ROMANZI DEL 900

Materie:Altro
Categoria:Letteratura
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Data:28.09.2006
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Testo

GLI INDIFFERENTI
MORAVIA
INTRECCIO
La famiglia romana degli Ardengo, Mariagrazia, vedova e i due figli Michele e Carla, di estrazione alto-borghese, è decaduta economicamente, ne approfitta Leo Merumeci, affarista e libertino, di cui è infatuata Mariagrazia. Dopo aver dilapidato il patrimonio dell’amante, Leo mira ad impossessarsi della villa degli Ardengo e tenta allo stesso tempo di sedurre Carla,che si lascia corteggiare senza entusiasmo. Disgustato dal comportamento melenso e geloso della madre, Michele tende ad affermare la sua personalità mediante un gesto esemplare che smascheri Leo davanti tutta la famiglia, ma la sua inettitudine gli impedisce di prendere una qualsiasi decisione. Nel corso di una cena Michele provoca platealmente Leo, ma è costretto ad una umiliante autocritica, mentre Carla decide di concedersi a Leo,pur di cambiare vita. Il giorno successivo si festeggia il compleanno di Carla, ma l’insulso rituale del pranzo è guastato da una nuova lite tra Michele e Leo; insultato dal Merumeci, il giovane reagisce dandogli uno schiaffo, tentativo che va a vuoto.
Riuscito è invece il tentativo di Leo di far ubriacare Carla, per possederla nella rimessa del parco; ma nel momento culminante della seduzione, la fanciulla ha una crisi di vomito, provocata dalla sbornia. Nel pomeriggio, dopo aver invano tentato di riconquistare la sua ex-amante Lisa, Leo si intrattiene con gli Ardengo, nel salotto della loro villa; qui esplode di nuovo la rivolta di Michele, che si risolve in un gesto velleitario e isterico. Lancia un portacenere che invece di colpire Leo, sfiora la spalla di Mariagrazia, che fa una scenata melodrammatica.
Spinta da una volontà di distruzione Carla si reca di notte a casa di Leo. A sua volta Michele si reca da Lisa, che tenta di sedurlo, ma respinta, si vendica rivelando al giovane di aver sorpreso Leo e Carla abbracciati. Michele crede che sia finalmente venuto il momento del gesto decisivo, che lavi col sangue del seduttore l’offesa arrecata alla sorella. In realtà la sua è solo una fantasticheria di omicidio: tant’è vero che, quando spara contro Leo, sorpreso in casa sua con Carla, la rivoltella è scarica, avendo il velleitario protagonista dimenticato i proiettili in tasca. Non è successo nulla e tutti riprendono con INDIFFERENZA il loro ruolo: Leo sposerà Carla, Michele avrà un buon posto di lavoro e accetterà, sia pure di mala voglia la relazione con Lisa, Mariagrazia persisterà a vivere nella sua fatua incoscienza, e tutti insieme si avvieranno verso una festa in maschera.
Intenzione dichiarata di Moravia, quando a 22 anni scrive gli Indifferenti è “né criticare una società né manifestare idee e sentimenti pessimisti, né fare un’opera satirica o moralistica” quanto quella di scrivere un romanzo, che avesse al tempo stesso la qualità di un’opera narrativa, quelle di un dramma, fondendo la tecnica del romanzo con quella del teatro.
In effetti il romanzo sembra avere la struttura di un dramma in 16 quadri e 2 atti e ciascuno dei sedici capitoli, che lo compongono, ha il taglio di una scena teatrale, che ha inizio con l’ingresso dei personaggi, con la descrizione dell’ ambiente e si conclude con l’uscita momentanea dei personaggi, di volta in volta sulla scena.
La “Quinta” di questo romanzo-commedia è rappresentata dalla villa degli Ardengo, immersa nella penombra di uno spazio chiuso, dove non penetra la luce del sole, una casa prigione, da cui i giovani protagonisti, Carla e Michele, tentano disperatamente di evadere.
Potremmo suddividere il romanzo in due parti, dal primo all’ottavo capitolo prevale una caratterizzazione drammatica, dal nono al sedicesimo, narrativa.
Anche lo scenario, man mano che si procede dalla prima alla seconda parte, muta allargandosi dagli interni domestici alla città, con l’obiettivo di focalizzare la narrazione sul singolo personaggio, concedendo ampio spazio al discorso indiretto libero.
Un momento di transizione è dato dal capitolo VIII, quando Carla, decisa a spezzare il vincolo claustrofobico della casa –prigione, rivolge un addio alla vecchia dimora.
“Addio strade, quartiere deserto, percorso dalla pioggia come da un esercito, ville addormentate nei loro giardini umidi, lunghi viali alberati e parchi in tumulto; addio quartiere alto e ricco”
E’ evidente il calco del celebre addio della Lucia manzoniana del capitolo VIII dei Promessi Sposi. In Carla come in Lucia vi è la lucida e lirica consapevolezza di stare sul punto di cambiare vita, Lucia si allontana dal suo paese e dai suoi sogni, Carla crede di aprire finalmente la porta alla vita, anche se poi non sarà così.
SISTEMA DEI PERSONAGGI
Fin dalla cena iniziale del II capitolo si delinea il sistema dei personaggi, collegati tra loro da un rapporto conflittuale,Leo e Mariagrazia, Leo e Michele, o interrotto Leo e Carla, un sistema che si completa nel II capitolo con l’apparizione di Lisa, il cui atteggiamento è allo stesso tempo conflittuale con Leo e Mariagrazia e interrotto con Michele.
Al centro di questo sistema c’è Leo, che domina tutti gli altri personaggi con la sua forza di uomo affermato e spregiudicato.
Sesso e denaro sono gli unici valori che contano per Leo, totalmente integrato nella realtà degli affari e cinicamente volto a soddisfare le sue voglie sessuali, con spietata sicurezza da professionista del piacere.
Nella sera della seduzione i suoi gesti sono definiti “i gesti di un chirurgo durante l’operazione”.
Pur nella sua negatività, Leo è la figura più compatta e a tutto tondo.
Ambigua è invece la figura di Mariagrazia “la madre”, appellativo ironico dal momento che mancano al personaggio proprio le qualità necessarie ad un ruolo materno.
E’ presentata, fin dal primo capitolo, come una maschera stupida e patetica, con il suo disprezzo per il popolo, che la induce a non andare a vedere “Sei personaggi in cerca di autore” di Pirandello (cap.I), perché è una serata popolare;con il suo snobismo (cap. VI “A Parigi è molto più interessante, disse al madre che non c’era stata”); con la sua conformistica osservanza delle convenzioni sociali, pronta a coprire la sua relazione con Leo, malgrado tutti, compresi i figli, la conoscano.
Mariagrazia incarna la madre borghese, chiusa nel suo miserabile egoismo e nella sua coriacea ottusità.
La sua presunta rivale Lisa, condivide con Mariagrazia l’ipocrisia erotica, ma pur cadendo nel ridicolo per le sue moine fuori età, si riscatta ai nostri occhi per la sua situazione di donna matura, innamorata di un adolescente, come Michele ( situazione patetico-umoristica tipicamente pirandelliana).
CARLA E MICHELE
A queste due figure Moravia affida il ruolo del nuovo personaggio da lui creato, quello capace di avere un’autocoscienza, di essere consapevole oscuramente, ma debole sul piano immediatamente vitale.
Pur subendo uno svolgimento apparentemente parallelo, Carla e Michele sono incapaci di comprendersi, uno di fronte all’altro, radicalmente divisi.
Michele all’inizio del romanzo e fino alla fine è e sarà chiuso nel suo cupo e vano anelito verso una sincerità e una fede irraggiungibile, anzi infine ancora più avvilito e offuscato dalla sua visione della vita, più disperatamente cosciente.
“E’ impossibile andare avanti così-Avrebbe voluto piangere; la foresta della vita lo circondava da tutte le parti, intricata, cieca; nessun lume splendeva nella lontananza. Impossibile.”
Carla invece, dopo aver ceduto a Leo per cominciare una nuova vita, si dimostra alfine capace di orientarsi perfettamente nella grande selva dell’esistenza sociale, ormai perfettamente riconciliata con il mondo.
Alla fine del romanzo Carla afferma: “E’ tutto così semplice, aveva pensato, infilandosi davanti allo specchio i pantaloni da Pierrot: lo prova il fatto che, nonostante quel che è avvenuto, io mi travesto e vado al ballo.”
La storia di Carla diviene dunque la storia di un difficile e doloroso adattamento riuscito, mentre Michele rappresenta l’adattamento mancato.
L’agire di Michele è infatti fondato su una semplice ripetizione, una vera e propria coazione a ripetere, con un movimento di ordine quantitativo, non certo qualitativo.
Ciò è dimostrato essenzialmente negli scontri con Leo, su cui poi si fonda tutta la costruzione narrativa, dall’insulto inefficace del III capitolo, allo schiaffo mancato del VI capitolo, al lancio del portacenere, che non raggiunge il bersaglio, nell’VIII, sino al celebre colpo di rivoltella, che non spara, perché l’arma naturalmente è scarica, nel XV capitolo.
Michele vive ripetendosi, Carla invece si modifica venendosi a trovare in una situazione, pur sempre squallida, ma nuova.
Carla infatti si degrada, non dandosi a Leo, ma accettando il matrimonio decoroso con Leo, rinunciando ad ogni sforzo di esistenza: “La vita era quel che era, meglio accettarla che giudicarla, che la lasciassero in pace. “
L’attenzione di Moravia però non è puntata sulla rivolta di Carla, ma su quella inattuata di Michele, che rimane a vagare nel limbo delle intenzioni e dei sentimenti.
Perché Moravia fa di Michele il personaggio chiave, dal momento che il romanzo termina con un lieto fine?
Perché Moravia, con la sua peculiare ambiguità ama rovesciare quello che appare evidente e scontato giudizio e facendo ciò attua la sua critica nei confronti del mondo borghese.
Quando infatti Carla si veste da Pierrot per andare al ballo si accomuna alla madre, diventa con lei un’unica maschera, il travestimento finale segna la sconfitta di Carla, che crolla sotto i colpi della sua rivolta e diviene un unicum con Mariagrazia.
Comincia in effetti, proprio come fa la madre, a recitare una parte falsa e ridicola, inserendosi perfettamente in quel mondo borghese, da cui voleva fuggire, “altrimenti chissà dove si andrebbe a finire, così afferma Mariagrazia”; frase che potrebbe essere assunta come EPIGRAFE del romanzo.
Gli Indifferenti segnano quindi l’atto di morte del buon senso borghese, per svuotamento interno, per semplice deformazione, e allo stesso tempo il romanzo è una vera e propria enciclopedia delle sciocchezze delle conversazioni medio-borghesi, delle ambizioni mondane in stile familiare, un coacervo di luoghi comuni della coscienza borghese.
Il personaggio di Moravia non è più il personaggio tipico del tradizionale romanzo borghese, frutto di una proiezione ideologica univoca e compatta, non è più un eroe, in cui si configurano elementi positivi e negativi, perfettamente definiti.
La tensione eroica, comunque pretenda di caratterizzarsi, qui cede alle radici stesse del conflitto, per dissolversi spontaneamente in un’ambigua indifferenza etica.
Questa indifferenza, ancora prima di essere un dato psicologico particolare, è il carattere fondamentale, obiettivo della realtà stessa, come 30 anni dopo tornerà ad esserlo in La Noia.
L’indifferenza paradossalmente è ora sul versante della rivoluzione psicologica, la misura del solo valore residuo, della coscienza del reale stesso nella sua indifferenza, ma lo è a caro prezzo. La perdita di contatto con la vita.
Dal momento che il mondo non sembra poter mutare, dal momento che l’esistenza prima ancora del personaggio, replica sempre i modi uniformi della sua miseria, secondo un ritmo incorreggibile, dal momento che la società, in cui si vive, appare tanto salda da potersi considerare immodificabile nella struttura come nella sostanza morale, non rimane altra alternativa che questa. PRESERVARE, DA PURI SPETTATTORI, SDEGNOSAMENTE MA INATTIVAMMENTE, LA PROPRIA FITTIZIA INNOCENZA E SALVARE LA COSCIENZA ETICA.
Senza ingenue illusioni e con corrosivo realismo di fronte allo spettacolo di una società in rovina, Moravia perviene a constatare lucidamente e scetticamente che soltanto le dimensioni volgari e sgradevoli del grottesco e i luoghi comuni del romanzo di appendice, criticamente assunti e distaccatamente straniati, possono riflettere il vero lato del mondo.
Domina quindi soprattutto in Michele , la nostalgia del tragico, dell’impulso spontaneo che attuava misure estreme, senza pensare.
Sappiamo, però, bene da Pirandello in IL FU MATTIA PASCAL, che l’Oreste, l’antico uomo impavido , nel ‘900 è ormai un Amleto, immerso in domande esistenziali, senza risposta, l’eterno indeciso incapace di agire con determinazione.
Moravia fa dire a Michele: “Egli avrebbe voluto vivere in quell’età tragica e sincera, avrebbe voluto provare quei grandi odi travolgenti, innalzarsi a quei sentimenti illimitati…ma restava nel suo tempo e nella sua vita, per terra. “
L’impossibilità della tragedia, la perdita del senso tragico, diviene allo sguardo di Michele, con molta esattezza, la perdita di controllo con il rivale.
Michele rispecchia la nuova condizione dell’uomo borghese, nel momento in cui assume una coscienza di crisi e prova una forte nostalgia per il personaggio stesso.
Nessuna fede può ricondurre Michele a quel cosmo di valori smarriti, perché anche una qualsiasi fede sarebbe in autenticità. D’altra parte, se egli riuscisse a superare la propria indifferenza, cedendo al gioco o alle lusinghe delle passioni falsificate, credendo di creder, di vivere e di amare, approderebbe alle spiagge della vita, ma con una vitalità irrigidita e automatica del FANTOCCIO STUPIDO E ROSEO.
Se Michele trasformasse la sua impotenza in buona volontà sarebbe Leo.
Nelle pagine conclusive del romanzo Michele, rivolgendosi a Carla, afferma: I nostri errori sono stati ispirati dalla noia e dall’impazienza di vivere…Tu non ami quest’uomo, io non lo odio…eppure ne abbiamo fatto il centro delle nostre azioni opposte.”
EROTISMO
Il contegno sessuale agli occhi di Moravia appare come una delle chiavi fondamentali di ogni umano comportamento, il che vale per tutti i cinque personaggi.
E’ nell’erotismo integrato con lo status economico, che i personaggi si definiscono a pieno.
La rivalità di Carla si cancella nel sesso, l’indifferenza di Michele è una cosa sola con la mancanza di comunicazione sessuale, con la sua impotenza sessuale, strettamente connessa a quella economica.
Di fronte a Lisa, Michele verifica la propria in differenza, l’ipocrisia erotica e sentimentale borghese.
TECNICHE NARRATIVE E LINGUAGGIO
Colpiscono subito, nel legger Gli Indifferenti, le descrizioni degli interni cupi e d angosciati, con finestre serrate, che immergono nell’oscurità persone e oggetti, mentre l’illuminazione ad iceberg scinde in due zone l’ambiente, una più piccola, fiocamente illuminata, l’altra più vasta e invisibile, che infonde lo sgomento del mistero dell’esistenza.
Si creano così atmosfere geometrizzanti, che comunicano la sensazione di cubi compenetranti, di scatole cinesi, di monadi senza porte né finestre. Così come gli specchi moltiplicano atrocemente le figure dei personaggi, che sono ridotti a fantocci, a manichini alla De Chirico, smarriti si aggirano in chiuso labirinto.
Proprio come nei capitoli I,II,III, dove la pseudo famiglia riunita, recita parti dovute, imposte, come tanti fantocci cristallizzati in un ruolo che accettano senza difficoltà, per continuare a vivere.
Mariagrazia, Carla e Michele assolvono la parte, che spetta loro, secondo le convenzioni borghesi, consumandosi nella falsità, allestendo una vera e propria vetrina di manichini, che manipola una falsa etica. Ma la finestra e gli specchi sono anche veicoli visivi, che riflettono un mondo interiore, che i personaggi stessi non vogliono conoscere e vedere.
Quante volte Carla, Mariagrazia e Lisa si guardano allo specchio, però, pur essendo di fronte a se stesse, mentono cercando nell’immagine riflessa quella realtà che vorrebbero trasparisse dai loro volti.
Lo specchio in Moravia, a differenza che in Pirandello e Bontempelli, non diviene mezzo di scavo interiore, di introspezione psicologica, ma riflette passivamente la falsità morale di chi vi si guarda.
Così queste donne, osservandosi allo specchio, sono proprio come quel fantoccio, che Michele invidia nel capitolo XIII,pensando per un attimo a quanto sarebbe più facile essere come lui, stupido, roseo, scintillante, con una fede nella vita, da accettare così come è, con semplicità e compromessi.
Il linguaggio è perfettamente adeguato a tale realtà, è logoro, convenzionale, infarcito di luoghi comuni, che formano un utile glossario della futile ed insulsa conversazione borghese.
Anche nei soliloqui, attraverso il DISCORSO INDIRETTO LIBERO,i personaggi esprimono la vacuità del loro mondo interiore, proiettandolo in fantasticherie i loro possibili desideri di evasione, come Michele nel XV capitolo, quando medita il delitto; Carla nel X, quando pensa alla nuova vita e Lisa nel V ,quando immagina un possibile rapporto con Michele. E’ molto ricca l’aggettivazione, che svolge una funzione giudicante e tende a degradare il personaggio e a deriderlo con implacabile ironia.
IL FANTOCCIO
Il fantoccio è l’immagine realistica dell’uomo moderno, che Moravia trae dal mondo della pubblicità.
Uomini senza rimedio sono quelli che fotografa Michele anche nell’ultimo capitolo, quando i riflessi, pur raddoppiandosi, rimandano ad un’unica ed autentica desolazione. E’ proprio attraverso una finestra che Michele guarda Carla, vestirsi disinvolta, accanto alla madre, per andare al ballo, e prende coscienza del suo avvenuto adattamento. Per questo tenta un disperato contatto con la vita e va da Lisa.
LA LUNA E I FALO’
CESARE PAVESE
INTRECCIO E STRUTTURA
E’ piuttosto difficile esporre con un certo ordine l’intreccio di questo romanzo e ciò è dovuto alla sua particolare struttura, che poggia sulla contaminazione di tempi differenti, di presente e di passato, di accadimenti, dei quali il protagonista è ora spettatore, e di memorie di rievocazioni del passato.
Protagonista è Anguilla, un trovatello che è cresciuto nelle Langhe lavorando in campagna presso varie famiglie ed è poi emigrato in America. Qui ha pur fatto fortuna e tuttavia ritorna alle sue Langhe per un oscuro bisogno di ritrovare la propria identità. Su questo impianto che ha alle spalle una millenaria tradizione -è il nostos, il ritorno, già utilizzato nell’epica-si dipana la vicenda di Anguilla ed è forse possibile distinguere tre grandi blocchi nella narrazione. Nella prima parte,capp.I-XIV, emerge attraverso la rivisitazione dei luoghi-colline e cascine- fatta o da solo o in compagnia di Nuto, l’amico di infanzia ritrovato, il più lontano passato di Anguilla che egli ha trascorso nel casotto di Gaminella a servizio di un misera coppia di contadini;ora ai suoi vecchi padroni è subentrato il Valino, ma Anguilla ritrova gli stessi aspetti delle cose e la stessa miseria di una volta e in un povero ragazzo, denutrito, Cinto, figlio del Valino, Anguilla rivede se stesso. Ed intanto col recupero del passato si intreccia il presente:le beghe di paese, il clima di restaurazione politica del finire degli anni quaranta. Il secondo blocco narrativo, capp. XV-XXV, è soprattutto centrato sul tempo- che riemerge attraverso dialoghi con Nuto o casuali sollecitazioni- trascorso da Anguilla presso un altro podere, la Mora, e nella memoria del protagonista ritornano i ricordi collegati alle tre figlie del sor Matteo- un benestante -le signorine, idoleggiate da lontano, sentite come incarnazioni di una femminilità conturbante ma, per il trovatello a servizio, inattingibile. Segue poi l’ultima parte, che oppone all’elegiaco passato un tragico presente: si apre col capitolo XXVI che dà notizia del gesto disperato del Valino, che appicca fuoco alla cascina e si impicca, e continua con la rievocazione- in forma indiretta attraverso il racconto che fa Nuto- del fallimentare destino delle figlie del sor Matteo, una delle quali, Santa diventata spia dei fascisti, è stata fucilata dai partigiani. Sul cadavere racconta Nuto “ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’ altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”. Sono le ultime righe del romanzo.
La Luna e i falò si ricollega alle meditazioni e agli studi sul mito, che Pavese inizia intorno agli anni ’40 e lo portano a valorizzare le principali esperienze, che per ogni essere umano si collocano nell’infanzia, la stagione in cu si costituiscono le mitiche componenti della propria individualità. La ricognizione delle valenze costitutive della propria personalità sono possibili solo attraverso questo ritorno alle radici, al mondo dell’infanzia, che spesso si identifica con un ritorno reale o ideale alla campagna, alla terra, al paese.
Nella mitologia di Pavese infanzia- paese e età adulta -città creano una forte antinomia dalle valenze simboliche.
La campagna intesa come terra o collina esprime la pienezza esistenziale, sia come luogo selvaggio del dionisiaco e dell’istintivo, sia come archetipo materno, ritorno all’infanzia. La città invece a livello conscio rappresenta il momento della maturità, della fermezza e dell’impegno. Nel simbolismo profondo la città è lo spazio della mancanza, della solitudine, dell’alienazione, frequentata da sbandati, prostitute e ubriachi, che trovano nel sesso e nell’alcool un rimedio all’infelicità .
CITTA’ < Strada, donna-aggressività, solitudine e adolescenza, dovere e impegno politico, inverno, notte, lampioni, pioggia, tabacco.
CAMPAGNA < Terra, collina, donna-dolcezza, sfrenatezza- infanzia, sole, estate, calore, incendio, covoni, colline bruciate.
Queste sono la radici da cui si è staccato l’io narratore Anguilla, che torna al suo paese, cercando di recuperare non solo un rapporto sentimentale con la propria terra, ma un rapporto di sangue, fino all’osmosi fisica con essa.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto delle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti “.
Nella prima parte del libro è appunto descritto questo ritorno in un paese, in cui Anguilla non è realmente nato,ma che ha sempre considerato come suo. Dopo essere stato in America, dopo aver girato tanto, ha maturato l’amara consapevolezza che il mondo è fatto di tanti piccoli paesi e nessuno,come il tuo, può farti sentire meno solo, più appagato, più felice.
Attraverso un via vai memoriale, in cui i piani narrativi si intersecano, il lettore viene a conoscenza, anche se in modo frammentario e solo alla fine veramente esaustivo, della vita passata di Anguilla, del paese e della sua gente.
Il quadro si completa solo man mano che si procede conla lettura, allora il puzzle della memoria di Pavese si ricompone.
Evidente e palese, fin dall’inizio, dalle riflessioni di Anguilla, è la particolare fisionomia del romanzo, quella della non realizzabilità di questo processo di ricongiungimento e reintegrazione della propria personalità con il clima mitico del passato infantile.
Tutto è uguale e tutto è cambiato e i falò, che si facevano per la festa di San Giovanni, che rischiaravano le notti paesane, che servivano superstiziosamente a risvegliare al terra, sono ora i falò della guerra, delle lotte e della violenza, che incombe sulla vita, sono i fuochi che riducono in cenere Santa e la Gaminella.
LA LUNA E I FALO’
CESARE PAVESE
INTRECCIO E STRUTTURA
E’ piuttosto difficile esporre con un certo ordine l’intreccio di questo romanzo e ciò è dovuto alla sua particolare struttura, che poggia sulla contaminazione di tempi differenti, di presente e di passato, di accadimenti, dei quali il protagonista è ora spettatore, e di memorie di rievocazioni del passato.
Protagonista è Anguilla, un trovatello che è cresciuto nelle Langhe lavorando in campagna presso varie famiglie ed è poi emigrato in America. Qui ha pur fatto fortuna e tuttavia ritorna alle sue Langhe per un oscuro bisogno di ritrovare la propria identità. Su questo impianto che ha alle spalle una millenaria tradizione -è il nostos, il ritorno, già utilizzato nell’epica-si dipana la vicenda di Anguilla ed è forse possibile distinguere tre grandi blocchi nella narrazione. Nella prima parte,capp.I-XIV, emerge attraverso la rivisitazione dei luoghi-colline e cascine- fatta o da solo o in compagnia di Nuto, l’amico di infanzia ritrovato, il più lontano passato di Anguilla che egli ha trascorso nel casotto di Gaminella a servizio di un misera coppia di contadini;ora ai suoi vecchi padroni è subentrato il Valino, ma Anguilla ritrova gli stessi aspetti delle cose e la stessa miseria di una volta e in un povero ragazzo, denutrito, Cinto, figlio del Valino, Anguilla rivede se stesso. Ed intanto col recupero del passato si intreccia il presente:le beghe di paese, il clima di restaurazione politica del finire degli anni quaranta. Il secondo blocco narrativo, capp. XV-XXV, è soprattutto centrato sul tempo- che riemerge attraverso dialoghi con Nuto o casuali sollecitazioni- trascorso da Anguilla presso un altro podere, la Mora, e nella memoria del protagonista ritornano i ricordi collegati alle tre figlie del sor Matteo- un benestante -le signorine, idoleggiate da lontano, sentite come incarnazioni di una femminilità conturbante ma, per il trovatello a servizio, inattingibile. Segue poi l’ultima parte, che oppone all’elegiaco passato un tragico presente: si apre col capitolo XXVI che dà notizia del gesto disperato del Valino, che appicca fuoco alla cascina e si impicca, e continua con la rievocazione- in forma indiretta attraverso il racconto che fa Nuto- del fallimentare destino delle figlie del sor Matteo, una delle quali, Santa diventata spia dei fascisti, è stata fucilata dai partigiani. Sul cadavere racconta Nuto “ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’ altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”. Sono le ultime righe del romanzo.
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TECNICHE NARRATIVE
La struttura del romanzo comporta per il protagonista narratore la tecnica della disarticolazione del tempo, cronologicamente inteso, i due piani temporali, presente e passato, interferiscono continuamente fra loro.
Si potrebbe anche dire che ad ognuno di questi piani corrispondono modalità stilistiche specifiche, una precisione di dettagli e notazioni, una vocazione realistica per la rappresentazione del presente; una vocazione lirica, un abbandono a tonalità di una straziata e straziante malinconia, nella rievocazione del passato, dal momento che il protagonista narratore sa che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, voler morire (cap. XIV).
L’atteggiamento malinconico rende la prosa di Pavese ricca di valenze ritmiche e melodiche, con un andamento poetico.
Pavese denota quindi una forte consapevolezza del valore tecnico espressivo della narrazione che è dissociato dagli aspetti tradizionali del romanzo, d’altra parte la sua arte è eminentemente simbolica, attenta a ricreare attraverso una rete sottile di metafore un particolare ritmo lirico. Egli stesso ha così definito la scrittura letteraria sua e del ‘900 lo stile novecentesco è un perenne farsi di vita interiore e traspare nei momenti in cui il soggetto del racconto è il legame fra realtà e immagine, ovvero il farsi di una realtà interiore espressiva.
IL GIORNO DELLA CIVETTA
SCIASCIA
Il giorno della civetta nasce come un racconto, nel 1960, quando lo Stato negava l’esistenza della mafia. Fino ad allora che documentazione esisteva?
I rapporti di Franchetti e Sonnino, gli scritti di Colaianni, le memorie del prefetto Mori, nulla che sostanzialmente potesse raggiungere un vasto pubblico, per questo Sciascia scrive Il giorno della civetta.
Chi aveva parlato di mafia, prima di Sciascia, aveva posto l’accento sul SENTIRE MAFIOSO, cioè su una visione della vita particolare, su regole di comportamento anomale, su un modo di realizzare la giustizia e di amministrarla al di fuori degli organi dello Stato.
Eppure, come afferma Sciascia, la Mafia è un’altra cosa, un sistema che in Sicilia muove ormai molti interessi economici e di potere di una classe, che possiamo definire borghese. Essa non nasce nel vuoto dello Stato, cioè quando lo Stato è debole o manca, ma dentro lo stato, come una borghesia parassitaria, che sfrutta soltanto.
Ed è proprio questo che vuole mettere in luce Sciascia, creando un intreccio tipico, anche della nostra società, dove mafia e poter procedono di pari passo, dove i manovratori sono coperti da autorità indiscusse.
INTRECCIO
Due colpi di lupara freddano, in un’alba grigia Salvatore Colasberna,un costruttore che ha rifiutato la protezione della mafia. L’indagine è affidata al capitano Bellodi, ex-partigiano parmense, che tenta di incrinare la coltre di omertà del piccolo paese siciliano. Un confidente, Calogero Di Bella, detto Parinieddu, fa più di un nome sui possibili colpevoli e Bellodi punta sul nome giusto: Saro Pizzuco. Un dialogo in un caffè romano e l’intervento di un’”eccellenza” mostrano che l’indagine di Bellodi è seguita con fastidio nei palazzi del potere, ammanigliato con la mafia. Scompare intanto un potatore, Paolo Nicolosi, colpevole solo di essersi imbattuto casualmente nell’assassino. La consorte ricorda che il marito, dopo i colpi di lupara, aveva visto passare di corsa un tale Zicchinetta, soprannome di un ex-detenuto, Diego Marchia. Due boss della mafia decidono di sopprimere il traditore Di Bella, che però prima di essere ucciso, rivela in una lettera al capitano il nome del “padrino”:Don Maurizio Arena. Bellodi fa arrestare sia di due sicari, Marchica e Pizzuco, sia il mandante ARENA.
Nel corso dell’interrogatorio, mediante lo stratagemma di un falso verbale,Marchica e Pizzuco sono indotti ad accusarsi a vicenda; viene intanto ritrovata, in una contrada, l’arma del primo delitto e successivamente in fondo ad un crepaccio, si rinviene anche il cadavere di Nicolosi. Manovrata dall’alto, la stampa locale sostiene che l’indagine ha trascurato, per il delitto Nicolosi, la pista giusta, quella del delitto passionale. Altri giornali, invece ventilano gravi compromissioni ministeriali, provocando, a Roma, una sequela di allarmate telefonate notturne fra alti burocrati.
Si arriva così alla scena madre del romanzo: l’interrogatorio di Don Maurizio Arena. Il capo mafia respinge ogni responsabilità, ma sostiene con fierezza la sua visione mafiosa del mondo, riconoscendo tuttavia un degno avversario in Bellodi, che a sua volta preferisce il padrino a ministri e deputati, compromessi con la mafia. Un dibattito parlamentare su “fatti di Sicilia” conferma i sospetti del capitano:un sottosegretario dichiara che la mafia non esiste se non nella fantasia dei socialcomunisti. La conclusione è scontata: recatosi a Parma per un breve congedo, Bellodi apprende sui giornali che la sua indagine è stata demolita con alibi inoppugnabili e che è prevalsa la tesi del delitto passionale. Ma Bellodi non si arrende e decide di tornare al più presto in Sicilia a “rompersi la testa”.

Bellodi ed Arena sono i due antagonisti del romanzo. Bellodi è un capitano dei carabinieri, del nord, immerso in una realtà a lui completamente sconosciuta, che tenta di svolgere il suo ruolo, svolgendo un’indagine accurata e puntuale, non immaginando che questo adempimento al dovere si scontrerà con le trame oscura del mondo mafioso.
Bellodi è un eroe positivo, secondo i canoni del Neorealismo, è un uomo colto che conosce la letteratura siciliana ed ha rispetto per questa cultura; ciò comunque non gli impedisce di essere uno straniero in mezzo al popolo siciliano.
Le prime barriere sono quelle linguistiche, modi di dire, soprannomi, INGIURIE, come le chiama la vedova Nicolosi, ovvero definizioni di una persona in base ai suoi difetti fisici o morali, ma non solo questo, Bellodi ha davanti a sé il mostro orribile dell’OMERTA’.
Tutti coloro che vengono interrogati, ricordano con difficoltà, occultano la verità, perché qualcuno più forte di loro vuole che sia così, ovvero uomini politici, in stretta connessione con la mafia.
Bellodi contro di loro non può nulla, anche se l’indagine si conclude con una certa soddisfazione. Nei confronti dei QUAQUARAQUA’ DI STATO, che parlano a vanvera e insabbiano sistematicamente la prova, Bellodi è un semplice impiegato, tenuto a piegarsi ai suoi superiori, che dovrebbero rappresentare la legge.
Ciò è evidente quando, malgrado Bellodi abbia trovato l’arma del delitto e il corpo di Nicolosi, gli stessi giornali, manovrati dall’alto, lo accusano di aver trascurato la pista più plausibile, quella del delitto passionale. Roma ancora trova un escamotage nella cultura e nelle tradizioni siciliane stesse, sfruttando l’idea che tutti avevano della Sicilia, terra di passione e di vendetta, facendo leva su questo, il potere politico riesce a tenersi nascosto.
Di fronte a Bellodi si erge però il capo mafioso, Arena, il padrino,tradito da Di Bella. Sciascia delinea questo personaggio come una figura epica, scaturita dalla stessa storia della Sicilia. E’ un personaggio di grande rilievo, perché denota un’etica superiore, pur nella sua feroce primitività , a quella dei suoi protettori politici.
L’autore gli conferisce una vigorosa statura umana, pur non condividendo la sua filosofia mafiosa, “né rimorso, né paura, mai” ecco come ha vissuto fino ad ora coerente, quasi in modo machiavellico, alla cieca e tragica volontà, che è il male di cui si è circondato.
D’altra parte afferma Sciascia, intervenendo come un autore onnisciente a sottolineare alcune particolari affermazioni di Arena, durante l’interrogatorio con Bellodi “E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole, su una realtà immobile e putrida”.
Don Mariano Arena si è dovuto conquistare il rispetto con la forza,conosce poche cose, non è colto, ma sa su che cosa si basano i rapporti umani e soprattutto le leggi del vivere civile.
Questa sua grande forza morale, che viene tratteggiata con particolare attenzione da Sciascia, incute rispetto a Bellodi, che quando si sente definire dal capo mafia UN UOMO, non ha alcuna perplessità a dire:” Anche lei è un uomo.” Forse Bellodi condivide, se pur con grande disagio, la definizione delle categorie umane, data da Don Mariano: GLI UOMINI, I MEZZI UOMINI. GLI OMINICCHI,I CORNUTI E I QUAQUARAQUA’. L’umanità si dovrebbe fermare ai mezzi uomini, invece scende fino agli ominicchi, che sono come i bambini, che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse moine dei grandi; i cornuti, che vanno diventando un esercito e i quaquaraqua’, onomatopea per indicare gente che dovrebbe vivere come le anatre nelle pozzanghere, perché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre.
Bellodi è invece un uomo e d Arena, malgrado inchiodato da lui, non si sente né offeso né umiliato. Forse con i quaquaraqua’ Don Mariano si riferisce a tutta la classe politica, che si appoggia sulla mafia, che conta sul silenzio di questa per tramare dietro le quinte, salvando sempre e comunque la faccia. Ciò non può non apparire evidente, quando il sottosegretario alla Camera con una dichiarazione, nega l’esistenza del fenomeno mafioso, attribuendo l’insinuazione e l’accusa di avere rapporti con la mafia alla fantasia dei socialdemocratici, quando invece il ministro Mancuso aveva avuto “l’ingenuità di farsi fotografare con Don Mariano”.
Ecco dunque che appare chiaro come lo stato non ha proprio alcun diritto di proclamarsi innocente di fronte alla mafia.
Chi è questo sottosegretario alla Camera?
Sciascia ricorre all’espediente narrativo dell’anonimo, per non incorrere in un’accusa di vilipendio, denunciando così la mancanza di libertà, che ha caratterizzato la stesura di questo libro, quella stessa mancanza di libertà, che ha caratterizzato tutta l’operazione giudiziaria di Bellodi.
Non appena torna a Parma, infatti, per un congedo, la sua indagine viene demolita da prove inconfutabili, che mettono sempre più in evidenza il movente del delitto passionale, mai preso in considerazione da Bellodi. Bellodi, leggendo queste notizie, a casa sua, nella sua terra, lontano da quel mondo, che però ormai gli è entrato nelle viscere, non può provare altro che “un’impotente rabbia”.
Eppure sente ormai di amare la Sicilia a tal punto da volerci tornare, fosse solo per rompersi al testa. Determinanti sono gli ultimi pensieri che attraversano la mente di Bellodi, prima che per il lettore cali il sipario su questo personaggio.
E come non attribuirli a Sciascia, il vero siciliano. Camminando in una Parma, immersa nel silenzio della neve, pensa Bellodi: In Sicilia le nevicate sono rare, forse il carattere delle civiltà è dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalgano.
Quel Bellodi che prima faceva leva sulle sue conoscenze letterarie per comprendere e permeare il carattere dei siciliani, i loro modi di pensare, ora lo intuisce in tutta la sua peculiarità di essere isolani, di essere siciliani, come fosse uno di loro.
TECNICHE NARRATIVE E LINGUAGGIO
Il giorno della civetta si presenta come un libro giallo e Sciascia ricorre a tale genere perché la tecnica narrativa poliziesca impedisce al lettore di lasciare a metà il libro.
Eppure alla fine del romanzo lo schema del giallo viene ribaltato, dal momento che il colpevole si salva, grazie all’omertà del potere.
Non proprio un giallo quindi, ma un romanzo pamphlet, che con il suo titolo shakesperiano allude non solo a quella spietata lotta per il potere e a quella corruzione, che rendono la Sicilia della mafia, molto simile all’Inghilterra dell’Enrico IV, ma anche al contrasto tra la luce della ragione, IL GIORNO, e l’ombra della morte e del delitto,LA CIVETTA, presenza incombente, anche attraverso la descrizione di alcuni paesaggi, come quello del CHIARCHIARO,un insieme di buche, grotte e d anfratti. La stessa struttura del paese con case murate in gesso, con strade ripide e gradinate, simboleggia l’impossibilità di poter penetrare e permeare quel muro secolare del silenzio, quella paura di essere coinvolti dalla legalità nella lotta contro la mafia.
Il siciliano d’altra parte deve convivere con la mafia e deve evitare di vedere ciò che la mafia fa.
Basti pensare proprio all’inizio del romanzo quando IL PANELLARO, venditore di panelle,focacce fritte con farina di ceci,pur avendo assistito al delitto, interrogato se sa chi ha sparato, chiede PERCHE’ HANNO SPARATO?.
Tutti Negano quella realtà di violenza, quella legge mafiosa che è severa ed inderogabile, per evitare di diventarne vittima.
Proprio questo atteggiamento d’altra parte ha aiutato la mafia ad imporsi senza alcun ostacolo.
Dal punto di vista linguistico tre sono gli elementi principali, i soprannomi, il gergo dei mafiosi, i proverbi.
I soprannomi, ovvero le ingiurie, sono determinanti per comprendere quella cultura siciliana, tanto familiare a Sciascia, che ci innesta in un mondo nuovo e lontano, un mondo che già avevamo conosciuto con Verga.
La Sicilia allora appare in tutta la sua singolarità, anche e soprattutto linguistica.
La prima barriera per Bellodi, ma anche una difesa per gli stessi siciliani, sempre capaci di contraddistinguersi.
Ogni soprannome delinea quindi fulmineamente una personalità: Zicchinetta, delinquente che gioca d’azzardo, non solo con le carte ma anche con la giustizia.
Parinieddu, piccolo prete, per indicare una persona dall’untuosa ipocrisia e dal facile eloquio.
La gente del posto a volte non conosce neppure i nomi reali, ma solo i soprannomi.
I proverbi non sono una novità, già Verga li aveva resi simbolo di una cultura, di una saggezza popolare, di una cristallizzazione sociale. Con Sciascia essi mantengono tale valore, danno voce ad un modo di pensare che isola la Sicilia dal resto di Italia.
“Bianca campagna, nera semenza, l’uomo che la fa, sempre la pensa”, proverbio messo in bocca ai fratelli Colasberna, ma che indica l’antica paura irrazionale e quasi superstiziosa del popolano nei confronti della scrittura, la nera semenza è quindi metafora dell’inchiostro che fissa ed immortala ciò che pensa un uomo e che poi gli si ritorcerà contro.
E’ la diffidenza verso la cultura e la civilizzazione che il continente cerca di imporre alla Sicilia, ma niente riuscirà ad eliminare l’idea che il siciliano ha del continentale, uomo efficiente ed attivo, ma completamente estraneo al modo di pensare dei siciliani ai rapporti sociali, che fra loro esistono.
E LU CUCCU CI DISSE A LI CUCCUNOTTI A LU CHIARCHIARU NMI VIDIEMMU TUTTI.
Il cuculo disse ai propri figli, al Chiarchiaro ci incontreremo tutti. Con questo proverbio si allude al tragico appuntamento con la morte a cui nessuno può sottrarsi, accettazione quindi di una sorte dovuta a tutti, insita già nel concetto stesso di vita.
GERGO MAFIOSO: Altro elemento di fondamentale importanza, con Sciascia apprendiamo il vivo e colorito linguaggio mafioso, una terminologia precisa, che delinea una vera e propria organizzazione con regole e gerarchie perentorie.
Il confidente , la cosca(corona di foglie del carciofo), la persona di rispetto, l’astutatu(ucciso come si spegne una candela).
Per la prima volta con IL giorno della civetta emerge e si delinea una realtà, quella mafiosa, in tutta la sua consistenza e in tutta la sua essenza.
Il gergo mafioso è un linguaggio che caratterizza una società nella società, dove le regole sono ferree ma non scritte.
Tutto il libro è sicuramente impiantato sul dialogo, sul discorso Diretto, che mette a confronto due mondi, la Sicilia e il Continente, la Sicilia e Bellodi, ma non mancano veri e propri interventi in prima persona dell’autore, che si configura come un testimone della vicenda. Un narratore interno, capace anche di focalizzare il punto di vista dei personaggi, come un narratore onnisciente. Nei pensieri di Bellodi c’è Sciascia, che non può fare a meno di intervenire e di giudicare, anche se indirettamente, il suo mondo, forse prova a guardarlo attraverso gli occhi di Bellodi, per comprenderlo meglio.
1984
ORWELL
1984 Londra. Il mondo è diviso in tre iperstati simili e in guerra tra loro:Oceania,Eurasia, Estasia. In Oceania la società è governata secondo i principi del Socing socialismo inglese, dal Grande Fratello, che tutto vede e tutto sa.
I suoi occhi sono le telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio la psicopolizia, che interviene al minimo sospetto. Tutto è permesso, non c’è legge scritta, tutto tranne pensare, se non secondo il Socing. Tranne amare se non riprodursi. Tranne divertirsi, se non con i programmi tv di propaganda.
1984 viene scritto da Orwell nel 1948,in un periodo in cui la vicenda dell’olocausto e delle due guerre, avevano evocato immagini spettrali del futuro. E’ un’utopia, quella proposta da Orwell, che rispecchia comunque alcuni elementi propri della nostra società, quali l’annullamento delle differenze ideologiche fra le superpotenze, la tecnologia come mezzo di contatto sociale, la persecuzione degli oppositori politici nei focolai dittatoriali in America Latina, la strumentalizzazione dei mass media.
Il grido d’allarme che giunge dalle pagine di Orwell è quello dell’indifferenza, che tollera forze annichilenti, la libertà e la dignità individuale.
Il protagonista Winston Smith o l’ultimo uomo d’Europa si sottrae però a questo annichilimento, dapprima comprando un quaderno, poi intrecciando una relazione con Julia.
Cerca di raccordare forze consistenti per opporsi l Grande Fratello, ma tutte quelle persone, in cui pensa di vedere la sua stessa insofferenza al regime, sono spie della psicopolizia.
Il signor Carninghton e O’Brien non sono altro che strumenti del Grande Fratello, lo avvicinano solo per scoprire fino a che punto è contro il regime.
I tre iperstati sono sempre in lotta tra loro, da sfondo alla vicenda vi è la guerra dell’Oceania contro l’Eurasia, nemico spaventoso con cui sembra impossibile qualsiasi tipo di alleanza. In effetti questa propaganda annulla il fatto che solo 4 anni prima Oceania ed Eurasia erano alleate contro l’Estasia.
Questa menzogna del partito si deve comunque accettare, chi non lo fa è contro il partito.
Lo slogan del Socing è d’altra parte che il passato è mutevole.
LA GUERRA E’ PACE.
LA LIBERTA’ E’ SCHIAVITU’.
L’IGNORANZA E’ FORZA.
Nel mondo immaginato da Orwell tutti vivono sotto lo stretto e costante controllo del Grande Fratello.
Il governo è diviso in quattro ministeri: Ministero della verità, Ministero della pace, Ministero dell’abbondanza, Ministero dell’amore.
Esiste una lega giovanile anti-sesso, in quanto il sesso è considerato solo funzionale alla riproduzione.
La giornata è scandita dal lavoro, dai due Ministeri dell’odio, dalle riunioni del partito. Winston è impiegato al ministero della verità. Una volta al mese come spettacolo, a cui necessariamente sono ammessi anche i bambini, vengono impiccati i prigionieri eurasiani.
Chi veniva considerato un traditore invece scompariva, a volte dopo molto tempo compariva di nuovo, oppure non se ne sapeva più niente.
Ai genitori di Winston era accaduto ciò, Winston si rende ben presto conto che per sconfiggere il Grande Fratello, non è solo necessario ribellarsi, ma recuperare la propria coscienza storica, il passato, mentre ha perso addirittura il senso del tempo.
In un negozietto di roba vecchia, trova tanti oggetti che appartengono a questo passato così lontano, che nessuno vuole più ricordare, neppure il signor Carninghton.
Girovagando fuori Londra recupera nella sua mente vecchie strofe di canzoni e chiede a chiunque gli sembra abbastanza vecchio di aiutarlo a ricordare, ma sembra che nessuno lo sappia più fare.
Elemento di forza del partito è annullare la coscienza, non vuole solo obbedienza, ma amore assoluto.
Solo i PROLET, che vivono nei sobborghi, sembrano estranei al controllo totale del partito,gente povera, donne pronte a prostituirsi. Winston passando in mezzo a loro, si rende conto che solo dai PROLET può giungere una vera e propria rivolta.
Il resto della popolazione ha infatti perso interesse per tutto, fa sesso ma non per provare piacere, lavora ma non per fare carriera; tutto è in funzione del partito, anche il matrimonio.
I prolet giocano ancora al lotto, si abbandonano ai piaceri erotici, eppure non sono consapevoli del proprio potere.
Quando Winston perde la speranza che qualcosa possa cambiare, appare nella sua vita Julia, che lui credeva una della psicopolizia.
Con Julia riscopre l’amore che non aveva vissuto con la moglie Katherine e fare l’amore improvvisamente fare l’amore non diventa più un dovere verso il partito.
Prendono in affitto una camera presso il negozio del signor Carninghton e così firmano la loro condanna.
Scoperti, vengono tenuti sotto controllo, senza che loro se ne accorgano e vengono avvicinati da O’Brien, con la scusa del nuovo dizionario sulla Neolingua, che sostituirà l’Archeolingua.
Da qui alla loro cattura, passa poco tempo. Torturati vengono condotti a ciò che più pretende il partito:l’annullamento della coscienza.
Entrano dentro di loro fino a far loro ammettere che il Grande Fratello è la loro unica ragione di vita.
Il romanzo si conclude con l’amore “ritrovato” da parte di Winston per il Grande Fratello.
IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI
BASSANI
INTRECCIO
L’opera è introdotta da un bellissimo prologo, una visita alle tombe etrusche di Cerveteri durante la quale al narratore viene in mente il destino dei Finzi-Contini, ebrei agiati di Ferrara, morti in qualche campo di sterminio nazista, scomparsi nel nulla.
Dal silenzio della necropoli l’io narratore è ricondotto nello slancio della memoria, al ricordo della casa appartata dei Finzi-Contini e del magnifico giardino che la circondava, spazio allusivo della loro VOCAZIONE ALLA SOLITUDINE.
La famiglia era costituita dal professor Ermanno, dalla moglie Olga, dai figli Alberto e Micol e dalla vecchia madre di Olga,signora Regina.
Dopo aver ricordato i primi e rari incontri con i due fratelli durante le cerimonie religiose, il narratore si sofferma a parlare di Micol, che un giorno, nel ’29, lo aveva invitato a scavalcare il muro di cinta della villa, familiarizzando amichevolmente con lui. Uno stacco di quasi dieci anni, ci porta nel 1938, l’anno della promulgazione delle leggi razziali fasciste, allorché Alberto e Micol aprono il loro giardino, con l’annesso campo da tennis, alla frequentazione di alcuni coetanei, estromessi dal circolo tennis.
Il protagonista – narratore ha modo di conoscere meglio i due giovani Finzi-Contini, il fragile e chiuso Alberto, la bella e d enigmatica Micol, della quale inevitabilmente si innamora, ora incoraggiato ora deluso dalla ragazza, che improvvisamente parte per Venezia, per concludere gli studi.
Egli continua a frequentare la casa dei Finzi-Contini, approfittando della loro fornitissima biblioteca, a parlare con Alberto e con Giampiero Malnate, un comunista milanese.
I rapporti con Micol si raffreddano, perché la giovane lo respinge, mentre si rafforza il sospetto che ella ami Malnate.
Nell’epilogo vengono riassunti gli avvenimenti successivi: Alberto muore di linfo-glaucoma, prima di vedere la rovina della famiglia; Malnate scompare sul fronte russo; Micol, i genitori e la nonna sono deportati in Germania, da dove non faranno più ritorno.
E’ evidente il procedimento della MEMORIA GUDICANTE di Bassani che, da un lato rievoca a posteriori le vicende tragiche dei personaggi, condensandole nell’epilogo, dall’altro ne anticipa il senso, attraverso i presentimenti dolorosi del personaggio. L’intrecciarsi della doppia prospettiva crea un grande effetto poetico, soprattutto quando la rappresentazione di una quotidianità inerme si carica di presagi funerei.
Gli stessi oggetti, la carrozza abbandonata, il cane sdentato, il campo da tennis senza giocatori, assumono un significato di abbandono o di morte, di cui si fa consapevole Micol, sempre malinconicamente aggrappata al CARO, DOLCE, PIO PASSATO.
Il romanzo appare nel 1962, ma la gestazione di tale romanzo risale agli inizi degli anni ’40, un’elaborazione memoriale, che dimostra come la resa di un libro sia direttamente proporzionale al tempo necessario per maturarlo.
La Bellonci ha definito così Il giardino dei Finzi-Contini: “Bassani non cede ad una memoria evocatrice e lirica, ma inserisce le persone e le cose della realtà in un mondo di immagini in un intrico di analogie. Si giova di precisi ricordi, creati come documento d’archivio, per ricostruire la realtà nella sua certezza sociale e morale.”
Bassani conduce il suo personaggio nel vivo della narrazione, cosi che nessuna esperienza, a cui lui partecipa, ci diventa estranea.
Tutto è ridotto al presente, un presente storico, ingigantito da una memoria e da un’intelligenza vigile che resuscita ricordi, emozioni e particolari psicologici.
Viene colta la vita e lo stile della borghesia agiata degli anni ’40, in un periodo di cocente trapasso, di timori e di irrevocabili decisioni.
La famiglia Finzi Contini è rappresentata al massimo del suo splendore e conscia di stare vivendo gli ultimi memorabili giorni della sua storia. Eppure in tutto questo presentimento non vi è un tetro CUPIO DISSOLVI, un desiderio di dissolvimento e morte, quanto un desiderio di immutabilità, anche se tale presunzione si manifesta nel momento meno adatto, ovvero quando l’ingranaggio implacabile della storia si è messo in moto, per distruggere con i Finzi-Contini il loro mondo, il civilissimo mondo israelita.
I Finzi-Contini sono una famiglia israelita di primissimo rango, quasi dei principi borghesi, La loro villa e le loro terre hanno qualcosa di aristocratico. Essi vivono appartati nei confronti dei loro corregionali, che hanno invece potenti collusioni, come l’io narrante, con la società e con i cattolici, che si preparano invece ad infliggere una memoriale persecuzione agli ebrei di tutto il mondo. Questa famiglia, che Bassani prende in esame, vive in questa sua dimora, al fondo della via più antica e meno frequentata della città,Ferrara.
Nella MAGNA DOMUS, dove il tempo sembra essersi fermato, in mezzo ad un enorme parco, dove esistono le essenze più pregiate, alcune quasi sconosciute, non solo in Italia, ma anche nei paesi di origine: Esiste un campo da tennis, grande passione di Bassani, dove sono ammessi solo pochi privilegiati, fra cui il protagonista, che racconta la storia.
I Finzi-Contini vivono in una solitudine orgogliosa, ad esempio il professor Ermanno fa restaurare una piccola sinagoga, da adibire a luogo di culto per sé e per la sua famiglia, oltre al fatto che l’intera famiglia parla per così dire, quasi con posa decadente, un linguaggio vecchio e logoro, che si può definire finzi-continiano.
Vi sono espressioni di Colette, di Gide, di Oscar Wilde. Il professor Ermanno, studioso di letteratura e di agraria, colmo di orgoglio, rasenta perfino un’aridità di cuore, ma è tutt’altro che arido, se apre la sua casa, la sua biblioteca, la sua esperienza di studioso al giovane israelita, che narra la vicenda e che si deve laureare in lettere.
Professor Ermanno e Olga (sua madre è Regina)
ALBERTO MICOL GUIDO(morto a sei anni, sepolto in un mausoleo)

Alberto è un giovane dai comportamenti contraddittori, aperto alle idee nuove, eppure esclusivo negli affetti e nelle amicizie. Veste all’inglese, si apparta da tutti e dalla vita a poco a poco.
Morirà di linfoglaucoma prima della deportazione ebraica.
Micol, sorella di Alberto, di lei si innamora l’io narrante, corrisposto solo in parte.
E’ la figura centrale del romanzo, viva e intelligente, di pronta sensibilità.
Ha i capelli biondi, gi occhi chiari, corpo slanciato, pelle color del miele.
Si laurea in letteratura inglese su Emily Dickinson, ama Baudealire e Mallarmè. Ricorda i personaggi di Proust.
Questa vivacità non le impedisce di considerare il senso della morte, come un sentimento naturale, Micol ritiene che quando una cosa è vecchia, è giusto che debba morire. Quando Micol getta via la barca, con cui giocava da fanciulla, lo fa senza rimpianti.
Attraverso Micol, Bassani entra in sintonia con il lettore, proprio nella doppia qualità di essere appassionato e ragionevole allo stesso tempo.
Micol è legata alle bellezze di oggi e alla dolcezza del passato. Micol è un misto di concerto e sognante che la distingue, e con cui attira il narratore producendo una ferita che non si cicatrizzerà più.
Micol pertanto è la punta più alta ed aguzza, nell’ambito della futura tragedia.
Il professor Ermanno, la moglie Olga, la vecchia madre Regina, Alberto e Micol scompaiono nel turbine storico, che divora tutto e tutti.
Alberto è l’unico che non subisce l’oltraggio nazista.
Rinunciatario in tutto nell’ozio, nell’intelligenza, negli studi, nell’amicizia, si avvierà verso la morte con la consapevolezza dei forti o meglio dei deboli, che al momento della prova sanno mostrare forza d’animo.
Siamo ormai alla fine del Romanzo nel 1942 e i Finzi-Contini saranno deportati in Germania e di loro non resterà traccia.
Bassani quindi ricostruisce la trama della vita dei Finzi, con l’affetto del postero.
Il libro che si era aperto con un Prologo fra le tombe etrusche, si chiude su quelle dei Finzi-Contini, che proprio come gli Etruschi hanno vissuto appartati tra i contemporanei, legati al culto degli antenati, alla memoria della loro GENS, pur essendo allo stesso tempo affabili e conversevoli.
Fin dal prologo tutto si dispone a nascere e a morire, quasi musicalmente, si crea infatti una tessitura ritmica, che allarga cerchi sempre più tremolanti e con isolate voci di strumenti, che folgorano i momenti decisivi della storia sentimentale e politica.
Questa tecnica narrativa fa si che a libro terminato rimanga una mesta tenerezza a galla dell’anima, per quei personaggi che se ne sono andati quasi in punta di piedi, per Micol.
Il romanzo è comunque una grande metafora della vita e della morte, ma anche della poesia.
Bassani come uomo sente il desiderio di dare, anche attraverso la sua narrativa poetica, un contributo concreto agli altri uomini.
L’autore avverte la necessità di fuggire dai regni luminosi,ma irreali dell’arte, per impegnarsi tutto nella vita. Micol rappresenta, con il suo sognante atteggiamento e con la sua negazione della vita, l’atteggiamento del poeta e il suo ruolo nella società.
Bassani vorrebbe addentrarsi nel labirinto della vita, ma riesce ad addentrarsi solo in quello della sua città, Ferrara.
Attraverso la scoperta di Ferrara e di ciò che c’è al di là del muro di cinta della villa dei Finzi, egli vuole scoprire il segreto poetico.
In virtù di ciò l’autore costruisce il romanzo non della memoria ma della realtà memoriale, per realizzare una visione storica e storicista della realtà, introduce date, distingue le varie specie di fascismo, analizza compiutamente non da contemporaneo, ma da postero di se stesso, il dato fenomenico di quanto accade.
Si occupa di una famiglia campione, quella dei Finzi-Contini, per cercare di cogliere la dicotomia fra poeta e letterato. Il poeta desidera il contrario di ciò che fa, il letterato fa ciò che desidera.
Questa scoperta avviene metaforicamente, attraverso il simbolo della camera di Micol.
La camera di Micol è lontana, difficile da raggiungere, come avviene appunto per la poesia, che alla fine del romanzo ha il volto di una donna e di una fanciulla, frutto del ricordo del volto ambiguo di Micol.
Sulla vita si stende sempre l’ombra della morte, forse potremmo dire che l’opera prende le mosse proprio dalla morte, come se l’autore solo così possa arrivare ad una rinascita e ad una rifondazione dell’esistenza.
DOPPIO SOGNO
SCHNITZLER
La Vienna di Schnitzler è una delle grandi metropoli europee di fine ottocento, prodotto di una società complessa e vitale. La compattezza dell’impero asburgico inizia a vacillare sotto le spinte delle tensioni nazionalistiche e delle tensioni sociali.
La borghesia industriale diventa il nuovo motore della società e con il suo stile di vita modifica radicalmente la vita sociale viennese.
In questo FINIS AUSTRIAE la letteratura e l’arte interpretano i mutamenti e le tensioni che avrebbero spinto l’Europa al primo conflitto mondiale:una crisi politica e d economica, che coincide con una profonda crisi di valori e di identità individuale e sociale.
L’opera di Schnitzler indaga proprio i movimenti più segreti della vita umana e soprattutto delle pulsioni amorose e sessuali.
Il romanzo è ambientato nella Vienna apparentemente borghese e tranquilla, in cui emergono inquietanti personaggi, le maschere dilagano, si aprono porte segrete, si svelano esseri equivoci, incombono giudici oscuri e feroci.
Personaggi principali sono Fridolin e Alberatine, lui medico, lei casalinga.
Tutto inizia ad una festa mascherata, dove la coppia viene avvicinata da due figure mascherate in domino rosso.
Questi fantasmi del ballo in maschera la sera seguente, mentre la bimba dorme, riemergono come occasioni perdute. Entrambi cominciano a confidarsi l’attrazione esercitata su di loro da partners sconosciuti. Da questa leggera conversazione passano però ad un argomento più serio, a quei desideri nascosti che “possono originare torbidi e pericolosi vortici, anche nell’anima più limpida e più pura”.
E’ Albertine a tirare fuori quello che nasconde, a rievocare l’incontro con un giovane danese nell’estate precedente.
Su quel ragazzo sconosciuto Albertine aveva fatto mille sogni, mille progetti, pronta a mandare in aria matrimonio e figlia per lui, senza neppure conoscerlo.
Tocca poi a Fridolin rievocare l’incontro con una ragazza, con cui non aveva scambiato neppure una parola, ma che l’aveva profondamente turbato.
Se questi sogni erano avvenuti ad occhi chiusi, per Fridolin iniziano quelli ad occhi aperti, più pericolosi, che provocheranno notevoli sconvolgimenti nella sua vita e in quella della moglie.
Fridolin rimane completamente sconvolto dalla confessione di Albertine, che improvvisamente non gli appare più la donna dai sani principi che aveva sposato.
Da questo momento, forse perché con ansia di vendetta li cerca, iniziano per lui incontri notturni strani e devastanti. Dapprima gli si dichiara Marianna, figlia di un suo paziente , proprio quando giunge per poter recare soccorso al malato, senza però poter riuscire a salvarlo.
Poi in un altro girovagare notturno incontra un suo amico dei tempi universitari, Nachtigall, che gli confida di suonare, dopo i consueti spettacoli in piccoli bar,presso gente, che lo benda mentre suona e che si diletta in orge.
Entusiasmato da tale mistero, Fridolin decide di affittare una maschera, noncurante degli avvertimenti dell’amico.
In questa starna festa, una donna l’avverte di stare attento, perché se lo scoprissero, finirebbe male.
Fridolin attratto ed inebriato dalle maschere e da quei sogni, che stanno per tradursi in realtà, vaga per la villa attirando l’attenzione degli abituali partecipanti.
Scoperto, alla richiesta della parola d’ordine Fridolin, viene cacciato, ma si salva solo perché la donna, che inizialmente lo aveva riconosciuto, lo riscatta.
Fridolin rimane ossessionato dal ricordo di questa donna e dal mistero del prezzo da pagare, che i partecipanti incappucciati le hanno imposto, per non averlo smascherato e per averlo difeso.
Da un lato pensa a lei come ad una prostituta, dall’altro come ad una donna dell’alta borghesia dalla doppia esistenza.
O era tutto un gioco, uno scherzo fatto a lui , estraneo?
Tornato a casa ripone il costume, nascondendolo ad Albertine, ma lei si sveglia e sconvolta decide di raccontargli un sogno, che ha appena fatto. A questo punto il sogno diventa doppio. Fridolin ha vissuto un’esperienza, che Albertine ha solo sognato.
IL SOGNO DI ALBERTINE
Albertine aveva sognato di doversi sposare e di trovare nell’armadio dei costumi.
Appare Fridolin, vestito con preziosi abiti. Entrambi in costume si elevano in volo, per poi approdare in una stanza, dove si amano.
Ma Albertine afferma:Ma come spiegartelo…nonostante l’intensità dell’abbraccio, la nostra tenerezza era molto malinconica, come per il presentimento di un dolore ineluttabile.
Fridolin dopo questa notte dagli strani eventi, inizia a cercare l’amico in albergo, dove alloggiava, ma gli dicono che dei signori lo hanno accompagnato a prendere la sua roba e lo hanno condotto via.
Fridolin, malgrado riprenda la vita di ogni giorno, è ossessionato dalla civetteria di ogni donna, e pensa “Una vale l’altra, Albertine è come loro, furba, è la peggiore di tutte.”
Decide di tornare alla villa della notte precedente, ma arrivato al cancello, un servitore gli porge una lettera, con cui si esorta a lasciar perdere le proprie indagini, un secondo avvertimento, dopo quello della sera precedente.
Nel suo girovagare notturno apprende che la baronessa D. alle 4 del mattino, di quella notte in cui era stato alla villa, riaccompagnata all’albergo da due uomini, è morta nella sua camera.
Fridolin va all’obitorio per vedere il viso di quel corpo, che ora sul tavolo della camera mortuaria è “ombra fra le ombre e un oscuro corpo, privo di senso e segreto, il cadavere della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione”.
Ritornato a casa Albertine lo accoglie consapevole di ciò che è accaduto al marito e a lei.
Il romanzo si chiude con un dialogo sconcertante.
Che dobbiamo fare?
“Ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure…da quelle vere e da quelle sognate.”
Ne se proprio sicura? Chiese Fridolin
“Tanto sicura da presentire che la realtà di una notte e anzi neppure quella di un’intera vita umana, non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità.”
“E nessun sogno è interamente sogno, disse Fridolin, ma ora ci siamo svegliati, per lungo tempo.”
Fridolin e Albertine sono due personaggi anti-convenzionali nella Vienna di inizio ‘900, entrambi scossi dalle loro pulsioni amorose, dai loro sogni erotici,che sentono però di dover comunicare all’altro senza pudore.
Entrambi si dicono cose che un uomo e una donna non si dicono mai, osano sfidare le convenzioni che regolano un rapporto, come quello coniugale.
Entrambi svelano quello che desiderano e che in fondo desiderano tutti, ma che nessuno ha la forza di esternare per pudore e per vergogna.
Tutti abbiamo dei sogni, vaghiamo tutti con la mente per sfuggire alla banalità e alla quotidianità, perché quello che abbiamo non ci soddisfa mai, completamente.
Spesso però rimaniamo prigionieri di questi sogni e non abbiamo il coraggio di realizzarli e di esternarli, perdendo così ciò che forse si potrebbe recuperare.
Fridolin ed Albertine hanno questo coraggio e riescono a recuperare un rapporto, che si sarebbe certamente sgretolato sotto il peso delle visioni di quei sogni ad occhi completamente aperti o completamente chiusi, che avevano preso il posto della vita reale.
Ciò non significa che Fridolin ed Albertine riescano a superare ogni difficoltà, anche in seguito, Albertine stessa dice che non si può ipotecare il futuro, le forze oscure dell’inconscio, della tentazione e del destino sono sempre lì. Quando però si è avuto il coraggio di riconoscerle e condividerle senza pudore, le forze oscure possono portare una nuova luce.
Schnitzler pone l’accento sull’incomunicabilità che c’è fra gli uomini, fra gli uomini e le donne,incomunicabilità che mina dalle fondamenta i rapporti, in modo lento ma inesorabile.

DOPPIO SOGNO E LA PSICANALISI
La tematica onirico-surreale di TRAUMNOVELLE induce sicuramente a pensare alla psicanalisi, come il suggestivo modello di Schnitzler.
L’autore conosceva Freud ma mantenne sempre una distanza critica da lui.
Sarà Freud nel 1922, consideriamo che l’opera viene scritta fra il 1921 e il 1925, ma era già sta abbozzata nel 1907,ad uscire allo scoperto e ad affermare di non voler incontrare Schnitzler, per paura di incontrare un suo sosia.
Freud riconosceva a Schnitzler grandi capacità di indagatore della psiche umana, ma stabiliva una netta e inequivocabile differenza fra intuizione dello scrittore e lavoro faticoso dello scienziato.
Schnitzler, in alcuni scritti raccolti sotto la parola chiave “Psicanalisi” , afferma che non è nuova la psicanalisi, ma Freud, come non era nuova l’America ma Colombo.
Egli afferma di non accordare all’inconscio un’eccessiva autorità all’inconscio, mentre gli psicanalisti si, inoltre riguardo la simbologia onirica afferma che “Solo quei fenomeni che sono passati nella nostra coscienza, sono utilizzabili per l’interpretazione dei sogni.”
Egli riconosce invece una grande importanza al MEDIOCONSCIO, perché secondo Schnitzler, da lì provengono al conscio alcuni elementi, mentre altri precipitano nell’inconscio.
Quest’ultimo non è così vicino come si pensa, la rimozione pertanto avviene proprio verso il medioconscio. L’arte del poeta, secondo l’autore, consiste nel tracciare, quanto più decisamente possibile, i limiti fra conscio, medioconscio e inconscio.
Freud dopo aver letto TRAUMNOVELLE disse soltanto di aver riflettuto molto su questa novella, poi però nient’altro, forse per il timore del sosia o perché la distanza fra l’opera di Schnitzler e la psicanalisi era incolmabile.
TEMATICA E STRUTTURA
La novella si articola in 7 parti e scandisce le alterne vicende e fasi della crisi di una coppia emblematica, lo sgomento dell’individuo di fronte alla enigmatica e instabile realtà dell’esistenza.
Non è la prima volta che l’autore si focalizza sul matrimonio e sull’incomunicabilità che turba l’equilibrio del rapporto fra uomo e donna.
Questa volta però la crisi si struttura secondo un diagramma di turbamenti paralleli, tanto da giustificare il titolo DOPPIO SOGNO, DOPPIA NOVELLA. La facciata della tranquilla famiglia borghese di Vienna è la prima cosa che Schnitzler tende a sottolineare per poi scardinarla lentamente.
La facciata inganna la realtà, è un paravento illusorio che nasconde un groviglio di dubbi, angosce, di aggressività, di desideri repressi, che una volta liberati, coinvolgeranno i personaggi in una ridda di avventure reali fantastiche e sognate, costringendoli a percorrere tutta la loro crisi, stazione per stazione, alla ricerca affannosa di una verità che non esiste, se non nel tentativo di una reciproca comprensione.
E’ quasi una commedia di disinganni e di desideri insoddisfatti. Nessuna delle avventure erotico-surreali giungerà a compimento, l’orgia di piacere e di libidine incontrollata di Albertine è solo un sogno. Tutto porta ad un’alienazione simboleggiata dalla maschera. Non a caso il romanzo si apre con un veglione mascherato, prosegue con il mascheraio Gibiser, con la partecipazione notturna di Fridolin al ballo nel club. Tutto è assenza di volti e allo stesso tempo si conclude con il confronto con la morte della donna, all’obitorio.
Questi sono i segni della perdita d’identità, che connota la crisi dei personaggi. La storia si dipana quindi fra il progressivo allontanarsi affettivo di Fridolin e d Albertine e il progressivo ricongiungimento. La loro condizione psicologica fa pensare al medioconscio, all’ondeggiare angoscioso fra comprensione e incomprensione. La ritrovata intesa finale di Fridolin e d Albertine, dopo la turbinosa notte dei desideri inappagati, acquista IL VALORE DI UN’ASCESA AL CONSCIO, che senza fornire certezze può giustificare il rischio. Il rischio corso infatti consente di squarciare il velo delle apparenze e l’illusorietà della realtà.
Il riferimento al destino nella chiusa del libro rimanda, secondo una struttura ciclica e circolare, al colloquio iniziale, protetto e ovattato dalla sicurezza dell’atmosfera familiare.
Da un semplice scherzo passano ad un argomento più serio e così trasformano il sogno in regione dell’anima, in cui è possibile realizzare i desideri repressi. Albertine è la prima ad intraprendere il viaggio liberatorio negli abissi della coscienza.
Il sogno di Albertine diviene comunque azione onirica speculare rispetto alle avventure notturne di Fridolin.
Il sogno di Albertine non ha un contenuto latente e non deve essere decodificato, il materiale onirico è un insieme di residui diurni. Esso è comunque parallelo all’avventura di Fridolin. Mentre lui non riuscirà a possedere la bella sconosciuta nel circolo segreto, Albertine in sogno si concede al danese e assiste alla crocifissione di Fridolin che accetta il sacrificio, pur di restarle fedele.
La risata isterica di Albertine e l’orrore di Fridolin di fronte al volto della moglie segnano la loro completa alienazione.
E’ vero comunque che il sogno per Albertine ha avuto una funzione catartica, lei si è liberata così dal suo odio per l’incomprensione del marito, inoltre ha costretto Fridolin a riflettere sulla sua stessa infedeltà, che solo per un gioco del destino non si è tradotta in realtà.
E’ da questo momento che Fridolin comincia a rientrare inconsciamente nella sua esistenza, così come inconsciamente ne era uscito.
Si comprende come la psicologia di Fridolin sia più debole di quella di Albertine e quindi il suo percorso sarà più travagliato, perché egli è esposto ad allettamenti e lusinghe che la realtà circostante gli offre.
La tesi assiale del romanzo è la dicotomia FEDELTA’-TRADIMENTO, il pregiudizio borghese spinge i due protagonisti, all’inizio, ad oscillare fra questi due elementi singolarmente, dopo le confidenze però mettono a nudo le loro debolezze.
Fridolin rappresenta l’uomo che si arroga il diritto di vivere secondo una morale, che vale solo per lui, e che non può accettare in una donna, tanto meno in sua moglie.
Fridolin dovrà però scontrarsi proprio con il misterioso mondo delle donne e con la dura constatazione che anche loro provano pulsioni e desideri. Malgrado accetti ciò con difficoltà, non può fare a meno della moglie.
Quando vaga solo per le strade di Vienna con un senso di liberazione, in effetti non è così. Si allentano i suoi freni inibitori ma allo stesso tempo è fiaccato dai suoi stessi desideri.
Nella sua corsa disperata verso l’evasione erotica l’immagine di Albertine, in effetti , non l’abbandona mai; neppure nella sua discesa agli inferi:l’obitorio.
Le frenetiche e sconvolgenti avventure notturne però lasciano un segno, quando rientra a casa infatti ha perso anche quel poco di sicurezza che possedeva.
La vista della mascherina, che ha portato durante la festa nella misteriosa villa e che trovata da Albertine, è stata posta sul cuscino del marito, è sufficiente a provocare i singhiozzi di Fridolin.
Il crollo è completo, caduta la maschera, dietro alla quale aveva creduto di celare le proprie contraddizioni, riaffiora la coscienza del suo reale rapporto con Albertine.
Si ritorna alla vita reale, mentre un vittorioso raggio di sole annuncia il nuovo giorno. Ciò però non segna un mutamento di indirizzo ideologico di Schnitzler, anzi il suo DETRMINISMO E SCETTICISMO, rimangono come ombre silenziose su tutta la vicenda.
Il mondo di Schnitzler è comunque un mondo in declino, su cui non veglia più alcun Dio, è lo stesso mondo di Nietzsche, a cui il filosofo aveva già annunciato la morte di Dio.
IL GATTOPARDO
TOMASI DI LAMPEDUSA
INTRECCIO
Il Gattopardo è ambientato in Sicilia fra il 1860 e il 1910 e segue le vicende di un illustre casata siciliana, privilegiando sicuramente la figura del principe Salina, Don Fabrizio. Sebbene gli eventi storici, lo sbarco dei garibaldini e l’annessione della Sicilia, costituiscano uno sfondo ben presente e talvolta interagente, le vicende del romanzo sono essenzialmente “private”. Pranzi, cene, rosari, balli, vacanze estive a Donnafugata , sono espressione della rituale esistenza dei protagonisti, in un mondo statico e atemporale.
Solo Tancredi, il nipote prediletto dal protagonista, rompe questo universo chiuso e immobile con la sua giovane vitalità e la sua spregiudicatezza ideologica. A differenza dello zio, osservatore distaccato e scettico degli eventi politici, che turbano la Sicilia, Tancredi si getta nel fiume della storia che avanza. Entra così senza esitazioni prima nelle file dei garibaldini, poi nell’esercito regolare dei Piemontesi, pensando in parte di trarne vantaggi personali, in parte di contribuire ad arginare i pericoli, che il nuovo corso politico avrebbe portato alla sua classe sociale.
Con la stessa spregiudicatezza corteggia, lui nobile, al figlia di un rozzo contadino enormemente arricchitosi, la bellissima Angelica.
Don Fabrizio invece, con motivazioni dettate dalla sua visione fatalistica e scettica della storia, rifiuta la nomina di senatore offertagli dal nuovo regno. Egli rimane a tutelare i ricordi e le reliquie del passato, pur lucidamente consapevole del necessario mutamento dei tempi, dell’irreversibile decadenza della classe nobiliare e della sua stessa casata, che si destina a finire con lui.
L’apparizione del Gattopardo nel 1958 creò un vero e proprio caso letterario, perché nasceva in piena crisi del romanzo. I critici si divisero in due fronti, i gattopardeschi e gli antigattopardeschi, mettendo in dubbio, quest’ultimi, l’autenticità dell’edizione.
Ci fu chi lo considerò uno dei capolavori della narrativa contemporanea e chi lo vide come un frutto fuori stagione, limitato ad una prospettiva decadente.
Del Gattopardo risaltava soprattutto l’impianto storico, che lo rendeva un genere quasi fuori luogo, ormai tramontato.
In effetti però la storia, malgrado sia presente con viva forza e incomba sul destino dei protagonisti, non vela e non soffoca altri aspetti eclatanti dell’opera, come l’introspezione psicologica, che pone in luce la statura morale del principe Salina e, attraverso lui, un’intera classe, quella aristocratica, e un’intera società, quella siciliana.
Il Gattopardo è l’opera di uno scrittore esordiente, pertanto ebbe una genesi complessa e faticosa.
Lo spunto iniziale era autobiografico, Tomasi infatti voleva raccontare una giornata del suo bisnonno, principe Giulio, in occasione dello sbarco dei garibaldini a Marsala.
Da un ricordo familiare Il Gattopardo diviene qualcosa di diverso e più complesso.
Vengono dilatati i confini temporali dal 1860 al 1862 nelle prime sei parti, 1863 nella VII, 1910 nell’ultima.
Le otto sezioni risultano autonome, quasi dotate di vita propria e non finalizzate alla costruzione di un organismo narrativo unitario. L’unica coesione è nella costante rifrazione dei fatti nella coscienza del protagonista.
Questo potrebbe offrire un spiegazione al senso di disorganicità e di estraneità, che si avverte soprattutto nella V e nella VII parte, in cui il protagonista o non figura più o è uscito di scena.
TECNICHE NARRATIVE
Il soggetto e l’ambientazione, anzi la stessa ideologia del Gattopardo ci può far pensare a Verga, ma le tecniche narrative segnalano la distanza dal romanzo da questo presunto modello.
Non si deve infatti dimenticare che Tomasi ebbe una vocazione letteraria europea, soprattutto nei confronti di Proust e di Joyce.
Nel Gattopardo la narrazione non costituisce un intreccio consequenziale, ma avanza a blocchi con estrema libertà, a volte esclusivamente sulla base delle associazioni mentali del protagonista, dalla cui soggettività sono filtrati eventi e situazioni. Inoltre a differenza dei romanzi naturalisti l’autore è ben presente e tutt’altro che impassibile.
Tomasi è un narratore esterno onnisciente che introduce nel romanzo il proprio commiato razionale e ironico, polemico nei confronti del mondo rappresentato, utilizzando spesso uno spazio neutro, la parentesi.
La stessa aggettivazione ricca e particolareggiata ha un carattere giudicante. Non manca una commossa identificazione del narratore nel protagonista, soprattutto quando è presente la focalizzazione interna, ovvero nei monologhi interiori. Si fluttua quindi fra punto di vista del protagonista e dell’autore.
Tutto il romanzo ruota intorno alla figura del Principe di Salina, Don Fabrizio, siciliano puro, aristocratico puro, simbolo di quella dimensione statica e cristallizzata della Sicilia, che già altri autori avevano messo in luce.
Allo stesso tempo egli percepisce come quel mondo sia destinato a frantumarsi sotto i colpi della recente unificazione italiana,come la Sicilia debba trasformarsi per entrare a far parte del neostato. Una trasformazione che lascerà comunque intatti gli antichi privilegi.
Ad una aristocrazia se ne sostituirà un ‘altra, che può anche non essere più di sangue, ma semplicemente politica ed economica. Ai Gattopardi si stanno via via sostituendo i Sedara, uomini incolti e rozzi, che hanno accumulato terre e denaro, ottenendo un posto in società, attraverso speculazioni economiche. Tanti Mastro Don Gesualdo, quegli uomini alienati dal lavoro, che hanno fatto della corsa al guadagno un ideale e uno stile di vita; ora è infatti il loro momento.
Come non vedere dietro a tutto ciò un chiaro e preciso riferimento, da parte dell’autore, alle nuove aristocrazie del decennio 1950-1960, Usa e Urss, due superpotenze che gestiscono l’economia del mondo, le nuove aristocrazie.
Il principe Salina, come forse Tomasi, accetta tutto ciò con disincantata rassegnazione, consapevole del movimento cieco e ciclico della storia, che in fondo trasforma per lasciare tutto inalterato. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è , bisogna che tutto cambi” afferma Tancredi, ma è anche la tragica consapevolezza del Principe.
Tragica perché sa che ogni cambiamento prospettato per la Sicilia non significa nulla di reale e concreto, è sempre e solo un’illusorietà che cadrà sotto i colpi della secolare staticità siciliana.
Il Principe è quindi un osservatore distaccato e scettico degli eventi politici che turbano la Sicilia, poiché egli stesso è portavoce della cultura siciliana e l’incontro con Chevalley è determinante per focalizzare questi aspetti della Sicilia, che anche da altri autori, come Verga e Sciascia, sono stati messi in luce.
“I siciliani non vorranno mai migliorare, per la semplice ragione che credono di essere perfetti:la loro vanità è più forte della loro miseria,ogni intromissione… rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla.
Crede davvero di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale…La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità.Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene”.
Ecco che cosa è la Sicilia, chi è il principe Salina, un mondo troppe volte calpestato, che però ha mantenuto e salvaguardato proprio in virtù di questo confronto continuo con gli estranei, una superiorità quasi divina. In virtù di questa superiorità ogni novità viene accettata, ma guardata con indifferenza ed albagia.
“I Siciliani non miglioreranno perché non vorranno mai migliorare,amano un’immobilità voluttuosa, amano un sonno che sa di oblio, le novità, afferma il principe Salina a Chevalley, ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali”.
Il passato è bello per la Sicilia perché è morto, è il simulacro di un’antica grandezza. L’incontro tra Salina e Chevalley è l’incontro fra due mondi, che non si comprenderanno mai e che soprattutto non riusciranno mai a compenetrarsi. Tant’è vero che alcun vantaggio toccò alla Sicilia dell’unificazione, se non per coloro, che come Calogero Sedara, necessitavano di un nuovo governo per emergere.
Il principe guarda pertanto a tutti quelli, come i Sedara, come a tante piccole formiche, con un senso di disgusto, come sgradevole manifestazione della condizione umana.
Quanto siamo lontani da Verga, che sapeva far parlare solo la gintuzza, Tomasi, gran signore preferisce far parlare gli aristocratici e riapre il portone di casa Leyra, chiuso da Verga e nella duchessa rivive Angelica Sedara, senza quel superstizioso terrore dell’ascesa sociale, di cui Verga aveva adombrato tutte le sue opere.
Questa preoccupazione della colpa da espiare non c’è in Tomasi, poiché il principe sa perfettamente che i suoi antenati non erano migliori di un Gesualdo Motta o di un Calogero Sedara. Eloquente è la definizione dei signori di Padre Pirrone, il prete gesuita di casa Salina, all’erbuario don Pietrino:” Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio, ma da loro stessi, in secoli di esperienza specialissima di affanni e di gioie loro;essi posseggono una memoria collettiva, quanto mai robusta e quindi si turbano e si allietano per cose delle quali a voi e a me non importa un bel nulla, ma che per loro sono vitali, perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe…forse ci appaiono tanto strani, perché hanno raggiunto una tappa verso la quale, tutti coloro che non sono santi camminano, quella della mancanza dei beni terreni, mediante l’assuefazione. Questi nobili poi hanno il pudore dei loro guai…”Forse è per questo che il principe di Salina consiglia ai paesani di Donnafugata di votare si al plebiscito, per accettare con dignità lo sfacelo a cui la sua classe sta andando incontro. Don Fabrizio, saggiamente, fa entrare in gioco il machiavellismo incolto dei siciliani, erigendo un’impalcatura fondata, comunque, su fragilissime basi.
Ma questa definizione è calzante non solo per il principe, ma per tutti i componenti della famiglia Gattopardo, desiderosi di nascondere agli altri tutto ciò che avviene nella loro casa, ma anche nel loro cuore.
Basti pensare alle figlie del principe, Carolina, Caterina e Concetta, rimaste zitelle, che continuano ad avvizzire fra vecchi ricordi e suppellettili, fuori moda incapaci da sempre di manifestare i loro sentimenti, di sottrarsi a rituali di comportamenti decadenti. Su di loro, come sulla classe aristocratica incombe l’ombra della morte, la fuga inesorabile del tempo, che non riescono più a seguire e ad accettare.
Per questo proprio tali figure femminili vivono tutta una vita che è già morte, aspettando un cambiamento, che non avverrà mai, perché non riusciranno mai a cogliere le possibilità che la vita, rapido fluire, offre loro.
Di fronte a questo universo si ergono però Tancredi ed Angelica, desiderosi di vivere e di godere.
Tancredi è sicuramente l’altro personaggio, che campeggia e contribuisce a metter in maggior rilievo il principe.
Tancredi è per il principe “il ragazzo più amato, che non i propri figli”, ed amandolo antepone la paternità elettiva a quella naturale.
Tancredi è l’alter ego di Don Fabrizio, umano a differenza di Bendicò e dello stesso zio, perché forse avendo perso tutto il suo patrimonio, avendo subito quella catastrofe economica, che Don Fabrizio paventa da lontano, ha perso il torpore mentale della conservazione, mantenendo però intatta la distinzione innata:il sangue di classe.
Eppure è proprio Tancredi a precipitare i tempi dell’evoluzione prevista, a gettarsi nel fiume della storia, entrando senza esitazione prima nelle fila dei garibaldini.poi nell’esercito regolare dei Piemontesi, mescolando, come dice il principe, interessi personali a ideali politici.
In effetti Tancredi pensa che così facendo potrà arginare i pericoli insiti in tutte queste vicende, per la sua classe sociale. Al di là dell’amore, nel corteggiamento di Angelica, vi è sempre l’idea pretenziosa di recuperare tutto quello che i Sedara si sono guadagnati con il lavoro, ma che un tempo era stato suo.
Angelica in fondo, secondo il suo punto di vista, non porta altro in dote che ciò che già era di Tancredi e della sua famiglia. Recupera attraverso la donna, la terra perduta.
Per rendere consapevole Angelica della sua grandezza, le fa conoscere tutto il palazzo di Donnafugata, le stanze più riposte, gli anditi più segreti.
Rispolverando i luoghi disabitati rievoca la grandezza e la superiorità della sua classe di fronte ad Angelica, che in fondo non considera più di una contadina.
Inoltre la conoscenza degli appartamenti disabitati diviene metaforicamente una vera e propria discesa agli Inferi, una regressione all’antico regime e alla fatiscente irrazionalità, che genera disordine, spreco e stratificazione di spazi.
Malgrado il ruolo importante che Tancredi svolge all’interno del romanzo è vero però che il suo punto di vista emerge raramente, forse solo nella IV parte, dove è assente Don Fabrizio.
I pensieri del giovane scorrono spesso solo in superficie, attraverso monologhi interiori, senza manifesta profondità.
Tancredi è quindi colui che possiamo ascoltare, vedere, ma con gli occhi del quale non vediamo o quasi mai. Tancredi rimane in effetti impenetrabile, perché solo raramente Tomasi scruta dentro di lui.
Squarci della sua interiorità si aprono per un attimo, come aggettivi deittici dei suoi occhi, maliziosi, sfavillanti, inquieti e timorosi. Tutto è visto dagli occhi di Don Fabrizio, come Tancredi così anche i Sedara, che appaiono snob e d arrivisti.
EROS E THANATOS
“Nunc et in hora mortis nostrae…”, “ Poi tutto trovò la pace in un mucchietto di polvere livida”.
Sono le frasi che aprono e chiudono il romanzo. Il tema della morte incombe dunque dalla prima all’ultima pagina, come un’ombra attanagliante che viene vissuta dal protagonista con atteggiamenti ambivalenti da un lato, orrore, disgusto per quella degradazione che essa comporta, di cui non riesce ad intravedere il senso.
Quindi una stessa inorridita pietà accomuna il soldato morto, gli agnelli sbudellati, il coniglio ucciso durante la caccia.
Dall’altro la morte è vista come desiderio di pace, di armonia, di purezza e soprattutto di lucida chiarezza intellettuale.
Ecco che il motivo della morte viene quindi a ricollegarsi all’osservazione delle stelle, a cui si dedica con assiduità il principe di Salina. “L’anima di Don Fabrizio si slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili stelle, quelle che donano gioia senza potere nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano, come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto armato di un taccuino per calcoli, per calcoli difficilissimi, ma che sarebbero tornati sempre.”
E’ questa la morte che Don Fabrizio corteggia, quella che immagina slanciandosi verso mondi lontani, dove le formalità, le apparenze, le parole non hanno valore.”
I momenti trascorsi all’osservatorio sono dunque un’ elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie. Quando infatti, nella III parte, dedicata interamente alla sua morte, Il principe Salina vivendo alternativamente momenti di lucidità, di sdoppiamento di personalità e di allucinazione, vede una donna bellissima, che gli va incontro.
Morte ed amore, morte e sensualità si coniugano. Questa donna bellissima cede infatti di fronte a lui vecchio, una donna che gli dà piacere, lo affascina e finalmente lo appaga, quella donna che tante volte aveva cercato nel guardare il firmamento stellato.
Le stelle rappresentano dunque qualcosa di certo, dove i calcoli appunto tornano sempre, dove non c’è catarticità, dove non c’è l’umiliante bassezza, che caratterizza l’umanità e la storia.
Tra le stelle tutto è sublime, tutto è voluttuosamente piacevole, perché non vi è posto per false meschinità. Don Fabrizio si esilia da quei sereni regni stellari, quando entra il contabile che lo riporta alla vita di sempre, ma rimasto solo si rituffa nelle nebulose.
Le stelle appagano un ideale affettivo di purezza e di disinteresse, egli proietta nel sublime la propria negazione dell’aggressività , l’assoluzione della pigrizia e l’attrazione erotica per la morte.
Fra i disagi quotidiani che coprono di carte la scrivania dell’amministrazione il principe trova una fuga nelle “atarassiche regioni dominate dall’astronomia”, paragonabili alla morfina, da poco scoperta.
Tra le parti del ballo e della morte ecco nuovamente apparire le stelle e così finisce la parte VI: “voleva attingere un po’ di conforto, guardando le stelle. Ve ne era ancora qualcuna proprio su , allo zenith. Come sempre il vederle lo rianima… Venere prima o poi si sarebbe decisa a dargli un appuntamento effimero”, sarà poi la figura femminile che vede in punto di morte.
Ma il tema della morte si configura poeticamente nel romanzo, soprattutto come dissoluzione, fluire corrosivo e indifferente del tempo, che investe oggetti, uomini e classi sociali.
La morte sempre prospettata dal punto di vista di Don Fabrizio è presente ovunque, anche nel suo atteggiamento di inerzia, che nasce dalla coscienza della vanità dell’agire umano, travolto e ramificato dallo scorrere inesorabile del tempo, simbolicamente visto come un vento che “trascorre incurante sulle sofferenze e sulle illusioni degli esseri viventi”.
Gli stessi paesaggi fondali, su cui si muovono e si districano le vicende dei personaggi portano su di sé gli effetti del tempo. La descrizione di casa Salina e del palazzo di Donnafugata, la statua di Flora nel giardino,sono simboli dell’ancien regime, dissoltosi con la Rivoluzione Francese.
La tovaglia rattoppata, ma finissima, il secolare aroma, le ricette centenarie sono le immagini concrete di un decadimento generale,ormai nell’aria.
Questi oggetti sono lo scenario con cui si apre il romanzo il “fasto sbrecciato”, che allora era lo stile del regno della Sicilia.
Il palazzo di Donnafugata, smisuratamente grande, smisuratamente decadente, è simbolo di ciò che è stato e che ora non è più, è immerso nel silenzio della morte, in parte sconosciuto anche agli stessi proprietari.
Il palazzo di Donnafugata si erge maestoso, sempre a presenziare la dinastia dei Salina, ma in effetti è un ultimo baluardo, che ben presto cadrà sotto i colpi del plebiscito.
Spetta però al nipote Tancredi esplorare i luoghi simbolici, che lo zio ancora padrone, tralascia. Ed è proprio in questi labirinti e meandri che la morte e l’eros si affiancano, segnati da una linea invisibile ma indelebile.
Da Angelica è quindi simboleggiata la forza dell’eros, capace di distogliere anche Don Fabrizio, dai pensieri funerei.
Lei è un ciclone, che irrompe in casa Salina, travolgendo la funebre immobilità. Nel loro viaggio, quasi attraverso il castello di Atlante, di ariostesca memoria, i due innamorati scoprono l’eros perduto, ma anche l’amore agli occhi di Don Fabrizio è transitoria illusione.
Per i suoi occhi disincantati lo spettacolo dei due giovani, che ballano stringendo i loro corpi, destinati a morire, appare più patetico di ogni altro.
La sensualità stessa dunque è invidiata dalla morte.
Questi in effetti per Tancredi ed Angelica saranno gli ultimi momenti felici,ma lo capiranno, quando ormai saranno, a detta del principe, inutilmente saggi.
1910 ULTIMA PARTE
La villa in rovina del 1860, nel 1910 è diventata la ricca villa Falconieri. Tancredi, ormai morto, con il suo matrimonio con una Sedara, ha spezzato la catena che congiungeva solo i vecchi casati, ha apportato sangue nuovo.
Ciò non vale però per le zitelle, che vivono in una casa immensa nella polvere del passato, fra tarli e reliquie.
L’ottava parte si unifica nel duplice senso della parola RELIQUIE: quello letterale religioso, quello tragico memoriale e affettivo. Il passato torna sempre ad incombere sul presente e tocca a Concetta sopprimere il passato, per rendere muto e fantomatico il presente.
Viene gettato Bendicò imbalsamato, vengono tolte le reliquie, si spegne così la lunga tradizione e la stessa memoria, sotto i colpi della storia e della morte, che di lì a poco li avrebbe annullati del tutto e per sempre.
LA FORMA DELL’ACQUA
CAMILLERI
Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925, ha lavorato a lungo come sceneggiatore e regista teatrale e televisivo, producendo le famose serie del commissario Maigret e del tenente Sheridan.Esordisce come romanziere nel 1978 con Il corso delle cose. Seguono Un filo di fumo,La stagione della caccia, La strage dimenticata, La bolla di componenda, La concessione del telefono.
Gli otto romanzi che hanno come protagonista il commissario Montalbano sono: La forma dell’acqua, Il cane di terracotta, Il ladro di merendine,La voce del violino, Un mese con Montalbano, Gli arancini di Montalbano, La gita a Tindari, La paura di Montalbano.
TRAMA
Viene ritrovato a Vigata presso LA MANNARA, luogo malfamato, frequentato da prostitute, l’ingegner Luparello, in una macchina, svestito. Il corpo viene ritrovato da due spazzini Pino e Saro, due geometri che hanno dovuto scegliere questo impiego, per necessità.
Saro ha un bambino malato, che necessita di cure costosissime, Pino ha invece velleità letterarie e vive con la mamma.
Entrambi decidono di telefonare all’avvocato Rizzo, braccio destro di Luparello, entrambi appartenenti al partito democratico.
Luparello laureatosi in ingegneria, era ritornato al suo paese, facendosi le ossa presso l’organizzazione dei Cattolici Universitari e si era fatto molte amicizie. Dopo 20 anni di ombre e di silenzi era riuscito a farsi dei servi, in breve tutto il partito di Montelusa e provincia era passato nelle sue mani, così come l’ottanta per cento degli appalti pubblici e privati.
Il terremoto scatenato da Mani pulite non l’aveva scosso, anzi essendo sempre stato in secondo piano ora poteva uscire allo scoperto e indignarsi per la corruzione dei suoi compagni di partito.
Era diventato quindi l’alfiere del rinnovamento e segretario provinciale. I due spazzini vanno dritti al commissariato, evitano i Carabinieri, perché comandati da un tenente milanese.
La polizia invece è guidata da Salvo Montalbano di Catania che “quando una cosa la voleva capire, la capiva.”
La telefonata a Rizzo li lascia sconcertati, in quanto l’avvocato non sembra affatto sorpreso e turbato dalla morte del suo migliore amico, come soleva definirsi.
Iniziano così le indagini. L’ingegner Luparello sembra morto per cause naturali, colto da un malore mentre viveva un’esperienza particolare alla Mannara. Ma a Salvo Montalbano le cose non quadrano e non archivia il caso. Montalbano inizia a seguire le piste a lui più congeniali, parla con Gegè, suo ex amico di scuola, che ora gestisce la Mannara e da lui apprende che era una donna che guidava e che dopo aver fatto l’amore con l’ingegnere, è scesa di corsa e una macchina al volo l’ ha fatta salire.
Tutti gli indizi portano ad Ingrid Sjostrom, una svedese sposata con Cardamone, figlio di un galantuomo.
Da questo momento Montalbano si mette sulle tracce di questa donna, la rintraccia, la conosce e le fa percorrere con la macchina il canaletto, un percorso impervio, che comunque ha percorso la macchina dell’ingegner Luparello.
Ingrid lo percorre senza rompere le sospensioni della macchina, cosa invece accaduta alle sospensioni della BMW di Luparello.
Ingrid svela però molte cose a Montalbano, che è costretta ad essere l’amante del suocero, che usa la casa di Luparello, con cui una volta sola era stata a letto.
Montalbano comprende che lei non c’entra niente, ma che comunque è stata tirata dentro, per una vera e propria manovra politica.
Il suocero infatti è stato proposto proprio dall’avvocato Rizzo, come successore di Luparello, pur essendo stato da sempre un oppositore.
Rizzo diviene ora braccio destro di Cardamone.
Montalbano comprende che si tratta di un delitto di mafia e parlando con la vedova Luparello se ne convince. La vedova con freddezza e lucidità spiega a Montalbano che il marito, dagli ambigui gusti sessuali, dopo anni passati in ombra in politica, ora era emerso, pertanto non si sarebbe mai immischiato in uno scandalo facendosi scoprire con una prostituta.
In casa Luparello Montalbano conosce Giorgio, nipote della signora, morbosamente innamorato dello zio e in preda ad una crisi di epilessia e isteria, dopo al morte di questo.
Intanto anche Rizzo viene ucciso. Il quadro è sempre più chiaro, Ingrid è stata usata come un paravento, la sua collana e la sua borsa alla Mannara dovevano spingere a credere lei la donna al volante.
Ingrid svedese, dai costumi tropo libertini per la Sicilia, era un capro espiatorio ottimo.
Tutto ciò però non era sfuggito a Montalbano, che morto Rizzo e morto anche Giorgio, mette tutto a tacere, lascia che la morte di Luparello non appaia un delitto.
Apprendiamo come la vicenda si è realmente svolta attraverso il racconto di Montalbano, in tono ufficioso al Questore e a Livia, la sua donna di Genova, che ogni tanto raggiunge.
Nella garçonniere di Capo Massaria, dell’ingegner Luparello era avvenuto tutto, durante un incontro d’amore dell’ingegnere con il nipote.
Morto l’ingegnere, il nipote Giorgio, impazzito per la paura dello scandalo e di infrangere la memoria dello zio, aveva tentato di rivestirlo e portarlo altrove. Ecco dunque spiegato il motivo delle mutande a rovescio, notate nella foto scientifica dalla vedova.
Giorgio resosi conto che la finzione non reggeva , aveva telefonato all’avvocato Rizzo, che andato a Capo Massaria, riveste l’ingegnere e chiamato un travestito, gli fa indossare i vestiti, la borsa e i gioielli di Ingrid, trovati nella casetta. Affida al travestito Merylin la macchina e Luparello morto, per condurlo alla Mannara.
Lì vengono appositamente persi collana e borsa. Tutto ricondurrà ad Ingrid e Rizzo attraverso questo giochetto avrà nelle sue mani Cardamone. Luparello infangato nell’onore, è una carta vincente, perché politicamente elimina gli amici della sua corrente.
Rizzo stabilisce quindi il triangolo Sjostrom-Luparello-Mannara, poi telefona a Cardamone ed inizia a giocare le sue carte. Rizzo ha però sottovalutato le reazioni di Giorgio, che sconvolto cerca Rizzo e lo uccide, poi si suicida.

La trama di questo romanzo è tutta incentrata su un delitto, il primo della seconda repubblica. Un omicidio eccellente che si spande tra gli alambicchi ritorti e i vasi inopinatamente comunicanti del comitato affaristico-politico-mafioso, che domina la città di Vigata, anche dopo il crollo del ceto dirigente. Ma la sua sostanza, il colpevole, il movente,le circostanze dell’assassinio, sono più antiche, più resistenti, più appassionanti.
Appartengono al substrato culturale e sociale della Sicilia, terra che si presta al genere giallo e poliziesco, che fornisce continuamente un teatro di contrasti ed arcaismi.
Camilleri è logicamente un innovatore del giallo siciliano, per la grazia particolare di raccontare, per la lingua che si modula senza sforzo e fastidi sul dialetto, per la potenza della comicità, ma soprattutto per l’intuizione completa dei nuovi scenari. Egli presenta con grande regia quel miscuglio di cultura millenaria che i sociologi definiscono MODERNIZZAZIONE SENZA SVILUPPO.
Camilleri usa come sfondo dei suoi romanzi la Sicilia che già è stata di Pirandello, Brancati e Sciascia.
La sua non è diversa, essa si presenta sempre come una realtà che sembra sfuggire fra le mani dell’osservatore, tutta intessuta come è di moventi umani elementari, ma oscuri, di gesti cerimoniali, che alludono ad una seconda natura, ad un’ipotesi dell’uomo, non misurabile secondo i parametri della logica.
Camilleri rievoca come già altri scrittori avevano fatto, quella densità dell’atmosfera siciliana, guidando il lettore sulle vie pericolose e stregate dell’ipotesi mentale e della domanda continua.
La sua parola a volte sorniona, a volte musicale mette in luce quelle trame segrete che fanno della Sicilia una terra a parte, comprensibile, e non del tutto, solo da chi la conosce nel suo tessuto più profondo, solo da chi ne sa interpretare i silenzi, gli sguardi, la mentalità superbamente perfetta.
Per Camilleri la Sicilia di oggi è fonte continua di ispirazione e di scoperta, di intrecci, di romanzo poliziesco e di osservazione di un costume , magari inquietante ma certamente non statico.
Soprattutto gli suggerisce un linguaggio mai banale.
Vigata diviene il centro più inventato della Sicilia più tipica, una Sicilia in cui, afferma Montalbano, si servono due stati diversi, tematica non solo di Camilleri, ma di tutti quei letterati siciliani consapevoli che in Sicilia c’è sempre stato uno stato diverso, ed esso ha continuato ad esistere malgrado i cambiamenti, adattandosi alle nuove e diverse situazioni, proprio come il titolo del romanzo in questione indica.
La forma dell’acqua è appunto metafora della duttilità di adattamento della mafia, e la spiegazione di esso viene data dalla vedova Luparello, trapiantata in Sicilia; mentre giocava da piccola con un amichetto, che aveva sistemato tanti recipienti contenenti acqua, lei gli aveva domandato: Che fai? E lui le aveva risposto con un’altra domanda : Quale è la forma dell’acqua? Ma l’acqua non ha forma, aveva detto la vedova ridendo, piglia la forma che le viene data.
Così si sono comportate la mafia e la Sicilia, hanno preso la forma che gli hanno dato, perché hanno semplicemente cambiato recipiente.
La regione del silenzio si è infiltrata nelle trame burocratiche dello stato. Camilleri mette in luce un’altra caratteristica, già ben conosciuta, a chi non è estranea la Sicilia: IL SILENZIO.
Zito, conduttore di Telelibera a Vigata, amico di Montalbano spiega bene la natura del silenzio, quando definisce il motivo di non aver dato tanto risalto alla morte di Luparello.
“SE INVECE METTI TUTTO SOTTO SILENZIO, IL SILENZIO COMINCIA A PARLARE, MOLTIPLICA LE VOCI INCONTROLLATE, NON LA FINISCE PIU’ DI FARLE CRESCERE”.
IL LINGUAGGIO
Sono ricorrenti i proverbi, quelle pillole della saggezza popolare, che a volte chiariscono a Montalbano quella realtà fuggevole della Sicilia, a volte così intricata anche per lui che è un siciliano D.O.C..
Ritornano quei proverbi cari a molti autori siciliani, espressione di una cristallizzazione, che caratterizza questa regione, malgrado il progresso.
Una parte della Sicilia sembra non mutare, ma radicarsi profondamente a ciò che è stato suo e che nessun altro, soprattutto i continentali, possono capire.
Livia la donna di Montalbano definisce infatti il loro modo di ragionare contorto.

MONTALBANO
Montalbano riecheggia Montalban autore spagnolo di romanzi gialli, tanto caro a Camilleri, per quel modo di presentare e risolvere i casi, entrando in perfetta comunione con il suo ambiente.
L’ambiente spagnolo è assimilabile a quello siciliano, così come il modo di pensare.
Determinante una frase di Montalban, perfetta anche per la Sicilia: Le apparenze ingannano, ma sono pur sempre l’argomento più solido che abbiamo. L’apparenza è la realtà e superarla implica uno sforzo, di cui quasi nessuno ha bisogno e che quasi sempre conduce ad evidenze peggiori delle apparenze di origine.(Da Quartetto)
Salvo Montalbano va a scovare dietro queste apparenze e per affinità ambientale, per occhio e per intelletto di giustizia, riesce a cogliere in ogni indizio un univoco messaggio di un codice conosciuto da decrittare, simbolo per simbolo, come una lingua arcaica, che continua a parlare in forme nuove.
Ecco perché Montalbano rifiuta sempre le promozioni, come accadrà in Il ladro di merendine, perché non vuole rinunciare ai propri capricci investigativi, che lo portano cercare la collaborazione di Gegè e di Ingrid , che dopo la forma dell’acqua diventerà sua interlocutrice, e ad evitare compromissioni burocratiche.
Montalbano in tutto ciò che appare semplice, cerca l’inatteso, egli afferma : nell’ anormalità del delitto due più due può fare cinque.
Andare al di là delle apparenze è il motore di ogni indagine di Montalbano, che egli giustifica rifacendosi a Sciascia, anche lui attratto dall’insolito, mascherato da ovvietà.
Quando Montalbano parla con il questore dell’affare Luparello, fa riferimento pertanto al Candido di Sciascia,in cui il protagonista afferma che le cose sono quasi sempre semplici. Quel quasi sottolinea la possibilità delle eccezioni, le eccezioni su cui lavora Montalbano e il suo lavoro trasforma il sogno, sottotitolo del Candido, nell’incubo della realtà, quella politica e criminale.
Montalbano alla ferocia della vita però si oppone e si logora nei suoi BUSILLISI, con la sua morale fatalista, ma non rassegnata, le sue armi sono intelligenza, ironia e pietà.
“Quando Montalbano incornava su una cosa non c’erano santi”, per Montalbano bastano una parola stonata, un gesto incontrollato, un dettaglio incongruo, isolati con percezione nella catena dell’assurdità del vivere quotidiano, ciò mette in moto le indagini di Montalbano.
Egli indaga non tanto sulla colpa, quanto sulla nostra armata e disarmante umanità. Anche se è una mattina di pioggia, non ha ancora preso il caffè ed è di umore NIVURO, come l’inchiostro, o se a mezzanotte, piegato dalla stanchezza, guida verso la sua casa di Marinella, pregustando un’ora di fresca solitudine sulla verandina in riva al mare, pensando o telefonando a Livia, così lontana e a volte così vicina; o persino se sul suo tavolo, alla trattoria San Calogero hanno appena servito un piatto cucinato “Come Dio comanda”.
Tra italiano e siciliano, un pastiche che è diventato un caso letterario, Montalbano si muove tra una realtà non facile, di cui riesce ancora a ridere.
Spesso il lettore è trascinato nella sua stessa mente, nel suo modo di pensare e di vivere.
Le azzuffatine con Livia, le arrabbiature con i suoi colleghi, i pranzi di Adelina, questa è la semplice complessità di Montalbano, che non demorde di fronte a niente e spinge il lettore, avvinto, a farcela insieme a lui.
Ma Montalbano è anche un uomo estremamente colto, di una cultura non pavoneggiata, non mostrata, ma celata come ogni altra cosa viene celata in Sicilia.
Spesso lo troviamo con un libro in mano o lo sentiamo fare raffronti con Pirandello, che Camilleri piccolissimo ha conosciuto, Verga, Brancati e Sciascia.
Il suo universo è un coacervo di tutta la Sicilia, narrata e taciuta.
Camilleri è forse Salvo Montalbano, in lui c’è molto del letterato, dell’uomo di cultura, impregnato di tradizione letteraria e cultura popolare.
Ed è per questo che nel romanzo uscito nel 1999, Camilleri nel racconto “Montalbano si rifiuta” inscena una vicenda tipicamente pirandelliana. Camilleri immagina di stare scrivendo una storia in cui il Commissario è inserito in uno scenario di sangue. Montalbano telefona allora al SITTANTINO, Camilleri, in quanto si rifiuta di vivere quella vicenda di “occhi fritti”.
Camilleri gli spiega che non è per sua volontà, quanto per il fatto che lo accusano di essere un buonista “uno che racconta storia mielate e rassicuranti, cert’altri dicono invece che il successo che ho grazie a te, non mi ha fatto bene, che sono diventato ripetitivo, con l’occhio solo ai diritti d’autore… Sostengono che sono uno scrittore facile, MACARI SE POI S’ADDANNANO A CAPIRE COME SCRIVO.
STO CERCANDO D’AGGIORNARMI, SALVO. CHE FAI, VUOI METTERTI A SOTTTILIZZARE?
Camilleri attraverso la ribellione del suo personaggio attua una vera e propria polemica, con cui cerca nei suoi libri ciò che però non va e non ciò che va. Il personaggio di Camilleri a differenza di quello di Pirandello non si ribella contro la forma conferitagli dall’autore, anzi contro quella che gli vorrebbero conferire eminenti critici e pubblici.
Montalbano nella fantasia di Camilleri accetta la maschera dell’autore, è sua, non appare affatto una maschera. Camilleri quindi al di là delle critiche non cede a tentazioni di SPLATTER, DIFFAMAZIONE, e va per la sua strada, senza assilli di buonismo. E’ vero comunque che quando prevale le vena ironica, quella taciuta superiorità il sittantino Camilleri afferma la propria volontà a perseguire il cammino intrapreso, usare il giallo “come esercizio di disciplina per verificare se è capace di organizzare un intrigo, secondo linee logiche.”

IL SIGNOR MANI
YEHOSHUA
Il Signor Mani deve essere letto al contrario, partendo dal V dialogo, per comprendere non solo l’albero genealogico,ma anche il diverso ebraismo e la diversa Gerusalemme, che i vari signor Mani rappresentano.
ABRAHAM MANI

FIGLIO JOSEF MUORE V DIALOGO

MOSHE’ OSTETRICO IV DIALOGO

JOSEF ACCUSATO DI SPIONAGGIO III DIALOGO

NON VIENE SPECIFICATO IL NOME DEL MANI PROTAGONISTA DEL II DIAOLOGO

GABRIEL MANI PADRE DI EFRAIM MANI PROTAGONISTI DEL I DIALOGO
Nel V dialogo il dialogo si svolge fra Abraham Mani e dona Flora, la cui parte non è riportata.
Abraham Mani, figlio di fornitori di foraggio, che hanno fatto fortuna durante la Rivoluzione Francese, studia presso uno dei maggiori maestri dell’impero ottomano Shabtai Haddaya. Abraham non ottiene il titolo di rabbino, solo un diploma di vice rabbino, ma stringe un rapporto di amicizia con Shabtai, a tal punto da tornare spesso a trovarlo. Abraham si sposa ma rimane vedovo e affida il figlio Josef al rabbino, inaspettatamente sposatosi con dona Flora. Flora si affeziona a tal punto al ragazzo da viziarlo e da farlo sposare con sua nipote Tamara.
Entrambi si stabiliscono a Gerusalemme e non a Salonicco da Abraham. Josef viene però ucciso e Abraham, per il timore che la famiglia Mani si estingua, fa un figlio con la nuora: Nasce Josef, che viene fatto comunque fatto passare per suo nipote.
Il dialogo avviene al capezzale del rabbino e Abraham racconta a dona Flora gli ultimi tristi momenti del figlio.
Esulta però nel raccontare della nascita di suo figlio-nipote, nato a Gerusalemme, chiamato Moshe e non più Josef. Il nome Josef infatti come i nomi dei padri morti porta con sé i segni di morti e sconfitte.
Se il nome Josef deriva dalla Genesi, quello di Moshe dall’esodo. Abraham racconta tutto con foga a dona Flora e gli sembra di vedere nel maestro segni di approvazione per ciò che dice.
Abraham rievoca l’uccisione di Josef da parte degli Ismaeliti1 al suo arrivo a Gerusalemme. Abraham giunto in Terrasanta aveva deciso di far dire il Kaddish per i suoi genitori e chiede al figlio di trovare degli ebrei per poter essere in dieci. Il figlio gli chiede: Ma qui ci sono ebrei? Abraham risponde: Ma esiste un posto al mondo in cui non ci sono Ebrei?
Josef trova solo degli Ismaeliti “Ebrei che ancora non sanno di essere Ebrei.”
Dona Flora si allontana dalla stanza e il dialogo diventa il monologo di Abraham, davanti al rabbino morente.
A lui Abraham rivela il suo segreto. Josef era incapace di procreare, a Gerusalemme, solo, non più viziato, con una sposa quasi sconosciuta aveva cercato negli Ismaeliti, gli antichi ebrei, che solo in futuro si sarebbero ricordati di essere tali in una città caparbia come pietre del deserto.
Abraham Mani da ospite di passaggio a Gerusalemme vuole diventare OSPITE FISSO, attraverso suo figlio-nipote. Il senso di colpa però lo invade e chiede al rabbino se deve spiare la propria colpa. Nessuna risposta del rabbino che intanto è morto e con questo dubbio Abraham morirà nel 1860, anno in cui nacque il profeta del sionismo, Herzl o nel 1861, quando scoppia la guerra civile negli Stati Uniti.
In questo dialogo ambientato in una Gerusalemme antica, difficilmente raggiungibile, il Signor Mani rappresenta allegoricamente il desiderio ebraico di perpetuarsi, di non morire del tutto, di divenire consapevolmente ospite fisso in una terra sentita ancora estranea e non contesa, fonte di misteriosa attrazione. Il signor Mani infatti, pur
essendo nativo di Gerusalemme vuole stringere un legame con essa, vuole che qualcosa di sé rimanga in quella città,così misteriosa, così diversa dalle altre, dove anche l’inverno sembra un intruso, dove i vicoli sono la vera vita e la vera anima.
IV DIALOGO
Siamo nel 1899 in Polonia.
Protagonisti del dialogo sono Efraim Shapiro e il padre Shalom, la cui parte non è riportata.
Efraim è un medico pediatra, non molto attaccato alla comunità ebraica.
Nel 1898 il padre di Efraim partecipa al II Congresso sionista, da cui torna profondamente impressionato e pieno di fiducia nel nuovo movimento.
Da allora collabora all’organizzazione di serate sioniste con la figlia Linka. Al III Congresso del 1899 manda però i due figli Efraim e Linka, a causa della precaria salute della moglie.
Al congresso i due giovani conoscono Moshe Mani ostetrico, nipote del signor Mani del V dialogo e con lui vanno in Palestina.
Il dialogo è fondato sul racconto di Efraim al padre al ritorno del III Congresso. Efraim descrive tutto molto minuziosamente, il viaggio,i mezzi , il clima e i diversi ebrei incontrati.
Quelli di Mosca li definisce diversi “vivaci, seri, vestiti con semplicità, chiaramente identificabili, liberi, figli dei pogrom(massacri di ebrei con espulsione improvvisa di popolo, in Russia).
I Russi temevano gli ebrei perché avevano in mano gran parte dell’attività economica, ma trovarono come giustificazione per il loro antisemitismo, la vendetta per la crocifissione di Cristo. I pogrom erano organizzati dall’alto e dagli eserciti, custodi di fulgide speranze.
Efraim rimane toccato nel veder quanti ebrei esistano, quali caratteristiche abbiano assunto in base ai nuovi paesi di appartenenza e come però abbiano tutti qualcosa in comune.
L’abbraccio di un altro ebreo al congresso fa nascere in Efraim la speranza che l’avventura sionista sia possibile. Dice al padre “Siamo davvero pronti per questa avventura? E’ davvero giunto il momento di affrettarci a comparire così al cospetto del mondo intero? O forse scoprire la nostra debolezza è un errore?
In fondo si può continuare a succhiare il latte dal petto dei popoli, che ci attorniano, per poterci rafforzare nel nostro intimo, prima di prendere di mira seriamente e da persone mature una bandiera e un inno…”
Efraim ha questo dubbio e da esso nasce il desiderio di veder la Palestina, di toccare con mano il progetto di Herzl.
Efraim infatti,solo dopo averla visitata, si rende conto che Herzl parla della Palestina, come idea, non come realtà, parla della luna ma non delle strade, delle mura o delle case. Parla del futuro e non del presente.
E’ innamorato della formula e non della soluzione.
Il malore di Herzl al Congersso permette ai due fratelli di conoscere il signor Mani. Questo signor Mani è un ostetrico, ha creato una clinica a Gerusalemme, dove accoglie donne ebree, ma anche arabe e pellegrine.
Mani segue i due fratelli in albergo, ma mentre lui parla Efraim non lo ascolta e pensa invece come sia possibile che “tutti quegli ebrei siano spariti”, allegoria per indicare l’olocausto e tutte le persecuzioni contro tale popolo.
Mani parla con tale fervore e passione di Gerusalemme che Efraim e Linka decidono di andare con lui.
Arrivano a Gerusalemme da Giaffa in treno e non a cavallo come nel V dialogo.
Efraim descrive dapprima Gerusalemme nei suoi campi deserti, come una metafora, non reale, poi le Mura della città vecchia e le numerose case di Ebrei e di Arabi la rendono una città concreta, una sincresi religiosa.
Prima vi arrivano soltanto poi vi entrano, ovvero la conoscono, la comprendono e la ritrovano.
La brezza di un vento fresco, in cui si fondono fredda aridità, sentore d’erba e un pizzico di dolcezza, permette loro di appropriarsi dell’odore vero di Gerusalemme.
Efraim assapora l’aria di Gerusalemme come un buon vino, a tal punto che afferma “si è corso davvero il pericolo che affondassimo in quella città, che, invece di guarirci una volta per tutte dall’illusione, minacciava di calamitarci dentro di essa.”
L’idea sionista si riflette e si realizza in una città vera e non in un concetto astratto. E’ il signor Mani a guidare per mano questo incontro, è lui a far riacquistare ancora una volta, la coscienza ebraica.
Determinante e significativa è la descrizione del Muro del Pianto. Esso si trova in fondo ad una viuzza strettissima. E’ semplice, privo di promesse ingannevoli e di illusioni, “una stazione terminale della storia, un muro senza porte, senza alcun segno di spazi occulti. Forse un argine definitivo per fermare gli Ebrei nella loro ostinata e infaticabile corsa verso il proprio passato.”
Come Gerusalemme affascinante ed attraente il signor Mani, sua metafora, trascina e attira a sé con la propria presenza vaga, tenera e sorprendente la moglie, il bambino, l’infermiera svedese e Linka.
Efraim quasi spaventato di questa sua riappropriazione improvvisa del passato, decide di andarsene dalla casa del signor Mani e si trasferisce in un ostello.
Il dottor Mani rappresenta la minaccia di non poter più essere un semplice pellegrino.
Nell’ostello, fuori dalle mura, Efraim scopre un’altra Gerusalemme “un’accozzaglia di idee isolate, di capricci di singoli individui che si scelgono un’altra patria e vi gettano sopra i loro progetti.”
In questo modo però le idee non si amalgamano ma si perdono in tanti piccoli sentieri, Efraim prende atto proprio di questa realtà frammentaria, forse non ancora pronta per il progetto di Herzl.
Efraim la gira in lungo e in largo e così si libera coscientemente del sogno per cui tutti lottano, vagando fra fantasia e realtà, colpevoli e incolpanti, trattenuti e attratti, irati e impegnati. Efraim se ne libera consapevolmente, sapendo bene di cosa si libera e torna ad essere senza Gerusalemme, questa volta con lucida ragionevolezza.
Un’altra descrizione di Gerusalemme , metaforica ed allegorica allo stesso tempo, mette in evidenza come Gerusalemme invochi ad un mondo irrigidito, una pace che non avverrà mai.
“E’ una luce, si, padre, una luce dentro cui lottano due luci diverse, quella giallastra che fluttua libera dal deserto e quella celeste, che nasce dal mare, si arrampica lentamente su per le pendici dei monti e raccoglie il riverbero degli ulivi e delle rocce, finchè si assorbono l’una nell’altra a Gerusalemme, si dominano e si conquistano a vicenda, e verso sera si fondono in una tonalità di vino chiaro, che ramo dopo ramo scende giù dagli alberi e diviene un rossore armato, cha a contatto con la cornice della finestra infiamma i fedeli e li fa balzare in piedi nella tonante ne’ilah,preghiera di chiusura del Kippur, che invade il mondo, impietrito fuori, con un’immensa invocazione…
Con la fine del Kippur termina anche il loro soggiorno a Gerusalemme. Efraim e Linka partono, anche Mani li segue per un po’ invaghito di Linka. Efraim inizia a lavorare a Cracovia come pediatra. Linka si trasferisce con il marito a Varsavia. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’invasione della Polonia, Efraim si stabilisce a Varsavia, poi torna nella sua terra dove trova un nascondiglio, in cui rimane dal 1939 al 1941. Venuto a sapere che la figlia di Linka è stata arrestata e deportata ad Auschwitz, si consegna ai Tedeschi. Muore per un collasso mentre sta entrando nei Lager.
TERZO DIALOGO
Siamo nel 1918 a Gerusalemme. Protagonisti: tenente Ivon Horavitz e il colonnello Woodhouse, la cui parte non è riportata.
Il tenente Ivon nato in Russia nato in Russia e emigrato in Inghilterra si afferma nel ramo tessile.
Allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 non viene mobilitato, nel 1915 viene però arruolato.
Nel 1916 il suo reggimento viene inviato in prima linea. Viene preso alla procura militare che si stava ampliando sempre più, per il numero delle infrazioni, di cui si rendevano colpevoli i militari stanchi.
Nel 1917 va in terra di Israele, dove si trova a dover giudicare il caso del Signor Mani, accusato di spionaggio. Ivon spiega al colonnello come è Gerusalemme, bella per le sue chiesette fuori mano, per le spiagge e per il muro del pianto, “ancora abitata da ebrei, benché molti siano stati deportati o espulsi o sene sono andati, hanno poco da offrire se non se stessi.”
Ivon spiega che l’imputato è stato catturato nella notte in cui è stata presa Gerusalemme, che voleva essere preso e processato per tenere un discorso.
Tentava di passare per un pastore, ma il soldato irlandese, vedendo che il gregge era nervoso, aveva intuito che non era un vero pastore.
E’ Josef Mani, scambiato anche per un arabo, ma in effetti un ebreo, con cittadinanza britannica, malgrado non sia mai stato in Inghilterra.
Proprio a causa di questo passaporto è richiesta per lui la forca, per tradimento alla patria.
Ivon però vuole trovare una via d’uscita e racconta la storia al colonnello.
Il signor Mani è uno di noi, come lo definisce un ufficiale inglese, uno di quegli ebrei che “ci stanno incollati addosso, ed è giusto che sia un altro ebreo a chiedere al pena di morte per un ebreo.”
Il signor Mani di questo dialogo è figlio dell’ostetrico del IV dialogo, Moshe che ottiene la cittadinanza britannica da un console britannico a Gerusalemme, come regalo per il suo tredicesimo compleanno, documento un po’ anomalo.
L’ostetrico Mani, padre dell’imputato era morto in un incidente ferroviario. L’orfanello un giorno, sceso nella clinica, ormai da tempo vuota, si era trovato ad assistere al parto di un ‘ebrea, tagliando il cordone ombelicale, si era formato la sua opinione politica.
Era diventato un homo politicus, aveva poi studiato le lingue e si era unito alle tante sette religiose a Gerusalemme.
Nel 1907 lascia per la prima volta Gerusalemme, senza passare per la Palestina, rifiutando di conoscere la strada che suo padre aveva percorso. Si ferma a Beirut e vi rimane per 7 anni.
Dietro a lui non c’è nessun altro, né Turchi né Tedeschi, inoltre il suo caso insegnare nulla su spie e tradimenti.
Mani ha organizzato tutto da solo, ha agito da solo per un suo proprio ed unico ideale e nel 1914 torna a Gerusalemme, dove la setta gli trova una moglie. Per un anno intero non esce di casa, accudito come un bambino, come un malato.
Quando viene a sapere che gli Inglesi sono a sud del paese, Mani come se sentisse il ritorno del padre si unisce agli ebrei in festa.
Esce e vede che “i Turchi si muovono pigramente, gli Arabi sonnecchiano e solo negli occhi degli ebrei vi è un lieve bagliore.”
Si arruola e viene utilizzato come interprete nei diversi villaggi per dare l’idea della guerra. Una notte nel quartiere generale Mani legge la DICHIARAZIONE DI BALFOUR “IL GOVERNO DI SUA MAESTA’ VEDE DI BUON OCCHIO LA CREAZIONE IN PALESTINA DI UN FOCOLARE NAZIONALE PER IL POPOLO EBRAICO”.
Perse il sonno, era eccitato di poter tornare a Gerusalemme. Gli ebrei gioivano, gli Arabi erano sbalorditi, solo Mani prendeva atto che stranieri prendevano il posto di altri stranieri.
L’homo politicus ordisce così il suo tradimento.
Si fece arruolare come ufficiale dell’esercito di sua maestà. Entrato un giorno nell’ufficio del comando trova il piano di offensiva in Transgiordania del XXII reggimento, lo prende. Giunto in un villaggio si fece dare un tavolino e cominciò dicendo: “Questa è terra vostra e nostra, metà a voi e metà a noi e indicò verso Gerusalemme, che si vedeva confusa nella nebbia sul monte, dicendo, là ci sono gli Inglesi e qui ci sono i Turchi, ma tutti se ne andranno, tutti, e noi resteremo soli con noi stessi, destatevi, non dormite.”
Fece il giro di molti villaggi ed ebbe come ricompensa delle capre, che perse quasi tutte.
In ogni villaggio leggeva la dichiarazione di Balfour “Egli mostrava loro il mare azzurro, il Giordano e Gerusalemme e diceva: destatevi; e quelli si guardavano l’un l’altro per vedere chi osava dormire, ma lui proseguiva: conquistatevi un’identità, in tutto il mondo i popoli conquistano un’identità, poi sarà troppo tardi, poi sarà una tragedia, ecco che arriviamo noi e si prendeva di tasca un paio di forbici e diceva: metà a noi e metà a voi, tagliava per lungo la carta geografia, dando loro la metà coi monti e il Giordano e lasciando a sé stesso la costa e il mare.”
Mani veniva ascoltato come un Virgilio o un Platone, parlava degli Ebrei che sarebbero arrivati e ancora non sapevano di cosa parlasse, come un branco di cavallette, diceva Mani, che oggi è posato sul deserto e domani invade tutti i campi.
Non contento Mani desiderava essere scoperto per fare un bel discorso pubblico. Ivon si chiede “E’ un bene che la storia del governo britannico in terrasanta inizi con un ebreo impiccato a Gerusalemme?”
Se Mani non fosse stato un cittadino britannico l’accusa non sarebbe stata obbligata a chiedere la pena di morte e sarebbe stato considerato cittadino di un paese occupato.
Tutto per una cittadinanza conferita illegalmente. Il colonnello propone di mandarlo in un isola della Grecia e così avviene.
Finita la guerra Ivon insegnò alla facoltà di legge di Manchester, si avvicinò al sionismo e morì a Londra vecchio.
SECONDO DIALOGO
Siamo a Creta nel 1944.
Protagonista è Egon, nato da una serva della famiglia Sanchon e adottato da loro, a cui era morto un figlio.
Il dialogo avviene fra Egon e la “nonna”, così chiamava la mamma adottiva, la sua parte non è riportata.
Egon allo scoppio della guerra viene arruolato in marina, a causa della miopia, viene stanziato a Creta.
Nel 1944 riceve la visita della nonna, che poi nel viaggio di ritorno muore, per incidente aereo.
Egon amante della cultura classica racconta alla nonna delle sue spedizioni fra gli scavi alla ricerca di una motivazione per questa guerra, che come la prima susciterà ulteriori accuse alla Germania.
Un giorno Egon durante le sue spedizioni perde gli occhiali ed è costretto ad affidarsi ad una guida greca, che lo lascia insieme a suo padre, il signor Mani.
Egon parla con il vecchio Mani di scavi, del Labirinto, di antiche civiltà, parlano come due amici e non come nemici.
Egon logicamente, pur essendo stato accolto con infinita cortesia, impone condizioni di prigionia alla famiglia Mani e Mani padre si attiene ad esse, come se voglia essere finalmente un ostaggio, per espiare un’ antica colpa.
Mani padre improvvisamente muore davanti ad Egon.
Egon viene incarcerato, perché si era perso e solo dopo tre anni, dopo aver capito i piani di Hitler, dopo l’operazione Barbarossa, fine del terzo Reich, Egon capisce che i Mani potevano essere solo ebrei, ebrei che erano pronti a scappare, perché già sapevano come sarebbero stati trattati, come erano trattati gli ebrei dell’est.
Desideroso di sapere Egon si fa arruolare nella polizia per cercare Mani figlio.
Lo trova e quando gli chiede se è realmente un ebreo, lui risponde si, ero un ebreo, ma ho smesso di esserlo, l’ ho annullato. Una volta eravamo a Gerusalemme, ma ora non più, abbiamo smesso di esserci.
Egon lo saluta con un semplice saluto militare e andando contro le scelte del Furher formula in sé un nuovo concetto di razza.
“La parola razza era solo un’allegoria, una metafora per un’altra parola, più rispettabile:natura., che è quello che conta e poi cos’è, in fondo in fondo questa natura, se non un carattere, il carattere umano e nazionale, che bisogna scoprire e che si può anche cambiare…E il Furher stesso non ha forse parlato anche lui del pericolo dell’ebreo, che si annida in ognuno di noi? L’identità dell’ebreo esiste solo nel loro cervello e perciò si può davvero sperare che il cervello possa anche annullarla.”
Egon cerca in casa Mani un oggetto, che possa identificarli come ebrei e solo più tardi si rende conto “che non esiste alcun oggetto ebraico di cui un ebreo non possa fare a meno…”
Certamente Mani lo ingannava, sfuggiva al suo destino, ma Egon voleva provare ad ascoltar e ad osservare non tanto per Mani ma per la Germania e per i Tedeschi, per sapere “se è possibile tornare al punto di partenza ed essere di nuovo solo UOMO, UOMO NUOVO, che ha eliminato la scorza della storia, che gli si era rappresa addosso, come brutte scaglie.
Egon però che aveva ingenuamente creduto che l’ebreo potesse annullarsi da solo , si meraviglia quando gli viene data la lista degli ebrei da prendere e da mandare via.
A questo punto Egon comprende, va da Mani e si offre di aiutarlo, sperando che si fidi, ma Mani sapeva che se lui si era annullato, suo figlio no, perché troppo piccolo, e dunque rifiuta. Il figlio e la moglie sono ancora ebrei.
Finita la guerra Egon dirige l’istituto Goethe ad Atene. Solo negli anni ’60 ritorna a Creta e prova a cercare Mani, ma erano in molti con quel cognome.
Intrattiene anche rapporti intellettuali con ebrei e d israeliani fino all’invasione del Libano nel 1982.
In questo dialogo Mani rappresenta l’ebreo di fronte all’olocausto, capace di far vacillare la fede di un tedesco, di fargli ricercare le cause di una guerra senza reale motivo, se non sete di potere.
Il signor Mani qui è capace di annullarsi per non perdere il contatto con il passato e per protendersi verso il futuro, un futuro di guerra e non di pace.
PRIMO DIALOGO
Siamo nel 1982, ala tempo della guerra in Libano, in un Kibbuz. Il Kibbuz è una comunità collettiva agricola dello stato di Israele, caratterizzata dall’assoluta mancanza di proprietà privata. Il denaro è usato come mezzo di scambio all’esterno della collettività, mentre all’interno ognuno riceve tutto ciò di cui ha bisogno, dalla collettività stessa.
Ce ne sono 250, esse si ispirano al modello di Kavuzot, le cui origini risalgono al 1909, fondato poi nel 1949.
Protagonisti del primo dialogo sono Hagar Shilo e la madre, la cui parte non è riportata.
Il padre di Hagar è morto durante la guerra dei sei giorni.
Hagar prende la maturità e si iscrive all’università. Dove si innamora del suo professore Efraim Mani. Ha una relazione con lui e pensa di essere incinta.
Quando lui parte per la guerra del Libano, scoppiata malgrado fra Gerusalemme e Beirut sia stata firmata la pace, un giorno le telefona e la prega di andare da suo padre, il signor Mani. Hagar lo fa pensando di far felice Efraim, in effetti tale visita nasce dalla sua ricerca continua di un surrogato del padre.
Hagar con la sua fantasia immagina che il signor Mani, giudice, voglia suicidarsi e quindi gli resta vicino.
Effettivamente la sua fantasia ha una base di verità e Hagar non solo salva lui, ma anche se stessa.
Comincia a desiderare di essere realmente incinta, per avere una famiglia vera, completa con un passato ben preciso. In questo dialogo come negli altri, Mani si confonde con Gerusalemme e attrae Hagar infondendole il desiderio di avere un figlio, di perpetuare i Mani e di ricongiungere il presente con il passato.
Il primo dialogo così ciclicamente si riallaccia al quinto, al desiderio di essere ospite fisso, di avere una memoria storica.
Con il primo dialogo si completa infatti la saga di una famiglia che si perde nel tempo e nella storia, ma si ritrova sempre a Gerusalemme.
Hagar paragona Gerusalemme ad un deserto, dove la saggezza collettiva inizialmente ti rende più forte e sicura, poi però ti rende impaurita. Quel deserto infatti man mano che lo guardi diventa una faccia di mistero che ti perseguita, con una logica ferrea e chiara come il sole a mezzogiorno.
Tornato Efraim, Hagar riesce veramente a rimanere incinta e malgrado lui non voglia sposarla, tiene il bambino.
Sarà proprio il signor Mani a tenere i contatti con lei, il bambino e la madre di Hagar, anzi fra quest’ultima e il signor Mani si crea un legame molto forte.
Le visite si intensificano sempre di più, insieme visitano le colline intorno al Kibbuz, parlando sempre e di tutto.
Con il tempo le due donne vengono a sapere che Mani veniva a Gerusalemme in macchina, passando per la città di Hebron. La madre di Hagar gli aveva fatto notare che era pericoloso viaggiare fra i villaggi della zona meridionale delle montagne di Hebron, ma il signor Mani aveva protestato, dicendo che la strada gli sembrava sicura e che i locali erano molto pacifici.
All’inizio dell’autunno del 1987 qualcuno buttò sulla macchina di Gabriel Mani una grossa pietra, mentre passava vicino ad un villaggio, ad una ventina di chilometri da Hebron e quella sera ammise che il consiglio della madre di Hagar era stato saggio.
Quella strada però lo affascinava. Era iniziata l’INTIFADA.
Il signor Mani rappresenta il grande corpo sensuale dell’ebraismo, profumato di spezie e di disperazione. Sette generazioni si dipanano nei cinque dialoghi, diversi signor Mani sfilano nella storia a partire dalla metà dell’ ‘800 fino agli anni ’80, del secolo scorso. Trasmettendo di padre in figlio una tragica eredità. Può un uomo spezzare la catena che lo lega al passato o al futuro? Può annullare la propria identità? Attraverso i cinque dialoghi entriamo a contatto con una famiglia che da sempre si lascia animare da un’unica utopia : la pace.
GERUSALEMME
Gerusalemme non è mai propriamente il luogo di ambientazione, perché i protagonisti non abitano lì, essa è presente, come punto di arrivo e di partenza, come una calamita che attrae continuamente, apparendo familiare, come una terra di origine, non conosciuta ma presente inconsapevolmente in ognuno di essi.
Il signor Mani di ogni dialogo passa sempre per Gerusalemme, ci vive per un po’, scappa, se ne va, ritorna, comunque in qualunque luogo vada, si trova sempre a casa sua.
Questo logicamente è metafora del destino degli ebrei, da secoli esiliati, integrati nei nuovi paesi di appartenenza, capaci di adattarsi ovunque, malgrado la loro radice sia quella misteriosa Gerusalemme, da cui sono sempre divisi. Gerusalemme non è mai descritta storicamente, ma è descritta dalla memoria dei protagonisti, dalla vista di chi la ritrova e di chi la incontra per la prima volta, dalla sensazione di chi la conosce da sempre e la comprende nei suoi più intimi aspetti.
In essa i protagonisti cristiani, ebrei ed arabi vivono esperienze drammatiche e quotidiane, come mito di ogni tempo. Attraverso i cinque dialoghi è comunque possibile ricostruire alcuni eventi storici, salienti per gli ebrei nel mondo e per gli ebrei, poi risarciti della terra promessa.
Partiamo dalla nascita del movimento sionista, dai suoi congressi, si passa per la DICHIARAZIONE DI BALFOUR durante la prima guerra mondiale, per arrivare all’OLOCAUSTO, alla guerra in Libano e alle prime forme di INTIFADA.
Gli eventi storici compaiono solo marginalmente, sono la cornice o momenti particolari dei protagonisti ma non determinanti, come se il vero tempo storico sia ben più lontano, quasi indecifrabile e incalcolabile.
Non è il singolo evento che interessa all’autore, quanto la saga degli ebrei, il loro continuo peregrinare nel mondo, le loro speranze e il ritorno in una terra che non sarà mai completamente loro. E’ l’ebraismo la vera tesi assiale e non la storia degli ebrei.
1 Setta sciita, che considera come suo imam nascosto,che riapparirà un giorno per far trionfare la vera fede Isma.
Dal IX secolo in poi si organizzarono politicamente r fondarono stati indipendenti in Persia, in Siria e nell’Arabia del sud-ovest.Esistono ancora oggi musulmani eretici discendenti e continuatori dell’antica setta, ma non conservano più il carattere antico, estremistico e terrorista della setta.
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