Profilo di Giovanni Pascoli e di Cesare Pavese.

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura
Download:409
Data:04.04.2000
Numero di pagine:6
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
profilo-giovanni-pascoli-cesare-pavese_1.zip (Dimensione: 6.89 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_profilo-di-giovanni-pascoli-e-di-cesare-pavese.doc     30 Kb


Testo

Profilo di Giovanni Pascoli

Pascoli è da considerare per così dire uno spartiacque che segna l’inizio del Novecento. I suoi rapporti col decadentismo, meno vistosi di quelli di D’Annunzio, sono in compenso più profondi e la sua influenza sulla posteriore poesia italiana sarà determinante. È essenziale distinguere in Pascoli la novità che si cela e si confonde con il rispetto o la prosecuzione di temi e di forme di quella produzione veristica che per i primi due/tre decenni del secondo Ottocento era stata egemone: i “quadretti di genere”, le rappresentazioni di scene della vita dei campi, che troviamo in “Myricae” e che paiono rimandare a tanta produzione letteraria di quei decenni, in realtà sono per Pascoli lo scenario su cui proiettare inquietudini, smarrimenti, un senso del vivere fatto di ansiose perplessità. Di conseguenza i dati realistici presenti nelle sue liriche si caricano di significati e di simboli. Con questa prima fondamentale verità Pascoli per un verso si inseriva in un orientamento presente a livello europeo in quegli anni (il simbolismo), per un altro trovava le modalità più adatte e suggestive per esprimere un senso della vita sotteso da turbamenti adolescenziali, da incertezze e da paure di fronte alla realtà storica e contemporanea, e di conseguenza tutto proiettato verso il vagheggiamento del proprio nido familiare, verso la contemplazione della campagna come idilliaco rifugio, verso l’ossessivo ricordo dei morti. Una tematica, questa, che è collegata alla dolorosa esperienza biografica del poeta, e che di frequente dà luogo a sbavature sentimentalistiche. Ma a parte ciò, il processo di rinnovamento si manifesta, oltre che nella dimensione simbolica della poesia, anzi tutto sul piano linguistico: egli adotta, infatti, un lessico nel quale o entrano termini tecnici, gergali, relativi al mondo della campagna, o c’è posto per termini che sono al di qua della comunicazione, privi di senso, pregrammaticali, ma carichi di valenze fonosimboliche, di suggestioni evocative (le onomatopee, per esempio). Inoltre, Pascoli apparentemente rispetta la prosodia e le forme metriche tradizionali, ma in realtà il singolo verso o la struttura strofica sono dissolti e disarticolati dal di dentro nella loro compattezza armonica tradizionale, al posto della quale subentrano e si insinuano una versificazione e una musicalità frantumate dalle cesure, dilatate dagli enjambements, o rotte da pause, da attoniti spazi di silenzi. Ma la produzione di Pascoli presenta anche aspetti che non sono stati fertili di sviluppi. Nei “Poemi conviviali” ad esempio realizza componimenti raffinatamente letterari che traggono spunto da capolavori del mondo classico (l’Odissea) e si distinguono per la ricercatezza di un linguaggio antiquario, sono cioè un’opera di letteratura che nasce da una preesistente letteratura. Nei componimenti di “Odi” e “Inni” affronta la celebrazione delle idealità civili e patriottiche e si trasforma in un poeta vate, sull’esempio di Carducci e D’Annunzio: una metamorfosi collegata ad un confuso itinerario ideologico, che fa sì che questo poeta inizi la sua carriera come cantore del chiuso nido familiare e la concluda come celebratore della conquista della Libia.

Commento di Giorgio Barberi Squarotti relativo alla lirica “X Agosto” e alla tematica del “nido”: “ nella dissoluzione della società che non sa dare misura e valori e propone costantemente la volgarità e la pena, il dolore o il male, l’estremo e unico rifugio appare al Pascoli il nido familiare, a cui partecipano, legati dagli affetti e dalle complicità irrazionali del sangue, i vivi e i morti della famiglia, costituendo il luogo caldo ed accogliente di un rifugio di fronte ad una storia che presenta immagini di orrore, d’oppressione, di morte, e di fronte ad una condizione umana che è dominata dal terrore onnipresente della morte, che rende illusioni i gesti degli uomini, e ne segna di inutilità ogni tentativo di emergere. I rapporti sociali si riducono al nucleo privato, avulso da ogni contatto che è il nido. Dapprima il nido è solo quello familiare, popolato di pochi vivi e di un’infinità di morti dolenti e aggressivi, fra i quali sono anche la madre, le sorelle, i fratelli, tutti ugualmente connotati dal pianto e da un inesauribile rancore. In essi domina, custode, la madre: che è la depositaria delle ragioni del sangue e della terra, quella che convoca il figlio al rito crudele dell’investitura della vendetta contro l’assassino del padre (La cavalla storna), quella che viene con la voce stanca, smarrita, col tremito del batticuore a rimproverare più che a confortare il figlio tentato di morire”.

Guida all’analisi di “Novembre”
E’ per comune riconoscimento della critica una delle composizioni più suggestive dell’intera produzione poetica di Pascoli. Come la maggior parte delle “Myricae”, anche questa più che a descrivere la natura in un particolare momento (nel caso specifico, i giorni della prima metà di novembre detti “estate di S.Martino” o “estate dei morti”) è rivolta a penetrare il segreto senso delle cose, e a scoprire in esse un messaggio di morte o un precario senso di fragilità, di vuoto.
La prima strofe rende l’impressione di una improvvisa primavera, ma la seconda ribalta la prima e, intessuta da una fitta trama di parole chiave (secco, stecchite, nere, vuoto, cavo, tonante) avvia verso la conclusione e legittima il tono della terza. Quest’ultima è tutta incentrata sulla constatazione di una fredda legge di morte come unica e vera realtà che rimane dopo la momentanea, effimera illusione di colori e profumi primaverili. Sono presenti nella poesia di Pascoli due diversi piani ritmici, uno vicino e scoperto, uno segreto e lontano. In questo caso il ritmo è scandito da pause, da lunghi silenzi. L’endecasillabo è frantumato, ricco di spezzature, di enjambements.

Guida all’analisi di “Assiuolo”
L’assiuolo è un rapace notturno (in Toscana detto popolarmente “chiù” per il verso che emette) spesso presente nella poesia di Pascoli e generalmente sentito, come d’altra parte nella tradizione popolare, quale simbolo di tristezza e di morte. Il suo versi inquietante scandisce la lirica e via via si carica di valenze simboliche: dall’iniziale “voce dai campi” diventa “singulto” e infine “pianto di morte”. Osservazioni di Pianola: “Siamo alle soglie dell’alba, un’alba di luna, e il lugubre grido dell’assiuolo, annunciatore di morte nella credenza popolare, agisce probabilmente nella semincoscienza del dormiveglia e suscita una serie di immagini inquietanti, tutte più o meno riferibili alla realtà, ma travolte nella loro essenza e nel loro ordinamento sintattico da un forte vento d’angoscia. E i versi che nascono su un materiale così poco coordinato come quello onirico, svolgono un discorso per elementi staccati, non logicamente dipendente, secondo una sintassi franta, a blocchi giustapposti”. La lirica, pubblicata prima sul “Marzocco” nel 1897, fu inclusa nella quarta edizione di “Myricae” (1903).

Profilo di Cesare Pavese

L’attività di Pavese non fu solo quella di narratore e poeta: valente traduttore di testi significativi della letteratura americana dell’Ottocento (celebre la sua traduzione del “Moby Dick” di Melville) e soprattutto del Novecento (Dos Passos, Steinbeck, Faulkner, Saroyan,…), egli contribuì a diffondere intorno agli anni Trenta la conoscenza e l’interesse per la letteratura americana nella cultura italiana e presso un certo pubblico. Inoltre, lavorando stabilmente presso la casa editrice Einaudi, ebbe il merito di proporre alla cultura italiana testi e temi estranei sia agli orizzonti idealistici sia a quelli marxisti. Pavese esordisce come poeta con la raccolta “Lavorare stanca” (1936), nella quale si oppone alle modalità ermetiche egemoni in quegli anni e sceglie la soluzione della “poesia-racconto”, di una poesia cioè che si distenda in ampi ritmi narrativi, adotti i temi del parlato, faccia posto ad un mondo brulicante e vivo – le osterie, la campagna, la città – e rompa col rarefatto solipsismo di tanta poesia contemporanea. Ma Pavese è soprattutto un narratore, un artista che esprime il suo mondo interiore attraverso l’invenzione di una vicenda, la varia tipologia dei personaggi, i rapporti che tra di loro si instaurano. Nei primi due romanzi (“Il carcere” e “Paesi tuoi”) questo processo di espressione del proprio mondo raggiunge subito risultati di notevole interesse: ne “Il carcere” (scritto nell’estate del 1939) è già espresso un motivo di fondo della personalità di Pavese, che sarà presente in tutta la sua posteriore produzione: la solitudine o meglio l’ambiguo rapporto nei riguardi della solitudine, sentita come carcere da cui è necessario uscire e nel contempo accettata come interiore vocazione, come destino; in “Paesi tuoi” la rappresentazione di una campagna primitiva e barbarica, i temi delle violente passioni e del sangue evidenziano già un’area di interessi (il primitivo, il barbarico, la sacralità rituale della campagna) che Pavese via via approfondirà. “Paesi tuoi” era ben altro che un romanzo realistico e tuttavia fu proprio questo testo ad alimentare per parecchi anni l’equivoco di un Pavese realista. Approfondendo con studi di antropologia, di etnologia, psicoanalisi, i temi già presenti in “Paesi tuoi” Pavese elabora un’ideologia e una poetica nelle quali assumono importanza fondamentale le esperienze infantili, i miti che la campagna, la natura, il primigenio contatto con le cose creano nel fondo della nostra coscienza, i legami con la terra d’origine (cioè dell’infanzia). L’esperienza dello sradicamento frantuma questo rapporto uomo/natura o uomo/campagna, ed ecco allora l’opposizione campagna/città, la prima sentita come premessa e sede di una totalità, di una pienezza esistenziale, la seconda come depauperamento, lacerazione, solitudine. C’era in questa complessa elaborazione l’esperienza autobiografica di Pavese, ma c’erano anche componenti non ignote alla cultura del decadentismo. Negli anni quaranta Pavese lavora su due ambiti tematici: da un lato la messa a fuoco dell’uomo depauperato e alienato nel contesto cittadino, luogo deputato della chiacchiera senza comunicazione e dell’eros senza amore, dall’altro la ricerca della totalità umana e delle sue radici: ed ecco le prose e i racconti di “Feria d’agosto”, nei quali con una scrittura di ascendenza solariana egli avvia il recupero dei miti dell’infanzia e delle strutture profonde dell’io, ecco “La casa in collina” e soprattutto “La luna e i falò”.
Nick: linda

Esempio