Le opere di Machiavelli

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Testo

Italiano
Machiavelli
Con Machiavelli e il Principe il trattato abbandona le forme della dissertazione filosofica e scientifica per quella del saggio, in cui l’autore dimostra la sua verità individuale. La verità per Machiavelli si basa sulla conoscenza delle leggi, della natura e della storia attraverso l’esperienza e i classici. A differenza dei trattati politici medioevali la religione perde autorità così come la morale su cui si basavano i trattati quattrocenteschi sul Principe. L’autorità del Principe si basa solo sul suo stesso pensiero e la morale del principe coincide col suo successo e con la sorte dello Stato.Ma il pensiero di Machiavelli non è riconducibile al machiavellismo che giustifica col fine i mezzi e che dimostra l’impatto travolgente del Principe.Il Principe nasce dalla consapevolezza della necessità di una riconsiderazione della politica.Nel Novecento prevalse l’idea che vada considerato come primo teorico scientifico dell’autonomia della politica ma in effetti egli può essere considerato il primo saggista:egli analizza e interpreta il comportamento umano e sulla base di ciò elabora una teoria politica in cui il realismo dell’analisi e della logica argomentativi convivono con una prospettiva utopistica delle soluzioni proposte; proprio la fusione di realismo e utopia è tipica della saggista. Inoltre invita cercare le vere motivazioni materiali della storia sotto le ideologie dando avvio al pensiero del sospetto. Nasce a Firenze nel 1469. Ha una formazione umanista latina che lo porta a tradurre il De rerum natura di Lucrezio venendo a contatto con le basi materialiste dell’epicureismo. Si collega alla tradizione filosofica aristotelica di Firenze e entra in disaccordo con Savonarola. Si ricollega all’Umanesimo Civile di Salutati e Bruni che sollecita all’impegno politico. Dopo la caduta di Savonarola, essendo opposto ai piagnoni (frate) pur non essendo seguace dei palleschi (Medici), viene eletto alla seconda cancelleria e poi segretario dei Dieci di balia (politica estera). Nel 1502 è collaboratore del gonfaloniere Pier Soderini compiendo viaggi diplomatici. Nel 1506 è segretario della magistratura dei Nove, dell’ordinanza e della milizia e arruola contadini nell’esercito constatando l’inaffidabilità dei mercenari. Nel 1512 rientrano i Medici e dopo l’arresto e la tortura si dedica all’otium letterarium. Partecipa ai dibattiti filosofici negli Orti Oricellari con intellettuali repubblicani ma non fa parte della loro congiura del 1522 per cui viene ricompensato per le Istorie Fiorentine e riabilitato alla vita pubblica come cancelliere dei Procuratori delle Mura fino al regime repubblicano del 1527.
Le lettere
Scritte in volgare non a scopo di pubblicazione presentano momenti di riflessioni ma anche altri comici, resoconti di beffe e confessioni autobiografiche. Importanti quelle a Verraccio e a Guicciardini per il viaggio a Carpi e la beffa ai frati Nella lettera a Guicciardini: beffa ai frati di Carpi si parla del fatto che, anche se noto per il suo spirito anticlericale, Machiavelli viene mandato a Carpi per scegliere un predicatore per Firenze così rivaleggia in ipocrisia coi frati fingendo di avere ancora importanza politica con l’aiuto di Guicciardini. Le lettere sono notevoli per il tono comico ma anche per il filo di amarezza per il suo ridimensionato ruolo politico. Annuncia che si impegnerà per i suoi concittadini pur non capendo la loro necessità e ironizza sui frati e sul loro ruolo di modello portando esempi negativi e affermando che un frate con tutti quei difettivi sarebbe più utile come modello da non seguire per il Paradiso. Poi spiega il suo piano senza risparmiare frecciate ai frati e alle credenze religiose.
Opere minori
Durante l’attività politica di Machiavelli bisogna distinguere le opere ufficiali, legazioni, sulle missioni diplomatiche come quelle presso Cesare Borgia e presso Luigi XII, e legazioni, sulla politica interna, da quelle non ufficiali in cui matura il pensiero politico dell’autore. Scrisse sotto forma di lettera al nipote di Soderini i Ghiribizzi in cui definisce come mutevoli le situazioni e i tempi e come immutabile l’azione individuale che dipende dal carattere della singola persona. Perciò il successo è determinato dalla fortuna che può adattarsi o meno al singolo e non è duraturo per i continui cambiamenti delle situazioni.
Il Principe
In questa opera si augura l’avvento di un principe che sappia creare un nuovo stato sconfiggendo l’inettitudine degli attuali governanti e l’avversità della fortuna; per questo il Principe è un manifesto politico che propone un programma per l’immediato futuro. Nell’opera affiora che bisogna attendersi alla realtà effettuale delle cose, guardare la realtà nella sua durezza, non darne un’interpretazione idealistica e in più la fortuna determina le vicende umane e in certi casi si richiede un atteggiamento impetuoso oppure rispettivo ma l’uomo non può adattarsi col suo carattere immodificabile tuttavia la fortuna è donna e preferisce gli impetuosi. La moralità del principe è il bene dello Stato dunque la politica è autonoma dalla morale. La moralità di Machiavelli sta nella condanna delle ipocrisie e delle mezze misure. La conclusione esorta i Medici a porre fine alla crisi italiana e rivela sia il progetto politico sia la prospettiva utopica dell’opera; lo stile è caratterizzato dall’alternanza di linguaggio alto e basso, dal rigore argomentativo con cui l’autore sceglie tra netti dilemmi, da procedimenti del ragionamento scientifico e da immagini. Questi sono i temi e i toni del trattato in cui il realismo si fonde con l’utopia
I Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio
I discorsi sulla prima deca di Tito Livio sono un’opera varia e composita iniziata nel 1513, ripresa tra il 1515 e il 1517 e conclusa nel 1518. Si tratta di una serie di divagazioni a partire dal testo-base ovvero al prima deca della storia di Roma di Livio. Si tratta di una serie di riflessioni che vogliono costituire una teoria politica basata sulla storia della Roma antica. La trattazione non è quindi sistematica. Nel primo libro analizza la politica interna dello Stato e il ruolo unificatore della religione a Roma dove la religione pagana induceva a identificarsi con lo Stato al contrario di quella cristiana che allontana dall’amor patrio. Nel secondo parla di guerre e milizie. Nel terzo parla di uomini che fecero grande Roma, della trasformazione dello Stato con riferimenti alla corruzione di Firenze opposta al fasto della Roma repubblicana. A differenza del Principe, che si pone il problema di fondare uno stato nuovo a partire dalla virtù di un principe, i Discorsi pongono il problema di uno stato duraturo che deve avere il consenso del popolo e l’equilibrio dei poteri. Perciò il modello deve essere la Roma repubblicana come repubblica mista con equilibrio di poteri e una conflittualità controllata tra le classi sociali e non quella aristocratica di Venezia o quella democratica di Savonarola. In questa svolta influirono sicuramente le frequentazioni agli Orti Oricellari e il cattivo esito del Principe. Altri ipotizzano che scrivendo riguardo le corruzioni delle repubbliche Machiavelli abbia voluto proporre come rimedio il principato scrivendo così il Principe. La scelta di questi due modelli costituzionali deriva dal loro equilibrio ma la repubblica mista esprime maggiore stabilità istituzionale. Nel rifiutare le altre forme riprende la tesi di Polibio sulla degenerazione dei modelli costituzionali principali e riprende da lui anche la teoria di un ciclo vitale di uno Stato la cui decadenza è inevitabile anche se combattibile con il modello romano di repubblica mista e con un ritorno alle origini nei periodi di crisi. Machiavelli basa la sua riflessione sull’imitazione e sulla superiorità degli antichi e sull’esemplarità della storia romana che si collegano a una concezione naturalistica e astorica dell’immutabilità della natura umana che permette l’imitazione di un modello lontano nel tempo. In contrapposizione evidenzia la decadenza fiorentina. Il proemio presenta alcune dichiarazioni di modestia che contrastano con le orgogliose affermazioni della lettera dedicatoria che apre il Principe in cui si presentava provvisto di una “lunga esperienza delle cose moderne e di una continua lezione delle antique” mentre qui afferma di avere “poca esperienza delle cose presenti” e “debole notizia delle antique”. Esse sono in rapporto con la novità dell’opera di Machiavelli. Machiavelli infatti ha piena coscienza del compito di innovatore e di fondatore della teoria politica nell’epoca della modernità tanto da seguire una “via non ancora da alcuno trita”. E’ consapevole che occorre spregiudicatezza, occorre “operare senza alcun respetto” cosa che l’autore può fare essendo propenso di natura ad agire così. In questa alta coscienza e carica polemica e demistificatoria è vicino al Principe. Qui troviamo inoltre i fondamenti dell’ideologia naturalistica e antistoricista del pensiero machiavelliano: la storia del passato rivela la condizione eterna dell’uomo, la presenza di caratteri invariati nel suo comportamento che possono consentire la fondazione di una teoria scientifica in campo politico. Machiavelli considera l’istituzione dei tribuni della plebe, successiva alle lotte sociali esplose a Roma all’epoca dei Gracchi come esempio di come se istituzionalizzati i conflitti di classe contribuiscono alla stabilità dello Stato. Egli quindi non accetta l’opinione comune che attribuisce a essi la responsabilità della caduta di Roma .Essi sono nocivi se portano alla tirannide , alla oligarchia o all’anarchia ma non se favoriscono la partecipazione di tutti gli starti sociali alla vita civile garantendo durata e sviluppo allo Stato. Non è un’idea democratica la sua ma deriva dalla necessità della libertà dello Stato che perciò deve avere ordini autonomi, solidi, sicuri, sovrani. Uno stato per mantenersi deve fondare una morale collettiva che serva da forza di coesione come a Roma dove Numa finse di ricevere istruzioni sul governo da una Ninfa. La religione appare come instrumentum regni ma ha anche il compito di cementare moralmente un popolo. Per dimostrare l’importanza della religione analizza la crisi italiana attaccando pesantemente la Chiesa. La prima colpa della Chiesa è quella di aver dato esempi empi e per Machiavelli il culto divino dispregiato è un indizio di rovina. Fa l’esempio di come quando nella religione pagana il popolo si accorse che le predizioni erano sempre a favore dei potenti e capirono l’inganno si prepararono a ribellarsi. Perciò un governo, principe o repubblica, deve mantenere i fondamenti religiosi anche se li ritiene falsi per mantenere lo stato religioso e quindi unito. Per questo, essendo diversi i costumi della Chiesa da quelli dei suoi fondamenti, il destino è la rovina. Per colpa della Chiesa si è persa ogni devozione e religione che portando il bene dove non ci sono portano il male e inoltre è causa della divisione dell’Italia. Infatti non ha avuto potere e virtù da unificare sotto il suo potere l’Italia ma legate al potere temporale si oppone con alleanze anche con stranieri alla divisione italica. Inoltre la religione cristiana invita all’ascetismo invece quella pagana infondeva l’amor patrio. Il tema della fortuna considerato anche nel Principe qui è visto in rapporto alla vita di uno Stato e agli imprevisti dei tempi e della sorte. La repubblica è una istituzione più stabile e meno sottoposta ai colpi della fortuna perché basata sulla volontà collettiva mentre difficilmente il principe può cambiare il suo carattere che è o impetuoso o rispettivo e perciò cade in rovina. Anche se nel principe si dirà che essendo la fortuna donna predilige i caratteri impetuosi. Tuttavia anche la repubblica è debole contro la fortuna in quanto solo lentamente può convincere la collettività a cambiare nelle circostanze perciò comunque la fortuna trionfa portando alla rovina inevitabile nel ciclo vitale di uno stato.
Il discorso delle cose fiorentine dopo la morte di Lorenzo è scritto dopo la morte del nipote di Lorenzo il Magnifico e rivolge a Giulio de Medici una serie di consigli sull’amministrazione della città e sul regime temperato da istituirvi.
La relazione su una visita fatta per fortificare Firenze fu scritta nella prospettiva di un assedio da parte di Carlo V
Dell’Arte della Guerra
Circolò subito a stampa. E’ dedicata a Lorenzo di Filippo Strozzi. In esso un famoso condottiero spagnolo, Colonna, dialoga con altri personaggi come i dedicatori dei Discorsi di uno dei quali fa un elogio. Ripropone l’arruolamento di contadini al posto dell’uso di mercenari. La questione militare deve essere legata all’ordinamento politico dello Stato infatti uno Stato forte coinvolge i cittadini sia in campo politico che militare. Le legioni derivavano l’organizzazione dall’identificazione dei soldati con lo Stato. Vi sono suggerimenti di tattica militare. Sottovaluta l’uso delle armi da fuoco ma intuisce la decadenza della cavalleria correlata al declino della nobiltà e l’importanza della cavalleria. Infine si appella ai giovani perché siano virtuosi.
Istorie Fiorentine
Scritte nel 1520 per Giulio de Medici dietro compenso. I modelli sono Senofonte e Livio e la storiografia umanistica di Bracciolini e Bruni. Furono offerte nel 1525 a Clemente VII e narrano i fatti storici fino alla morte di Lorenzo il Magnifico. Contiene un excursus sulla storia d’Italia dalla caduta di Roma, il profilo di Teodorico principe machiavelliano, poi parla della fondazione di Firenze fino al 1353 spiegando che non è ripartito dal 1434 dove terminano i lavori precedenti perché essi tralasciano i conflitti precedenti che servono da insegnamento per il presente secondo il principio della storia come maestra di vita per questo cura più l’interpretazione dei fatti che la loro documentazione senza compiere ricerche e selezionando le versioni più comode al suo ragionamento politico. Ritrova nelle divisioni, nell’incapacità delle classi dirigenti e nella mancanza di imitazione verso Roma le cause della crisi attuale ma si ferma al 1492 per rimanere autonomo. Inoltre affida i discorsi a avversari di Firenze.
Opere Letterarie
Machiavelli sostiene la necessità di rifarsi al dialetto fiorentino contemporaneo. Scrive il poema in terzine L’Asino sul modello di Apuleio. Nel regno di Circe è in un gregge di animali corrispondenti ai tipi di uomini ma il poema si interrompe prima della trasformazione in asino. Nella parodia l’assunzione comica del punto di vista animale cancella le convenzionalità del mondo umano. Belfagor Arcidiavolo è una novella sul modello della tradizione misogina e della beffa boccaccesca. Belfagor mandato sulla terra per verificare la situazione familiare dei mariti che ritengono il matrimonio peggio dell’inferno preferisce tornare all’inferno dopo aver constatato un mondo basato sull’egoismo e il denaro vittima di Gianmatteo del Brica che lo aveva salvato dai creditori.
La Mandragola e la Clizia
Nella Clizia si ispira a Plauto raccontando l’amore del vecchio Nicomaco, lui stesso, per una schiava che causa la beffa della moglie. Allude al proprio amore senile per la cantante Salutati e la comicità è carica di amarezza. Nella Mandragola influiscono Terenzio e Plauto ma soprattutto Boccaccio per la beffa erotica e per il dottore simile a Calandrino ma a differenza di Boccaccio non esalta la furbizia ma descrive semplicemente la divisione fra ingannatori astuti e ingannati ingenui. La mandragola è un’erba medicinale per la fertilità. Nicia marito di Lucrezia vuole un figlio allora Callimaco e Ligurio organizzano la beffa per cui bevendo la mandragola Lucrezia sarebbe restata in cinta ma l’amante sarebbe morto dopo poco per cui fu Callimaco a offrirsi ma così conquistò definitivamente Lucrezia che si era fatta convincere dalla madre e dal confessore. Nicia usa proverbi espressioni di una sapienza spicciola, Timoteo il linguaggio della Chiesa, Callimaco quello del letterato che dichiara i suoi sentimenti, Lucrezia quello della retorica. Nicia è volgare, Timoteo usa la religione per arricchirsi; Callimaco è un inetto. Alcuni vedono in Lucrezia qualcosa del principe machiavelliano nella sua capacità di respingere le ipocrisie e le mezze misure e di adattarsi alle circostanze; Sasso la ritiene un personaggio passivo e conformistico, sempre disposto a soggiacere alla volontà altrui mentre la vede con i tratti simbolici della fortuna: donna e cedevole alla forza dell’impeto giovanile.
Il Principe
Dal novembre 1512 Machiavelli viene privato di ogni ufficio e dopo un breve periodo di carcere si ritira nel proprio podere e come emerge dalla lettera a Vettori scrive da marzo a dicembre del 1413 il Principe e i primi 18 capitoli dei Discorsi. Niccolò comunica di aver terminato un opuscolo con il titolo De principatibus da dedicare a Giuliano dei Medici anche se dopo la morte di questo verrà dedicato al nipote di Lorenzo il Magnifico. Assunse il titolo definitivo solo dall’edizione a stampa. Si rifà al genere letterario del trattato sul sovrano ideale. In una lettera all’amico Vettori descrive la sua vita in risposta alla lettera in cui Vettori descriveva la sua permanenza a Roma come ambasciatore fiorentino presso Leone X. Ironicamente paragona gli impegni dell’amico con la sua vita da confinato con gli incontri con boscaioli e le partite a carte tra plebei. Il racconto si fa serio quando parla del suo impegno letterario attraverso il quale parlando con gli antichi dimentica le sconfitte e le inquietudini dell’isolamento politico. Si toglie la veste sporca e quotidiana mettendo abiti regali e curiali (nobiltà dell’impegno), si rivolge agli uomini antichi e pone loro domande e trova anche risposta. Così dice di aver raccolto queste conversazioni in un opuscolo, il De principatibus in cui dice cosa sono, di che specie sono, come si conquistano, come si mantengono, perché si perdono, affinché fosse utile a un principe specie nuovo. Dice di ingrassarlo e ripulirlo così da dare il sospetto di revisioni successive. Non va a Roma perché dovrebbe incontrare i Sederini e sarebbe sospetto ai Medici. Il principe è un’opera unitaria divisibile in 4 sezioni tematiche: I-XI diversi tipi di principato e principato nuovo; XII-XIV milizie mercenarie e milizie proprie; XV-XXIII virtù del principe; XXIV-XXVI esortazione ai Medici. I capitoli più importanti sono: la dedica dove definisce la situazione dello scrittore in rapporto al potere e da un giudizio sul proprio testo; capitolo VI: inizia a parlare della creazione di un nuovo Stato; Capitolo XV: considerazioni metodologiche riguardanti il trattato stesso; riflette sulle qualità del principe e sulla sua pratica di governo sulla base della realtà effettuale; Capitolo XXVI: esortazione finale al casato dei Medici. Nella dedica Machiavelli si rivolge ai Medici da intellettuale sconfitto politicamente sperando dopo la morte di Giuliano di ottenere tramite questo dono compiti politici dai quali era stato isolato. Dice di portare un piccolo dono inusuale: un piccolo volume che riassume le opere dei grandi uomini imparate tramite la grande esperienza come uomo politico delle cose moderne e un continuo studio di quelle antiche. Ciò gli da modo di imparare tanto sul governo in poco tempo dall’esperienza di anni. Quest’opera è valida anche se scritta da un uomo del popolo perché come i disegnatori disegnano le montagne dal basso anche la natura del principe deve essere osservata da un uomo del popolo. Infine esorta a capire le sue grandi doti e a mettere fine alla cattiva sorte alla malignità di fortuna. Si rivolge al signore con tono umile ma non servile e si mostra orgoglioso delle sue capacità politiche sperando che vengano riconosciute dal signore. Definisce piccolo volume il Principe ma non lo sminuisce tanto che esso riassume esperienze delle cose moderne e delle cose antiche. Descrive lo stile come essenziale e non elaborato.
Primo Capitolo
Opera una sintesi delle trattazioni successive attraverso brevi e successive contrapposizioni. Parte dalla contrapposizione tra repubblica e principato. Essi possono essere ereditari o nuovi. Questi possono essere del tutto nuovi o misti cioè con aggiunte a nuclei preesistenti. Quelli nuovi possono essere abituati o meno a vivere sotto un principe. Si conquista un principato con le armi altrui o proprie, con la fortuna o con la virtù.
Terzo Capitolo
Gli uomini mutano volentieri padrone per poi rendersi conto dell’errore in quanto il nuovo principe deve con le armi e altre ingiurie offendere i sudditi e quindi ha come nemici quelli che ha occupato e non può mantenere come amico quello che lo ha messo lì accontentandolo perché se no tradiscono anche lui ma non può nemmeno usare rimedi energici con loro. In genere chi ottiene il principato dopo averlo perso con una ribellione è meno rispettivo nel punire. I principati misti o sono della medesima lingua provincia e ordine o no. Quando sono abituati a vivere non liberi basta eliminare la discendenza della vecchia reggenza e poi non cambiando le leggi, i costumi, le tasse e il popolo sta quieto, Nel caso contrario bisognerebbe andarci a vivere per capire i problemi presto e poterci mettere rimedio così come nelle malattie: in ciò consiste la visione naturalistica dello Stato. Inoltre lo può difendere meglio e incute timori in possibili aggressori. Oppure mandarvi colonie come ceppi dell’impero per non mandarvi armi. Infatti le colonie no costano e sono più fedeli. Infatti si offende solo pochi di questi per dare terreni ai conquistatori e questi in quanto poveri non si ribellano e gli altri non offesi e intimoriti da ciò non offendono. Perché gli uomini o li vizi o li offendi in maniera che non si possano vendicare. Un capo deve proteggere i vicini meno potenti come stati cuscinetto, indebolire quelli potenti e verificare che non ne entri uno straniero potente. Quando un capo più potente arriva per invidia del suo potere c’è un gruppo di meno potenti che può mettersi al suo servizio ed egli col loro aiuto senza dargli potere deve sconfiggere i potenti. Come modello porta i romani coi greci. Essi non solo risolvevano i problemi presenti ma si preoccupavano di quelli futuri perché più facili da rimediare prima che dopo. Luigi XII aiutò papa Alessandro a occupare la Romagna facendosi debole, togliendosi gli amici e rafforzando il potere temporale della Chiesa. Fu costretto a venire in Italia per impedirgli di entrare in Toscana. Inoltre divise il regno di Napoli con la Spagna introducendo lui stesso un nemico sul territorio italiano che potesse cacciarlo. Luigi sminuì i meno potenti, aumentò il potere di un potente, introdusse un nuovo avversario e non venne ad abitarvi né vi pose colonie. Indebolì Venezia, unico ostacolo a Spagna e al papa. E se cedendo la Romagna e il Regno evitò una guerra questa non va mai evitata a proprio svantaggio. Perciò chi è motivo del potere altrui, cade in rovina
Sesto Capitolo
I principati nuovi sono tenuti con maggiore o minore difficoltà in base alla virtù del principe. Dice tra tanti esempi di non considerare Mosè in quanto esecutore della volontà di Dio e degno di lode solo per la grazia di parlare con Dio. Quelli da lui considerati hanno avuto dalla fortuna l’occasione che diede loro materia in cui con la loro virtù misero forma al loro pensiero.Visione aristotelica. Senza la virtù l’occasione sarebbe stata vana e senza l’occasione la virtù sarebbe stata vana. Queste occasioni li resero felici, resero la loro virtù conosciuta e i loro stati felici. Essi hanno più difficoltà nell’introdurre nuove forme di stato ma poi le mantengono più facilmente. Infatti chi difende i vecchi ordini è accanito mentre chi difende quelli nuovi è incerto perché l’uomo è incerto e non crede nelle cose nuove. Perciò il principe rischia se i nemici hanno occasione di assaltare. Bisogna allora distinguere tra chi si affida agli altri e chi è deciso. Quelli disarmati perdono e quelli armati vincono. I popoli sono facili da persuadere ma difficili da dissuadere da quella convinzione perciò conviene essere pronti a farli credere con la forza quando non credono più. Porta l’esempio negativo di Savonarola e quello positivo di Ierone che da comandante divenne principe di Siracusa. All’inizio del capitolo difende la teoria dell’imitazione con la metafora dell’arco che però implica l’impossibilità di raggiungere i livelli di un tempo e quindi una visione pessimistica dell’imitazione.
Settimo Capitolo
Come per i precedenti anche il settimo è antitetico al sesto capitolo e introduce il discorso sullo Stato conquistato con armi altrui e fortuna, difficilissimo da mantenere, come un albero cresciuto troppo in fretta, senza radici, vulnerabile alla prima tempesta. Ma un buon principe deve riuscire a forzare i tempi per non essere sopraffatto dalle difficoltà, e un esempio è dato dal duca Valentino, Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro VI, che comunque commetterà i suoi errori, cadendo in “ruina”, anche se deciso e risoluto nelle sue decisioni, come negli inganni inflitti ai nemici Orsini e Senigallia o nell’uccisione di Romino de Lorqua. In più Cesare Borgia fu previdente verso il futuro, tentando di influenzare l’elezione del papa e cercando di costruire un grande Stato conquistando la Toscana. Ma per colpa di una grande sfortuna alla morte del padre si ammala e non riesce ad ostacolare la salita al trono papale di Giulio II, suo nemico. Machiavelli introduce il capitolo parlando delle difficoltà che nascono in questi tipi di Stati, non difficoltà nel conquistarli ma nel mantenerli. Questi Stati nascono da grazia altrui o con armi di altri, come quelli dei satrapi durante il regno di Dario o come quelli governati da persone che prima erano privati cittadini. Chi era privato cittadino può governare solo se dotato di una grande virtù che tenga saldo l’albero dello Stato anche se senza radici (metafora naturalistica di Machiavelli). Due principi esemplari sono Francesco Sforza (da capitano di ventura a signore di Milano) e Cesare Borgia. Francesco con le giuste scelte politiche riesce a diventare principe e così il Valentino che grazie al padre acquistò lo Stato e lo perse sempre per la sorte di quello oltre che per una grande sfortuna. Alessandro VI voleva dare potere a suo figlio ma non vedeva cosa offrirgli, essendo Milano e Venezia già occupate e essendo le milizie mercenarie controllate da Orsini e Colonnesi, a lui avversi. Dovette quindi cambiare la situazione e grazie ai veneziani che si allearono con i francesi contro Ludovico il Moro riuscì a modificare gli equilibri interni. In più Luigi XII dovette chiedere ad Alessandro di farlo divorziare con sua moglie e questo dava al pontefice ancora più potere. Luigi scese in Italia e offrì al papa la Romagna; ora a Valentino si presentavano due problemi: fermare gli Orsini e dare alla Romagna un esercito fedele al proprio re. Cesare riuscì nei suoi intenti e espanse il suo territorio. Dopo tutto ciò indebolì il potere degli Orsini e dei Colonnesi a Roma e aumentò i suoi alleati. Disperse i capi dei Colonnesi e fermò la dieta degli Orsini alla Magione vicino a Perugia; iniziarono i tumulti e le rivolte ma li fermò grazie all’aiuto dei Francesi. Cominciò poi a non fidarsi dei francesi e delle altre armate e con l’inganno si rifece amici gli Orsini uccidendo poi Paolo Orsini ma riuscendo a conquistare il favore del popolo, togliendo anche dal potere i signori che maltrattavano il popolo e pensavano ad arricchirsi più che a governare, creando malcontento e disunione. Cesare instaurò un “buon governo” a cui mise a capo Remirro de Orco (Romino de Lorqua), uomo spietato e crudele che diede pace e unione alla Romagna. Quando il Valentino si accorse che il luogotenente non serviva più, allora creò un tribunale civile e per togliere i malumori creati da Remirro decise di eliminarlo con l’accusa di aver fatto ingiustizie senza il suo consenso, altra mossa per avvicinarsi il popolo. Grazie all’esposizione del corpo in piazza Valentino stupì e intimorì quanto basta il popolo. Ora doveva solo togliersi dalla dipendenza dalla Francia e lo fece con nuove alleanze e mostrandosi timoroso nei confronti del re francese che si era accorto dell’errore fatto col dare potere temporale alla Chiesa. Per il futuro si preoccupò dell’elezione del nuovo papa facendosi amiche le famiglie aristocratiche romane, uccidendo i parenti dei suoi nemici a cui aveva tolto gli Stati, mettendo sotto il suo controllo il Collegio dei cardinali e infine continuare ad espandersi per resistere ad un possibile attacco. Era riuscito a fare tutto (conquistando anche città toscane come Pisa oltre a città come Perugia) ma non a consolidare i nuovi territori e la malattia lo colse proprio in quel periodo; si vide come la Romagna e le sue amicizie erano salde (cercarono di aspettare il ritorno del principe malato, invano) ma l suo maggior errore fu quello di lasciar che al trono palale salisse Pio III, malato, che lasciò subito il trono a Giulio II, suo nemico. Un buon principe deve quindi crearsi amicizie, eliminare i nemici, vincere con ogni mezzo, farsi amare e temere dal popolo, seguire i soldati e creare un buon esercito non mercenario. L’unica pecca del Valentino è la nomina di Giulio II al posto di un papa spagnolo (suo padre era spagnolo) o francese, come il cardinale di Rouen, legato alla Francia e che era sotto il suo controllo.
Nono Capitolo
Anche il nono è in antitesi con il precedente in cui si parla della tirannide dei privati o del modo meno duro ma sempre con le armi con cui questi prendono uno Stato. Per distinguere tirannide e Stato giusto serve il parere dei cittadini. Nel nono capitolo si tratta di un principe salito al trono con il consenso del popolo o dei “grandi”, dei nobili. Nella sua comparazione naturalistica parla di due “umori” nelle lotte sociali, quello del popolo e quello dei “grandi”, il primo contro l’oppressione, il secondo pro oppressione. Chi si allea con i nobili ha più difficoltà nel difendere lo Stato e quindi non vale il detto che dice “chi fonda in sul popolo fonda in sul fango”, in verità i principati civili sono i più stabili e non quelli assoluti. Il capitolo inizia con l’antitesi con l’altro capitolo, indicando con principato civile quello in cui un privato si instaura al potere con il consenso dei suoi concittadini e a cui si arriva grazie ad una “astuzia fortunata”. Ci si arriva grazie al consenso dei nobili o del popolo, i due “umori” diversi della società, dove il primo non vuole essere oppresso mentre il secondo desidera comandare. Secondo qual dei due “umori” domina si può parlare di principato, repubblica o anarchia. Il principato nasce dal volere del popolo o dei nobili, dei “grandi”, i primi perché vedono nella sua figura una protezione contro la soppressione dell’aristocrazia, i secondi perché per calmare il malcontento del popolo mettono un loro rappresentante per tramare grazie a lui contro il popolo. Con l’aiuto dei nobili è più difficile mantenere uno Stato, perché non può comandare i nobili, suoi eguali, e ha il popolo avverso, mentre chi sale al trono per il volere del popolo ha pochi a cui non interessano i suoi ordini e potrà fare gli interessi del popolo senza opprimere per forza i nobili. Avendo il popolo nemico è difficile essere sicuri, a differenza dei nobili, più manovrabili perché si appoggiano ai più potenti e poiché è facile togliere loro poteri, mentre il popolo è sempre presente. I nobili quindi possono obbligarsi al loro sovrano, legarsi a lui, oppure no; quelli che si legano devono essere rispettati e onorati mentre gli altri possono staccarsi dal principe per paura (e in quel caso grazie ai più saggi bisogna renderseli amici) o per calcolo e ambizione: da questi bisogna guardarsi come da nemici. Chi va al trono grazie al popolo deve renderselo amico non opprimendolo; chi invece sale al trono contro il volere del popolo ma per volere dei grandi deve subito avvicinarsi a questo e difendere i suoi interessi. Nabide è un esempio di tiranno che si avvicinò al popolo e mantenne il potere, poiché aveva pochi nemici nel suo territorio. I Gracchi e Scali invece cercarono di difendere grazie al popolo solo i propri interessi (e per loro può essere considerato vero il detto del popolo come fango) mentre un principe deve fare gli interessi del popolo non i suoi. Quando si tende a passare all’assolutismo la situazione si fa pericolosa: il principe può comandare grazie a magistrati (che ne indeboliscono il potere, perché possono ribellarsi quando vogliono) e allora è difficile riprendere il potere sotto il proprio controllo, per le abitudini dei cittadini. Quindi un principe accorto deve fare in modo che il popolo debba sempre avere bisogno di lui. Machiavelli, come pochi altri nel ‘500, polemizza qui contro i feudi e le oligarchie, si rileva teorico dei conflitti sociali, qui come frattura tra “grandi” e popolo. L’oligarchia ostacola lo sviluppo borghese e rende instabili gli Stati italiani. Nei Discorsi Machiavelli vede le lotte tra fazioni come l’anima dello Stato, qui invece vuole che le fratture si saturino, poiché non riescono, come successe a Roma, a creare una forma simile a quella dei tribuni
Introduzione Capitoli XII-XIV
Questi capitoli riguardano l’organizzazione militare, già trattata da Machiavelli nei libri dal 1506 al 1511, in cui suggeriva un esercito proprio per Firenze, contro l’utilizzo dei mercenari. Inizia in questi trattati una tesi in cui l’utilizzo delle milizie civili è l’unico che da la vera stabilità allo Stato. Nel XII tratta dell’inutilità delle milizie mercenarie, per poi passare nel XIII a parlare di quelle ausiliarie e miste (in parte mercenarie), anch’esse inutili. Nel XIV riprende il concetto dell’imitazione con la metafora dell’arciere e viene consigliato al principe di leggere le Istorie per accorgersi dell’importanza della guerra nella vita delle persone illustri. In più un altro suggerimento è quello di prevenire gli eventi possibili pensando da subito al futuro. Come con la politica anche in guerra senza l’appoggio del popolo è difficile vincere, e il concetto del soldato civile che, aderendo alle idee del suo Stato, combatte con più ardore verrà ripreso nel trattato Dell’arte della guerra.
Introduzione Capitoli XV-XXIII
In questa serie di capitoli vengono indicate le qualità del principe. Machiavelli non vuole apparire presuntuoso nel suo lavoro anche perché già molti hanno parlato del principe ideale. Ma l’autore vuole invece attenersi alla realtà e non creare un principe ideale, astratto, ma legato alla realtà effettuale della politica, con i suoi raggiri e i sui inganni. La etica di Machiavelli è quindi una novità. Nel XVI si parla della liberalità o della parsimonia del principe: liberalità come volontà di spendere senza curarsi delle conseguenze come voleva la civiltà cortese, parsimonia come mantenimento delle ricchezze e non oppressione dei sudditi, ed è la seconda quella giusta per Niccolò, che vede nell’avarizia una qualità per regnare. Quindi le caratteristiche del principe sono anche qui ricollegate al consenso del popolo e alla loro efficacia. Nel XVII si parla di crudeltà e pietà: la morale tradizionale è rovesciata e se un principe può desiderare di esser considerato pietoso, deve comunque tenera a freno i più rivoltosi, e non far si che la pietà diventi dannosa. La crudeltà del Valentino viene anche qui ricordata, perché con questa Cesare riuscì a rappacificare la Romagna e risultò più pietosa di quella fiorentina che tollerò i Cancellieri i Panciatichi, provocando la rovina della città. La tesi viene giustificata con un passo dell’Eneide dove Didone afferma che si è costretti a usare il pugno di ferro in certe situazioni. La crudeltà deve creare timore e non essere troppo grande, per non creare l’odio del popolo. Nel XVIII rovescia ancora l’etica affermando che lealtà e fedeltà non sono lodevoli, ma in politica non bisogna in alcuni casi mantenere parola, cioè l’uso dell’inganno è molto utile. Il suo discorso, nella sua rivoluzionarietà, riprende appunto questo concetto, con la creazione di una lega italiana contro il potere straniero. Nel XIX parla delle qualità che il principe non deve avere per non provocare l’odio del popolo che, come evidenziano i fatti del passato, provocano congiure. Nel XX si parla delle qualità per il mantenimento del potere e le azioni utili da compiere: si parla dapprima di cosa deve provare il principe per il suo popolo, se debba amarlo o no, dividerli o costruire fortezze. Nel XXI, parlando di Ferdinando di Aragona, si dimostra come la stima del popolo sia acquistabile grazie a grandi imprese (la conquista di Granata con l’unificazione della Spagna e l’utilizzo della religione come strumento del regno, ricollegandosi ai Discorsi). Il XXII e il XXIII, molto brevi, riguardano la prudenza nello scegliere consiglieri e amministratori per non essere ammaliato da adulatori e perdere potere.
Quindicesimo Capitolo
Ha inizio la riflessione sulla prassi politica e termina l’elenco dei principati e delle possibilità di conquista. Si inizia con una polemica sulla consapevolezza di Machiavelli sulla novità del Principe rispetto ai trattati tradizionali: Machiavelli vuole analizzare la realtà effettuale e non nasconderla dietro la retorica degli autori a lui anteriori. Il principe deve saper essere buono o no al cambiare delle situazioni, non bisogna fare elenchi di qualità da seguire o no ma queste qualità cambiano da situazione a situazione. Il vizio deve comunque esser atto al bene del popolo e non ad altro. Machiavelli all’inizio del capitolo separa la parte antecedente e cambia subito discorso, da ora si parlerà dei comportamenti di un principe con popolo e amici. Machiavelli pensa di risultare presuntuoso dando nuovi punti di vista della morale dopo che scrittori come Platone e S. Tommaso hanno discusso della stessa cosa ma lui punta a scrivere cosa è utile fare per governare in pace e serenità e quindi vuole andare contro i perbenisti e tutti quelli che non presentano la realtà nella sua effettività. L’uomo che sa essere solo buono non può che essere distrutto da chi non lo è e per questo Machiavelli parte dal presupposto che la bontà non è una qualità da seguire tassativamente per il bene dello Stato. Alcuni re sono conosciuti per la loro taccagneria o per la loro liberalità che portano biasimo e lode, altri sono ritenuti donatori, altri “rapaci”, alcuni crudeli, altri pietosi, alcuni ancora ingannatori, altri fedeli alla parola data, alcuni paurosi, altri coraggiosi e ancora cortesi o superbi, lascivi o casti, leali o sleali, inflessibili o accondiscendenti, seri o frivoli, religiosi o non credenti. Sono queste tutte le caratteristiche che prenderà in considerazione. Sicuramente, dice l’autore, piacerebbe a molti che le qualità buone fossero tutte presenti in un principe ma anche la natura umana non lo consente e in più non sarebbe vantaggioso per lo Stato. In verità il principe deve essere prudente per fermare i vizi degli altri e le congiure nei suoi confronti e in più non avere quei vizi che potrebbero togliergli lo Stato. Ma se non riesce può abbandonarsi a questi senza troppa paura e non aver paura neanche nel intraprendere quelli che servono per mantenere lo Stato, perché al contrario qualche virtù può portare alla rovina mentre qualche vizio potrebbe essere una salvezza.
Diciottesimo Capitolo
Ribalta l’etica tradizionale ribattendo ai perbenisti che lealtà e fedeltà non sono sempre lodevoli nel preservare uno Stato, e ciò è dimostrato dal comportamento dei principi più vicini a Machiavelli e al suo tempo, principi che hanno agito sempre con astuzia, in una malafede mirata. Con una metafora naturalistica trova due modi per combattere: quello dell’uomo e quello della bestia; il primo confronta le idee e arriva alle leggi, il secondo usa la violenza. Il principe deve saper usare tutti e due i metodi come fece Chitone, centauro figlio di Saturno che seppe insegnare ad Achille l’arte del combattimento. La bestialità si manifesta in due modi: la volpe e il leone, la prima simbolo dell’astuzia, la seconda simbolo della forza. L’astuzia serve per evitare i tranelli, e vincere gli avversari, i lupi. Il principe deve saper simulare le buone qualità più che seguirle nella vita, l’etica infatti nasconde in politica tutti i demoni e la cattiveria naturale dell’uomo. Il dovere del principe è mantenere lo Stato e il popolo, accorgendosi solo delle apparenze, lo appoggerà e in pochi, senza successo, potranno attaccarlo per il suo comportamento. Il capitolo inizia con la maggior forza che da al principe il simulare le buone azioni, che sarebbe bene facessero tutti, ma che la natura dell’uomo non permette di fare. Parala delle leggi e della forza, il primo dell’uomo, il secondo delle bestie, propri entrambi del principe e degli uomini di politica, concetto già spiegato dagli antichi con allusioni nella mitologia, come la figura dei centauri e di Chitone. Con un discorso veloce passa subito a parlare dell’astuzia e della forza bestiale che un principe deve possedere, mentre chi possiede una sola di queste nature non può mantenere lo Stato. Quindi un principe, secondo occorrenza, può decidere con astuzia di non esser fedele alla sua parola, cosa da non fare solo se tutti gli uomini fossero buoni, ma la loro natura in verità è malvagia. La natura di volpe deve essere celata, nascosta, il principe deve essere come un attore, ingannare visto che in molti possono essere ingannati per la loro poca furbizia (che li rende deboli). Un esempio di grande ingannatore è papa Alessandro VI, grande conoscitore dell’arte dell’inganno. Quindi un principe deve solo fingere di avere tutte le qualità e gli basta solo la furbizia. In più il principe deve essere in grado di cambiare il suo comportamento al cambiare dei tempi, della sorte, della fortuna. Deve apparire fedele, integro, umano, religioso, ma non deve esserlo, molto spesso. Quindi il principe deve essere apparenza perché il popolo, che può notare solo l’apparenza, lo veda buono e saggio e solo i pochi che vedono la realtà, sottomessi a lui, possano dire qualcosa senza però riuscire a cambiare il pensiero del volgo. Un esempio è dato da Ferdinando il Cattolico (che Machiavelli richiama ma non nomina), furbo e astuto (come dice in una lettera al Vettori) come pochi. Questo capitolo è il più scandaloso per la sua anti-etica rinfacciata senza vergogna. La concezione naturalistica del mondo in Machiavelli è ripresa dalle figure della volpe, del leone e del centauro, la radici dell’uomo sono gli istinti, la materia. Questa metafora è ripresa da Cicerone e da Dante e dai bestiari, ma nelle opere di questi gli animali sono simbolo di qualcosa di negativo. Anche Chitone è ripreso da Dante (primo girone, settimo cerchio) che li usa come custodi dei principi-tiranni; in Machiavelli al contrario la figura è positiva. Il pensiero dell’autore è quindi in antitesi con quello medioevale ma anche con quello platonico e umanista, riprende per il centauro la Ciropedia di Senofonte dove questo è immaginato come fonte di vita. La simulazione non è lotta fra uomini ma lotta con i continui cambiamenti della storia a cui l’uomo si deve adeguare come può. Infine la concretezza è in questo capitolo evidenziata con le figure naturalistiche e con espedienti linguisti che indicano la necessità e non vie di mezzo, e le congiunzioni conclusive terminano l’argomentazione.
Introduzione Capitoli XXIV-XXVI
Dopo i capitoli dedicati alle qualità del principe si passa nel XXIV a parlare dei fatti odierni con la perdita di molti territori da parte dei principi italiani e infine nel XXV del rapporto tra fortuna e virtù. Si passa in questi due capitoli dalla trattazione precettistica a quella sui paesi odierni: il principe, seguendo i consigli dati, potrà creare un regno simile ad uno ereditario anche nella precarietà dell’Italia in quel periodo. Attacca gli Sforza e gli Aragona per la loro ignavia la loro incapacità di decisione; le cause sono soprattutto sociali come la dialettica conflittuale tra principi e nobili e popolo che non porta ad un discorso produttivo ma a continui screzi e lotte interne; i re hanno solo sperato che il popolo fosse scontento del dominio straniero per tornare al potere. Il XXV parla della fortuna come potere condizionante che può comunque esser soggetto alla virtù con l’accortezza ma soprattutto l’azione impetuosa. L’ultimo capitolo è l’esortazione dell’Italia per liberarla dal potere straniero.
Venticinquesimo Capitolo
L’autore parte con la premessa che a volte anche lui non si sapeva spiegare come gli eventi potessero essere soggetti alla virtù umana: la fortuna è arbitra di metà delle azioni umane, l’altra metà è in mano agli uomini. La fortuna è come un fiume in piena che allaga tutto; gli uomini devono essere in grado di creare argini e canali in tempo per fermare questo fiume. La sede dei più grandi sconvolgimenti politici è l’Italia, senza difese e ripari a differenza degli altri paesi europei. Alcuni principi però “ruinano” o hanno successo in situazioni simili, in questo caso è il continuo cambiamento della realtà che influenza gli eventi. Non “ruina” quello che riesce ad adeguarsi ai tempi. Quindi la fortuna è mutevole mentre la natura umana non lo è e quindi gli uomini sono destinati a fallire quando carattere e sorte differiscono. Ma subito cambia idea e nella conclusine, contro fatalismi, afferma che grazie all’accortezza e all’azione impetuosa è possibile cambiare la sorte e la fortuna, come una donna, si lascia vincere dai giovani coraggiosi più che dai vecchi. Molti quindi (così inizia il capitolo) pensano che la natura sia guidata dalla sorte o da Dio e che gli uomini non possono far niente per correggere questa situazione e quindi si lasciano guidare dal destino; questa mentalità è molto diffusa nel suo tempo poiché gli avvenimenti politici sembrano guidati da una mano che non lascia scampi e così qualche volta ha pensato anche Machiavelli. Ma non è possibile che non ci sia lasciato libero arbitrio (e questa è anche una concezione religiosa) e quindi Machiavelli giunge alla conclusione che la sorte è arbitra di metà delle nostre azioni e l’altra metà è lasciata a noi. La fortuna è come un fiume (ancora naturalistico in questa parte) in piena che allaga le pianure ma grazie alla virtù si può resistere pensando in “momenti di quiete” al da farsi per evitare conseguenze. L’Italia risulta invece in questo periodo senza argini e per questo soggetta al destino. Ma qualche principe, non cambiando natura, può “ruinare” da un giorno all’altro; questo può succedere perché il suo regno poggia sulla sorte ed è instabile, mentre chi sa adeguarsi può vincere gli scherzi del destino. Ma può succedere che un uomo arrivi agli stessi traguardi con comportamenti diversi o non arrivi con un comportamento simile ad un altro; il quel caso è solo la varietà dei tempi che provoca questi fatti e quindi è per questo che varia da situazione a situazione ciò che è bene fare. Chi è flemmatico nelle sue situazioni quindi può non aver successo per la difficoltà di interpretare la sorte. Giulio II, invece, grazie al suo impeto riuscì sempre a trovare la soluzione alle situazioni, come la conquista di Bologna con la scomunica del principe Bentivoglio che non trovò l’opposizione di Spagna, Venezia e Francia per la sua impetuosità. Ma anche Giulio, che morì presto, se avesse dovuto affrontare situazioni con il buon senso e l’accortezza sarebbe stato in difficoltà, poiché nessuno può cambiare il suo carattere, la sua inclinazione naturale. Quindi poiché la fortuna è donna, grazie all’impetuosità si può urtare e picchiare, assoggettare, e questa si farà vincere più dai coraggiosi che da altri. La fortuna è un concetto chiave del Principe: già all’inizio, nella dedica, Machiavelli dice di esser stato colpito da una grande sfortuna. Il XXV da la chiave di lettura dell’intera opera, mettendo a fuoco un argomento fino ad ora solo accennato. Ma Machiavelli non riesce a dare un immagine reale, come aveva invece fatto con la natura dell’uomo, alla fortuna e la definisce non chiaramente, cadendo anche in contraddizione. Da una parte infatti si ha l’immutevolezza umana e la mutevolezza invece della storia. Il dissidio del rapporto tra questi due “mondi” non viene però chiarito. La realtà viene quasi definita in certi punti dominata unicamente dal caso ma l’autore cerca di mediare la cosa con il libero arbitrio dell’uomo. Abbandona il linguaggio scientifico e passa a quello più fantastico della figura del fiume e della donna; la ricerca, infine, non è teorica ma ricerca di un aspetto positivo nella situazione italiana. L’utopismo tragico quindi coesiste con un realismo consapevole.
Ventiseiesimo Capitolo
Nello stile questo capitolo è molto diverso dagli altri ma in sintonia con la conclusione fantastica del capitolo XXV, che sviluppa. E’ una esortazione al principe che legge il libro per creare un regno nuovo, visto che le condizioni lo permettono, come successe similmente a Mosè, Ciro e Teseo. Fino ad ora, come per esempio è successo a Valentino, la sorte avversa non ha consentito la formazione di uno stato nuovo ma ora, grazie ai Medici, ciò è possibile. Ora si dovrebbe creare un proprio esercito e sconfiggere spagnoli e svizzeri che hanno punti deboli. La fine presenta dei versi dell’” All’Italia ” di Petrarca, come speranza profetica. Nel capitolo personifica l’Italia come ha già fatto Dante con Roma e Petrarca nella sua poesia ripresa alla fine. Gli stranieri sono come barbari, l’Italia aspetta solo che qualcuno prenda la responsabilità e prenda la sua bandiera. L’unica speranza è la guerra, giusta come dice Tito Livio solo quando strettamente necessaria. Anche Dio ha dato segni miracolosi (ripresi dall’Antico Testamento) che dicono che il momento è giusto per la “redenzione” dell’Italia. Ora con il libero arbitrio tocca al principe decidere il destino, creando un nuovo esercito, ora non organizzato, come hanno evidenziato le guerre precedenti, ma che ha potenzialità per la grande intelligenza e destrezza degli italiani. Con un esercito proprio comandato dal principe stesso ed onorato da lui tutto questo sarebbe possibile. Gli spagnoli soffrono la cavalleria, gli svizzeri, la fanteria; conosciuti i loro punti deboli è possibile attaccarli. Anche il popolo non aspetta altro, poiché tutti odiano il dominio straniero e la loro virtù è ancora viva, come dice Petrarca. Il tono è passionale e profetico, le figure prendono il posto dell’analisi, si enumerano i malanni dell’Italia nella sua personificazione, l’esortazione è accompagnata da immagini bibliche e il contrasto tra toni alti e popolari crea l’efficacia dell’esortazione finale.
Considerazioni sul Principe
La prosa di Machiavelli è diversa dai modelli di Boccaccio o della trattistica trecentesca. Lo stile linguistico è già preannunciato nella Dedica dove annuncia il rifiuto di clausole o artifici letterari per un lingua più immediata.Vi sono termini specifici del linguaggio cancelleresco, diplomatico e militare che confermano le intenzioni scientifiche e pratiche dell’opera. I rari latinismi non sono canonici e coesistono col linguaggio agile del parlato. Domina il periodo disgiuntivo che rispecchia la propensione ideologica di Machiavelli a proporre e analizzare criticamente situazioni estreme e contrapposte costruite con una serie di antitesi. Procede in maniera binaria eliminando dalle ipotesi contrapposte una per sdoppiare la seguente in un nuovo dilemma. I latinismi non sono dominanti e derivano dal linguaggio cancelleresco e diplomatico. Il fiorentino del Principe è aperto alla morfologia spontanea del parlato e di tutti gli starti sociali. La nuova teoria dello stato in contrasto con la trattatistica politica precedente per una nuova concezione dell’etica politica necessita un lessico specifico. Così se ideologicamente ribalta la trattatistica quattrocentesca, ne sradica i termini dai precedenti significati. Pur essendo un trattato, alla lucidità argomentativa si alterna l’utilizzazione di figure retoriche come metafore e similitudini con funzione espressiva derivate spesso dalla concezione naturalistica di Machiavelli tanto che si riferiscono a un campo semantico naturale e biologico. Il principio base è l’osservazione della realtà nel suo essere ma anche nel suo divenire. In risposta alla crisi italiana creò una teoria risolutiva basata sulla critica delle ideologie fino allora seguite. Analizzando la crisi della repubblica fiorentina e il nascere di monarchie nazionali ipotizza questa nuova forma di stato per combattere gli interessi particolari degli ottimati, volti alla spartizione dello stato, causa della decadenza italiana. La scientificità di Machiavelli sta nell’aderenza al reale mentre per il resto si attiene a una visione soggettiva e personale della politica. Stabilisce la necessità della conoscenza della storia per attuare un progetto politico che sconfigga la vecchia nobiltà. Machiavelli si riferisce a due classificazioni dello stato: una tra democrazia, aristocrazia, monarchia e una tra repubblica e principato. Nei discorsi poi parla del regime misto che garantisce stabilità e lo ripropone nel Principe a proposito dei conflitti sociali che hanno carattere naturale e sono segno di vitalità. Inoltre anche nel Principe la legittimità del potere esige l’eliminazione dell’arbitrio illegale delle fazioni aristocratiche. Nel Principe vi è una concezione laica dello stato basata su un realismo sconosciuto prima di allora. Il fondamento è nella concezione averroistica e aristotelico-naturalisatica. Ignora ogni prospettiva trascendente in una visione materialistica del mondo e dell’uomo del quale considera la bestialità e le esigenze materiali attraverso le quali si poteva capire il giusto modo di agire. La politica di Machiavelli è legata all’etica ma un’etica nuova che consiste nella coscienza dei prezzi altissimi per cambiare la realtà. La scientificità del Principe sta nel suo attenersi al reale e nella demistificazione delle ideologie idealistiche. Tuttavia è un opera più saggistica per la prospettiva utopica basata sulla forza delle argomentazioni, sull’esperienza e la cultura di chi scrive e quindi sulla responsabilità individuale. L’alternanza tra rigore argomentativi e passione si denota nella polemica con cui il realismo ribalta le precedenti convinzioni e nella prospettiva utopica. Da un lato la sua concezione dell’uomo presuppone una dimensione antistorica, dall’altro la coscienza di ciò è basilare per una prospettiva storica. Machiavelli rivoluziona la concezione dell’uomo rifiutando la sua idealizzazione rinascimentale e considerandone la sua parte bestiale considerando il rapporto dialettico tra impulso e raziocinio. L’esempio del centauro maestro dimostra la necessità della coscienza della natura dell’uomo. La sua visione dell’uomo è negativa tanto che è la natura dell’uomo a costringere il principe a essere bestia. Machiavelli ribalta il principe umanista che cercava la gloria e si basava sulla morale. Per Machiavelli è meglio essere temuti che amati perché per la natura triste dell’uomo l’utilità può rompere il legame affettivo ma il timore non ti lascia mai. Sempre per la tristezza degli uomini non deve mantenere fede alle promesse se ciò lo danneggia. Tutto ciò è necessario perché gli uomini non sono buoni. La cultura umanistica aveva esaltato l’arte della parola che distingue l’uomo dalla bestia come strumento di regolamento dei conflitti ma con un confronto tra gli splendori artistici delle corti e le loro conseguenze si oppone a ciò. Mentre in Europa si affermavano gli eserciti professionisti mentre in Italia non era possibile per il particolarismo e proprio dalla concreta debolezza militare italiana Machiavelli comprende la necessità di una riforma militare che sostituisse ai mercenari soldati presi tra il contado, più fedele dei cittadini. Spara a zero contro le milizie mercenarie e fa delle armi proprie la virtù del principe condottiero come Cesare in quanto la forza è una dimensione della politica.

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