Leopardi trasmette poco lo spirito romantico

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Testo

Il pensiero e le parole nell’opera di G. Leopardi

Divinità e poesia

Nell’introdursi alla lettura della complessa produzione leopardiana, e leggendo innanzi le opere del periodo, quindi quelle che si inseriscono nella tradizione romantica, spiritualista, non si può che trovarsi spaesati, colpiti e di certo meravigliati: in effetti tutto ciò che Leopardi trasmette poco c’entra con lo spirito romantico dei contemporanei.
In effetti, come ben notò De Sanctis nella sua storia della letteratura italiana, egli, ripugnante il suo tempo, incarna la figura dell’ “ultimo divin pastorello d’Arcadia” trasformando la tranquillità idillica in permanente ed inquietante, un poco, tensione, per terminare poi la sua vita poetica e dunque la sua vita terrena, attraverso la rinuncia all’ambientazione idillica, ma solo in parte (cfr. La Ginestra).
Notando come il pensiero di Leopardi sia maturato e cresciuto sulla base di premesse materialistiche, francesi per intenderci, possiamo capire in parte la definizione che di lui diede Vossler: un religioso del nulla. Detta matrice materialistica è cresciuta nell’animo leopardiano in maniera invadente e completa, verso diverse e forse ambigue direzioni.
È necessario, però, introdurre la “metafisica” leopardiana della natura nell’ambito critico e antidogmatico della filosofia postkantiana, che sicuramente il recanatese aveva letto, e che altrettanto sicuramente egli non poteva non condividere almeno in parte. Si deve dunque guardare sotto altra luce la parola chiave Natura nella produzione leopardiana. Essa non è qualcosa di semplicemente immanente al mondo, bensì diviene addirittura immanente all’io inconscio, e dunque sotto un certo aspetto, che fa di Leopardi poeta modernissimo, diviene ancora più centrale il ruolo dell’uomo nella riflessione leopardiana; ruolo dell’uomo, però, nell’uomo, unica realtà conoscibile e dunque unica realtà di cui il poeta si occupa durante le sue riflessioni. La progressiva universalizzazione del “pessimismo” leopardiano crea un’esistenzialismo quasi filantropico, terminate e definito, connaturato anzi, nella consolazione reciproca.
È evidente che l’esperienza biografica viene ad assumere significato anticipatore e simbolo della condizione umana, della coscienza della condizione umana. Unica via di fuga, unica consolazione, la porta per l’infinito liberatorio, diviene l’immaginazione poetica, ovvero la poesia come immaginazione.
Non è questo un nichilismo, non lo era fin dall’inizio, poiché Leopardi diventa religioso della poesia, identificata con l’io creatore hegeliano, ma purtroppo consapevole e dunque finita. Trova sì corpo il rifugio dal mondo “materiale”, basta invadere il vero di fiori profumati.
Non è nichilismo quello leopardiano perché, ancora, nella sua opera vera e propria è presente una pace beata, che oltrepassa la negatività delle circostanze e sistenziali; il lessico arcadico, appunto, ci consegna un che di conclusivo. A differenza delle conclusioni novecentesche, o meglio delle non-conclusioni, sottrattrici infide di riferimenti (Dio è morto), in Leopardi ogni verso ci consegna delle disilluse verità, comunque certezze ineluttabili.
La poesia, coincidente con l’io creatore, è Divinità. Il pensiero e le parole divengono uno essenza delle altre e viceversa, consegnandoci poesia divina, divinità come poesia.

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