La ricerca dell'unita' linguistica

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Categoria:Letteratura

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Testo

La ricerca dell’unita’ linguistica,
il manzonismo e il dibattito sulla lingua

Una volta realizzata l’unità politica, occorreva realizzare anche l’unità linguistica. L’altissimo numero di analfabeti, la debolezza del sistema scolastico, la prevalenza dei dialetti facevano dell’italiano una lingua parlata correttamente soltanto in Toscana e a Roma. Nelle altre regioni il popolo parlava il dialetto, mentre gli strati più colti impiegavano forme di italiano regionale. Insomma, fra parlato e scritto restava una frattura profonda.
Si cercò di far fronte al problema con la soluzione proposta nel 1868 da Manzoni al ministro per l’istruzione Emilio Broglio nella relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla: il fiorentino parlato dai toscani colti doveva diventare la lingua nazionale; i maestri dovevano essere educati e preparati in tal senso, in modo da fare della scuola il centro di promozione di una lingua unitaria; si doveva condurre una lotta contro l’uso del dialetto; doveva essere approntato un vocabolario dell’italiano basato sul fiorentino.
Il fiorentino venne usato non solo nelle scuole e negli uffici statali, ma anche dagli scrittori, che attinsero largamente alla lezione manzoniana: è il manzonismo linguistico-letterario. La prosa fiorentineggiante divenne una maniera sempre più leziosa e sempre più artificiale, perché in realtà lontanissima dall’uso quotidiano della lingua nelle diverse regioni italiane e dalle esigenze stesse dell’espressività artistica. Grazie anche all’influenza dei Promessi sposi, essa dominò nel periodo di Firenze capitale e in quello immediatamente successivo, sino agli anni Ottanta. Anche Verga, venuto ad abitare a Firenze fra il 1869 e il 1872, l’assimila, come mostrano il romanzo Storia di una capinera e il bozzetto Nedda; ma già in Rosso Malpelo e poi negli altri racconti di Vita dei campi e nei Malavoglia il fiorentinismo è da lui superato, e ne restano soltanto alcune tracce episodiche. Non è certo un caso che Mastro don Gesualdo venisse criticato dai fautori del manzonismo, ancora forti alla fine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta.
Tuttavia anche nel quindicennio del suo pieno sviluppo non mancarono forti opposizioni. Furono anzitutto contrari gli scrittori lombardi e piemontesi della Scapigliatura, che respinsero complessivamente l’insegnamento di Manzoni per puntare invece su soluzioni sperimentali ed espressionistiche; poi fu contrario anche Carducci , il quale rifiutava il manzonismo sia per ragioni letterarie, sia per ragioni politiche: infatti egli si opponeva, in nome del classicismo, all’abbassamento prosastico e all’italiano parlato dei narratori manzoniani e realisti, e vedeva nel manzonismo una componente cattolica e moderata che contrastava con le sue posizioni antiecclesiastiche radicali.
Sul piano teorico non mancarono serie obiezioni al manzonismo. La principale fu avanzata dal maggior linguista degli anni postunitari, Graziado Isaia Ascoli, nel Proemio all’, muovendo proprio dalla critica del Novo vocabolario della lingua italiana di Giorgini-Broglio. Egli individua due fattori che ostacolano l’unità linguistica del paese: l’assenza di una vita civile e culturale densa e diffusa e il culto della bella forma separato dalle esigenze concrete della vita sociale. Anche il manzonismo e il fiorentinismo finivano per diventare ricerca astratta del “bello scrivere”, senza legami reali con la vita culturale e civile del popolo.
In effetti la marcia verso l’unità linguistica fu il risultato di una serie anche contrastante di spinte. Da un lato la scuola, la burocrazia statale, l’esercito svolsero una funzione coercitiva, imponendo dall’alto modelli linguistici unitari. Dall’altro contribuirono a creare un primo embrione di amalgama linguistico anche tendenze spontanee della popolazione, come le migrazioni interne conseguenti ai processi di industrializzazione e di urbanizzazione e la stessa emigrazione all’estero che poneva i nostri emigranti a contatto con popolazioni più progredite e alfabetizzate inducendoli a esigere che i figli restati in patria frequentassero le scuole. Una funzione positiva ebbe anche il grande successo di libri “nazionali” come Pinocchio di Collodi e Cuore di De Amicis, ispirati a un manzonismo moderato. Questi due libri divennero letture pressoché obbligate: su di essi si formarono, in modo unitario, generazioni e generazioni di ragazzi italiani.
Anche la diffusione della stampa e soprattutto dei giornali contribuì a sollecitare l’apprendimento della lettura e a diffondere la lingua nazionale unitaria. Inoltre i giornali ebbero un afunzione notevole nel promuovere una lingua moderna, non più architettata secondo i canoni della prosa classicistica.
Contemporaneamente la lingua si arricchisce e si modifica. I giornali fanno spesso ricorso a termini stranieri, soprattutto francesi, finendo con l’italianizzarli. Come si vede, si tratta soprattutto di termini economici e tecnologici o del costume o sportivi. Anche l’emigrazione, i viaggi all’estero, divenuti molto più frequenti che in passato, le invenzioni tecniche contribuirono a introdurre termini stranieri o comunque di nuovo conio. Viceversa termini regionali possono diventare termini nazionali: così una serie di parole di uso piemontese divennero nazionali attraverso la pratica della vita militare e scolastica, giacchè nell’esercito gli ufficiali e nella scuola gli ordinamenti erano all’inizio, piemontesi. Così parole come cicchetto, ramazza, bocciare, arrangiarsi divennero di uso comune.

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