragioni che lo portano a porre fine alla sua tormentata esistenza:

“E’ la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito. Nel mio mestiere dunque sono re. In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora. Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’ “inquietudine angosciosa” [cioè di Constance Dowling, l’ultima amata], sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita. Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò”.

Il 18 agosto, mentre forse aveva già pronte le bustine di sonnifero che lo avrebbero liberato dall’angoscia, scrisse l’ultima pagina del suo diario: non più per sé, ma per la sua donna. E’ una pagina in cui egli esprime la sua incapacità di lottare tra l’istinto vitale e quello di morte, una pagina che si conclude con: “ Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. L’atto di scrivere, negato per l’avvenire, è esercitato per l’ultima volta. Pavese muore, ma da scrittore. Da scrittore che non scriverà più. E’ lo scrittore che ha voluto chiudere in modo degno il suo diario, vincendo una temuta impossibilità (“Non si può finire con stile”, 20 luglio 1950). Le sue ultime parole, scritte, saranno:

“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate pettegolezzi”.

I “DIALOGHI CON LEUCÒ”
Il titolo dei “Dialoghi con Leucò” è sicuramente collegato alla vicenda privata che Pavese visse negli anni ’45-’46: la relazione con Bianca Baruffi (Leucotea, quindi Leucò, è la grecizzazione di Bianca), con cui avviò pure un romanzo rimasto incompiuto, “Fuoco grande”, pubblicato nel 1956. Nei “Dialoghi con Leucò” i temi di fondo che incontriamo nelle altre opere dì Pavese l'amore - l'infanzia, il passare del tempo, il destino ineludibile, ecc. - sono tutti presenti, ma filtrati e complicati attraverso un apporto culturale di grande varietà derivante sia dall'assidua frequentazione dei testi della grecità sia dagli studi di etnologia, di analisi del mito, di storia delle religioni, di psicanalisi ai quali Pavese si era dedicato all'incirca agli inizi degli anni Quaranta (e che sul piano pratico sfoceranno nell'istituzione, da lui voluta, della einaudiana "Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici"). Possiamo dire che un tema di fondo della produzione di Pavese- il passaggio dall'infanzia (coi suoi miti), alla maturità, che è consapevolezza ma anche frattura - è qui trasferito e in certo qual modo emblematizzato nel passaggio - a cui questi interlocutori in vario modo si rifanno - dal mondo dei Titani (indistinto caos) al mondo degli Dei (razionalità e coscienza del limite). Questi due momenti, questi due stadi - il titanico e l'olimpico - sono parsi ad alcuni critici una ripresa della dialettica dionisiaco/apollineo di Nietzsche: «L'apollineo e il dionisiaco diventano in Pavese l'olimpico e il titanico, e fra i due ordini c'è una sola possibile conciliazione, l'opera d'arte che entrambi li presuppone. E se Pavese attribuisce all'Olimpo una facoltà razionalizzatrice destinata ad annullare il titanico è perché paventa di esserne posseduto» (Mondo). All'interno quindi di questa complessa architettura culturale (qui fugacemente indicata), gli interlocutori mitologici finiscono con l'affrontare, sia pure attraverso una fitta trama di allusioni e di simboli (che rende spesso ardua la comprensione), i problemi e i conflitti della condizione umana. Si tratta insomma di un tipo di dialogo che può essere rapportato (fu lo stesso Pavese a suggerirlo) alle Operette morali leopardiane. Ma dalle Operette i Dialoghi si distinguono perché, più che alla dimostrazione di una tesi con un serrato impianto argomentativo, essi mirano a suggerire - con l'allusione dotta, con una fitta trama di analogie e soprattutto con una scrittura retoricamente calcolata - stupori, angosce, inquietante senso del destino. Per raggiungere questi obiettivi Pavese si affida soprattutto a una prosa per così dire melodica, nella quale la parola è utilizzata in tutte le sue valenze semantiche e foniche e il ritmo del periodo ha di volta in volta qualcosa di stupefatto, o di solenne, o di arcano.
Contemporaneo a Il compagno, i “Dialoghi con Leucò” riassume una serie di riflessioni sull'uomo, sulla vita, sul tempo, fuoriuscenti però dalla bocca di eroi mitologici. “I dialoghi con Leucò non sembrano essere molto in sintonia coi tempi. Però è il libro che ci rivela l'altra faccia di Pavese e ce ne dà il risvolto intellettuale. Per questo è importante: perché chiarisce il modo con cui Pavese lavora e osserva la realtà e costituisce la chiave attraverso la quale noi possiamo arrivare a capire com'egli riesca a parlarci, nel modo in cui ce ne parla, dell'esperienza partigiana in La casa in collina, del mondo torinese e della borghesia torinese de La tenda e poi a concludere il suo viaggio a ritroso nella memoria, cioè nella vita, con l'opera conclusiva La luna e i falò”. I “Dialoghi con Leucò” viene composto tra il ’45 e il ’47 e la data di pubblicazione risale al 1947. Siamo in un momento in cui sembra non esserci altro modo di fare letteratura se non quello di raccontare storie di vita vissuta, di fotografare la realtà e più probabilmente la realtà dell'immediato dopoguerra, della vita partigiana o della guerra in particolare. Pavese, con I dialoghi con Leucò, sembra uscire dalla realtà oggettiva, per passare ad una realtà che egli stesso giustificava come un momento di chiarificazione con se stesso per arrivare a capire il significato e il senso dei problemi contemporanei: il tornare indietro nel tempo sino al tempo mitologico. Ma non è un uscire dalla realtà e dalle tematiche letterarie di quel tempo, in quanto in quel periodo scrive sulla terza pagina de “l’Unità” ne “I dialoghi col compagno” e quindi abbraccia la realtà in tutta la sua oggettività e non dimentichiamoci della composizione de Il compagno, allora ancora in atto. Insomma, I dialoghi con Leucò, che sembra uscire dalla realtà è solo un cercare di comunicare con la realtà contemporanea per mezzo di una realtà antica, addirittura legata a personaggi della mitologia.

“LA RUPE”
“Nella storia del mondo l’èra detta titanica fu popolata di uomini, di mostri, e di dèi non ancora organizzati in Olimpo. Qualcuno anzi pensa che non ci fossero che mostri – vale a dire intelligenze chiuse in un corpo deforme e bestiale. Di qui il sospetto che molti degli uccisori di mostri – Eracle in testa – versassero sangue fraterno”.
Così Pavese introduce “La rupe”, che, in un foglietto datato 26 febbraio 1946 che conteneva un indice tematico dei racconti presenti nei “Dialoghi con Leucò”, viene indicato come il racconto del “combattimento”, poi come quello dello “uomo combattente”. Un indice in data 5 aprile 1946 lo indica come racconto della “ribellione confortevole”. “La rupe” venne scritto tra il 5 e l’8 gennaio 1946.
L’autore offre in questo racconto la propria lettura del mito di Prometeo. A questo proposito può essere interessante introdurre la concezione del “mito” secondo l’autore. “Mito” è per Pavese ciò che deriva dall’esperienza originaria dell’uomo, che si costruisce nell’età prerazionale. Il “mito” si costituisce dunque nell’infanzia di ogni uomo e, in un certo senso, determina il nostro destino, in quanto risulta poi inestricabile dal nostro io. Perciò esso riflette la condizione dell’uomo nella vita reale. Scrive Givoni:

“Mito è, nello stesso tempo, qualcosa di necessario e di impossibile. Necessario perché è la sostanza stessa della nostra vita, che non è mai vita naturale e immediata ma sempre implica investimento di senso e quantomeno superstizione, se non religione. Necessario anche perché esistere significa restare sia pur solo ritualmente in rapporto con una provenienza, anche quando negata, al punto che non averne nessuna o rifiutarla segna l'individuo non meno che il puro e semplice riposare in essa. Necessario infine perché non c'è processo simbolico che non sia avviato da un’iniziale emozione poetica, come dimostra il fatto che conoscere è ridestare alla memoria, gioire è ricordare l'immemorabile. Tant’è vero che le nostre credenze fanno velo all'orrore di essere nati e lo rivelano, sanno la violenza che tiene assieme sesso e sangue e impongono di liberarcene, dicono quel vincolo e portano a scioglierlo”

La liberazione dell’uomo, così come quella di Prometeo, può nascere solo dal sacrificio di qualcuno. È a questo punto evidente, sotto questo aspetto, l’influenza sia delle tesi cristiane (provate dagli studi religiosi ed etnologici che Pavese aveva affrontato), sia di quelle marxiste. Pavese, infatti, aderiva agli ideali del comunismo (l’adesione al Pnf era sostanzialmente motivata dalla necessità di trovare un lavoro) tanto da essere condannato al carcere e al confino durante il regime fascista. Come uno degli aspetti portanti della dottrina del Cristo è costituito dall’esaltazione dell’abnegazione, volta al vantaggio della comunità, così Marx prospettava una rivoluzione per lo più non pacifica che dunque attraverso il sacrificio di alcuni portasse ad una liberazione collettiva. Eracle esordisce, dunque, dicendo:

“Prometeo, sono venuto a liberarti”

Prometeo soffre per via del fatto di essersi ribellato a Zeus, che rappresenta l’autorità, osteggiata da entrambi i sistemi filosofici in favore dell’egualitarismo. La presa di coscienza, da parte dell’uomo, di doversi affrancare dalla soggezione all’autorità ritorna tanto nel sacrificio personale di Cristo quanto in quello dei rivoluzionari. Eracle aveva passato tutta la regione del Caucaso e trafitto con una freccia l’aquila che mangiava il fegato a Prometeo. A questo punto il Centauro Chirone, trafitto da una freccia di Eracle in un’altra occasione e sfinito da enormi sofferenze, chiese la morte: per via della sua immortalità, questa sarebbe stata possibile solo se qualcuno avesse accettato l’immortalità stessa al posto suo. Prometeo divenne così immortale. Così, come la sofferenza di Prometeo (“Si soffre al punto che si vuol morire”) libera l’uomo, oltre al lungo viaggio affrontato da Eracle, un ulteriore sacrificio, quello appunto di Chirone, permise al mortale Titano di assurgere a divinità. Eracle non ha paura di fare ciò che deve, cioè liberare Prometeo. Perciò “il mondo dei mostri e del caos” cui Eracle fa riferimento nel dialogo e che Prometeo indica come il mondo “dei titani e degli uomini”, è quel mondo in cui uomini, mostri e dei vivevano assieme. Successivamente gli uomini si ritrovarono in una condizione di subalternità, sia rispetto ai mostri che agli dei, ma i sacrifici lo porteranno nuovamente, passando attraverso ulteriori incatenamenti ad una rupe, ad una condizione paritaria con essi:

“Che cos’è una vittoria se non pietà che si fa gesto, che salva gli altri a spese sue? Ciascuno lavora per gli altri, sotto la legge del destino. Io stesso, Eracle, se oggi vengo liberato, lo devo a qualcuno”

dice Prometeo. Tentare di abbattere i mostri è inutile, perché ciò risulta impossibile persino agli dei: Eracle ha ucciso Chirone, “il pietoso, il buon amico dei titani e dei mortali”, ma non se ne deve dolere, perché

“siamo tutti consorti. È la legge del mondo che nessuno si liberi se per lui non si versa del sangue”

Ma in questo mondo “nulla si fa che non ritorni”. Eracle, immortale, perirà, come gli dei:

“La morte è entrata in questo mondo con gli dei. Voi immortali temete la morte perché, in quanto dei, li sapete immortali. Ma ciascuno ha la morte che si merita. Finiranno anche loro”

Così si tornerà allo stesso livello: “Quel che è stato sarà” e

“Ritorna l’inverno, ritorna l’estate. […] Voi sarete i titani, fra poco”.
“Noi mortali?”
“Voi mortali – o immortali, non conta”.

Oltre che grazie alla rivoluzione, che parificherà uomini, “mostri” e “dei” (cioè chi soverchia), l’uomo raggiungerà l’immortalità, nonostante l’attuale condizione precaria, dopo la morte, con la salvezza eterna. Peraltro è evidente la ripresa, nell’idea dell’eterno ritorno, che segna il distacco tra l’uomo e il “super-uomo” (cioè l’uomo libero dalla sua condizione di subalternità), di Nietzsche. Le età degli uomini e il recupero dell’infanzia, cioè dello stato precoscienziale che rappresenta il mondo titanico, rievocano il Leopardi dei Canti pisano-recanatesi:

“La natura ritorna selvaggia” – come indica Pavese in una nota – “quando vi accade il proibito: sangue o sesso” (13 luglio 1944)

“E questo” – nota Givoni – “significa che la natura originariamente non è quella che noi crediamo che sia: innocente, comunque indifferente. Questa è un'illusione, un'invenzione rousseauiana. Più originaria dell'innocenza è la colpa, e infatti risalendo verso le origini si ricade nella violenza incondizionata, perseguita senza remore, e soprattutto in modo assolutamente gratuito. La poesia, che non ha altro oggetto, altra radice, altra fonte, che il mito (sia il mito personale che il mito collettivo), ne rivela la cifra misteriosa e crudele... Da una parte il mito riprecipita verso il grado zero dell'esistenza, fa cenno alle pure forme vuote che la precedono e la legittimano, indica la via dell'abbandono all'irrazionale. Dall'altra la poesia dice no all'orrore che i contenuti mitici sprigionano nel momento stesso in cui li fa suoi rammemorandoli. Ne deriva una tensione conflittuale e per certi aspetti contraddittoria”

Esempio