La civiltà comunale

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LA CIVILTÀ COMUNALE
In Italia, la letteratura volgare nasce in un momento di forte espansione comunale: un’espansione economica che vede un notevole incremento dei traffici mercantili.
Le città sono i centri propulsori di quest’espansione e alcune di loro come Firenze, Venezia, Genova e Milano costituiscono dei veri e propri imperi economici, collocando i propri mercanti in ogni centro commerciale d’Europa e del vicino Oriente
I rapporti tra città e mondo rurale sono strettissimi: l’agricoltura è il solo vero mezzo di sussistenza materiale e la vita delle città si regge su un intenso sfruttamento delle campagne circostanti.
La nobiltà detiene quasi ovunque il controllo politico e militare sulla società ed è pienamente inserita nella vita dei comuni. I mercanti tendono ad investire le ricchezze accumulate mediante le loro attività in proprietà terriere e i più ricchi finiscono per entrare nei ranghi della nobiltà.
I. Letteratura volgare e letteratura latina
Il latino continua ad essere la lingua della comunicazione colta a circolazione europea e dà luogo ad una produzione letteraria ancora ricchissima. Al di là della frantumazione dei linguaggi e delle situazioni particolari delle varie regioni, il latino garantisce la continuità del tessuto culturale del mondo cristiano, permette a chi lo usa di sentirsi parte di una comunità intellettuale senza confini. Questa continuità si realizza però soltanto entro gruppi sociali limitati.
Il latino non è ridotto a lingua letteraria: esso continua ad essere lo strumento di comunicazione della diplomazia e della grande politica. Nel XIII secolo si inserisce progressivamente il volgare, specialmente quando si deve comunicare con quanti non conoscono il latino: così diventano sempre più numerosi gli atti notarili in volgare e in molti centri comunali vengono scritti in volgare i più importanti documenti pubblici; il volgare entra in quella cultura religiosa che intende radicarsi nella concreta vita di tutti i giorni.
La verità dei dialetti crea molte difficoltà, perché nessuno di essi ha capacità di circolare e diffondersi in tutta la penisola. Per superare queste difficoltà si creano lingue intermedie che non corrispondono al parlato dei territori in cui hanno origine: comincia così la ricerca di una lingua unitaria.
Restano in ogni caso molte incertezze sull’efficacia e sui limiti del volgare italiano. Queste, superate di colpo dalla commedia di Dante, sono testimoniate dalla forte resistenza del latino e dall’ampio uso che in Italia se né fa. Basta ricordare che in francese antico sono scritte due tra le opere più importanti della letteratura italiana del secolo, il Tresor di Brunetto Latini e il Milione di Marco Polo.
II. La produzione dei libri e la tradizione della letteratura volgare
I centri monastici e gli studi universitari sono i principali luoghi di allestimento dei manoscritti latini, destinati a soprattutto a un pubblico di ecclesiastici studenti e giuristi.
Al nuovo pubblico aristocratico e cittadino si rivolgono i manoscritti in volgare; tale produzione è notevole soprattutto in Toscana, dove sono attivi vari centri di scrittura e di vendita.
La maggior parte dei manoscritti in volgare sono andati perduti per la scarsa considerazione che ebbero umanisti del 400 e del 500. Essi impegnati a costruire le prime grandi biblioteche, giudicarono rozze e barbariche le manifestazioni più antiche della nostra lingua. Quanto è giunto fino a noi ci mostra che la struttura del libro volgare era molto lontana da quella del libro moderno. I primi libri sono soprattutto zibaldoni che possono contenere opere differenti, di origini e provenienza diverse.
Nel confezionamento dei manoscritti, le opere in volgare erano sottoposte a modifiche molto maggiori che non quelle latine: ciò avviene per lo stato ancora incerto della lingua.
III. I luoghi istituzionali
Tra i molti luoghi dove si elabora la cultura, continuano ad avere un peso notevole le corti signorili, specie i grandi feudatari del nord: in esse si trasmette una cultura che esalta i caratteri della vita aristocratica seguendo i modelli letterari della vicina Provenza.
Molto più complessa è la vita alla corte meridionale di Federico II che aggrega intorno a se molteplici forme di sapere ed esperienza di scrittura legate a lingue e tradizioni di diverse origini. La sua corte è in continuo movimento poiché segue il suo imperatore in tutti gli spostamenti militari e diplomatici. Federico dà impulso alla conoscenza delle tecniche scientifiche e favorisce lo svolgersi di una letteratura poetica latina, di una cultura araba filosofica e letteraria, di una cultura in lingua d’oil, di una cultura greco-bizantina e di una cultura tedesca. Ha poi il merito di aver sostenuto la nuova poesia in volgare siciliano.
Facendo convivere tante e tanto differenti tradizioni, Federico II intende dimostrare la capacità unificante del proprio potere I documenti pubblici e la corrispondenza ufficiale vengono redatti da insigni dictatores, che elaborano una scrittura ricercata e solenne. Maestro di prosa aulica è tra i funzionari di Federico II il celebre Pier Delle Vigne.
La chiesa continua ad essere il punto di riferimento per un gran numero di istituzioni culturali: i monasteri benedettini perdono il ruolo primario che avevano nei secoli precedenti, ma i nuovi ordini mendicanti, che si impegnano a fondo nella vita urbana, creano nuovi modi di produzione e trasmissione della cultura religiosa.
In molti centri si instaurano presto delle signorie, dove il signore, pur facendo vivere gli organismi comunali, fa del proprio palazzo una corte, in cui ospita intellettuali, spesso costretti a fuggire dalle loro città.
Nelle città comunali si registrano interessanti novità anche nel campo dell’istruzione primaria: si sviluppa sempre più l’attività dei maestri laici, singoli maestri creano proprie classi private attraverso il diretto rapporto con le famiglie degli allievi. Si accompagna a questo la diffusione di vere e proprie scuole pubbliche, delle cui spese si fanno carico gli organismi comunali, l’insegnamento di base riguarda la lingua latina.
IV. La vita comunale e la retorica
Nella società comunale, l’amministrazione comunale richiede una diretta partecipazione dei cittadini e i rapporti civili sono determinati essenzialmente dal corretto uso della parola all’interno delle istituzioni. Un rilevo particolare viene riconosciuto all’arte della parola: la retorica.
Brunetto Latini crea la figura dell’intellettuale civile, che coinvolge il proprio far letterario con l’esistenza individuale e l’attività politica. L’uomo colto si riconosce così nel modo in cui applica il suo sapere a un giudizio e a un intervento morale sul mondo: ciò consiste il senso dell’insegnamento trasmesso da Brunetto a Dante.
V. La poesia popolare e giullaresca
Un carattere determinante di questa poesia è la ripetizione di forme e motivi costanti, con parziali varianti dovute alle differenze linguistiche e sociali: la sua elaborazione si intreccia con il canto, la musica, la danza e avviene soprattutto durante le feste che scandiscono le stagioni. I giullari fanno da mediatori fra i motivi di origine popolare e quelli derivanti dalle culture superiori.
Il loro pubblico comprende un po’ tutti gli strati sociali: va dalle più altere corti feudali alle piazze dei più poveri villaggi agricoli.
Le prime espressioni di poesia popolare in volgare sono in Italia molto precoci, di gran lunga anteriori a ogni testimonianza scritta di poesia colta, e in vario modo legati alla produzione giullaresca
VI. Cultura e centri geografici
L’eccessiva frantumazione può rendere troppo difficoltosa la comunicazione tra le diverse aree: si cerca allora di costruire un tipo di volgare capace di comunicare a un livello più ampio, che non sia semplicemente regionale. Ciò porterà nel XIV secolo all’affermazione del toscano come lingua letteraria media e alla conquista di una piena egemonia di Firenze su tutti gli altri centri culturali italiani, che però non perderanno la propria identità e vitalità.
LA LETTERATURA RELIGIOSA
I. La Vita religiosa
Il cristianesimo costituisce nel XIII secolo un punto di riferimento essenziale per esprimere esperienze che hanno luogo in tutti gli strati della società. Mai come in questo secolo la società medievale europea ha voluto ricavare dal messaggio di cristo una sollecitazione a rigenerarsi, mai è stata tanto impegnata a cercare uno stretto e concreto legame tra la fede cristiana e le condizioni dell’esistenza terrena.
La maggior sicurezza della vita quotidiana a partire dal XII secolo fa si che il messaggio di Cristo venga compreso e vissuto in tutta la sua rilevanza anche al di fuori della cerchia dei monaci e del clero.
L’eresia nasce spesso negli strati più umili della società che affermano l’ideale della povertà cristiana: in polemica contro il professionismo e la corruzione del clero, si sostiene il diritto, anche per i laici, a un rapporto diretto con la parola di Dio. Molti di questi movimenti non sorgono con esplicite intenzioni ereticali, ma evolvono in eresie solo in seguito alla condanna della Chiesa.
Nei confronti dell’eresia la risposta della chiesa di Roma, dopo un primo momento di incertezza, è decisa e spietata arrivando persino a forme di sterminio di massa. La caccia all’eretico diventa una crudele attività, nella quale le autorità laiche offrono pieno appoggio a quelle religiose; la coscienza comune arriva a vedere nell’eretico il concentrato di ogni male, lo strumento di occulte macchinazioni.
La chiesa non si limita a dare risposte violente: essa avverte la necessità di inserirsi maggiormente nella vita sociale.
La nascita degli ordini mendicanti si traduce in una nuova e dinamica presenza dell’ortodossia cristiana nella realtà quotidiana.
Questi ordini ribaltano la concezione della vita monastica, separata dal mondo, chiusa nella contemplazione e nella preghiera e intervengono in maniera attiva nella vita cittadina.
I domenicani sono più legati alle strutture dominanti della chiesa: specializzati sul piano dottrinale e teologico, concentrano i loro sforzi sulla predicazione e si pongono come primo scopo la lotta all’eresia.
In più stretto rapporto con l’esistenza di ogni giorno e con la religiosità delle masse operano i francescani.
L’esperienza francescana rispondeva alla radicale istanza di rinnovamento della vita religiosa che percorreva tutto il XIII secolo.
II. La letteratura degli ordini mendicanti
La letteratura che si ispira alla grande letteratura e alla personalità di S. Francesco è tutta volta a rievocarne la vita e le opere, a conservare la memoria e a divulgarne il valore esemplare.
L’esperienza di Francesco viene spesso rappresentata come modello di percorso ascetico che mira alla visione di Dio, all’identificazione con Cristo e all’annullamento di sé nella luce totale dell’amore divino.
La predicazione si svolgeva naturalmente in volgare, dal pulpito delle chiese, e si affidava anzitutto alle spontanee doti dell’eloquio del predicatore; ma queste doti potevano essere coltivate e migliorare attraverso l’uso dei primi manuali di ars predicandi e di vari repertori latini, in cui erano riportati diversi modelli di sermones destinati a diverse occasioni. Momento fondamentale di ogni sermone era l’exemplum, narrazione di storie sorprendenti spesso riferite all’aldilà, capaci di catturare l’attenzione degli ascoltatori più ingenui.
Gli exempla venivano attinti da specifici prontuari, ma anche da antologie di racconti leggendari e agiografici, come la legenda aurea dal domenicano Iacopo da Varazze.
II. II. San Francesco d’Assisi
Francesco d’Assisi fu l’autore del primo testo volgare di alto valore poetico, il Cantico di frate Sole.
Francesco possedeva una profonda cultura religiosa, che si accompagnava a una singolare attenzione per la letteratura romanzesca francese.
Il Cantico di frate Sole (chiamato anche Laudes Creaturarum o Cantico delle creature) fu composto un anno prima della morte, quando il santo soffriva di una malattia agli occhi: è una preghiera a dio in volgare umbro, in 39 versi non legati da un metro preciso ma rimati secondo schemi stilistico – retorici della prosa latina medievale e della prosa biblica. Dopo un’iniziale lode della potenza divina e l’affermazione dell’indegnità dell’uomo di fronte alla grandezza di Dio, il cantico invita a pregare il signore e le sue creature, dal sole agli astri, ai quattro elementi. Di queste creature sottolinea tutta la bellezza, la bontà e la positività. Dopo questa dichiarazione d’amore a Dio attraverso le cose, due altre ‘lodi’ chiamano in causa l’uomo: una in nome del perdono e della sofferenza, l’altra in nome della morte. L’esaltazione della vita del creato si chiude così con il riconoscimento della necessità della morte e con un’impassibile distinzione tra la morte nel peccato e quella in grazia di Dio. L’ultima lode corale al Creatore riassume tutto il cantico sotto il segno della parola umiltade.
Il ritmo lento e ripetitivo inserisce perfettamente la preghiera nella dimensione di un rito iniziale e mattutino, in cui la gioia per lo splendore della luce si intreccia alla serena attesa della morte.
II. III. Bonaventura da Bagnoregio
La figura più prestigiosa della cultura francescana del secolo sai dal punto di vista teorico e filosofico , sia dal punto di vista ufficiale e istituzionale è quella di Bonaventura da Bagnoregio. Seguendo gli studi e poi insegnando presso la facoltà di teologia dell’università di Parigi tra il ‘43 e il ’57 e svolgendovi varie conferenze negli anni successivi, Bonaventura colloca con un significato ben preciso il pensiero Francescano all’interno della filosofia scolastica e dei dibattiti sulla filosofia di Aristotele. I suoi scritti filosofici. Teologi e mistici affermano la centralità della fede e riducono la ragione umana a semplice e temporaneo strumento del processo che porta alla fede. Egli riconosce in dio la luce assoluta, fonte e esempio di tutta la vita dell’universo. Tutta la vita è una scala per salire a Dio.
II. IV. Iacopone da Todi
La poesia religiosa in latino produce nel XIII secolo alcuni ritmi che sono rimasti celebri, mentre in volgare si sviluppa una nuova forma, la lauda. Nella sua tradizione della lauda si inserisce la voce vigorosa e sconvolgente di Iacopone da Todi, e alcune sue laude circolano e si diffondono presto in vari laudari, soprattutto nell’ambiente francescano.
Iacopone ebbe una solida formazione culturale ed esercitò la professione giuridica, partecipando alla vita mondana della sua città dalla quale si allontanò nel inverno del ’68, per una subitanea conversione; secondo la leggenda, questa conversione avrebbe avuto luogo in seguito a una sciagura (il crollo di un pavimento) avvenuta durante una festa da ballo: sotto le vesti della moglie, morta nel disastro, Iacopone avrebbe trovato un cilicio, ruvido abito di penitenza.
Egli trascorse allora 10 anni in penitenza, nel 1278 entrò nell’ordine francescano svolgendo una dura polemica contro la corruzione della chiesa e recandosi spesso a Roma. Dopo le speranze suscitate dal papato di Celestino V si trovò coinvolto nella violenta contesa tra Bonifacio VIII e gli spirituali. Con un gruppo di questi ultimi , perseguitati dal papa si unì ai cardinali Iacopo e Pietro Colonna, sottoscrivendo il manifesto di lunghezza in cui si negava la validità dell’elezione di Bonifacio. Ne seguirono la scomunica e una vera guerra. Iacopone fu imprigionato nel carcere di un convento e vi restò per lunghi anni, solo alla morte di Bonifacio VIII, fu liberato dal successore Benedetto IX.
La religiosità di Iacopone è tutta segnata dal violento conflitto tra le gerarchie temporali della chiesa e il francescanesimo. Iacopone Rifiuta il corpo e ogni esperienza umana che dia valore alle cose corruttibili e terrene ma respinge anche tutti i comportamenti correnti della vita sociale, tutte le debolezze e le ipocrisie su cui essi poggiano. I rapporti tra gli uomini gli appaiono privi di autentica solidarietà: l’amore è come un gioco di inganni; la vera amicizia non viene praticata; si vuol bene alle cose e agli averi altrui, non al vero essere del prossimo.
La poesia di Iacopone afferma così fino in fondo le negatività del mondo; essa raggiunge momenti di crudo realismo e di corrosiva forza satirica, grazie anche all’uso del dialetto umbro. Egli manifesta il suo ripudio del mondo sempre attraverso il dialogo e il contatto, prendendo di petto l’ascoltare quasi a convincerlo con una violenza fisica. Molte laude hanno la struttura del ‘contrasto’, sono cioè scontri tra voci diverse: la voce divina scuote l’anima dal suo torpore, si alternano rimproveri e giustificazioni e scattano dispute tra entità spirituali o tra persone. La polemica e l’urto sono sempre presenti nella sua poesia e conferiscono peso anche alle figure più astratte della tradizione medievale. L’esperienza ascetica di Iacopone non è mai tranquilla e serena, ma sempre irrequieta e tormentosa: la ricerca dell’amore di Dio muove sempre dall’umiliazione di se, dallo svilimento della propria persona.
Iacopone si oppone all’uso intellettuale della religione, alle speculazioni teologiche della cultura universitaria. La durissima polemica con la chiesa di Roma parte proprio dalla negazione di ogni sfruttamento materiale o istituzionale della religione. Il punto d’arrivo di questi atteggiamenti è l’esperienza mistica: la poesia di Iacopone vuole infatti definire la natura dell’amore divino, che è gioia e tormento. Esso è paradossale, come l’amore cantato nella poesia cortese, ma in un modo molto più violento e tumultuoso. L’amore divino insegue dappertutto l’anima umana e si umilia fino a scendere in questo mondo: l’incarnazione di cristo è lo scandalo supremo che porta la grandezza di Dio ad abbassarsi alla povera vita terrena, alla viltà della croce e della morte per l’amore dell’uomo, per donargli la salvezza e la grazia.
La cultura poetica e religiosa di Iacopone è molto ampia, nutrita di una profonda conoscenza del linguaggio biblico e della contemporanea poesia volgare. Su questo materiale linguistico egli immette una ricca serie di elementi realistici sempre con l’intento di creare lacerazioni e turbamenti.
III. Tommaso d’Aquino
La filosofia del domenicano Tommaso d’Aquino compie una rigorosa sintesi tra il sapere cristiano e l’insegnamento di Aristotele. Tommaso polemizza con le interpretazioni del pensiero aristotelico che richiamano ai commenti di Averroè e tendenti a mostrare la non coincidenza tra fede cristiana e i fondamenti del sistema Aristotelico. Per Tommaso è invece possibile uno stretto accordo tra cristianesimo e filosofia Aristotelica: 'ragione naturale’ , che nel mondo antico ha avuto la massima valorizzazione in Aristotele, è strumento essenziale per la conoscenza dell’universo e di Dio, anche se la sua giustificazione finale deriva sempre dalla fede e dalla rivelazione cristiana, che essa non contraddice in nessun modo. La filosofia tomistica sarà per secoli il più sicuro sostegno teorico dell’ortodossia cattolica, la filosofia ufficiale della chiesa di Roma: essa offre una visione unitaria e strutturata del sapere e dell’universo, e insieme porge grande attenzione alla realtà particolare, alla natura e agli individui. La sua capacità di assorbire e di far propri filosofie e motivi culturali anche molto diversi e di collocare ogni elemento in una ferrea gerarchia, offre alla chiesa uno strumento di eccezionale potenza.
IV.I. La poesia didattica volgare dell’Italia settentrionale
Alla vita religiosa delle classi urbane, al suo tono medio e dimesso, privo di grandi slanci e di grandi ideali, si lega una poesia di tipo didattico, diffusa in alcuni centri dell’Italia settentrionale.
Tale poesia non avrà seguito nei secoli successivi, in quanto verrà spazzata via dai modelli toscani. Talvolta vi appare un candido gusto del favoloso e del meraviglioso, che si limita a dilatare, trasformandola nell’immaginario. Numerose sono le visioni dell’oltretomba, costituite dalla combinazione di pochi particolari spaventosi o soavi, attenti a un mondo di immagini già note al pubblico.
La Lirica volgare
I. La nascita della lirica volgare: tradizione e problemi storici.
La lirica volgare del 200 è giunta fino a noi attraverso canzonieri organizzati sempre a una certa distanza dal momento della composizione dei testi. Soltanto tre dei canzonieri che ci sono rimasti risalgono alla fine del 200, e sono tutti di area toscana: il vaticano latino, il palatino, e il laurenziano.
L’origine toscana dei manoscritti a nostra disposizione pone notevoli problemi di interpretazione linguistica: tutti i testi, in particolare i più antichi testi siciliani, hanno subito una fortissima toscanizzazione riconducibile non solo all’area linguistica dei copiatori, ma anche al ruolo di lingua letteraria dominante che il toscano cominciava ad assumere alla fine del 200.
Fu Dante, nel De Vulgari Eloquentia a dare una prima sistemazione alla storia lirica del 200, distinguendola in tre momenti:
I. Creazione di una lingua letteraria illustre, distinta dal dialetto corrente, da parte dei poeti siciliani della corte di Federico II;
II. Svolgimento di una “poesia cortese” in toscana, ma in forme stilisticamente confuse e rozzamente municipali o addirittura “plebee”;
III. Ripresa di più adeguate forme illustri, ben distinte dai volgari municipali, nella poesia del bolognese Guinizzelli e del gruppo fiorentino di Dante .
Nella lirica Italiana il testo scritto acquista subito un’assoluta preminenza: numerosi sono i casi della lettura orale, ma i testi vengono composti per essere affidati alla scrittura.
Nella nuova lirica italiana, si ha un vero divorzio tra musica e poesia. La preminenza attribuita alla scrittura comporta una più sistematica elaborazione delle forme metriche, nasce una forma breve di rigorosa architettura, il Sonetto.
II. La scuola siciliana.
La nuova lirica cortese in volgare italiano sorge intorno al 1230 nel vivacissimo ambiente della corte di Federico II: gli autori sono funzionari del governo imperiale o personaggi comunque legati alla struttura giuridica amministrativa. Essi decidono di trapiantare nel volgare di Sicilia i modelli della lirica cortese provenzale; e secondo alcuni questo trapianto è voluto dallo stesso imperatore, che è autore di un componimento giunto fino a noi.
La poesia dei siciliani ha essenzialmente una funzione sociale; essa affronta la tematica amorosa soprattutto dal punto di vista feudale del rapporto d’amore e mette al centro la donna, nobile signora e padrona, da servire con dedizione, ma non esprime mai quel pathos della distanza e dell’indecifrabilità della donna amata-signora che è invece tipico di alcuni poeti provenzali. Attenti indagatori del trasmettersi dell’amore, i poeti siciliani individuano vedere il tramite principale del rapporto con la donna.
In questo repertorio di immagini si inseriscono tutti gli effetti contrastanti dell’amore, le sue gioie e le sue dolcezze, così come le sue pene e i suoi dolori. Proprio nell’attraversamento del repertorio si afferma il valore di questa poesia: nel cantare il suo rapporto con la donna, il poeta mette alla prova e accresce il proprio valore; il suo servire l’amata, il suo impegnarsi nella fedeltà ha qualcosa di evanescente e distante, lo rende socialmente più degno. La forma più usata in tale ambito è la canzonetta.
Il primo e maggiore esponente della scuola siciliana è il notaio Giacomo da Lentini. Sottile sperimentatore, dotato di acutissima sapienza metrica e retorica, egli fu con ogni probabilità l’inventore della nuova forma del sonetto.
III. Cielo d’Alcamo
Conservato solo nel codice vaticano latino, ma noto anche a Dante, è il Contrasto di Cielo d’Alcamo, databile 1230 o 1240, vede il contrapporsi di forme auliche e illustri della appena nata scuola siciliana e un ambientazione e situazione di genere comico. Esso è costruito come un dialogo tra un giullare e una fanciulla, che prima reagisce duramente al corteggiamento dell’uomo, ma poi cede via via alle sue istanze; il fondo linguistico è siciliano, con qualche singolare elemento di derivazione campana.
L’autore rivela un eccezionale dominio delle formule linguistiche e retoriche. Il corteggiamento e la schermaglia tra il giullare e la ragazza prevedono continue asimmetrie nella disputa e tutta una mimica equivoca e allusiva. Bastano il continuo ‘prendersi di petto’ dei due personaggi, il gioco sottile delle esagerazioni, alcune studiate e riprese e ripetizioni, qualche elemento di tipo basso per creare un originalissima parodia d’amore cortese. In primo piano balzano il desiderio sessuale, la menzogna, l’inganno, l’aggressività, i modesti oggetti della vita familiare e quotidiana; chi ascolta è chiamato a una complicità con questa versione tutt’altro che nobile del dialogo amoroso.
IV. Guittone d’Arezzo e i rimatori siculo toscani
La morte di Federico II e il crollo della potenza della casa di Svevia fecero venir meno la corte meridionale e l’ambiente adeguato a quella raffinata poesia. Negli anni ’50 e ’70 si ebbe un vero trapianto della nuova lirica volgare nell’Italia comunale, in particolare in Toscana.
In questo nuovo ambiente la lirica cortese si adatta a un pubblico comunale, per lo più aristocratici e legato ai gruppi di funzionari amministratitivi. La sua tematica tende ad allargarsi al di là dell’ambito amoroso; a livello linguistico, si dà largo spazio a forme dialettali toscane, oltre che provenzale latine, ma in modo confuso, senza il netto spirito programmatico che aveva caratterizzato la lirica siciliana.
L’esponente più importante di questa nuova poesia e Guittone d’Arezzo. Nella sua vasta produzione si possono distinguere una poesia amorosa e una poesia civile e morale. La prima tipologia è molto varia: come i siciliane, descrive l’alternarsi della gioia e del dolore, in alcuni testi giunge a una più ferma esaltazione della donna, come fonte di ogni valore, capace di infondere nell’uomo tutte le ‘virtù’; in altri si lascia andare in una ‘realistica’ spregiudicatezza.
L’orizzonte municipale di Guittone è evidente nelle sue canzoni ‘civili’.
Una prima manifestazione di una prosa volgare sono le sue lettere: sono più che altro prediche scritte, con scopi di edificazione morale e civile. Come nella poesia appare un fervido sperimentatore.
In questi stessi anni si sviluppa la poesia di Rustico Filippi , di cui ci sono giunti quasi 60 sonetti, metà in stile ‘serio’ e metà in stile ‘comico’. Rustico si appropria della lingua fiorentina in tutta la sua ricchezza, per graffiare la realtà, per fissarne alcune forme sorprendenti, con misurata sapienza retorica e vivace gusto lessicale. Nei sonetti ‘seri’ egli dà voce ai più concreti aspetti del rapporto amoroso: affetti e dissidi, affanni e conforti, si presentano con un’intensità che sfugge in parte ai modelli cortesi, alle loro strette convenzioni. I sonetti ‘comici’ inaugurano la tradizione giocosa e burlesca fiorentina e fissando alcune figurine umane in movimento, bizzarre o deformi, che si legano alla tradizione comica più antica.
IL “DOLCE STIL NOVO”
I. Caratteri generali
Il “dolce stil novo” non è una scola ma un insieme di esperienze diverse e tuttavia convergenti, che mettono capo ad una nuova poesia d’amore di grande coerenza linguistica e di fortissima ambizione intellettuale, che taglia i legami con il confuso sperimentalismo della lirica cortese municipale.
La denominazione di “dolce stil novo” si ricava a posteriori dalle parole che Dante nel canto XXIV del purgatorio fa dire a Bonagiunta Orbicciani. La poesia è per lui notazione e trascrizione, in termini di letteratura, di quello che Amore ‘ditta dentro’ (i’ mi son un che quando \Amor mi ispira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando). Questa dichiarazione di Dante fa comprendere a Bonagiunta la lontananza del siciliano Giacomo da Lentini, di Guittone e di lui stesso dall’esperienza dei nuovi poeti (“o frate, issa vegg’io” diss’egli “ il nodo\ che ‘l notaro e Guittone a me ritenne \ di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”) . Inoltre egli riconosce che le ‘penne’ dei nuovi poeti vanno ‘strette’ ai dettami del ‘dittatore’ Amore, cosa che non accade ai loro predecessori.
Nell’ottica di Dante, sono in primo piano la ‘novità’ dell’atteggiamento e la funzione di Amore, che ‘spira’ e ‘ditta dentro’.
Il distacco dalla precedente poesia cortese è garantito soprattutto dalla nuova associazione tra dolcezza stilistica e significazione razionale: sono essenziali nello stil novo, la conoscenza teorica e filosofica e la concezione molto precisa dei processi che avvengono nell’anima presa dall’amore, altrettanta attenzione porge lo stil novo a taluni dibattiti morali, come quello sulla nobiltà e sui rapporti tra amore e nobiltà.
Come in tutte le concezioni ‘cortesi’, anche nello ‘stil novo’ l’amore e la poesia appaiono come caratteri distintivi di un’élite; il ‘dolce’ linguaggio crea una comunicazione tra pochi spiriti privilegiati, ‘fedeli all’amore’. Questo gruppo di eletti non intende definirsi in base a una precisa collocazione sociale: il loro atteggiamento aristocratico non è condizionato né da una corte regia, né da un contesto comunale e municipale. Essi si riconoscono soprattutto in una scelta: nella decisione comune di intendere l’esperienza amorosa e poetica come valore assoluto.
La donna del dolce stil novo appare improvvisamente in qualche angolo della città, il rapporto amoroso è fatto di fuggevoli incontri ed emozioni che si collocano in un contesto urbano: il poeta è inserito in un gruppo di amici, di ‘fedeli d’amore’ che gli offrono solidarietà e sostegno. E la donna è circondata da altre donne, sulle quali si irradia il riflesso della sua bellezza. Questi incontri-apparizioni producono effetti sconvolgenti sul poeta. La poesia registra con cura questa dialettica fisiologica e psicologica, Utilizzando nozioni offerte dalla filosofia contemporanea e da antiche teorie e credenze: gli effetti dell’amore vengono considerati come conseguenza del movimento di sostanze incorporee. Queste entità aeree, dotate di una loro autonomia, e chiamate spiriti, si spostano e si modificano influendo sulle facoltà dell’anima individuale, e sono anche in grado di cambiare sede, allontanandosi dall’individuo a cui appartengono e seguendo, per proprio conto, l'immaginazione della donna di cui egli è innamorato. La donna non viene quasi mai raggiunta, molto spesso appartiene a un altro luogo e le inibizioni sociali impediscono comunque di arrivare da lei. L’obbiettivo di questo amore non è comunque la realizzazione di un desiderio, ma la continua tensione verso un valore inafferrabile.
II. Guido Guinizzelli
Guido Guinizzelli, dotato di cultura giuridica, filosofica e letteraria, iniziò la sua attività di rimatore nel più complicato stile guittoniano. Passo poi allo stile ‘novo’ e ‘dolce’, ma ricco di tensioni intellettuali. Nelle sue rime più esemplari sono in primo piano il ‘valore’ della donna e lo stupore per il suo manifestarsi. L’apparizione della donna ha una forza benefica che elimina ogni cattivo pensiero: essa espande attorno a se splendore e chiarità; ma la sua luce di ‘stella’ in ‘figura umana’ riduce l’amante all’immobilità. La più alta espressione dell’amore del poeta, che però non dispera di arrivare a una più diretta e totale comunicazione con l’amata, è la lode che egli fa di lei.
Guinizzelli raggiunge in alcuni sonetti una nitida e fresca misura melodica, forte è anche la sua disposizione dottrinaria e filosofica. L’autentico amore è aristocraticamente riservato ad alcuni cuori ‘gentili’ ‘predestinati dagli influssi celesti; ma la gentilezza non si identifica con la nobiltà di sangue: chi discende da nobile famiglia ma non possiede le autentiche qualità d’animo derivanti dagli influssi celesti, non può raggiungere il ‘gentil valore’ e l’amore.
III. Guido Cavalcanti
Di pochi anni più anziano di Dante suo ‘primo amico’ e compagno di esperienza umanitaria letteraria, Guido Cavalcanti nacque intorno al 1260 da una delle più ricche famiglie della nobiltà guelfa fiorentina. Fin dalla giovinezza si occupò soprattutto di letteratura volgare e di filosofia. Nel ’92 intraprese un viaggio verso il santuari spagnolo di Santiago di Compostela, ma giunse solo fino a Tolosa; e sembra che durante questo viaggio subisse l’aggressione da parte di sicari di Corso Donati della quale cercò poi in vano di vendicarsi a Firenze. Implicato in violenti episodi di lotta politica, il 24 giugno 1300 fu esiliato, con un provvedimento del priorato di cui faceva parte Dante. Dopo un soggiorno a Sarzana e la revoca del provvedimento di esilio, morì a Firenze il 29 Agosto dello stesso anno.
La poesia di Cavalcanti sorprende subito per la sua capacità di creare un movimento melodico soave e leggero, ma che nasconde un accuratissimo lavoro retorico. I suoi versi si succedono con un ritmo di danza, che procede lieve fino al momento in cui si richiude misuratamente in se. Tutta la poesia di Cavalcanti tende ad illuminare questi effetti sconvolgenti dell’amore, il punto di partenza del’ intero processo è sempre l’esaltazione del valore della donna, che costringe il poeta a ‘servire’. Questa forza sembra l’emanazione di un’entità separata dalla normale esperienza terrena, che con il suo solo rivelarsi crea un invincibile sbigottimento: essa fa tramare l’animo che la espone alla minaccia della morte, la cui immagine si dipinge nello stesso aspetto del poeta. Una lacerante angoscia si impadronisce del ‘core’; il poeta è ‘dubbioso’, ‘sbigottito’, in preda alla ‘paura’, segnato dalla ‘disavventura’. Ma l’amore è tanto forte da spingere a cercare ciò che distrugge e fa male, e di riaffermare il valore assoluto di ciò che porta alla morte. Questa contraddittorietà parte dalla concezione della pluralità della facoltà dell’anima e delle essenze che agiscono sull’anima. La poesia di Cavalcanti è fitta di figure e di personificazioni, di entità fisiche e psichiche, che si scindono, si separano, si aggregano e si intrecciano fra loro. La stessa immagine della donna si moltiplica in immagini diverse. Dappertutto si muovono, ossessivi gli spiriti, il cui numero cresce a dismisura.
In questa straziante scissione, la persona della donna amata sembra quasi arretrare e allontanarsi, rimpiazzate da figure sostitutive, da presenze incorporee o da dolci apparizioni femminili di livello più basso.
Cavalcanti si rivela poeta tenerissimo della comunicazione indiretta; egli è forse il primo, nelle letterature volgari che riesca ad avvertire fino in fondo, con radicale estremismo intellettuale, fisiologico, psicologico la violenza dell’amore, fantasma assoluto e distruttivo.
IV. Gli stilnovisti minori
Rispetto all’intensità di Cavalcanti e di Dante, gli altri poeti a loro vicini si collocano a un livello medio di più tranquilla misura. Vanno ricordati Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi e soprattutto Cino da Pistoia, legassimo a Dante e da lui molto stimato. Giurista insigne studiò a Bologna e forse anche a Parigi, e insegnò nelle università di Siena, Perugia e Napoli; fu, come Dante tra i sostenitori del progetto di restaurazione imperiale di Arrigo VII . Il suo canzoniere è il più vasto tra quelli stilnovistici, Cino Subisce un forte influsso dalle rime di Dante e percorre la via di una poesia illustre, ma misurata, con un suo equilibrio tra pacatezza tecnico-linguistica e impegno intellettuale. In molte rime per l’amata Selvaggia egli rievoca in modo originale la figura della donna e le emozioni provate di fronte a lei. Per la sua temperanza stilistica Cino costituisce il tramite tra lo stil novo e il Petrarca: Petrarca troverà in lui il più vicino punto di riferimento per il proprio modello di poesia amorosa.
V. Lo sviluppo della poesia giocosa
Dopo le prove di Rustico Filippi si sviluppa in toscana una produzione di sonetti giocosi, che raffigurano effetti deformi o distorti della realtà di ogni giorno; spesso si parla di aspre caricature di un preciso personaggio e numerosi sono le tenzoni comiche cioè scambi di sonetti comici tra rimatori, ciascuno dei quali aggredisce l’altro e lo presenta come figura risibile. Sonetti giocosi vengono scritti anche da Guinizzelli, Cavalcanti e da Dante. Soprattutto a Siena si compongono testi di questo tipo che presentano una vita quotidiana concreta e limitata, facendo propri i modi più bassi del volgare e opponendosi alle ambizioni illustri della poesia cortese e amorosa. Cecco Angiolieri fu di poco più anziano di Dante, con il quale ebbe uno scambio di Sonetti, egli costruisce il proprio canzoniere comico cercando a tutti costi, di presentarsi come un personaggio. I suoi sonetti esibiscono un repertorio di gesti aggressivi e provocazioni: Egli si fa beffa del lavoro dell’onestà, dell’amore dei valori familiari della morale corrente nella vita comunale.
La malinconia, che spesso Cecco evoca, è una sorta di ostinata contentezza, un bizzarro prendere le cose a rovescio, e non a niente di sofferto e drammatico come dimostrano gli inizi di certi sonetti. Tre sono i temi principali su cui ruotano i sonetti dell’angiolieri: l’amore per una certa Becchina presentato come una parodia dell’amore stilnovista, in quanto fatto di ripicche, dispetti, litigi, richieste di denaro, tradimenti e collocato in una cornice di convulsa vita materiale. L’odio per il padre, vecchio e avaro con scatti di violenza contro un mondo greto e minuto, dal quale però l’autore non si sottrae, tanto che manifesta una gioia trionfale alla morte del vecchio e il bisogno di denaro, visto come unica fonte di felicità, unico bene capace di garantire la vita godereccia e spensierata alla quale Cecco aspira. Nel recitare questo personaggio di scioperato distruttivo l’angiolieri costruisce un gioco linguistico vivace e incalzante, il suo personaggio non esce da un orizzonte municipale chiuso e limitato: la sua declamazione comica si attacca a piccole cose a poche maniere e abitudini, meschine pertanto eversive o provocatorie possano sembrare. Cecco è assai lontano dalla forza dirompente della grande comicità.
VI. Folgore da San Giminiano: La vita cortese come immaginario
Di lui abbiamo una trentina di sonetti, tra cui si distinguono due ‘corone’ una di otto sonetti dedicata ai giorni della settimana e l’altra di 14 sonetti più celebre e suggestiva, dedicata ai mesi dell’anno. Queste corone si presentano come ‘doni’ che l’autore offre a nobili signori e alle loro brigate descrivono una serie di occupazioni piacevoli. Folgore riprende una tradizione provenzale, quella del plazer, ‘elenco di cose piacevoli, e vi aggiunge la passione per il ritmo del calendario vivissima in tutta la cultura medievale; ma questi spunti gli servono per creare un’immagine della vita cortese piena di agio e di gioia, la cortesia diventa qui piacere di abitare le cose. Ogni sonetto offre il quadro di una situazione felice, esaltano e mitizzano la vita delle ricche classi cittadine colte in una sorte di perpetua vacanza.
LE FORME DELLA PROSA
I. La nascita della prosa volgare: traduzioni e divulgazioni
Il Latino e il francese hanno una presenza fortissima nella prosa che si produce in Italia nel 200; e tutti coloro che si impegnano a definire e a costruire le forme di una prosa italiana trovano in queste lingue continue occasioni di confronto. Opere di successo della letteratura latina e francese vengono tradotte con grande frequenza ma la tradizione manoscritta ci ha fatto perdere gran parte degli esperimenti compiuti in dialetti diversi dal toscano. Nella traduzione di libri in volgare ci si preoccupa solo ed esclusivamente dei contenuti. Una stretta associazione tra gli intenti comunicativi e artistici comporta invece la prosa più alta che si lega all’esercizio della retorica e che mira a trasferire nel volgare la dignità stilistica del latino. Grazie a tale confronto con il latino classico il volgare diviene cosciente di poter esprimere e comunicare tutto ciò che è essenziale per la vita degli uomini, di poter acquisire una sua universalità. Molte traduzioni non si presentano esplicitamente come tali; molte sono costruite come liberi rifacimenti. La distinzione tra versione e originale sfugge alla comune coscienza culturale del tempo: a questa, infatti il sistema della scrittura appare come qualcosa di oggettivo, impersonale e omogeneo, a cui si può attingere senza farsi troppi scrupoli di fedeltà e omogeneità. Nella prosa volgare in massima parte si incarnano in racconti.
La cultura ha bisogno di comunicare e istruire raccontando, ma la materia che essa rappresenta è in genere già tutta sistemata e interpretata, filtrata da schemi che non lasciano spazio all’invenzione o al caso.
II. La trattatistica enciclopedica e scientifica
La tendenza enciclopedica della cultura medievale è sempre pronta a raccogliere e ad accumulare frammenti delle più svariate conoscenze e a raggiungere nel XIII secolo il più alto grado di sistematicità. Si compongono allora delle summae, opere che organizzano in un rigido ordine la pluralità delle nozioni in cui si risolve il sapere universale.
La prima vera summa in volgare toscano fu la composizione del mondo con le sue cascioni, in due libri di Ristoro d’Arezzo intende accumulare tutte le conoscenze che riguardano la natura e il cosmo. I cultori di scienze e di tecniche particolari elaborano invece una trattatisca direttamente tecnica in latino.
III. Scritture storiche e cronache
Un’altra traduzione medievale che si prolunga nel XIII secolo e quella delle storie universali in latino, che partendo dall’origine del mondo accumulano le notizie più diverse ricavate da fonti più disparate, senza alcun controllo critico. Le cronache raccontano eventi riguardanti città e si dilungano soprattutto su fatti recenti. Molte quelle in latino dedicate a eventi e situazioni di grande risonanza: numerosi soprattutto i cronisti meridionali che raccontano le vicende di Federico II o dei vespri siciliani. Un caso a sé, tra le cronache latine è costituito dalla Cronica scritta nella vecchiaia da Salimbene de Adam da Parma, entrato fin da giovane nell’ordine dei frati minori, narra soprattutto gli eventi verificatosi durante la sua esistenza utilizzando ricordi personali, voci, memorie, credenze e giudizi correnti (specie nell’ambiente francescano). Forte è la sua dedizione ai particolari più elementari e minuti dell’esistenza. Cronache in volgare vengono invece redatte, nella seconda metà del secolo nella toscana comunale: sembrano voler semplicemente annotare i dati salienti della vita pubblica.
IV. Il milione di Marco Polo
Il lungo viaggio in oriente del veneziano Marco Polo ebbe luogo dopo un precedente viaggio compiuto dal padre Niccolò e dallo zio, mercanti in oriente, che avevano raggiunto la corte di Qubilai (il gran Khan), imperatore della dinastia gengiskhanide e sovrano di gran parte dell’Asia. Dopo il loro ritorno a Venezia, i due mercanti ripartono nel 1271 per l’Asia portandosi con se il giovane Marco, con una missione da parte del papa Gregorio X. Nel suo lungo soggiorno alla corte del gran Khan , Marco si inserì nella gerarchia feudale mongola, divenendo un uomo di fiducia dell’imperatore e percorrendo a più riprese la Cina e altre regioni di quel continente, con vari compiti. Torna a Venezia nel 1295 e fu più tardi fatto prigioniero dai genovesi. In queste prigioni incontrò Rustichello da Pisa, autore di romanzi in prosa in lingua d’oil. Da questo incontro e dal racconto orale di Marco, che Rustichello trascriveva fedelmente in francese, nacque l’opera intitolata Le divisament dou monde (La descrizione del mondo); la scelta del francese fu determinata oltre che dall’esperienza di Rustichello anche dall’intenzione di far circolare l’opera in un ampio spazio di cultura laica, moderna, internazionale. Tornato a Venezia nel 1299, Marco si occupò della diffusione del libro, trascritto e tradotto in lingue diverse.
Il titolo di Milione appare nella più antica redazione toscana, che risale all’inizio del ‘300 ed è quella adottata dalle moderne stampe italiane.
L’opera inizia con una sistematica descrizione dei diversi paesi d’oriente, a volte anche accompagnate dalla narrazione di eventi reali o leggendari che lo riguardano; la parte centrale è dedicata alla descrizione della corte del Gran Khan e del suo impero, e all’esposizione delle vicende storiche e militari di cui è stato al centro.
Al fascino del Milione concorre lo stesso ritmo con cui si passa da paese in paese, da una situazione all’altra: le formule di passaggio sono sempre simili e spesso addirittura identiche tra loro, fanno pensare alle moderne guide di viaggi. Incrociando costantemente informazione e racconto, il libro riferisce con ferma sicurezza le cose vedute e le cognizioni; e inscrive una materia e un universo tanto lontani nei confini del già noto, facendo frequenti richiami ai valori religiosi, cavallereschi, mitici, economici della cultura occidentale medievale, spesso nel ritrarre quei lontani paesi, il milione utilizza moduli della letteratura cortese, abituata a guardare l’oriente attraverso filtri della leggenda; ma allo stesso tempo apre squarci verso una realtà geografica e culturale prima sconosciuta.
Il milione offre così un capitale modello letterario del viaggio e della conoscenza geografica.
Per la stessa immensità delle distanze, per la varietà dei luoghi, costumi, credenze, civiltà, il mondo percorso da Marco diventa qualcosa di inafferrabile e sfumato.
La scrittura del Milione quindi non può essere vista come espressione di una visione mercantile. Il milione non ci parla con il linguaggio della cultura borghese ma con quello della cultura cortese romanza. Con esso la cultura comunale e feudale si apre a uno sguardo insieme esitante e curioso, ingenuo e attento, verso culture e società lontane. Questo sguardo crede spesso di scoprire, in quei mondi così diversi, valori assai simili a quelli prevalenti in Occidente.
Col milione l’avventura reale vissuta da Marco diventa componente essenziale dell’immaginario europeo.
V. La prosa moralistica e la narrativa
Notevole spazio e diffusione ebbe la prosa di divulgazione morale, piena di insegnamenti che dovevano additare il retto comportamento nella vita sociale, familiare e individuale: essa era legata alla dominante prospettiva cristiana, ma non si riferiva in modo esclusivo all’esperienza religiosa; tendeva infatti a fornire norme e modelli da realizzare anche nell’esistenza quotidiana più pratica e laica.
Il trasferimento del romanzo cortese in italiano avvenne soltanto attraverso la prosa, che poneva minori problemi compositivi rispetto alla poesia. Si volgarizzano e si adattano numerosi romanzi o opere che inseriscono racconti ed exempla entro cornici o situazioni più ampie, atte a motivare quelle narrazioni.
Determinante per lo sviluppo della novella è anche il rapporto con le fiabe popolari e coi racconti orali delle brigate aristocratiche e cittadine, che incarnano il gusto della parola precisa e graffiante, sempre più svincolata da destinazioni morali.
Il narrare breve manifesta una crescente autonomia, come testimoniano le circa 100 novelle del cosiddetto Novellino, una raccolta di ambiente fiorentino (1280-1300) .Un breve prologo sottolinea che la materia della raccolta è costituita da “alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli riposi e di belle valenti e di belli donari e di belli amori”; essa viene destinata ai cuori “gentili e nobili”, per fornir loro occasione di “ argomentare dire e raccontare” a vantaggio di “coloro che non sanno e desiderano sapere”. Il libro viene dunque presentato come un repertorio di gesti, atti e parole che i nobili e i gentili possono riprendere e imitare per dilettare gli altri; e questi gesti possono fornire piacere proprio perché sono signorili e degni, peculiari di cuori e intelligenze superiori.
Le singole novelle molto brevi e rapide tendono a mettere in luce proprio i fiori indicati nel prologo: più che intrecciare eventi, preferiscono creare ogni volta una scena risolutiva in cui si impone l’esemplarità di un’azione o di un detto. È fittissima la presenza di temi feudali e cavallereschi, derivati dai testi francesi e dalle versioni cortesi della storia antica.
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