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Categoria: | Letteratura |
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Data: | 22.02.2001 |
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Testo
Vita.
Pupillo degli Scipioni. Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente a Svetonio: a questa attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie del nostro autore. Notizie biografiche, poi, si possono ricavare anche dai prologhi delle commedie stesse.
La sua vita si inserisce praticamente nel periodo di tempo compreso tra la fine della II guerra punica (201 a.C.) e l'inizio della III (149 a.C.) e si lega strettamente con la vicenda politica e culturale romana di quegli anni.
T. giunse a Roma come schiavo del senatore T. Lucano, dal quale fu affrancato "ob ingenium et formam" ("per ingegno e bellezza"); divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, entrando quindi a far parte dell’entourage scipionico, del cui ideale di "humanitas" egli si fa portavoce.
Maldicenze sulla vera paternità delle commedie. Questa sua posizione di prestigio suscitò però l’invidia dei suoi contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto di T., sorsero così calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di plagio e di essere addirittura un prestanome dei suoi importanti protettori, i veri effettivi autori delle sue commedie (era, infatti, considerato disdicevole per un "civis Romanus", impegnato politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie; le uniche attività che erano lui concesse coltivare erano l’oratoria o la storiografia) [per la questione sull'autenticità, vd. oltre]. Da questa accusa, come vedremo, T. si difende nel prologo della sua ultima commedia, l’"Adelphoe".
Amarezza per l'insuccesso, viaggio in Grecia, morte. Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione [per cui, vd. oltre], ma anche evidentemente per diletto e soprattutto per studiare in loco istituzioni e costumi greci da ritrarre nelle sue opere, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui però non fece più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia.
Opere: titoli e rappresentazioni.
Di T. ci sono pervenute, integralmente, 6 commedie palliate (cioè d'ambientazione greca), composte e rappresentate a Roma, di cui si conoscono, tramite le "didascalie", l'anno e l'occasione del primo allestimento.
T. esordì nel 166 a.C. con una commedia, l’ "Andria" ("La ragazza dell’isola di Andro"). Nel 165, fece rappresentare una seconda commedia, l’ "Hecyra" ("La suocera"): il pubblico, dopo le prime scene, abbandonò il teatro, preferendo assistere ad una contemporanea manifestazione di pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso. Nel 163, fece rappresentare l’ "Heautontimorumenos" ("Il punitore di se stesso"). Nel 169 furono, invece, rappresentate ben 2 commedie: l’ "Eunuchus" ("L'eunuco") e il "Phormio" ("Formione"). L’ "Eunucus" fu il più grande successo di T., perché è la sua commedia più simile alla comicità plautina. Nel 160, infine, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece rappresentare la sua ultima commedia, l’ "Adelphoe" ("I fratelli"); nella stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’ "Hecyra", ma anche questa volta il pubblico abbandonò il teatro, preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne durante i "Ludi Romani" dello stesso anno e, finalmente, durò dall’inizio alla fine: il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di Ambivio Turpione, attore molto celebre di quel tempo.
Considerazioni sulla tecnica teatrale e sull'ideologia.
Autore troppo "moderno"? Come visto, T. scrisse 6 commedie "palliate": ma operò una vera e propria "riforma" nell'ambito di questo genere, ristrutturandolo - come vedremo - dal punto di vista tecnico e introducendo in esso nuovi contenuti ideologici, in linea con le tendenze finelleniche del circolo cui apparteneva.
La sua carriera drammaturgica non fu certo facile come per Plauto (anche se, comunque, godette dell'amichevole e ammirato appoggio e comprensione del già citato Turpione, nonché addirittura di Cecilio Stazio): non ebbe lo stesso successo, perché la sua commedia non rispondeva ai gusti del grosso pubblico romano, non ancora pronto a tal "salto di qualità": quella di T. era, infatti, una commedia che voleva trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità romana abituata al teatro plautino, che interpretava i rapporti interpersonali come basati sull’inganno, sulla violenza e sulle prevaricazioni.
Ma forse, a ben vedere, le stesse testimonianze relativi ai "flop" della sua produzione potrebbero contenere un nascosto fine programmatico (quegl'insuccessi mi suonano un po' strani, sia perché il circolo scipionico indirizzava veramente allora la "moda" del tempo, sia perché, nonostante tutto, T. - in un tempo relativamente breve, ovvero dal 166 al 160 a.C. - s'industriò in numerose rappresentazioni): come se T. ci volesse dire che il proprio pubblico ideale è decisamente un pubblico colto (che coincideva, in pratica, con lo stesso "circolo"), o sicuramente più raffinato di quello sboccato e "plebeo" che applaudiva ancora le opere di Plauto. Un pubblico, in breve, elitario, il cui ideale artistico è un'opera che riproduca nel migliore dei modi le preziosità dell'originale greco. Ma questa, ripeto, è solo una mia "suggestione".
Il rapporto coi modelli (la "contaminatio") e le differenze con Plauto: tecniche, stile, linguaggio. Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei (a riprova di ciò, anche se in senso dispregiativo, Cesare definì T. "dimidiatus Menander", ossia un "Menandro dimezzato"): solo l’"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono invece commedie di un altro autore, Apollodoro di Caristo, un commediografo greco di cui però nulla conosciamo.
Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà relativa: anche T. ricorreva infatti alla "contaminatio". Tuttavia, tale tecnica non consiste per il nostro autore, > [I. Lana].
E appare conseguente, e ciò detto tirando le conclusioni da quanto analizzato fin qui, come la stessa comicità di T dovesse proporsi come altrettanto rivoluzionaria, in accordo col suo "messaggio": una comicità nuova, che non consiste più nella battutaccia o nell'intrigo, ma che invece risiede più nel sorriso, talvolta compassionevole, sempre venato di riflessione e di meditazione (a tal riguardo, taluni critici hanno definito, quello del nostro autore, un "teatro pedagogico").