Luigi Pirandello

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Categoria:Letteratura

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Testo

Luigi Pirandello
La Visione del mondo e la Poetica
Il Vitalismo
I testi narrativi e drammatici di Pirandello insistono su alcuni temi fondamentali. Intanto Pirandello ha una concezione vitalistica del mondo, molto vicina a quella di altri filosofi contemporanei (per esempio ad Henri Bergson, il filosofo dello “slancio vitale”); secondo Pirandello la nostra realtà è tutta vita, noi facciamo parte di un flusso continuo e incandescente di vita, in cui siamo indistinti: ma quando l’uomo si vuole separare da questo flusso indistinto, per assumere una propria forma e carattere, egli comincia a morire, questa sorta di “maschera” che ci creiamo è un’illusione. Questa forma che ci attribuiamo può essere unica per noi, ma può essere diversa per ciascuna persona che guarda, ed è una maschera che ci impone il contesto sociale. Sotto questa maschera c’è l’indefinito, l’immutabile, non c’è “nessuno”.
Questa frantumazione dell’”io” è un riflesso di quello che stava accadendo nella società dei primi anni del secolo: infatti la massiccia industrializzazione, il formarsi di enormi metropoli, riducono il singolo a un’insignificante rotella di un meccanismo: l’individuo non conta più come prima, si disgrega, si smarrisce, si indebolisce e si perde a causa della mancanza delle certezze che aveva nell’800. Pirandello è uno degli interpreti più acuti di questo sentimento.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita nell’uomo un senso di orrore e smarrimento, l’avvertire di non essere nessuno provoca solitudine ed angoscia: l’uomo si vede appiopparsi delle forme, delle maschere che non gli appartengono, ma che gli vengono affidate dalla società, e che vengono sentite come una “trappola”.
La società quindi gli appare come una ”enorme pupazzata”, in cui l’individuo viene impoverito, svuotato e condotto alla morte. Pirandello quindi, dietro a un perbenismo di facciata, è un anarchico, un ribelle insofferente dei legami con la società.
L’istituto in cui si manifesta per eccellenza la trappola della forma che imprigiona l’uomo è la famiglia, con il suo grigiore, la sua ipocrisia, gli odi, i rancori, che si mescolano alla vita degli affetti oscuri. L’altra trappola per Pirandello è la condizione sociale e il lavoro, soprattutto per il piccolo borghese. A queste due trappole Pirandello non dà via d’uscita, il suo pessimismo è totale ed è affiancato a idee conservatrici se non reazionarie.
L’unica via di uscita da questa trappola mortificante è la fuga nell’irrazionale, e quella che viene chiamata da Pirandello la “Filosofia da lontano”: gli eroi pirandelliani infatti sono straniati dalla vita sociale, si escludono da essa perché hanno capito il suo carattere fittizio e la guardano come se fosse lontanissima, osservano ironicamente gli uomini vivere la propria vita dall’alto della loro consapevolezza.
Il relativismo conoscitivo
Oltre che alla visione della società, il vitalismo ci porta ad altre conseguenze, come il relativismo conoscitivo. Infatti, essendo la società in perpetuo divenire, è impossibile coglierla da una prospettiva privilegiata: quindi il reale è multiforme, ognuno ha la sua verità che nasce dal proprio modo di vedere le cose: ne deriva una sostanziale incomunicabilità tra gli uomini che non possono intendersi tra di loro perché ognuno ha una sua visione della realtà e che non possono capire come la vedono gli altri.
Pirandello, secondo la sua concezione vitalistica e la sua crisi gnoseologica, può essere indirizzato nell’ambito del Decadentismo, ma non è così, in quanto alla base di questo movimento vi è una condizione spirituale misticistica che tende a unire tutta la realtà, compresi gli uomini, in una fitta rete di corrispondenze; tutto ciò è l’opposto del pensiero di Pirandello che intendeva il particolare come una particella isolata, in quanto non esiste un Tutto universale. Di conseguenza l’epifania dei decadenti (cioè una improvvisa rivelazione dell’essere) non può essere presa in considerazione in Pirandello in quanto non esiste un Essere unitario.
La poetica: l’umorismo
Dalla visione del mondo nascono anche la concezione dell’arte e la poetica di Pirandello. Possiamo trovarle in vari saggi, di cui il più importante è “L’umorismo” che è composto da una parte storica e da una parte teorica in cui viene espresso il concetto di umorismo stesso.
L’opera d’arte secondo Pirandello nasce dal libero movimento della vita interiore, e quindi la riflessione, che è una forma del sentimento, resta invisibile. Nell’opera umoristica invece la riflessione non si nasconde, non è una forma del sentimento, ma è come un giudice di fronte ad esso: da qui nasce il “sentimento del contrario”. Pirandello fa un esempio molto chiaro: “Se vedo una vecchia signora con i capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. Questo “avvertimento del contrario” è il comico. Ma se interviene la riflessione, e suggerisce che quella signora soffre a pararsi così e lo fa solo nell’illusione di poter trattenere l’amore del marito più giovane, non posso più solo ridere: dal comico (“avvertimento del contrario”) passo all’atteggiamento umoristico (“sentimento del contrario”). La riflessione umoristica trae così sia il tragico che il comico dalla realtà: secondo Pirandello il tragico e il comico non vanno mai separati.
Secondo Pirandello l’umorismo si trova nell’arte di tutti i tempi, ma soprattutto nell’arte contemporanea, quella novecentesca, che non costruisce immagini unitarie e ordinate del mondo, ma tende a disgregare criticamente la realtà, facendo emergere stridori, incoerenze, contrasti.
Questa è anche la poetica la definizione del programma artistico di Pirandello: Pirandello nelle sue opere non rappresenta la realtà in modo unitario e organico, ma la scompone criticamente; inoltre i testi pirandelliani sono tutti testi umoristici, in cui il comico e il tragico sono unitit indissolubilmente.
Le poesie e le novelle
Pirandello scrisse poesie per un trentennio, da quando aveva 16 anni fino alla maturità (1883-1912).
Le sue poesie si allontanano dalle forme di pensiero contemporanee (Futurismo, Espressionismo, Simbolismo), per mantenere le forme metriche e i codici letterari tradizionali, avvicinandosi al Carducci ma anche facendo intravedere il carattere umoristico dei suoi futuri lavori.
Pirandello scrisse novelle per tutto l’arco della sua produzione letteraria (in modo intenso fino al 1915 e più sporadicamente a partire da questa data). Le novelle sono numerosissime, e lo scrittore si premurò di raccoglierle in volumi [(Amori senza amore (1894); Beffe della morte e della vita (1903); Quand’ero matto (1903)]; Nel 1922 le raccolse in 24 volumi col titolo complessivo di Novelle per un anno.
Come si intuisce dal titolo queste novelle non hanno una sistemazione ben ordinata, riflettendo la visione globale del mondo pirandelliano, un mondo non ordinato e armonico, ma disgregato in molteplici aspetti, il cui senso sembra irraggiungibile.
All’interno della raccolta si possono distinguere le novelle collocate in Sicilia e le novelle ambientate in ambienti piccolo borghesi continentali, spesso nell’ambiente romano.
Le novelle siciliane possono a prima vista ricordare il clima verista, ma si distaccano da questo per 2 principali motivi: 1) da un lato Pirandello riscopre il sostrato mitico e folklorico della Sicilia (avvicinandosi al clima decadente); 2) dall’altro lato le figure del mondo contadino siciliano vengono deformate da una carica grottesca fino ad arrivare a dei paradossi: essi vengono trasformati in immagini bizzarre, stravolte, ai limiti della follia, senza nessun riferimento al contesto sociale (molto differente dall’analisi di Verga sulla società siciliana).
Anche nelle novelle cosiddette “romane” si possono intravedere questi caratteri. Qui Pirandello analizza la situazione di frustrazione e di intrappolamento del ceto impiegatizio romano in tutte le sue articolazioni (se pur allontanandosi dallo studio sociologico di un gruppo sociale in un determinato contesto storico quale era stato quello verista). La Trappola è quasi sempre rappresentata da una famiglia oppressiva o da un lavoro meccanico e ripetitivo che mortifica l’individuo. L’analisi di Pirandello si concentra sulle maschere e ruoli fissi che ha il piccolo borghese, maschere appioppate dal contesto sociale, e facendo venire a galla il suo rifiuto anarchico e irrazionalistico di ogni forma di società organizzata.
Naturalmente nell’analizzare i suoi personaggi Pirandello usa il suo tipico atteggiamento umoristico, portando fino al paradosso i tratti fisici, i gesti e i movimenti dei personaggi, facendoli apparire come allucinate e gesticolanti marionette:da tutto questo meccanismo non può non sgorgare il riso, anche se con il “sentimento del contrario”, cioè con un fondo di pietà per degli uomini così avviliti. Al tempo stesso vengono esaminati gli aspetti più profondi e ignorati della psiche, come ossessioni, angosce ma anche violenza, crudeltà.
I Romanzi
“L’esclusa” e “Il Turno”
Nel 1893 Pirandello scrisse il suo primo romanzo, Marta Ajala, poi pubblicato nel 1901 col nome “L’esclusa”. La vicenda, ambientata in Sicilia, narra di una donna accusata ingiustamente di adulterio che viene cacciata di casa dal marito e che sarà riammessa solo dopo essersi resa effettivamente colpevole.
Si possono scorgere ancora legami col naturalismo, sia nella materia (la vicenda è narrata in una ambiente provinciale, arcaico e chiuso, in cui si scontra una donna intelligente e sensibile), che nella forma (il romanzo è narrato in 3 persona con focalizzazione sul protagonista mediante l’indiretto libero), ma è anche in profondo conflitto.
Al centro infatti vi è sempre un fatto dal forte potere condizionante, ma questo non ha una vera consistenza, cioè non è accaduto; inoltre qui non si ha più quel rapporto causa-effetto del meccanicismo deterministico del Naturalismo, ma si ha un intervento del caso, rendendo tutto imprevedibile.
Anche Il Turno, in cui si narra di un giovane che per sposare la donna amata aspetta il proprio turno dopo la morte di altri due mariti, è dominato dal caso, ma qui i toni sono più leggeri, tendenti al comico.
Il Fu Mattia Pascal
Completamente distaccato dall’ambito naturalistico è “Il fu Mattia Pascal”, che presente già mature tutte le tematiche pirandelliane. E’ la storia di un piccolo borghese che, grazie al caso, si trova libero da ogni maschera e che paradossalmente, se ne crea un’altra. Infatti Mattia Pascal grazie a una cospicua vincita a Montecarlo diviene economicamente autosufficiente, ma quando torna in Italia scopre che è dato per morto, in quanto la moglie e la suocera lo avevano riconosciuto nel volto di una annegato. Libero così da ogni maschera e da ogni legame con la vita sociale, paradossalmente Mattia Pascal si crea una nuova identità e, nostalgico di quella vecchia, ritorna dalla propria famiglia dove scopre che la moglie si è risposata e ha avuto una bambina. Il protagonista si accontenta così di osservare la vita come un “forestiere”, consapevole di non essere nessuno.
I motivi principali del “Fu Mattia Pascal” sono:
• La critica dell’identità individuale: Pirandello dimostra quanto sia inconsistente l’identità personale rispetto agli stati psicologici continuamente in divenire;
• L’estraniarsi dal meccanismo sociale da parte di chi ha capito il gioco;
• La trappola delle istituzioni sociali che imbrigliano il flusso vitale.
Vi sono anche i primi vagiti del principio dell’umorismo, teorizzato 4 anni dopo: nella vicenda tragico e comico sono legati indissolubilmente, facendo scattare “il sentimento del contrario”.
Vi sono novità anche sull’impianto narrativo: infatti dall’impianto eterodiegetico (racconto in 3a persona con narratore esterno al racconto), si passa alla narrazione in prima persona (il romanzo è raccontato dal protagonista che affida a un memoriale la sua esperienza) mettendo in primo piano la relatività del racconto visto da un punto di vista inaffidabile come è Mattia Pascal (abbiamo solo la sua fonte, come i romanzi Sveviani).
Pirandello è cosciente che, in un’epoca in cui sono crollati tutti i valori ottocenteschi, non sarà mai in grado di scrivere un romanzo tradizionale, e così, nella prefazione, fa scartare ironicamente al narratore Mattia Pascal tutti i modelli di racconto tipicamente ottocenteschi.
“I vecchi e i giovani”
Un passo indietro verso il naturalismo Pirandello lo compie con “I vecchi e i giovani”. Il romanzo, nella sua forma esteriore è un romanzo storico in cui vengono narrate le vicende siciliani degli anni 1892-93 con la rivolta dei Fasci Siciliani guidati dai socialisti e con lo scandalo della Banca Romana.
La vicenda è incentrata su una famiglia nobile di Girgenti, i Laurentano, in cui vi sono dei conflitti generazionali di opinioni: per esempio il giovane Lando Laurentano, prima facente parte del socialismo, viene deluso e non fa parte dei Fasci siciliani, mentre il vecchio Cosmo Laurentano, che rappresenta il filosofo pirandelliano, guarda da lontano questi eventi e la politica, credendoli come pure illusioni che ci si crea per vivere, ma che sono tutte vane. Qui appare il pensiero di Pirandello sulla storia: per lo scrittore la storia “non conclude”, cioè un movimento insensato che gira continuamente su se stesso.
Dietro il corposo impianto del romanzo storico appare sempre l’umorismo pirandelliane, come si può notare nelle ultime parole del romanzo a opera di don Cosmo Laurentano.
“Suo marito” e “Si gira…”
Di minore importanza il romanzo “Suo marito”, ambientato in ambienti romani, e in cui si incentrano i motivi cari a Pirandello: la visione soggettiva che ciascuno ha del mondo e l’incomunicabilità tra gli individui derivante da ciò. Tutto è inserito nei contrasti fra le proprie opinioni tra due sposi, Silvia Roncella (famosa scrittrice) e Giustino Boggiòlo (che pensa solo ad amministrare i guadagni della moglie).
In “Si gira…” sono invece incentrati tutti le maggiori tematiche pirandelliani. Qui si ritorna al romanzo autodiegetico, in quanto il narratore è Serafino Gubbio, un operatore cinematografico. Serafino è il classico filosofo pirandelliano che guarda con distacco l’assurdo affannarsi degli uomini per inseguire illusioni: la sua professione, il suo stare dietro una cinepresa che registra la vita, diventa metafora di questo distacco contemplativo.
Altro tema del romanzo è quello della macchina. La macchina era stata lodata dai futuristi, respinta dal Pascoli e da D’Annunzio; Pirandello guarda con diffidenza alla macchina, come a tutta la realtà industriale.
Assieme alla critica per la meccanizzazione si affianca la critica alla mercificazione (che poi non è altro che una conseguenza): la realtà industriale trasforma tutto in merce, negando la spontaneità dei sentimenti.
“Uno, nessuno e centomila”
Dopo “Si gira…” Pirandello si buttò nel mondo del teatro, ma continuando a scrivere il suo ultimo romanzo, “Uno, nessuno e centomila” pubblicato nel 1925. Il romanzo narra la storia di Vitangelo Mostarda che, quando viene a sapere che gli altri si fanno di lui un’immagine diversa da quella che lui vorrebbe mostrare, cade in una profonda crisi capendo che egli è “uno” per se stesso, “centomila” per le diverse immagini che hanno di lui gli altri e quindi “nessuno”. Vitangelo decide così di eliminare tutte queste immagini con cui gli altri lo guardano, e così vende la banca e dà in beneficenza tutti i suoi averi per fondare un istituto per poveri ove egli stesso si fa ricoverare. Con questa scelta Vitangelo sembra riacquistare un po’ di serenità, in quanto non ha più nessuna maschera che lo tormenta, è libero da tutto, e rinasce ogni momento come nuovo grazie al flusso vitale. Come si può vedere vi è un atteggiamento opposto tra Vitangelo e Mattia Pascal, che invece non accetta la sua condizione di uomo libero da ogni identità.
Anche la disgregazione del romanzo tradizionale è qui portata all’estremo: anche qui si ha un’analisi retrospettiva da parte del narratore, ma non si ha più una parziale unificazione nella forma del diario, in quanto tutto è disordinato, magmatico, è un convulso argomentare, riflettere da parte del narratore, come se il romanzo fosse un ininterrotto monologo. In alcuni tratti viene chiamato in causa anche un interlocutore immaginario che ad un certo punto del romanzo viene anche presentato come un uomo in carne ed ossa.
Anche in questo romanzo salta ogni concatenazione logica, non si ha più il rapporto causa-effetto.
Il Teatro
Gli esordi e il periodo grottesco
Le prime opere rappresentate a teatro furono La Morsa e Lumiè di Sicilia nel 1910; successivamente Pirandello scrisse altre opere sia in Italiano che in dialetto siciliano (Pensaci Giacomino!, Liolà, Berretto a Sonagli).
Il contesto teatrale in cui si inseriva Pirandello era quello del dramma borghese in cui venivavo inscenate scene sui problemi della famiglia e del denaro, mettendo in risalto i personaggi ed arrivando a forme di emozione altissime. Pirandello sconvolse questi personaggi borghesi, rappresentandoli in modo rigoroso e smascherando così la loro inconsistenza.
Ad esempio in “Pensaci Giacomino!” il vecchio prof. Toti, che non ha potuto farsi una famiglia a causa del suo magro stipendio statale, si vendica nei confronti dello Stato sposando una ragazza giovanissima, in modo che le sia pagata la pensione per parecchi anni; inoltre spinge la moglie a fargli le corna con Giacomino, un suo allievo, in quanto pensava che le corna sarebbe andato al personaggio che lui interpretava ma che non gli apparteneva, cioè quello del marito.
In “Così è (se vi pare)”, il Signor Ponza tiene relegata in casa la moglie per non farla vedere alla suocera, la signora Frola. Il signor Ponza ritiene che quella in realtà è la sua seconda moglie, in quanto la prima, la figlia della signora Frola, era morta in un terremoto; questa crede anch’essa di essere la seconda moglie, attirando l’attenzione del paese su questa strana coppia. Nella scena finale la signora Ponza esce allo scoperto con un velo affermando che lei è ciò che la si crede: Pirandello sostiene ancora una volta il relativismo assoluto.
In “Piacere dell’Onestà” il protagonista, Angelo Baldovino, accetta di sposare Agata Renni per dare un padre legale al figlio avuto dal suo amante. Ma sceglie di seguire fino in fondo la forma scoprendo l’ipocrisia del contesto borghese che ha combinato l’intrigo.
Nel “Giuoco delle parti” Leone Gala, separato dalla moglie che ha una relazione con un certo Guido Venanzi, accetta il suo ruolo sfidando a duello un signore che l’aveva offesa: egli poi non si batterà lasciando il compito all’amante.
Pirandello in questi drammi sconvolge i due capisaldi del teatro borghese: la verosimiglianza e la psicologia. Infatti gli spettatori non si trovano più davanti uno scenario corrispondente alla realtà, ma uno alterato, ridotto alla parodia e all’assurdo; inoltre i personaggi non sono caratteri corposi, dalla psicologia coerente e unitaria, ma sono frammentati, irrigiditi, contraddittori, trasformati quasi in esagitate marionette.
Tutto ciò è unito a un linguaggio concitato, fatto di continue esclamazioni, interrogazioni, mezze frasi.
Agli inizi gli spettacoli di Pirandello non ebbero molto successo in quanto il pubblico non era abituato a trovarsi di fronte un simile scenario e venivano sbalorditi dalla sua forza prorompente; solo un recensore capì l’importanza e la grandezza di Pirandello: Antonio Gramsci che definì i suoi spettacoli come bombe a mano per lo spettatore.
Con il Piacere dell’onestà e con il Giuoco delle parti Pirandello rientra nella forma teatrale del grottesco, da lui definito come una farsa che includa nella tragedia la parodia e la caricatura di essa: in altre parole lo stile “grottesco” è la rappresentazione scenica dell’arte “umoristica”.
Il Teatro nel Teatro
Nel 1921 coi “Sei personaggi in cerca d’autore” Pirandello porta allo scoperto il rifiuto del teatro del tempo. I sei personaggi sono una Madre, un Padre, Un Figlio, una Figliastra, una Bambina, un Giovinetto, nati vivi dalla mente di un autore che però non li ha voluti portare in scena in quanto si trattava di un dramma borghese fatto da adulteri, colpi di scena, lutti strazianti; così i sei personaggi vanno da Pirandello che sta provando un altro dramma, per cercare di farlo rappresentare a lui: ma egli invece mette in scena l’impossibilità di scrivere e rappresentare il dramma, non solo per la mediocrità degli attori, ma anche perché il linguaggio teatrale impedisce di mettere in scena ciò che l’autore ha veramente concepito.
Il dramma, uscito nel 1921, suscitò profonda indignazione, ma col passare del tempo divenne un successo a livello mondiale.
Le soluzioni d’avanguardia del “teatro nel teatro” sono proseguite in altri due racconti: “Ciascuno a suo modo” e “Questa sera si recita a soggetto”.
Nella prima opera vi è rappresentato il rapporto tra autori e pubblico, con quest’ultimo che irrompe in scena; il secondo parla dei conflitti tra attori e regista.
Al ciclo del “teatro nel teatro” è riconducibile anche “Enrico IV” (1922).
In una villa isolata della campagna umbra vive un signore che si crede Enrico IV in quanto, durante una parata in maschera cadde da cavallo prendendo una botta in testa e credendosi da allora il personaggio che interpretava. Nella villa si introduce una donna che un tempo amava, Matilde, col suo amante Tito Belcredi e la figlia Frida. Il medico fa vestire la figlia Frida coi vestiti che allora furono della madre Matilde durante la parata, in modo che il malato avesse uno choc. Ma Enrico IV rivela che lui è guarito da diversi anni e che recitava la parte perché nauseato di una società corrotta e vile; così facendo però si è anche escluso dalla vita, sfuggita, e che vuole riprendersi possedendo ciò che non aveva potuto avere, non la vecchia Matilda, ma la giovane Frida. Belcredi si oppone ma Enrico IV lo uccide con la spada rinchiudendosi di nuovo nella sua pazzia.
Questa “tragedia” si lega al ciclo “teatro nel teatro” in quanto avviene una recita in scena, quella di Enrico IV. Enrico IV riprende la figura cara a Pirandello dell’eroe straniato dalla vita, che la guarda da lontano, dall’alto della sua consapevolezza.
Profilo di Eugenio Montale
Nell’appartata, ma acuta e intransigente, osservazione critica del proprio tempo e della condizione umana in generale e in particolare nell’antifascismo e nella critica della società postbellica stanno i dati più significativi della biografia di Montale.
Con gli “Ossi di seppia” Montale entra nel novero dei massimi poeti che hanno dato voce al disagio dell’uomo contemporaneo, configuratosi, dopo il decadentismo estetizzante, sempre più spesso come dolorosa inettitudine alla vita. Come appare esemplarmente dai “Limoni”, la poetica montaliana è sin dall’origine una poetica antieloquente, che ripudia il dannunzianesimo pur avvertendo la necessità di attraversarlo, facendo “cozzare l’aulico col prosaico”. Non è possibile una poesia eloquente perché non ci sono verità positive da affermare, da cantare a voce spiegata. Se la condizione umana è quella desolata disarmonia col mondo che Montale subito percepisce, la poesia dovrà farsi veicolo immediato di essa e pronunciare al massimo “qualche storta sillaba e secca come un ramo” (Non chiederci la parola). Di qui anche la predilezione per forme scabre e aspre e per il paesaggio ligure colto esso pure nei suoi aspetti più aspri. Disarmonia, angoscia, male di vivere in un paesaggio scabro: questi i temi essenziali degli “Ossi di seppia”, espressi attraverso celebri metafore: camminare lungo un muro invalicabile, trovarsi impigliato tra le maglie di una rete ecc… Eppure Montale si sente vicino al “quid” rivelatore e liberatore. A tale condizione alludono metafore altrettanto celebri: il varco, la smagliatura nella rete, il fantasma che può salvare, lo sbaglio di natura, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che “metta nel mezzo di una verità” ecc… Altri riescono trovare il varco forse: le ombre di disturbate Divinità dei “Limoni” o Esterina di “Falsetto”, che spensierata si tuffa in mare, mentre il poeta è della razza di chi rimane a terra. Come Montale, invece, Arsenio non riesce a svellere le proprie radici e tuffarsi nel mare sconvolto dal turbine di un temporale, momento e luogo finalmente propizi per liberarsi dal male di vivere.
Dagli “Ossi” alle “Occasioni” e poi alla “Bufera” c’è più sviluppo che frattura. Medesimi sono i problemi esistenziali di fondo. Mutano invece circostanze storiche e personali (l’affermarsi della dittatura, la crisi europea, poi la guerra e le tensioni del dopoguerra, amori e conoscenze, nuovi paesaggi), la riflessione si approfondisce, il disagio si radicalizza e talora sembra cercare nuovi improbabili varchi metafisici. La poetica degli oggetti e l’oscurità caratterizzano le “Occasioni”. Diminuisce l’importanza del paesaggio: la poesia ora è prevalentemente temporale e relazionale (ricerca di contatto con il proprio simile). Importanti la presenza del tema d’amore e in particolare il ciclo di componimenti dedicati a Clizia, la donna assente, che indica al poeta il possibile varco che soprattutto nella “Bufera” assumerà una dimensione metafisica. La “Bufera e altro” segna innanzi tutto un’irruzione della realtà nella poesia e in particolare della realtà storica e politica. Quello della “Bufera” è un universo totalmente sconvolto dalla guerra storica e cosmica. Col finale si ha l’esaurirsi anche dell’ultima ipotesi di possibilità che un varco esista e si manifesti. Il lascito montaliano (“Piccolo Testamento”) è un invito a resistere ancorati alle minime certezze dell’esistere, aggrappati ai propri valori etici, è immagine di una ricerca che nonostante gli scacchi continua. L’ultima poesia montaliana, da “Satura” ad “Altri versi”, sorprese tutti per la novità di modi e di toni e di poetica, ma non di ideologia: la degradazione a livello comico e satirico qui operata è lo scotto necessario per riaprire il discorso poetico. Le ombre proiettate già nella “Bufera” sugli sviluppi di una società insensata trovano in “Satura” e nelle successive raccolte piena espressione e un linguaggio adeguato. E’ il modo montaliano di adeguarsi ai tempi e insieme di continuare ad essere un testimone inflessibile del proprio tempo.
Profilo di Umberto Saba
Nel secondo decennio del novecento Umberto Saba con le raccolte che ha pubblicato ha già una sua definita fisionomia poetica. Si tratta di una fisionomia particolare che risulta anomala o periferica rispetto al panorama che in quel tempo offriva la lirica italiana. Saba aveva realizzato una poesia fondata sul rispetto delle forme metriche tradizionali e sull’adozione di un linguaggio di pregnante chiarezza, sulla volontà di dare voce ai valori di tutti, a ciò che ciascuno intende, e di cantare nell’infinità varietà dei suoi aspetti il quotidiano. Obiettivi e soluzioni del genere erano in contrasto con l’egemonia di D’Annunzio, che aveva disarticolato le forme liriche tradizionali, si era creato un linguaggio di preziosistica letterarietà, e opponeva ai valori di tutti l’individualismo estetizzante; ma lo erano anche in modo vistoso con le sperimentazioni e le avventurose inquietudini dei futuristi e in modo meno appariscente con i poeti crepuscolari che al quotidiano si accostavano sì ma con ironia. Ma anche in seguito – quando intorno agli anni trenta il panorama della lirica sarà dominato dalla scuola ermetica con la sua ricerca della parola allusiva ed evocativa, con la sua ansia metafisica, con il suo angoscioso solipsismo – Saba continuerà ad apparire una voce dissonante. Saba innanzi tutto adotta un lessico che si distingue per la sua pregnanza semantica, cioè per la sua concretezza, per la sua capacità di oggettiva definizione della realtà, e si impegna in componimenti che abbiano una chiara articolazione, un “prima” e un “poi”, optando sempre per la chiarezza piuttosto che per l’ermetica allusività. Siamo così di fronte a quella che è stata definita una “poesia discorso” (Beccaria), destinata spesso ad approdare ad una certa prosaicità, a certe ovvietà, che Saba però affronta consapevolmente. Argomenti di fondo che ricorrono sono: la celebrazione della quotidianità in tutti i suoi aspetti; il tema amoroso, che si estrinseca nel rapporto con Lina, la moglie, ma dà anche luogo a figure di giovani donne vagheggiate con toni di un’intensa carica erotica; l’accettazione della vita con il suo perenne oscillare di illusione e scacco, di sogni e deludenti esperienze. Il “Canzoniere” si presenta quindi come la rappresentazione totale di un uomo, delle sua vicenda esteriore ed interiore, e di un uomo che fin dall’inizio della sua attività poetica aveva teorizzato la necessità di una poesia che fosse scrupolosa ricerca del vero, esercizio di scandaglio interiore. Per motivi connessi alla sua biografia e per le conoscenze delle teorie psicoanalitiche Saba fu particolarmente attento a questo esercizio di analisi, alla ricognizione perenne del proprio passato e al conseguente giudizio.
Profilo di Luigi Pirandello
Pirandello non fu solo quel narratore e drammaturgo che tutti conoscono, ma fu anche dotato di una scaltrita coscienza critica ed autocritica, come dimostrano i suoi numerosi interventi sulla letteratura contemporanea e vari saggi critici, il più importante dei quali è certamente quello dedicato a “L’Umorismo” (1908). Proprio in questo saggio, scritto quando egli aveva già dato parecchie prove della sua qualità di narratore, Pirandello ci dà una chiave di lettura della sua opera quando dichiara che essa nasce in lui dal “sentimento del contrario” e chiarisce che con questa definizione si deve intendere la capacità o meglio la vocazione a cogliere i molteplici e contrastanti aspetti della realtà, a scinderne e ad isolarne le varie e contraddittorie componenti, a percepire quale vita palpita e soffre dentro le strettoie delle forme, ad andare al di là di ciò che in prima istanza cade sotto i nostri sensi. Questa disposizione, questa prospettiva, da cui nasce quella forma d’arte che egli definisce umoristica, non può dare una visione univoca del reale, anzi dissolve la stessa concezione di una realtà che esiste nella sua autonoma identità: la realtà è tante cose, tante e contraddittorie realtà nel contempo. Conseguenze: 1) superamento di un canone fondamentale del verismo-naturalismo, come quello dell’esistenza di una realtà da descrivere con puntigliosa precisione; 2) relativismo gnoseologico, cioè affermazione della relatività del processo della conoscenza e dei giudizi ai quali esso porta; la realtà è una e tante insieme, proprio come ognuno di noi è per l’altro “Uno nessuno e centomila”: ogni individuo quindi può avere della realtà un’idea che non coincide con quella degli altri. Un narratore che muova da queste premesse non può accettare i canoni del verismo, ma deve trovare modalità narrative nuove, che mettano in evidenza questa indefinibilità o precarietà del reale, che dissolvano le certezze di estrazione positivistica. Pirandello avvia questa novità nel suo primo romanzo “L’esclusa” e poi la realizza con risultati particolarmente felici ne “Il fu Mattia Pascal”, e con esiti diversi negli altri romanzi e nelle novelle. L’adozione del protagonista-narratore, il frequente ricorso al discorso indiretto libero, lo scompaginamento dell’ordine cronologico-causale nella narrazione, sono alcuni dati di questa destrutturazione delle forme narrative tradizionali che Pirandello attua. Il relativismo gnoseologici comporta la conseguenza di mettere a nudo la convenzionalità dei valori accettati, dei ruoli imposti dalla vita associata. Ma l’animo con cui egli procede a questa demistificazione è complesso, coerentemente col sentimento del contrario da cui è sotteso, è fatto di grottesco e di pietà. Ora, infatti, Pirandello si accanisce a mettere a nudo grottescamente le incongruenze delle meccaniche convenzioni imposte dalla vita associata, ora invece ci sono nella sua pagina toni di dolente comprensione per le grige e dolenti esistenze stritolate da quei meccanismi, “per la pena di vivere così”. Il teatro era il genere letterario specifico, ottimale a cui doveva approdare il suo relativismo gnoseologico che comportava disparità di giudizi sulla realtà, quindi scontro e opposizione tra contrastanti tesi. Proprio per questo i personaggi del teatro pirandelliano a volte discutono troppo, sono dei loici agguerriti. Nei drammi in cui egli attua l’avanguardistica soluzione del “teatro nel teatro” (eccezionali, tra questi, i “Sei personaggi in cerca di autore”) crolla una convenzione (quella della quarta parete) su cui da sempre il teatro si era retto.
Profilo di Gabriele D’Annunzio
Per alcuni decenni d’Annunzio ha rappresentato un modello di comportamento, un ideale e uno stile di vita. Il dannunzianesimo- vagheggiamento di una vita realizzata con pienezza e con scarse remore etiche, culto della Bellezza, contaminazione tra vita e arte, esaltazione dell’avventura, mito superomistico, posizioni antidemocratiche, compiacimento del “bel gesto”, abuso della parola retoricamente agghindata- è stato un dato fondamentale della società e dello spirito pubblico italiano. D’Annunzio esercitava questa influenza sia con la sua vita- brillante mondanità, avventure amorose con donne fatali, duelli e scandali- sia con la sua produzione letteraria soprattutto romanzesca, in cui trasferiva in una prosa di estrema ricercatezza gran parte delle sue esperienze biografiche e creava personaggi, miti umani, nei quali la sensibilità e i gusti del decadentismo trovavano identificazione: Andrea Sperelli protagonista del “Piacere”, in cui ardore sensuale e tedio coesistevano e si accompagnavano ad una sofisticata sensibilità; Claudio Cantelmo, protagonista de “le vergini delle rocce”, in cui l’elitario culto della Bellezza approdava ad un violento disprezzo per l’altrui volgarità e alla teorizzazione dell’antidemocrazia. Attorno agli anni Novanta D’Annunzio legge Nietzsche e innesta sul ceppo della cultura decadente l’ideologia del Superuomo, il vagheggiamento di un ideale umano proteso all’affermazione di sé, al di fuori di ogni remora morale e sociale. Questo mito umano si accompagna alla elaborazione di un altro mito umano, ma al femminile, cioè con una galleria di donne fatali, di donne vampiro, che si pongono come forza antagonista, come ostacolo al maschio teso alla propria affermazione. Si tratta di una tipologia di donna che deriva la sua fatalità dall’oscura e invincibile forza dell’eros, dall’ossessione carnale con cui avvince e limita l’antagonista. Ma D’Annunzio non fu solo romanziere e autore di testi teatrali, fu soprattutto un poeta con una inesauribile varietà tematica, sempre con una strenua ricerca di una forma raffinata, con un amore sensuale della parola.
Nick: linda
Uno, nessuno, centomila
Luigi Pirandello
(1926)
GENERE: Romanzo psicologico.
CONTENUTO:
Vitangelo Moscarda si stava guardando allo specchio quando sua moglie gli fece notare che il suo naso pendeva da una parte e che, oltre a quello, aveva anche altri difetti. Quest'evento lo cambiт: voleva stare solo, senza se stesso, con un estraneo attorno, ossia con la parte di lui che gli era estranea. Questa cosa lo portт alla pazzia.
Un giorno si mise davanti allo specchio mettendosi le mani negli occhi perchй voleva vedere la sua immagine riflessa senza farsi vedere da essa. Ad un certo punto l’immagine starnutм e Vitangelo gli disse “salute!” e rise.
Moscarda pensava che non esistesse la coscienza, ma solo le fissazioni e che esse cambiassero.
Vitangelo pensa che la pace sia interna all’uomo.
Ognuno costruisce continuamente se stesso e gli altri: per sua moglie, ad esempio, lui era il suo Gengй che pensava in modo diverso da lui; Vitangelo ne divenne geloso.
La prima vittima di Moscarda fu Marco di Dio, un povero uomo che era stato in carcere e che diceva sempre che la settimana prossima sarebbe andato in Inghilterra. Moscarda,
infatti, decide di cacciarlo dalla casa dato che da anni Marco non pagava la pigione, in seguito va dal notaio Stampa e fa ciт che и necessario per dargliene un'altra.
Per Quantorzo, Firbo e Dida questo fu un atto di pazzia.
Anna Rosa, un’amica di Dida, gli lascia un messaggio per incontrarlo al monastero; lм, correndo, perde la borsetta e, quindi, parte un colpo. Vitangelo le fa compagnia nei giorni di convalescenza e le racconta tutto ciт che gli passa per la testa. Un giorno Anna Rosa cerca d'ucciderlo per un motivo sconosciuto.
AMBIENTE: Richieri.
TEMPO: Quello in cui regnava Vittorio Emanuele III.
PERSONA: Lo scrittore narra in prima persona.
PROTAGONISTA:
Vitangelo Moscarda: и un uomo che si sente diverso dagli altri. Sente che in lui ci sono diverse personalitа. Questa sua affermazione lo porta alla pazzia.
ALTRI PERSONAGGI IMPORTANTI:
Dida: vede Moscarda come un uomo sciocco ed и solita chiamarlo Gengй.

LUIGI PIRANDELLO
Grigenti (Agrigento) 1867, Roma 1936.
Scrittore e drammaturgo italiano nato a Grigenti (Agrigento) 1867.
Nel 1983 si stabilisce a Roma e dopo un anno si sposa con Maria Antonietta Portulano da cui avrа tre figli: Stefano, Lietta e Fausto.
Fino al 1922 insegna al magistero.
Nel 1919 sua moglie viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico.
Sei anni dopo Pirandello diviene direttore del teatro d’Arte; in seguito riceve il premio Nobel.
Le sue opere piщ famose sono: Il fu Mattia Pascal, Arte e scienza, L’umorismo, Quaderno di Serafino da Gubbio Operatore, Lumie di Sicilia, Sei personaggi in cerca d'autore, Uno, nessuno, centomila e I giganti della montagna (rimasta incompiuta).

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  1. Agata

    Sto cercando appunti su Pirandello e sul memoriale cinematografico di Stefano Pirandello per sostenere l'esame di letteratura teatrale