La quiete dopo la tempesta

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura

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Testo

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA – G. Leopardi

La lirica “La quiete dopo la tempesta” fu scritta da Giacomo Leopardi e fu pubblicata nel 1829. Essa si può dividere in due parti. Nella prima, il poeta descrive la quiete del paesaggio e l’alacrità delle persone dopo la tempesta; sono fornite immagini di una vita protesa verso la felicità, nonostante l’incombente presenza della morte. Nella seconda, subentra la riflessione: il piacere non esiste in sé, non è altro che un momento di passaggio tra due momenti di dolore.
I temi sono dunque due: la natura nemica, dispensatrice d’affanni, e il piacere possibile come momentanea cessazione di dolore. Leopardi passa dunque a descrivere la sofferenza di tutti gli uomini, mentre in “Alla Luna” descriveva la sua sofferenza personale.
La poesia è una canzone libera, costituita da tre strofe libere d’endecasillabi e settenari distribuiti irregolarmente. Non sono presenti molti enjambements, ma quelli che ci sono mettono in evidenza le parole tematiche della poesia (sereno al v. 4, duolo al v. 47, umana al v. 50). Le rare rime sono semantiche, ad esempio montagna-campagna (vv. 5-6), che delimita il paesaggio, sentiero-giornaliero (vv. 17-18), che ci fa sentire l’eco della voce dell’erbaiolo, e offese-cortese (vv. 40-42), che mette in risalto cortese che ha un valore ironico. Vi sono inoltre una rimalmezzo asemantica (tempesta-festa) nei vv. 1-2 e due rime ricche nei vv. 51-52 (felice-lice) e nei vv. 35-38 (morte-smorte).
A livello fonico, la prima parte si distingue per una massiccia presenza di suoni che la ravvivano anche ritmicamente; l’allitterazione della R nei vv. 9-10 rappresenta i rumori prodotti dalle attività umane, mentre l’onomatopea del v. 23 mette in risalto il cigolio del carro. Il suono prevalente in generale è comunque A, chiara e aperta, che si armonizza con l’immagine del paesaggio che s’illumina e con la sensazione di sollievo che allarga il petto dell’umile gente del borgo. Nella seconda parte, dopo la sentenza “piacer figlio d’affanno”, v’è una serie d’assonanze seguite da un’efficace rima ricca nei vv. 35-38.
A livello lessicale, vi sono sia termini aulici e letterari (augelli, romorio, fassi) sia termini quotidiani (gallina, tempesta, artigiano); essi vengono anche accostati (v. 2, augelli-gallina), creando un contrasto di registro del tutto originale. Le parole chiave, come accennato in precedenza, sono perlopiù sottolineate dagli enjambements e sono: sereno, duolo e quiete, presente nel titolo.
Le figure retoriche del significato sono anch’esse rare: v’è una personificazione nel v. 19 (“il Sol… sorride”) e una metafora nel v. 32 (“Piacer figlio d’affanno”); vi sono però alcune importanti ironie, come quelle del v. 42 (“natura cortese”), del v. 44 (“diletti”), dei vv. 50-51 (“Umana prole cara agli eterni”).
Anche per quanto riguarda la struttura sintattica, le due parti in cui la lirica è divisa differiscono molto. Nella prima, i periodi sono semplici, infatti prevale la paratassi; è presente anche una chiusura chiastica (vv. 8-25) che incornicia il quadretto delle presenza umane: ciò conferisce allegria e dinamismo. Nella seconda, i periodi sono lunghi, complessi, sono presenti molte inversioni (per far risaltare le aspre e drammatiche parole in fine verso): questo per dare ancora di più una sensazione d’angoscia. Vi sono infine alcune anafore: “Ecco il sol che ritorna, ecco sorride” (v. 19), che sottolinea la gioia; “Apre i balconi, apre terrazzi” (vv. 20-21), che dà l’idea del moltiplicarsi delle azioni.

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