lluminismo Lombardo

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ILLUMINISMO LOMBARDO

La concretezza e la vocazione riformatrice dell’Illuminismo italiano sono particolarmente visibili nell’attività del gruppo di intellettuali che nella seconda metà del Settecento fu attivo a Milano intorno alla rivista “Il Caffè”, un periodico che uscì per soli due anni (1764 e 1766), ma il cui programma continuò a lungo ad esercitare una funzione di orientamento e di aggregazione delle migliori intelligenze espresse dal contesto milanese, da Pietro Verri al fratello Alessandro a Cesare Beccaria. L’attività degli illuministi milanesi fu favorita dall’atteggiamento di cauta apertura alle nuove idee assunto dalla monarchia austriaca (di cui la Lombardia faceva parte dal 1706) nella persona dell’imperatrice Maria Teresa e di suo figlio Giuseppe II. I due sovrani, pur senza mettere in discussione i princìpi del potere assoluto, appoggiarono una politica di riforme e di modernizzazione, intervenendo nel campo della giustizia fiscale, dell’economia e della giustizia e contrastando l’influenza clericale, soprattutto quella dei Gesuiti, sulla pubblica amministrazione. In questo clima aperto a esperienze innovative si inserirono con fervido entusiasmo gli intellettuali del “Caffè”, collocati su una combattiva linea di antitradizionalismo che li portò di volta in volta ad appoggiare le iniziative più disparate, purché progressive e socialmente utili: dall’innesto del vaiolo all’abolizione della pena di morte, dalla riforma del diritto ereditario alla battaglia per un rinnovamento della lingua, dalla lotta contro i privilegi feudali alla divulgazione di nuove tecniche agricole, e così via, sviluppando un arco di interventi e di interessi forse un po’ dispersivo e di taglio “giornalistico” più che “filosofico”, ma sempre di grande dignità per il rigore dei contenuti e la profonda convinzione etica. L’attività e la produzione degli illuministi del “Caffè” inizia ad esaurirsi negli ultimi decenni del Settecento, ma la sua lezione durerà a lungo, fino a influenzare, nel secolo seguente, protagonisti del primo Romanticismo lombardo come Carlo Cattaneo, Giovanni Berchet e, soprattutto, Alessandro Manzoni.
Il polemico libretto Dei delitti e delle pene, edito anonimo a Livorno nel 1764, è un’opera di poco più di cento pagine, il cui scottante tema giuridico, uno dei nodi del dibattito legislativo dell’epoca, viene suggerito al Beccaria da Pietro Verri; è incerto fino a che punto l’autore sia stato aiutato dagli amici nella stesura del testo; una tesi recentissima vorrebbe addirittura che egli fosse solo un prestanome.
Lo scrittore, in accordo con le tesi del Rousseau, sostiene che il cittadino ha ceduto parte della sua libertà naturale allo Stato per ricevere da esso una tutela. Perciò ha diritto alla garanzia di un codice formulato in modo chiaro, tale da escludere il rischio d’interpretazioni arbitrarie e di abusi da parte dei giudici, e uguale per tutti, così che non si presti alla discriminazione tra uomo e uomo.
L’autore nega la validità della tortura, che anch’egli, come il Verri, considera uno strumento moralmente disumano e giuridicamente inattendibile, poiché estorce le confessioni con la violenza, e, mentre può essere sopportata da un uomo forte, uno debole vi soccombe indipendentemente dalla propria colpevolezza.
Il Beccaria svolge un ragionamento ancora più acuto sulla pena di morte. Prima di tutto essa non è prevista dal “contratto sociale” tra il cittadino e lo Stato, poiché non può esservi nessuno “che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo”, e nessuno ha il diritto di privare l’uomo del supremo bene della vita. In secondo luogo, essa non è utile né necessaria: infatti è improduttiva per la società e non rappresenta un deterrente per i malfattori, che vedono con maggior timore la condanna ai lavori forzati a vita. Una riprova della ripugnanza che la pena di morte desta nei cittadini è, secondo il Beccaria, il disprezzo che tutti nutrono per la figura del boia, che pure è un innocente esecutore della legge dello Stato.
La concezione del Beccaria è modernissima, non solo perché mira ad una riforma radicale del sistema legislativo, ma soprattutto perché respinge l’idea che la pena debba essere una vendetta; inoltre giudica la prevenzione dei delitti un’arma migliore della punizione, mettendo audacemente in discussione quel potere di vita e di morte sui sudditi, che un’antichissima consuetudine assegnava ai sovrani.
L’autore organizza il discorso su argomentazioni razionali, coerenti e serrate; adotta spesso la terminologia scientifica della matematica e della geometria, ma ama arricchire i concetti con metafore che li illuminano di appassionata vivacità. Il ritmo è incalzante; lo stile conciso e privo di retorica, animato soltanto dal profondo convincimento interiore e dalla forza morale dello scrittore.
Nel 1766 l’opera del Beccaria viene messa all’Indice dei libri proibiti, ma ciò non ne diminuisce la risonanza internazionale. Tradotta in molte lingue, letta e discussa in ogni parte d’Europa, essa trova la prima applicazione proprio nel luogo in cui era stata pubblicata anonimamente, cioè in Toscana, dove nel 1786 il granduca Pietro Leopoldo abolisce la pena di morte.
I Discorsi sull’indole del piacere e del dolore, sulla felicità e sulla economia politica raccolgono vari saggi di argomento economico, filosofico e morale, scritti dal Verri tra il 1763 e il 1781. L’autore vi affronta tra l’altro il problema del rapporto tra piacere, felicità e dolore, rifacendosi alle posizioni dell’empirismo e del sensismo inglese. In particolare, nel Discorso sulla felicità egli sviluppa la tesi pessimistica che l’uomo tende per natura alla felicità, ma che essa non può mai realizzarsi in pieno: uno degli ostacoli maggiori al suo raggiungimento è la ricchezza. È interessante notare al riguardo che l’aristocratico Verri mette in discussione la bramosia di procacciarsi denaro e non la ricchezza posseduta per nascita; anzi, come altri illuministi, ritiene che chi è abituato a vivere nel benessere favorisca il progresso, poiché incrementa i commerci, necessari a procurargli il lusso, e incoraggia le arti, che sono un antidoto al dolore e alla noia.
Le Osservazioni sulla tortura, redatte in prima stesura nel 1770 e ampliate in quella definitiva del 1777, sono una delle opere più penetranti del Verri. I capitoli sono sedici; nei primi otto, il Verri esamina minuziosamente le cronache e i verbali di un celebre processo, legato alla superstizione che le epidemie di peste fossero provocate da “untori”, che spargevano unguenti infetti. Nel 1630, dopo la peste di Milano, due abitanti della città erano stati accusati di essere untori in base a testimonianze confuse e contraddittorie, e poi costretti a confessare sotto tortura e condannati a morte. Nella seconda parte del libro il Verri si scaglia duramente contro la tortura sostenendo che non garantisce una confessione sincera e attendibile, poiché i deboli vi soccombono anche se innocenti, mentre i forti possono resisterle pur se colpevoli. Secondo il Verri, la tortura è uno strumento umiliante, crudele e inutile che denuncia le aberrazioni di una legislazione arcaica e disumana. L’argomento, di grande interesse generale, sarà ripreso e ampliato nel famoso testo di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene.
Nella sezione in cui esamina gli atti giudiziari, l’autore vuol catturare l’attenzione con l’evidenza dei fatti, e usa per questo un linguaggio chiaro ed essenziale, volutamente distaccato; questo stile analitico viene poi abbandonato nella seconda parte del libro in favore di un tono veemente, appassionato e fortemente incisivo, che appare più idoneo a convincere; da esso traspare lo sdegno per il metodo della tortura e la ferma volontà di contribuire a cancellare i residui di una legislazione barbara.
Attorno al Caffè Demetrio di Milano si raccolsero i numerosi collaboratori della rivista “Il Caffè”, un foglio periodico che uscì ogni dieci giorni tra il 1764 e il ‘66 e si occupava di discipline non soltanto letterarie (vi si trattavano infatti argomenti di economia politica, di filosofia, di diritto), sotto la guida di Pietro Verri e Cesare Beccaria. L’esperienza dell’Accademia dei Trasformati, un’altra istituzione letteraria milanese riunita sotto la protezione e gli auspici della famiglia Serbelloni, poteva dunque considerarsi esaurita nei modi e nei contenuti quando Pietro Verri, tra il 1761 e il ‘62, dette vita alla Società dei Pugni, proponendo un nuovo modello di dibattito filosofico e letterario (svecchiamento linguistico e rifiuto del classicismo, attenzione rivolta alle vicende dell’Encyclopédie, al materialismo francese di Helvétius e Holbach, al sensismo di Condillac e alle opere politiche di Rousseau). Ispirandosi al giornale inglese The Spectator (fondato da Joseph Addison), il programma culturale del “Caffè” si rifaceva ad un’esigenza di collegamento della cultura con la realtà quotidiana e con i dibattiti che animavano il vasto panorama europeo, non ultimo quello del rifiuto delle teorie linguistiche esposte dagli accademici della Crusca, ritenute troppo antiquate, legate alla tradizione classica e quindi non più utilizzabili in un moderno contesto culturale.

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