Leopardi - Alla sua donna

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Testo

Giacomo Leopardi
Il conte Giacomo Leopardi nasce nel 1798 (nel periodo di un’Italia ancora divisa) a Recanati, un piccolo paese delle Marche allora appartenente allo Stato Pontificio. Nonostante questo il era ritenuto un piccolo borgo piuttosto arretrato, data la distanza dalla cultura “di moda”: l’illuminismo francese o anche il più recente Romanticismo. Leopardi si sentiva quindi “soffocato” in questo piccolo paesino intrappolato in uno Stato poco stimolante dal punto di vista culturale, tanto da spingere lo stesso poeta a renderlo palcoscenico di una vita malinconica.
Alla sua donna
Amare non ha confini, va molto oltre l’immaginazione, nel mondo dei sogni. Leopardi lo ha provato tanto profondamente da scrivere una poesia d’amore alla donna amata, la sua regina, la donna per lui più bella e irraggiungibile di tutte. E così canta le lodi di una donna capace di sorprenderlo nel sonno, di farlo sospirare, di fargli battere il cuore a ogni suo pensiero. Il poeta però sa già che non avrà mai l’onore di incontrarla se non nella sua immaginazione, dove lei, proibita, risplende. E’ un’idea pura che gli è negata nella realtà dal destino, crudele avaro della sua inimmaginabile bellezza. Solo la poesia è tanto forte da poter contrastare la realtà, portando la donna amata tra le braccia del poeta nei brevi istanti della composizione di questo biglietto galante, dove la forma ha un peso almeno pari al contenuto.

Alla sua donna
Cara beltà che amore
lunge m’ispiri o nascondendo il viso,
fuor se nel sonno il core
ombra diva mi scuoti;
o ne’ campiu ove splenda
più vago il giorno e di natura il riso;
forse tu l’innocente
secol beasti che dall’oro ha nome,
or leve intra la gente
anima voli? o te la sorte avara
ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti ormai
nulla spene m’avanza;
s’allor non fosse, allor che ignudo e solo
per novo calle a peregrina stanza
verrà lo spirto mio. Già sul novello
aprir di mia giornata incerta e bruna,
te aviatrice in questo arido suolo
io mi pensai. Ma non è cosa in terra
che ti assomigli; e s’anco pari alcuna
ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme assai men bella.
Fra cotanto dolore
quanto all’umana età propose il fato,
se vera e quale il mio pensier ti pinge,
alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
questo viver beato:
e ben chiaro vegg’io siccome ancora
seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
l’amor tuo mi farebbe. Or non aggiungesse
il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
e teco la mortal vita saria
simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
del faticoso agricoltore il canto,
ed io seggo e mi lagno
del giovanile errror, che m’abbandona;
e per li poggi, ov’io rimembro e pigno
i perduti desiri, e la perduta
speme de’ giorni miei; di te pensando,
a palpitar mi sveglio. E potess’io,
nel secol tetro e in questo aer nefando,
l’alta specie serbar; che dell’imago,
poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Se dell’eterne idee
l’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t’irraggia, è più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi.

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