L'Egitto e la Grecia

Materie:Tesina
Categoria:Letteratura

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Testo

INQUADRAMENTO STORICO:
FORMAZIONE DELL’EGITTO E SUCCESSIONE DELLE DIVERSE DINASTIE
Tutto ciò che rientra nell’ambito di quella che convenzionalmente, viene indicata con l’espressione “religione egizia”, per essere compreso nel suo significato, deve essere collocato all’interno della millenaria storia dell’antico Egitto, dall’epoca della sua formazione, chiamata predinastica, a quella del suo declino e fine, nel periodo tardo, corrispondente alla conquista del Regno dei Faraoni da parte di Alessandro Magno.
Le informazioni sulle vicende storiche dell’Egitto antico, provengono da diverse fonti.
Accantonando le testimonianze archeologiche, di grande valore sono le documentazioni dirette, quali lettere, autobiografie, liste di sovrani, iscrizioni di templi, ecc., nonché le notizie, seppur disorganiche e sempre meno attendibili quando si riferiscono a notizie relative a tempi più antichi, lasciateci da Erodoto, Manetone e da altri scrittori classici.
Fu durante il Regno di Tolomeo II Filadelfo, quando l’Egitto era ormai ellenizzato, che l’egiziano Manetone, vissuto negli ultimi anni del IV secolo a.C. e nella prima metà del secolo successivo, scrisse in greco la sua famosa “Storia dell’Egitto”su richiesta del faraone stesso.
Questo alto sacerdote di Heliopolis comprese nella sua opera non solo argomenti storici, ma anche la filosofia mistica e la religione del suo paese: i suoi libri furono la fonte primaria delle conoscenze su tutte le cose egiziane, da cui Plutarco e gli scrittori più tardi, trassero le loro informazioni.
Manetone derivò le sue informazioni dalle iscrizioni geroglifiche nei templi e da altre registrazioni sacerdotali, ma purtroppo, i suoi scritti non ci sono giunti intatti: essi sopravvivono in riassunti frammentari e confusi, preservati nelle opere di Giuseppe Flavio e di altri autori classici, che spesso usano le citazioni per sostenere i loro punti di vista piuttosto che come precisi riferimenti storici.
Per questo, grandi sono le difficoltà nel dare una cronologia ai vari Regni e dinastie, anche perché, nei tempi più antichi, l’impero egiziano si sviluppò essenzialmente restando isolato e non fornendo quindi agli storici, riferimenti con altre civiltà, dalle quali poter desumere delle datazioni comparative.
Ora però, grazie a metodi quali la datazione al carbonio 14 e soprattutto alla diligente correlazione di tutti i dati disponibili, si è potuto stabilire un quadro abbastanza degno di fede di 3000 anni di storia egizia.
Diecimila o ventimila anni fa, l’aridità crescente del Sahara, spinse i cacciatori nomadi, nella valle del Nilo e nel Delta, dove essi svilupparono l’agricoltura e l’allevamento.
All’origine, le famiglie erano raggruppate in clan, ciascuna con la sua divinità locale, spesso rappresentata da un animale totem (=rappresentazione animale dell’avo mitico). Più tardi, tutte queste divinità divennero l’emblema dei nomi o hespu, 42 o 44 piccole città-stato (stando alle liste egiziane dato che molti scrittori classici, come Strabone, Diodoro e Plinio non concordano con queste cifre) che in tempi storici, circa 6000 anni fa, si fusero in due Regni, quello della Valle o dell’Alto Egitto e quello del Delta o del Basso Egitto.
Inizia così quella che va sotto il nome di fase predinastica, ossia la fase che precede l’unificazione dell’Egitto ad opera di Narmer (il Menes della tradizione greca) e che schematicamente può essere così rappresentata:
PRIMO PERIODO PREDINASTICO (4000-3600 a.C.: età neolitica e calcolitica)
CITTA’-STATO (nomi o hespu):
) AL NORD (Delta) si fondono per formare 2 STATI CONFEDERATI:
1) STATO AD OVEST S • HORUS (dio falco)
• BEHEDET (capitale)
2) STATO AD EST S • OSIRIDE (dio)
• BUSIRIS (capitale)
si uniscono in un unico stato nella seconda
metà del IV millennio a.C. con: • HORUS come dio
• BEHEDET come capitale
AL SUD (Valle) si fondono e si costituisce 1 REGNO con:
• SETH come dio
• OMBOS come capitale
MEDIO E TARDO PERIODO PREDINASTICO (3600-3200 a.C.)
1) STATO DEL NORD 1 conquista lo Stato del Sud che per questo si rivolta,
causando una nuova scissione a cui però segue una
riunificazione dei 2 Regni in un unico stato ad opera dello
Stato del Nord
S formazione di uno STATO UNIFICATO, dominato da HORUS vincitore su SETH e con CAPITALE a HELIOPOLIS
H
città consacrata a RA-ATUM, dio creatore e dio solare
e per questo scelta dai conquistatori del nord
c
rappresentati sul coltello di Gebel el-Arar come uomini dalla testa rasata brachicefala, diversa da quella degli individui della popolazione indigena, che si dichiarano “Seguaci di Horus” ma portati anche al culto solare (Shemsu-Hor = coloro che seguono la via di Horus ossia la via solare o i sentieri di Ra). Si tratta evidentemente di una popolazione straniera, di probabile provenienza asiatica stabilitasi presso il Delta già dai tempi della formazione dei due Stati confederati.
2)STATO DEL SUD 2 si rivolta nuovamente determinando una nuova scissione
dell’Egitto in 2 REGNI INDIPENDENTI
2
NORD SUD
• HORO (dio) • HORO (dio)
• PE (capitale) • NEKHEN (capitale)
3) STATO DEL SUD 3 si rivela essere il conquistatore con Nermer (Menes) che
sta per riunificare i due Regni in uno Stato centralizzato.
E’ proprio con l’unificazione dell’Alto e Basso Egitto sotto un unico Faraone, attorno al 3200 a.C., che Manetone fa iniziare la sua lista di re, prendendo questo evento come inizio della storia egizia.
L’autore suddivide la successione dei vari sovrani in 31 dinastie, la cui esatta durata però, viene indicata solo in pochi casi, nonostante gli Egizi fossero soliti datare gli avvenimenti con il sovrano regnante, a partire dal primo anno di regno in poi e ricominciando da capo a ogni cambiamento di Faraone.
Questa lunga lista di dinastie e sovrani, in tempi recenti, è stata suddivisa dagli egittologi in un certo numero di periodi storici (Antico Regno, Medio Regno, Nuovo Regno, Tardo Periodo Dinastico), ciascuno caratterizzato da una civiltà più o meno omogenea e diviso dagli altri da interludi di confusione politica.
LA “RELIGIONE” DELL’ANTICO EGITTO:
• PREMESSA:
Come i Greci, anche gli abitanti dell’antico Egitto non concepivano alcuna differenza tra azioni sacre e profane, dal momento che ogni azione, non importa quanto mondana, era concepita come simbolo terreno di una specifica attività divina. Per questo, nella lingua indigena non esisteva una parola corrispondente al termine “religione”, nonostante questo aspetto fosse particolarmente sentito dalla popolazione egizia. Il fatto era che, quella che ora noi chiamiamo religione, in Egitto era un concetto così ampiamente accettato e intrinseco nell’esistenza del singolo e della collettività, che non necessitava neppure di un nome.
Nel plasmare il loro modo di pensare, gli Egizi furono certamente influenzati dall’ambiente che li circondava: una terra ricca di antitesi, alla cui osservazione non potevano che seguire una concezione del mondo come dualità di elementi opposti e una costante necessità di stabilirvi un equilibrio. Quest’ultima esigenza si manifestò non solo nelle diverse espressioni artistiche dominate dai parallelismi, ma anche nella politica con la creazione delle “Due Terre” e soprattutto nella sfera etico-religiosa in cui sulla regolare lotta fra forze opposte, dominava sempre la concezione della “macat”.
A differenza dei Greci o di altre grandi civiltà, gli Egizi non avevano alcuna cosmogonia che insegnasse loro come in principio l’uomo fosse caduto sfidando un dio, o che l’uomo una volta fosse vissuto nell’età dell’oro dalla quale poi era decaduto. Nella psiche egiziana si riscontra una completa mancanza di ogni senso di colpa: l’ansia fondamentale non si traduceva nella necessità di essere retti nei confronti di un dio, ma di essere in perfetta armonia con la norma di“macat”, creata dal dio stesso e che a seconda del contesto poteva assumere il significato di “ordine”, “verità”, “giustizia”.
Le forze del male potevano talora abbattere questo “ordine cosmico naturale” creando disordine e caos sotto ogni punto di vista, finché con un rito magico o l’avvento di un nuovo re, dio incarnato, l’equilibrio veniva restaurato. Se l’Egizio si comportava male perciò, agiva oggettivamente contro il sistema divino della “macat” e non personalmente contro un dio supremo. Solo con il venire meno della fiducia di fronte alle crescenti avversità nel corso del Tardo Periodo Dinastico, gli Egizi fecero sempre più assegnamento su interventi soprannaturali, sugli oracoli, oroscopi, incantesimi, amuleti e tutto l’apparato di arti magiche che suscitarono la meraviglia dei Greci e dei Romani.
• LE “DIVINITA’” PRINCIPALI:
Le inclinazioni politeistiche degli antichi Egizi appaiono più che evidenti, ma molti studiosi vedono i numerosi dèi adorati nei periodi pre- e dinastici, come aspetti di una singola forza creativa. Per questi studiosi infatti, in senso stretto, la religione egizia è monoteista. Gli antichi Egizi in tal senso, consideravano l’universo il risultato di un atto cosciente di creazione da parte di “una sola incomprensibile potenza, unica, inseparabile dal Nun, l’indefinibile oceano cosmico, al di fuori di ogni nozione di spazio e di tempo” (Testi delle Piramidi). La dottrina fondamentale, comune a tutti i periodi e a tutti i centri iniziatici (Heliopolis, Menfi, Hermopolis e Tebe), ruotava, insomma, intorno al concetto dell’unità della deità, di cui però non esisteva una sola immagine rappresentativa. Quelle che venivano rappresentate,in tal senso, erano le funzioni e gli attributi del suo regno e solo quando si faceva riferimento a queste sue funzioni/attributi, l’unico, l’Eterno, diveniva un’entità ben distinta, definita nei propri ruoli e influenze sul mondo. Le diverse funzioni e attributi erano chiamate “neteru” (al singolare “neter” per la forma maschile e “netert” per quella femminile).
Ne consegue, quindi, che un neter o una netert egizia, non fossero rispettivamente un dio o una dea, bensì la personificazione di una specifica funzione/attributo dell’unico dio, che ai fini della semplificazione e per spiegare queste nozioni astratte degli attributi divini, gli Egizi rappresentarono con delle immagini standardizzate antropo- e zoomorfe.
Nonostante l’importanza di questi concetti, le cui origini risalgono all’epoca preistorica, la complessità della mentalità egizia sembra andare ben oltre. Infatti, all’unicità e alla coerenza, questo grande popolo, per molti aspetti misterioso, oppose una grande varietà di metafore, tanto che il modo di vedere la realtà, si concretizzava in una molteplicità non indifferente di approcci, contrasti e apparenti contraddizioni: la rappresentazione di un concetto quasi sempre con il suo inverso come un’entità indivisibile, oppure la percezione della simultaneità dei punti di vista, sono solo alcuni esempi di questa complessità.
E’ per questo che nell’ambito del discorso pertinente la questione delle divinità, o per essere più precisi, dei neteru egizi, sorge la necessità di mettere in luce qualche distinzione, tracciando, se pur in maniera del tutto arbitraria, la seguente classificazione:
1) DIVINITA’ INDIGENE o APPARTENENTI AI NOMI DEI PERIODI PREDINASTICI
2) DEI-RE o DIVINITA’ INCARNATE
3) DIVINITA’ DERIVATE DA FONTI STRANIERE
4) I NETER EPAGOMENI
NLa prima categoria è costituita dalle divinità indigene, adorate nelle epoche predinastiche nei vari nomi, ognuno dei quali aveva una divinità rappresentativa, il cui tempio si trovava nella capitale di quel nomo. In questi templi operavano i sacerdoti, a cui erano affidate la manutenzione dell’edificio e delle costruzioni associate, l’educazione religiosa del popolo e altri compiti, quali le guarigioni, lo svolgimento dei riti, nonché la mummificazione dei morti.
E’ lecito attribuire alla religione nomica accentuate caratteristiche panteistiche, animiste, nonché sciamaniche, dal momento che i sacerdoti indossavano maschere per compiere i loro riti, assumendo così il ruolo dello stesso dio, ma col tempo, molti animali e feticci del periodo preistorico assunsero caratteristiche umane e si installarono saldamente come divinità. Poiché, inoltre, gli Egizi non potevano concepire un dio senza una famiglia, ben presto si aggiunsero mariti, mogli e figli, con la comparsa delle famose triadi.
Il cielo divenne così, la dea Nut o Hator, di cui gli uomini vedevano il ventre stellato sospeso sopra di loro. La Terra, d’altro canto, era vista come mascolina ed era rappresentata come un uomo disteso bocconi, dalla cui schiena spuntava tutta la vegetazione del mondo e a cui fu dato il nome di Geb.
.Per quanto riguarda la seconda categoria, gli dei-re o le divinità incarnate, per molti secoli i Faraoni, furono considerati figli degli dèi e venerati di conseguenza. Esistono, in merito, due possibili spiegazioni.
La prima è assai semplice: gli Egiziani avrebbero ritenuto che gli antichi capi tribù, incarnassero l’essenza della divinità locale grazie a un “dono” che si trasmetteva naturalmente alla regale progenie. Una credenza che, alla fin fine, potrebbe essere vista come una forma arcaica del “diritto divino dei re”.
La seconda spiegazione si rifà all’antica leggenda degli Shemsu-Hor o Compagni di Horus, i conquistatori penetrati in Egitto dal Nord, che recavano il gene dei loro divini antenati, i Neter. Gli Egizi credevano, in tal senso, che i Faraoni delle antiche dinastie, appartenenti ad un popolo diverso dagli indigeni, avessero trasmesso ai successori questa linea di sangue, tenendosi a distanza dalla gente comune e limitando le proprie unioni alla cerchia dell’aristocrazia.
eQuanto alla terza categoria, le divinità acquisite da fonti straniere e giunte a sovrapporsi nei secoli, alle divinità indigene o a fondersi con quelle, molti dèi egiziani, specialmente quelli del Medio Regno, occupavano già un posto nelle credenze e nei culti delle nazioni circostanti, come per esempio, dèi solari tipo Ra e Ammon, corrispondenti alle divinità di culture vicine o anche assai lontane. Inoltre, alcuni studiosi ritengono che Seth sia stato portato dagli Hyksos, i “re pastori” menzionati da Manetone e di recente identificati dagli egittologi come nomadi di razza semita.
Precedentemente, si è accennato al fatto che gli antichi Egizi, per definire le entità dotate di un potere sovrumano o soprannaturale, usavano la parola Neter, il cui geroglifico, usato sia come determinativo che come ideogramma era una specie di ascia. Sulla base del significato che in epoca preistorica veniva attribuito a quest’arma/strumento presso numerose culture, sembra che si trattasse di un simbolo del potere, comune alle popolazioni indigene assai prima che sorgesse l’Egitto dinastico.
Gli egittologi però, non sono ancora riusciti a mettersi d’accordo sul significato della parola Neter: ipotesi azzardate variano da “rinnovamento” a “forza”, da “potere vigoroso” a “divino”, a “squisito” o “diventare”. Uno studio concentrato sull’uso del termine nei testi geroglifici di svariati anni indurrebbe a credere tuttavia, che il vocabolo si riferisse a una qualche qualità della vita o dell’immortalità, o al potere generatore.
E’ proprio quest’ultimo aspetto che sembra caratterizzare la quarta categoria delle divinità egizie, che si riferisce ai cinque Neter epagomeni Iside, Osiride, Nephtys, Seth e Horus, cioè gli dèi adorati nei cinque giorni intercalcolati o intercalari (dal greco epagomenos: epi=sopra, agein=portare) e il cui avvento trova la sua migliore descrizione, sia pure allegorica, nei racconti a carattere mitico-astronomico , relativi all’introduzione dell’anno di 365 giorni.
Poiché il numero degli dèi adorati nella valle del Nilo si accrebbe col tempo fino ad una cifra considerevole (Thuthmosis III ne contò una somma di 740, senza dubbio composta in larga maggioranza da semplici genii loci, spiriti di sacerdoti, governanti amati o dignitari locali), è più utile limitarsi alle divinità più conosciute e più importanti per i fini di questo discorso.
Ra-Atum: secondo un antico mito egiziano della creazione, Nun (o Nu) era l’oceano primordiale che esisteva prima della creazione e da cui uscì tutta la vita.
Uno dei più noti fra gli antichi dèi egizi, però, era probabilmente Ra o Re, comunemente visto come il simbolo del sole ascendente, in contrasto con Atum, correlato al sole oscuro o nascosto, che doveva ancora sorgere o era già tramontato. Il principale santuario di Ra si trovava a Heliopolis, dove, secondo la leggenda, il dio si manifestò originariamente sotto la forma di un obelisco di pietra detto “benben”, preservato per molti anni in un tempio denominato “il palazzo dell’obelisco”. Secondo il mito, Ra o Atum originariamente dimorò nel seno di Nun finché, per uno sforzo di volontà, si levò dall’abisso e apparve nella luce risplendente che noi ora vediamo come il nostro sole.
Ra generò senza l’intervento di una compagna, Shu e Tefnut (aria e umidità), i divini Leoni Gemelli, i quali a loro volta, generarono Geb e Nut, da cui derivarono Seth e Nephtys, Iside e Osiride
Alla luce di queste leggende e stando alle considerazioni fatte in precedenza, Ra-Atum, rappresenterebbe dunque, la Potenza unica, l’Uno che diventa il Creatore o Demiurgo in quanto totalità potenziale dell’Universo. Tutto ciò a Heliopolis, la grande città del Delta, sede del culto solare. Negli altri “Centri di istruzione” (Menfi, Hermopolis e Tebe) lo stesso ruolo di Ra-Atum, era svolto da una divinità diversa, che in altri luoghi poteva comparire come semplice neteru .
Osiride: è sicuramente uno degli dèi che per la sua importanza, ha un ruolo dominante in tutte le varie teologie egiziane, la cui personalità nel corso dei secoli si arricchì al punto da formare una divinità molto complessa e tuttavia logica nel suo sviluppo.
Osiride apparve a Busiris, dove succedette al dio-pastore Andjty, da cui prese tutti gli attributi. In questa figura divina però, si tenta di vedere un personaggio storico,il primo forse, che giungendo da fuori, durante l’oscuro periodo predinastico, avrebbe unificato i clan del Delta, addirittura l’intero Egitto.
La versione più antica delle sue gesta si ritrova nei Testi delle Piramidi dove Osiride appare come figlio di Geb e Nut e fratello maggiore di Iside, Seth e Nepthis. Un’altra versione, successiva e più ricca di particolari, è riportata da Plutarco nel suo trattato su “Iside e Osiride”. In questo testo, il mito racconta come Geb e Nut avessero generato in successione, durante i cinque giorni epagomeni, cinque figli, di cui il secondo, Osiride, succedette al padre regnando con Iside, sua sorella e sposa. Limitandosi ai momenti salienti della leggenda, il buon re Osiride, che in quanto divino e filantropo aveva insegnato agli uomini l’agricoltura e le pratiche della religione,fu perfidamente assassinato dal fratello cattivo Seth, invidioso di questo regno benefico e che, aiutato da settantadue congiurati, rinchiuse il corpo di Osiride in una cassa gettandola poi nel Nilo. Iside partì allora alla ricerca di questa bara e trovatala si fece fecondare dal marito morto, ma Seth, ancora una volta con l’inganno, si impadronì della cassa e ridusse in quattordici pezzi il corpo del re e lo disperse sulla Terra. Le membra sparse furono raccolte e seppellite dalla moglie Iside, che aiutata da Thoth, Anubis e Nepthis, ricostruì il corpo di Osiride rendendolo immortale attraverso la mummificazione. Seth fu successivamente sconfitto dal figlio di Iside e Osiride, Horus, che divinizzato diventò una divinità con attributi solari e regali.
Iside: il nome di questa divinità era strettamente legato alle leggende del ciclo di Osiride, dato che come sposa di quest’ultimo, Iside appare a Chemnis, nel Basso Egitto al fianco del marito come regina degli uomini, facendo leggi buone e governando il regno con equità. Il geroglifico che la designava era la rappresentazione di una figura femminile con in capo una sedia, tanto che tale raffronto ha permesso di congetturare che Iside sarebbe potuta essere all’origine la personificazione del trono. Tale ipotesi confermerebbe quella secondo cui, in Egitto, il potere si tramandava per via matriarcale.
Inoltre, stando ai Testi delle Piramidi e alle innumerevoli rappresentazioni dell’epoca bassa, Iside veniva presentata come modella delle spose e delle madri, sulle cui ginocchia sedeva il bambino-dio Horus, salvatore degli uomini contro Seth. E’ da tale visione che si affermò la festa di Iside e dei suoi misteri in tutto il mondo greco e in seguito in quello romano: attribuendole una potenza universale, la dea, spesso rappresentata nelle vesti di un avvoltoio appollaiato accanto al corpo di Osiride, diventava la “Madre Universale” dispensatrice di vita e maga.
Seth: il dio, eterno avversario di Osiride, apparirebbe come divinità del Sud, dato che questa regione dell’Egitto era stata unificata nel periodo predinastico in una “confederazione di Seth” prima dell’unificazione avvenuta sotto l’egida di Horus alla fine di questa stessa epoca.
Diversi sono stati i tentativi di spiegare l’antagonismo tra Osiride e Seth, tra cui quello che cerca di trovare in esso una ragione storica: Seth, in quanto dio dell’Alto Egitto, fu perseguitato all’epoca della caduta della confederazione di questa regione sotto i colpi degli adoratori di Osiride e di Horus venuti dal Delta; successivamente, poiché la gente del Sud si era rivoltata e aveva causato in questo modo la fine del primo regno unificato della Valle del Nilo, i seguaci di Horus, attribuirono a Seth la morte di Osiride, simbolo di questo Stato.
I Testi delle Piramidi inoltre, mostrano Seth con l’aspetto di un dio violento, padrone della tempesta, del tuono, delle forze brute del cielo. Per questo suo aspetto, egli appare anche come nemico della luce: tramite la tempesta egli attacca il cielo e il sole, con le eclissi egli strappa l’occhio destro (il sole) o quello sinistro (la luna) di Horus.
Horus:è il dio che nascendo dall’unione di Iside e Osiride, diventa la divinità della monarchia egizia, colui nel quale il re si incarna. I Testi delle Piramidi, riportano la più antica versione della leggenda di Horus, che una volta messo al mondo, venne cresciuto da Iside al fine di vendicare il padre. Una volta adulto Horus ebbe l’ardimento di sfidare Seth; questi gli strappò un occhio durante il combattimento, ma Horus lo riprese e vinse Seth. L’assemblea delle divinità mise finalmente Horus sul trono di suo padre Osiride, mentre Seth fu condannato a sottostargli per l’eternità.
Plutarco arricchisce la leggenda con degli elementi abbastanza antichi, che secondo alcuni autori avrebbero dei fondamenti storici: egli parla di due Horus, l’Horus di Behedet (Horus il Maggiore), che divenne in seguito un dio guerriero fondatore del Regno del Delta, e l’Horus il Giovane, figlio del Maggiore e conduttore della rivolta contro i partigiani di Seth nel Sud. Horus il Giovane avrebbe così unificato l’Egitto e imposto il culto di Osiride in tutta la Valle del Nilo.
Stando a quanto detto dunque, l’origine di questa leggenda potrebbe avere le sue radici nella lotta tra la stirpe dinastica conquistatrice che si definiva seguace di Horus e che con ogni probabilità si infiltrò in Egitto attraverso il Delta, e la popolazione autoctona degli adoratori di Seth.
Horus era una divinità celeste, il cui animale totemico era il falco e con il cui nome si formava il nome dello stesso re, data la stretta connessione di questo dio con la maestà divina.
E’ interessante notare però che ad un certo punto della storia egiziana, ciascun essere umano (e quindi non più solo il faraone) poteva pretendere di identificarsi dopo la morte, con Osiride e con suo figlio Horus.
Thoth: nella preistoria dell’Egitto, appaiono altre divinità, a parte la famiglia di Horus. Le leggende dei fenici parlano di Taut o Thoth come dell’inventore dell’alfabeto o dell’arte della scrittura. Lo conferma, in un suo passo, Manetone, là dove ci dice che, prima del Diluvio, Thoth, inscrisse su certe stele, o tavolette, i principi di tutta l’antica conoscenza in geroglifici, o caratteri sacri. Dopo l’inondazione, il suo successore tradusse il contenuto di quelle stele nella lingua della gente comune.
Secondo i teologi di Hermopolis, Thoth (Teuth, per dargli il corretto nome egiziano), era il vero Demiurgo universale, il divino Ibis che aveva schiuso l’uovo del mondo a Hermopolis Magna.
I Testi delle Piramidi lo indicano come figlio maggiore di Ra, figlio di Geb e Nut, o fratello di Iside, benché, secondo altri documenti, il dio era il visir di Osiride e della sua famiglia e scriba del re. Maat, la dea della verità, era spesso vista come sua consorte, anche se al dio, era attribuita anche un’altra sposa, Seshat o Sesheta. Quest’ultima, era una dea della scrittura e della storia, che come Maat, poteva essere vista anche come un alter ego, piuttosto che come un essere a sé stante.
Gli scritti e i monumenti del passato recano ampie testimonianze, sugli insegnamenti di Thoth in molti campi delle arti e delle scienze, ponendolo così fra gli dèi egiziani di prima grandezza: in quanto dio che si era generato da solo egli era “Uno” e “potente nella parola”, nel senso che la sua parola era efficace. In tal senso, gli scrittori classici si riferivano a questa divinità , come ad uno straniero dotato di una splendida voce e le cui famose “parole di potere” o “hekau” avevano un effetto magico ed escatologico sia in questo che nell’altro mondo.
Quando giunse sul suolo egiziano, Thoth fu profondamente colpito dall’assenza di cultura e di leggi fra quegli abitanti, cosicché si diede a insegnare loro la scienza, la religione, la musica e l’arte, insieme ai suoi compagni.
A questo ruolo di dio-maestro della saggezza e della scrittura, si affianca il legame che Thoth, in base ai testi più tardi che lo indicavano con il nome greco di Hermes (Erodoto, Historiae, II, 138), doveva avere con la tradizione ermetica.
Anubis: detto anche Anpu, lo psicopompo (conduttore di anime) giunse spesso a confondersi con Thoth, benché le energie delle due divinità siano nettamente distinte, avendo ognuna la sua sfera d’azione dal punto di vista del mito e della psicologia umana.
Anubis era il patrono dei viaggiatori, sia corporei, sia disincarnati e per questo designato come il compagno ideale per gli spiriti dei morti, ansiosi di approdare nella confacente sezione dell’altro mondo.
Come mediatore tra questo e l’altro mondo, spesso era ritratto in forma di sciacallo o come uno scuro cane da caccia con la coda pelosa.
Benché i Testi delle Piramidi lo presentino come quarto figlio di Ra, a indicare l’antichità della sua origine, è come rampollo di Nephtys e di Osiride che Anubis aveva più vasta rinomanza: Nephtys, la Nascosta e la Rivelatrice, era originariamente la moglie di Seth, ma dalla sua unione con Osiride nacque appunto Anubis, il “Protettore dell’anima nelle regioni oscure”, a significare che il caos (Seth) non poteva intimorire “colui che ha dominato gli aspetti nascosti e può affrontare la realtà nella rivelazione della verità e dell’armonia”. Queste parole, tratte dal Libro dei Morti, hanno un significato evidentemente mistico-iniziatico, ed è forse per questo suo aspetto misterico che Anubis, come “Apritore delle Vie”, veniva supplicato dai suoi fedeli per uscire dal labirinto della confusione o del dubbio.
• IL CONCETTO DI ANIMA:
La lingua egiziana contiene un certo numero di parole riguardanti caratteristiche di una persona che non hanno a che fare con il suo corpo (kha), quali per esempio, il suo nome e la sua ombra, a cui fu dato un significato spirituale. Quest’ultimo fu assegnato anche a tre fondamentali elementi sottili e immortali dell’essere, i cui significati profondi e attributi però, non si riescono ad apprendere in pieno come accade per “nome” e “ombra”: la “ba”, l’ “akh” o “khu”e il “ka”tradotti per convenzione, rispettivamente, come “l’anima”, “lo spirito” e “il doppio”.
L’ANIMA ( BA): • rappresentata da un uccello (cicogna) che spesso si libra intorno
al corpo del defunto
• entità trasmessa dal padre al momento della concezione, presente
in ogni essere a cui questa qualità della vita animata, legata strettamente al carattere personale dell’individuo, conferisce una forma e che dopo la morte continua a vivere indipendentemente dal corpo che ne è il supporto
• plurale BAU indica gli antenati degli abitanti di determinate città, elevati al rango di divinità protettrici di queste ultime
LO SPIRITO (AKH o KHU): • rappresentato dall’ibis con il ciuffo
• entità opposta al corpo, appartenente al cielo e inizialmente appannaggio degli dei e dei Faraoni, poi estesa a tutti i comuni mortali come io spirituale raggiungibile dopo la morte e l’esperienza dell’incarnazione nella materia.
• plurale AKHU può indicare cose diverse come:
-i demoni intermediari tra le divinità e gli uomini
-gli spiriti dei morti “giustificati”
-gli iniziati al culto di Osiride
IL DOPPIO (KA): • rappresentato da due braccia tese che abbracciano e proteggono
• entità a cui sono stati attribuiti diversi sensi e valori tanto da originarne diverse spiegazioni concettuali. Comunque sia, l’egizio ka, resta un’idea complessa da tradurre con una sola parola. Solitamente si pensa che il ka sia una manifestazione dell’energia vitale, ma questo non spiega perché le statue, le formule e le offerte, venissero dedicate, durante i rituali funerari, al ka;o perché nella tomba si lasciasse una “porta finta” molto stretta, per far entrare e uscire il ka affinché potesse mangiare il cibo delle offerte. Per questo, questo principio astratto, è stato tradotto anche come “doppio”, perché sembrava inerente a ogni oggetto vivente, ma stando alla scritta “questo luogo ove è nato Horus-Seth” (Tempio di Luxor), il ka dovrebbe essere considerato più come l’inverso dell’essere, nello stesso modo in cui Seth è Horus.
• plurale KAU indica gli antenati come impersonificazione di quattordici qualità che ogni individuo possiede fin dalla nascita.
Senza dimenticare che la traduzione dei termini è solo approssimativa, si può riassumere dicendo che lo spirito ,akh, si incarna nel corpo, kha, animato durante la vita dall’anima, ba, e si distacca al momento della morte. Il ka, rimane più o meno attaccato alla vita terrestre in quanto qualità che permette la continuazione della vita nelle sue diverse forme (positive e negative).
• IL CULTO DEI MORTI:
Gli sforzi, il tempo e il dispendio con cui gli Egizi abbellirono le loro tombe, non lasciano dubbi sul fatto che essi si preoccupassero molto della vita dopo la morte. La loro fede in una vita ultraterrena era molto salda e concreta. Gradatamente essi svilupparono un complicato rituale per assicurare vita eterna a ciascun uomo e a ciascuna donna, anche se in tempi antichi sembra che l’individuo abbia riposto la sua fede nella sopravvivenza, dopo la morte, solo del re divino.
I riti del passaggio subirono molte variazioni durante la lunga storia egiziana e il Libro dei Morti ne presenta una vasta raccolta. Nelle antiche credenze, la preparazione per la morte rivestiva una grande importanza, poiché era intesa ad offrire all’anima un agevole passaggio dall’una all’altra dimensione, liberandola dai traumi della paura. Già gli Egiziani dei periodi più antichi, attribuivano una qualche importanza alle ultime ore nella vita di una persona e a ciò che succedeva alla e nella sua coscienza dopo che aveva lasciato l’involucro fisico, assegnandole una natura infinita ed eterna.
Generazioni successive, incapaci di concepire l’immortalità in una qualche sorta di Campi Elisi senza un corpo, tentarono di rimediare elaborando un complesso sistema per preservare il corpo fisico.
I periodi predinastici non conoscevano la mummificazione. Di fatto i popoli del Nord Africa tendevano a bruciare i loro morti o a smembrarli. I corpi destinati alla sepoltura, invece, venivano adagiati sul fianco sinistro con la testa verso sud.
Il culto funerario cominciava fin dal decesso, dal momento che occorreva dapprima procedere all’imbalsamazione, poi ai funerali.
Il primo aspetto, l’imbalsamazione o mummificazione, si basava sulla credenza religiosa secondo cui, il corpo doveva sussistere dopo la morte nella sua forma materiale per poter proseguire la sua vita nell’aldilà. Tale credenza, portò gli antichi Egizi a cercare dei mezzi artificiali di conservazione, che con il passare del tempo si fecero sempre più complessi ed efficaci.
E’ solo con il Medio Regno che la mummificazione si volgarizza trasformandosi da diritto esclusivo del Faraone a diritto anche del popolo, sebbene le tecniche e i rituali impiegati per la conservazione del corpo variassero in base alle classi sociali.
Gli officianti alla pratica, possedevano carattere sacerdotale e si ritiene che per raggiungere questa carica ed essere d’aiuto al defunto, dovessero partecipare a specifici riti di iniziazione, durante i quali, gli adepti dovevano conoscere le parole d’ordine e aver superato difficili e nascoste prove, relativamente alle quali, dato il loro carattere fortemente misterico, è possibile fare solo delle congetture.
Una volta estratti il cervello e le viscere, queste ultime, dopo essere state accuratamente lavate con aromi, venivano depositate nei vasi canopi, che solo a partire dal Tardo Periodo Dinastico, furono dotati di un tappo che riproduceva la testa di ognuno dei quattro figli di Horus, i “geni” che assicuravano il funzionamento dell’organo nel corpo vivente.
Dopo essere stato mummificato, il morto veniva collocato in un sarcofago, che come il tipo di imbalsamazione, prevedeva una differenziazione sociale e che si evolse nel corso del tempo, fino a quando, durante il Nuovo Regno, si svilupparono le bare antropoidi riccamente ornate e decorate di raffigurazioni tratte dal Libro dei Morti.
Tuttavia, non bastava essere trasformati in mummia. Essa restava un essere inanimato finché non le veniva resa la vita tramite il rito funebre dell’ “Apertura della bocca”, a noi noto grazie soprattutto ai testi della XVIII dinastia, come il Papiro di Ani. Bisogna però dire che le leggende riguardanti questa cerimonia, appaiono in grande abbondanza già nei testi più antichi, come per esempio nel capitolo LXIV attribuito alla I dinastia del Papiro di Nu.
Il rito aveva luogo nel corso dei funerali, dopo che la bara, deposta su di una barca, aveva attraversato il Nilo e raggiunto la sponda opposta, dove un corteo la trasportava fino alla porta della tomba. Qui si procedeva alla cerimonia dell’apertura della bocca, accompagnata da un rito chiamato “la violazione dei vasi rossi” di cui in realtà, si ignora il senso.
Il rituale, definitivamente fissato con il testo che l’accompagnava nel Nuovo Regno, consisteva nell’atto simbolico, di rendere l’uso della bocca e degli occhi al defunto, prima che il suo corpo fosse definitivamente murato. Il testo, doveva essere recitato da un sacerdote che fosse “candido e puro da un punto di vista cerimoniale, che non avesse mangiato la carne di pesci o altri animali, e che non avesse avuto commercio con le donne”. Canonica era poi la collocazione di uno scarabeo di pietra verde sul cuore del morto, affinché potesse compiere per lui l’ “Apertura della bocca” e il cui significato nei riti del trapasso è abbastanza evidente, dato che Khepri (la dea scarabeo) era la divinità della resurrezione e della rinascita, aspetti collegati allo spirito o all’anima.
Per svariati secoli, gli studiosi si sono domandati quale potesse essere il significato di questo oscuro rito. Dato che la bocca fisica non era ovviamente l’organo in questione, si potrebbe pensare che il rito originario fosse legato alla capacità del morto di comunicare con i vivi una volta lasciate le sue spoglie fisiche, o con le divinità dell’aldilà al momento del suo giudizio, oppure ancora alla possibilità dell’anima di uscire dal corpo attraverso l’apertura.
Il morto, dopo il rito, era infine deposto in una tomba con delle offerte e la cerimonia terminava con un banchetto funerario che seguiva la chiusura della porta della tomba.
• CONCEZIONE DELL’OLTRETOMBA:
Da uno studio del Libro dei Morti e di altri testi arcaici, si direbbe che, presso gli Egiziani, il concetto dell’aldilà fosse un po’ complicato e confuso. Il motivo probabilmente deriva dalle successive infiltrazioni da religioni di culture vicine, oltre che dalle differenti interpretazioni e traduzioni del Libro dei Morti. Risultato di questo fu una congerie di idee che le varie congreghe sacerdotali cercarono di accordare al clima prevalente nell’opinione dottrinaria.
Abbastanza stranamente, gli antichi testi, tacciono sull’ esatta posizione della dimora celeste, ma è certo che gli Egiziani l’assegnassero a un luogo sopra il cielo e che lo chiamassero “pet” (dimora celeste). Gli antichi Egizi vedevano l’universo come diviso in tre porzioni, il Cielo (Pet e Nut), la Terra e gli Inferi (Duat), ciascuna popolata dalla sua particolare specie di divinità.
La dimora celeste era sostenuta da quattro pilastri che col tempo, si associarono ai quattro punti cardinali e, quindi, ai Quattro Figli di Horus che li rappresentavano.
Gli Egiziani stessi sembrano però, un po’ incerti riguardo a chi abitasse effettivamente nella “dimora celeste” a parte gli dèi. Di fatto, le loro credenze allogavano lassù svariati esseri di diverse classi. Fra questi rientravano gli Shemsu-Hor, o Seguaci di Horus che vegliavano sul trono di Horus e, all’occorrenza lo difendevano dai nemici (uomini che in seguito a iniziazioni speciali erano diventati beati?) e gli Ashemu, entità eteree non necessariamente collegate all’esperienza umana.
In ogni modo, pare che l’opinione generale vedesse gli spiriti degli uomini in coabitazione con gli dèi nella dimora celeste, a patto che si fossero comportati giustamente sulla Terra e si fossero impadroniti dei rituali necessari per un viaggio sicuro verso le “regioni superne”.
Nell’antico Egitto, la morte non era sinonimo di fine, ma piuttosto una fase di transizione che in base alle teorie sostenute dagli Egizi, comportava un processo di trasformazione, che aveva inizio con il momento della valutazione della vita di una persona davanti a Osiride e che si sarebbe concluso con il divenire dell’anima così “giustificata”, “un astro che raggiungerà Ra, per navigare insieme il cielo nella sua nave vecchia di milioni d’anni”.
Secondo la teologia tebana, il Duat, ovvero la regione degli Inferi, non corrispondeva all’Inferno cristiano, né gli Egizi pensavano che si trovasse sotto la Terra o in una qualunque regione sotterranea. Era un luogo del cielo dove Ra, il dio sole, passava dopo che era calato o “morto” per il giorno, e attraverso cui doveva transitare per giungere in quella porzione del cielo in cui sarebbe sorto la mattina dopo. Era nel Duat che i morti venivano giudicati da Osiride, signore degli dèi del luogo e delle anime dei trapassati che vi abitavano. Il Duat era separato da questo mondo da una catena di montagne e gli Egiziani credevano che nella sua valle scorresse un fiume in cui vi abitavano bestie mostruose, spiriti maligni e demoni di ogni forma e dimensione.
I sacerdoti tebani cercarono di incorporare alcune delle precedenti credenze nelle loro dottrine, tra cui la più nota era quella di Amentit, il “luogo nascosto”, originariamente designato come il regno del dio dei morti (Khenti Amentit), il cui nome in seguito, fu usurpato da Osiride, quando assunse una funzione consimile. Il luogo dunque corrispondeva alle regioni del Duat, il quale, per parte sua, era composto di svariate partizioni, dette Pilastri.
Altre interessanti informazioni attinenti al mondo dell’oltretomba, si trovano in una descrizione della vita condotta dagli dèi e della dimora in cui si credeva che abitassero. Secondo un mito, il loro cibo consisteva in un “legno” o una sostanza vegetale dispensatrice di vita che cresceva presso il grande lago nei Sekhet-hetep, dove ascendevano le anime dei beati. Lo stesso mito parla dei defunti prescelti che abitavano in “una bella regione fertile, dove il grano bianco e l’orzo rosso crescevano lussureggianti a grande altezza, e dove i canali erano numerosi e colmi d’acqua, e dove si potevano trovare gioie materiali d’ogni genere” : si trattava evidentemente di una sorta di Paradiso.
• LA VITA NELL’OLTRETOMBA:
Per gli Egizi, l’anima sopravviveva al corpo dopo la morte: una volta mummificato quest’ultimo, la ba partiva per il grande viaggio che doveva condurla davanti al tribunale di Osiride nel Duat e, se “giustificata” nei Sekhet-Hetep.
Affinché l’anima non si perdesse in queste regioni sconosciute, si collocavano nella tomba delle mappe dell’aldilà indicanti l’itinerario da seguire; tali precauzioni compaiono durante il Medio Regno nel Libro dei Due Cammini, una raccolta di formule a carattere topografico, che dovevano aiutare il defunto nel suo viaggio nell’aldilà. Per di più, indicando chiaramente i pericoli incombenti sull’anima durante il suo viaggio, il Libro dei Morti le dava delle formule e delle ricette magiche le quali, unite agli incantesimi e agli amuleti, dovevano permetterle di uscire vittoriosa da tutte le prove.
In tal senso, dall’insieme dei libri funerari si può ricavare la tabella generale che seguiva il percorso dell’anima nel mondo misterioso dei morti.
Lasciando la tomba l’anima si avviava nel deserto occidentale dove incontrava un sicomoro abitato da una divinità, che le offriva del cibo e dell’acqua. Allora cominciavano le prove sui cammini del Duat. L’anima incontrava dei demoni che cercavano di divorarla, doveva poi attraversare un fiume, la cui acqua era in ebollizione e doveva pure bere da quest’acqua. Solamente gli incantesimi e la recitazione delle formule magiche del Libro dei morti, le permettevano di giungere sulla sponda del lago al di là del quale, sulle rive,si scorgeva il palazzo di Osiride.
Giunta al luogo in cui sorgeva quest’ultimo, l’anima era accolta dalle divinità che assistevano Osiride e che la conducevano davanti al tribunale per subire il giudizio.
Così, Anubis, una volta accolto il morto al suo arrivo,lo conduceva per mano nella sala nota come “sala delle due Maat” al cui centro si trovava la bilancia della giustizia, alle cui estremità erano sospesi due piatti. Su di uno era posto il cuore del defunto, mentre sull’altro la piuma, simbolo di Maat. Osiride, presidente del tribunale, sedeva sotto un baldacchino, con Iside e Nephtys ai suoi lati, mentre quarantadue assessori erano davanti a loro. Thoth era vicino alla bilancia, pronto ad annotare su di una tabella i risultati del giudizio. Allora cominciava la confessione del morto (la “dichiarazione di innocenza”), costituita da due parti: dapprima il defunto si rivolgeva al tribunale nel suo insieme, e in seguito alle quarantadue divinità che assistevano Osiride. Se le parole del morto erano vere, il cuore restava in equilibrio con la piuma della giustizia e il defunto era così “giustificato”(giusto di voce o trionfante) e Osiride gli apriva l’ingresso del suo paradiso (Sekhet-hetep), in caso contrario si aggravava dei peccati mortali e la “divoratrice”(mostro generalmente rappresentato come un leone con testa di coccodrillo e la parte retrostante di ippopotamo), si gettava sul defunto per divorarlo. L’idea di una giustificazione morale, aperta a tutti i mortali e presente a partire dalle versioni del Libro dei Morti del Medio Regno, rappresenta un’evoluzione dell’interrogatorio subito dal re prima di salire sulla barca dei “milioni di anni di Ra” all’epoca del suo viaggio nell’aldilà, per adempiere al suo destino solare, descritto nei Testi delle Piramidi.
La vita eterna che attendeva l’Egiziano dopo la sua morte una volta giustificato, era assai simile al tipo di vita che egli aveva vissuto. Avrebbe lavorato i campi o, se ricco, ispezionato tale lavoro, contato il bestiame e il pollame, si sarebbe seduto con magnifiche fanciulle, che gli avrebbero offerto da bere e avrebbero danzato e suonato sulle pareti della tomba, dove i dipinti non erano eseguiti per essere visti. Venivano murati con il proprietario defunto come un mezzo magico necessario ad assicurargli nella vita eterna tutto quanto aveva avuto in quella terrena. In altre parole , gli Egizi credevano di poter portare via con loro la vita terrena.
Dopo essere stata giustificata, l’anima-ba cominciava dunque, la vita d’oltretomba: di notte percorreva le regioni dell’Occidente sulla barca di Ra, mentre durante il giorno essa poteva ritornare alla sua tomba, dove i servizi delle offerte le procuravano il cibo e gli oggetti familiari della sua vita terrestre. L’esistenza diurna dell’anima però, non avveniva unicamente nella sua tomba. Malgrado i vantaggi della vita nell’aldilà, gli Egizi non potevano accettare di non vedere più i vivi dopo la morte. Per questo, i testi funerari ingiungono alle divinità di permettere al morto di incontrare nuovamente i propri genitori, gli amici, i servitori, la donna amata. Questa “uscita durante il giorno” era della massima importanza per il morto e in tal senso si spiega il capitolo XVII del Libro dei Morti , che forniva le formule per penetrare “nel bel Amentit” e per uscirne, sotto le forme a lui gradite.
• I MISTERI:
Nell’antico Egitto si dava il nome di misteri a feste che, da un lato, comportavano manifestazioni pubbliche, o più precisamente commemorazioni delle gesta delle divinità che si mimavano, e che d’altra parte, terminavano con la pratica di riti arcani nel segreto dei templi.
Ci si è posta però la questione di sapere se esistessero nell’Egitto delle epoche più antiche dei misteri del genere di quelli greci, cioè se esistessero culti a carattere segreto riservati ad iniziati che, in seguito a quanto da loro subito, credevano di avere accesso a una vita eterna o al mondo celeste di cui erano originari. A tal proposito, i testi funerari egizi lasciano supporre che la credenza in una vita dopo la morte, per l’eternità, almeno a partire da un certo periodo storico, fosse generalizzata, tanto che si è potuto mettere in dubbio l’esistenza di tali misteri, che non avrebbero aggiunto nulla di nuovo alle concezioni escatologiche degli Egizi.
La questione che si pone in realtà, è quella di sapere se realmente le concezioni escatologiche della maggioranza del popolo egizio fossero anche spirituali (soteriologiche: dal greco soteria=salvezza e logos=ragione,dottrina).
In tal senso, la lettura del Libro dei Morti stupisce per la disparità delle credenze che vi si mescolano, partendo dalle concezioni più materialistiche ed elementari (come l’immortalità nei Sekhet-hetep, intesa come semplice prosecuzione della vita terrestre nei suoi aspetti migliori), affianco ad una visione celeste dell’anima, che “trasformata”, contempla la luce divina nel mondo delle stelle.
Quindi, si ha il diritto di chiedersi, se gli scribi, nello strutturare i testi funerari, non abbiano mescolato concezioni puramente magiche, di origine popolare, con altre di tipo più esoterico.
Così, se la maggioranza delle formule è ben destinata ad armare l’anima-ba del morto per giungere fino al Duat, ve ne sono alcune,che implicitamente riguardano i vivi, come se fossero dei richiami ad un’iniziazione subita dal defunto prima di morire, con evidenti scopi escatologico-spirituali.
Ipotizzando che l'Egitto antico avesse conosciuto realmente espressioni di iniziazione di questo tipo, sembra comunque, che esse, dato il carattere generalmente riservato attribuito a tali cerimonie, non abbiano mai assunto forme di diffusione "popolare", ma siano rimaste al contrario, legate alla ristretta cerchia della corte del Faraone e all'originale formulazione "stellare" dell'oltretomba egizio.
Si deve a Boris de Rachewiltz, uno dei più prestigiosi studiosi dell'Egitto, un prezioso studio relativo ad un testo che ben illustra il sottofondo "esoterico" della religione egizia, offrendo al contempo interessantissimi scorci comparativi con altri sistemi religiosi. Tale testo è conosciuto come "Libro dell'Amduat", che lo studioso ha preferito rendere, in più libera traduzione, come "Libro egizio degli inferi", che a quanto pare, fu usato solo dai sovrani e da una ristretta cerchia sacerdotale a partire dalla XVIII dinastia, iniziatrice del Nuovo Regno. Nel suo aspetto formale il libro descrive il viaggio che il Sole compie, dopo il tramonto, nelle spaventose regioni infere, per poi riemergere vittorioso, assumendo l'aspetto di Khepri (il sacro scarabeo, simbolo della rinascita).
Il carattere particolare di questo libro consiste nel suo contenuto "gnostico": esso infatti fa da guida non al morto, bensì al vivo, che vuole sconfiggere l’apparente ineluttabilità del suo destino mortale, attraverso la conoscenza perfetta del divino e dunque di sé stesso: in tal senso, non è errato definire "morto" il non-iniziato, in quanto é solo dopo lo svegliarsi al termine dell'iniziazione che si configura lo status di "vivente".
Il fine effettivo di tali conoscenze era quindi raggiungibile attraverso il possesso delll'Akh, lo “spirito del divino nell'umano", il più alto principio per l’uomo egizio, appannaggio in origine del solo Faraone. Era esclusivamente il possesso di una tale superiore qualificazione interiore, associata alla conoscenza delle hekau (le parole di potere), che rendeva possibile la "revulsione", ovvero il passaggio dal piano umano a quello divino. Tale revulsione operava una totale trasformazione del soggetto in quanto, durante il viaggio, l'anima vagante si trovava a vivere esperienze drammatiche dovute alla presa di contatto con le radici stesse del sacro.
Lo scopo delle iniziazioni era quindi quello di presentare all’uomo delle nuove esperienze di tipo mistico, partendo dal presupposto che la morte fisica non fosse altro che una metamorfosi della coscienza. Per l’iniziato l’anima, dopo aver varcato la Soglia, percorreva le successive tappe di un’evoluzione: nascendo sulla Terra, l’uomo moriva per il mondo dell’aldilà, le sue potenzialità sovrumane subivano un’eclissi. La morte terrestre era invece una nuova nascita, una rinascita nello spirito, un ringiovanimento dell’io profondo: libero dalla prigione materiale poteva vivere l’esperienza di una libertà totale.

(ASSIMILAZIONE E ADATTAMENTO DI UNA CULTURA MILLENARIA)

L’Egitto, fin dalle origini della civiltà greca aveva esercitato su di essa una particolare attrattiva, presentandosi come un paese sacro per l’imponenza dei monumenti, il mistero delle sue dottrine e delle sue scritture geroglifiche. Ma se nella concezione greca, l’Egitto era il paese degli dèi solenni e misteriosi e dei miti profondi, esso appariva anche come la tipica terra delle superstizioni, delle cose strane e complicate.
Sebbene sia difficile individuare i tramiti attraverso i quali la civiltà egizia possa aver fatto sentire in Grecia la propria influenza, è certo che già in epoca antica i rapporti tra il mondo greco e l’Egitto furono molteplici e importanti.
Per Erodoto i grandi saggi dell’antica Grecia erano andati a cercare la conoscenza presso i saggi egiziani. Molti fra loro erano stati iniziati ai “Misteri” ed avevano assicurato così la trasmissione della conoscenza egiziana verso il mondo ellenico. Il primo dei sette saggi, Talete di Mileto (624-548 a.C.), frequentò i sacerdoti egizi e misurò le piramidi con Solone (640-558 a.C.), che giunse diverse volte in Egitto dove discusse di filosofia con i sacerdoti, esortando successivamente Pitagora a recarvisi. Secondo Giambico, quest’ultimo, studiò nei templi egiziani per ventidue anni, dopo i quali si stabilì a Crotone, in Italia, dove fondò una scuola per insegnare secondo la tradizione delle scuole dei Misteri egiziane. Diodoro Siculo riferisce che Orfeo viaggiò in Egitto, dove venne iniziato ai Misteri di Osiride. Di ritorno nel suo paese istituì nuovi riti, i Misteri orfici (verso il VI secolo a.C.), che coerentemente , Plutarco precisa essere, insieme a quelli bacchici, d’origine egiziana e pitagorica.
Diodoro inoltre, riporta che gli Ateniesi osservavano ad Eleusi dei riti simili a quelli degli egiziani. Nel V secolo a.C. Erodoto visitò l’Egitto, dove assistette ai riti e parlò con i sacerdoti. Nei suoi racconti evoca i Misteri di Osiride che si celebravano a Sais. Nella documentazione, si dice poi, che il filosofo greco Democrito di Ardere (460-370 a.C.), scopritore dell’atomo, fosse stato iniziato nei templi egiziani, diventando allievo dei geometri del Faraone. Platone d’altro canto sarebbe rimasto tre anni in Egitto e iniziato dai sacerdoti e così anche uno dei suoi discepoli, Eudossio di Cnido (405-355 a.C.), matematico e geometra, viaggiò attraverso le terre del Nilo dove fu iniziato sia sul piano scientifico sia su quello spirituale. Strabone infine, frequentò i sacerdoti di Heliopolis per tredici anni. Anche Plutarco, amico dell’imperatore Traiano e membro del collegio sacerdotale, cercherà la conoscenza sulle rive del Nilo, dove era stato iniziato da Clea una sacerdotessa di Iside e Osiride, i cui misteri ispirarono il suo libro “Iside e Osiride”, in cui Plutarco sottolinea l’importanza dell’astrologia e dei culti egizi.
Gli dèi dell’Egitto erano conosciuti nella Grecia classica, e talora venivano identificati in divinità greche di carattere simile oppure, adattandosi in diversa misura alla mentalità religiosa dei Greci, essi mantennero distinte le proprie caratteristiche e i propri nomi.
Bisogna però dire che, se di alcune divinità egizie si trovano tracce in Grecia già in epoca classica, soltanto nel periodo ellenistico, inaugurato dalle conquiste di Alessandro, si ebbe quella apertura verso le “terre d’Oriente” che portò all’ellenizzazione più o meno profonda di esse, mentre la civiltà egizia, da parte sua, si disponeva a far conoscere all’Occidente l’antica sapienza maturata all’ombra dei suoi templi millenari.
Tra le cause che contribuirono alla diffusione in Grecia di culti e credenze religiose egizie, sicuramente vanno annoverate le condizioni politico-economiche, ma soprattutto motivi di profonda inquietudine spirituale, nonché ragioni di insoddisfazione nei confronti dei valori religiosi tradizionali. Tale processo di graduale deprezzamento era cominciato in Grecia con la critica demolitrice della filosofia, ma questa stanchezza nei confronti della religione tradizionale non dà una spiegazione esauriente del perché il mondo greco fu letteralmente conquistato dalla religione egiziana.
Infatti, anche gli dèi egizi erano inseriti in un pantheon in qualche modo politeistico e fatti oggetto di narrazioni mitologiche complesse, ma la religione egiziana poteva offrire qualcosa di nuovo e di diverso agli spiriti desiderosi di un’autentica fede religiosa, piuttosto che di sistemi filosofici continuamente soggetti a contraddizioni e speculazioni. Essa si imponeva con l’autorità di una millenaria tradizione, garanzia di profonda sapienza e di salda dottrina, e insieme con il fascino di un rituale complesso e misterioso, capace di soggiogare gli animi inclini al misticismo. Gli dèi egizi erano i portavoce di una escatologia che soddisfaceva le speranze dei loro adepti in una vita beata nell’aldilà. Infine, un’altra ragione del favore incontrato dalla religione egizia, va individuata nel fatto che i suoi culti, assumevano spesso la forma di “misteri”, cioè di celebrazioni rituali riservate ad una cerchia ristretta di “iniziati”, di individui abilitati a partecipare a tali riti e impegnati a mantenere il segreto sul contenuto di essi nei riguardi dei profani. La partecipazione al “mistero” si fondava dunque, sulla libera scelta dell’individuo, il quale, aderendo ad una “comunità religiosa”, acquisiva una nuova qualificazione che caratterizzava la sua esistenza.
Tuttavia, è difficile dare una definizione totalmente esauriente del concetto di “mistero egizio”, in riferimento alle celebrazioni religiose che gli iniziati compivano nel segreto dei loro santuari e che vennero recepite dal mondo greco. In maniera alquanto generica, si può dire che i “misteri” di origine egizia, si fondavano su un vecchio sostrato naturistico, tutto attento al ciclo annuale della vegetazione e al benessere collettivo del popolo, al quale però ben presto, si sostituì un interesse per la sorte dell’individuo, in questa vita e soprattutto nell’altra. Un indizio di ciò, sembra essere la convivenza in tali culti di due aspetti, difficilmente separabili, cioè quello di riti pubblici, con cerimonie a cui partecipava tutta la cittadinanza, e quello di misteri celebrati in segreto dagli iniziati. Alla luce di tutto questo, è evidente come l’antico regno dei Faraoni abbia esercitato sulla Grecia, e in specifico, sui suoi movimenti misterici, un’influenza religiosa profonda e durevole.
Tra le numerose divinità del pantheon egiziano, quelle che, in modo più evidente, imposero al mondo greco il loro culto e le dottrine ad esso collegate, appartengono al ciclo mitico ed unitario della coppia divina formata da Osiride e da Iside, a cui si aggiunge il figlio Horus, vendicatore del padre e suo erede legittimo, riconosciuto tale dall’assemblea degli dèi dopo lotte e peripezie varie. Questi tre personaggi divini, erano i protagonisti della drammatica vicenda di cui, come si è visto, le antiche fonti egiziane e non, non davano una narrazione unica, ma piuttosto diverse versioni più o meno coerenti, oltre che sparsi riferimenti contenuti soprattutto nei testi funerari.
Al centro di tale vicenda era Osiride, dio della vegetazione connesso in maniera specifica alle acque fecondanti del Nilo, ma insieme presentato come un re saggio delle origini, sul cui cadavere smembrato dal fratello Seth, Anubis compiva i riti funebri, attraverso i quali conferiva ad Osiride una nuova vita, ma nel mondo degli Inferi, in cui egli sarebbe stato re e giudice. Tali riti funebri avevano un carattere “prototipico”: come Osiride attraverso essi, aveva ottenuto la vita,così ogni defunto, per il quale fossero state compiute nella dovuta forma le cerimonie funerarie, poteva sperare di giungere nei Sekhet-hetep e diventare egli stesso un Osiride.
La leggenda di Osiride era al centro di una serie di celebrazioni, svolte nel mese di novembre per ricordare la morte del dio, che si basavano sulla rappresentazione della sua vicenda come mistero, specialmente nelle antiche città di Denderah e Abydos. Con lo svolgersi del dramma, che a volte veniva effettuato al chiaro di luna in grandi barche sui laghi sacri, i grandi sacerdoti spiegavano il senso di ogni parte ai partecipanti, che per diverse notti assistevano a tutta la cerimonia e a cui però non era concesso di vedere gli ultimi atti, fintanto che non avessero perfettamente compreso i precedenti.
Le antiche fonti egiziane parlano di queste celebrazioni come di feste pubbliche, e non offrono in tal senso elementi sufficienti per affermare che il culto di Osiride costituisse un “mistero” nel senso pieno del termine, cioè un complesso di riti a cui potevano partecipare solo delle persone sacralmente qualificate (iniziati) le quali, dimostrando una particolare devozione verso il dio, ritenessero di ottenere una certa assimilazione al suo destino e quindi una sorte più garantita nell’altro mondo in senso spirituale.
Tuttavia, le manifestazioni esasperate di dolore e di gioia, nonché le complesse credenze che stavano dietro a questi “misteri”, potevano essere oggetto di derisione oppure, di profonda ammirazione da parte degli stranieri occidentali.
A tal proposito, furono sicuramente il fascino misterioso delle cerimonie e il profondo coinvolgimento dei partecipanti, che contribuirono a far sì che i Misteri di Osiride, dall’Egitto fossero portati e trasmessi in Grecia da uno “Hierofante”(dal greco hieros=sacro e phainein=mostrare), che in tal modo, stando a quanto detto dalle testimonianze, contribuì a formare quello che con l’espressione “ciclo sacro”, venne rappresentato e personificato con il nome «Orfeo ». Il mito dice, infatti, che Orfeo portò dall’Egitto in Grecia “le Feste Dionisiache delle Orge che venivano celebrate in onore di Bacco nella oscurità della Notte”.
D’altra parte, l’identificazione di Osiride con Dioniso, basata sulle evidenti analogie tra le specifiche caratteristiche dei due dèi e dei loro rispettivi miti (riconduzione in entrambi i casi a vecchi culti di fecondità basati sullo smembramento, e a un tipo di religiosità misterica in cui è presente un’aspirazione ad un rapporto particolare con la divinità, basato su una vaga fede nella salvezza spirituale dell’uomo) si accompagna anche in Erodoto e nella tradizione posteriore (Diodoro Siculo, Plutarco).
Sull’esempio dei Misteri di Osiride, in Egitto venivano celebrati anche quelli in onore di Iside, che nel mito, appariva come una sposa fedele e una madre sollecita per la sorte del figlio. Anche questa dea e la religiosità ad essa associata, esercitarono sulla Grecia una particolare attrattiva. In tal senso, dati i suoi aspetti materni e fecondi e il carattere di divinità della natura, Iside non tardò ad essere identificata con la greca Demetra, contribuendo soprattutto, come era successo nel caso di Osiride nei confronti di Dioniso, a sviluppare le particolari concezioni legate ai Misteri della dea ellenica.
Alla religione isiaca infatti, fu connesso tutto un patrimonio di dottrine escatologiche, fatto poi proprio dai misteri demetriaci di Eleusi . tali da soddisfare i bisogni spirituali di quanti sentissero la necessità di garantire il proprio destino futuro. La prospettiva che Iside offriva al suo devoto, con il partecipare ai Misteri a lei dedicati, era quella di una vita beata e serena e di un eventuale prolungamento di essa oltre i limiti fissati dal destino.
E’ in tal senso che la “vita” nell’aldilà dell’iniziato ai misteri isiaci, si inserisce in una prospettiva in qualche modo affine a quella connessa alla dottrina eleusina, nel godimento della luce che emana la figura divina, oltre che nel momento contemplativo. La stessa cerimonia connessa al culto di Iside e descritta da numerose testimonianze, presenta evidentissime analogie a quella che caratterizzava i Misteri di Eleusi: la presenza di una processione solenne costituita da sacerdoti e inziati portatori di vari oggetti rituali, il momento dell’iniziazione frutto di una scelta individuale che avrebbe portato ad un contatto più intimo con il divino, e infine il culmine del rito nel mistero del tempio dove l’adepto, si “accostava al confine della morte” e “nel mezzo della notte vedeva il sole risplendere di fulgida luce, si accostava da presso agli dèi inferi e li adorava da vicino affinchè concedessero la fresca acqua alla sua anima” (Apuleio, Metamorfosi, XI,23).

IL LIBRO DEI MORTI: DEFINIZIONE E DIVERSE REDAZIONI
Una visione diretta delle credenze e dei fini culturali dell’antico Egitto e una dimostrazione di quanta attrazione esse esercitarono sulla cultura greca, si possono avere prendendo in considerazione una delle numerose versioni di quello che per convenzione viene definito “Libro dei Morti”, uno dei testi più sacri per gli antichi Egizi, per i quali doveva essere qualcosa di simile a quello che è la Bibbia per i fondamentalisti cristiani dei nostri giorni: un’opera presa troppo alla lettera, specialmente nelle dinastie più tarde, quando i suoi significati originari, senza dubbio, erano ormai velati dalla nebbia del tempo.
Nell’arco cronologico che attraversa tremila anni di storia egizia, il Libro dei Morti, si colloca in una fase abbastanza tarda. Infatti, è solo con il Nuovo Regno e più precisamente con la XVIII dinastia che fanno la loro comparsa i testi magici funerari scritti su rotoli di papiro, che costituiscono questa importante opera. Tuttavia, per gli Egiziani i suoi contenuti, erano estremamente antichi, tanto che già poco dopo la sua comparsa, le sue dottrine furono viste come antiquate o troppo oscure per le successive generazioni. Il motivo di questa percezione, si spiega con il fatto che il Libro dei Morti in realtà, raccoglieva in modo più o meno arbitrario e parziale su dei rotoli di papiro quelli che un millennio prima della sua comparsa, avevano costituito i Testi delle Piramidi.
Questi ultimi, possono essere considerati senza ombra di dubbio, una delle più antiche testimonianze della letteratura egizia dell’età arcaica e in taluni casi addirittura preistorica.
Si tratta di una raccolta di “formule”, scolpite sulle pareti della camera sepolcrale della piramide dell’ultimo Faraone della V dinastia e dei re e di alcune regine dell’età immediatamente seguente, che si trovano sepolti a Sakkara.
Accanto a questi antichi formulari si collocano, ma in un’epoca un po’ più tarda (XI dinastia), i cosiddetti “Testi dei Sarcofagi”, altra serie di formule redatte in geroglifici nei sarcofagi in legno del Medio Regno, che in parte usurpano le antiche formule dei Testi delle Piramidi per destinarle non più solo alla salvezza del faraone, ma anche a quella di personaggi di condizione non reale.
I Testi delle Piramidi hanno presentato non pochi problemi riguardo alle fonti da cui traggono ispirazione. E’ infatti evidente che le formule scolpite sulle pareti delle piramidi, affondano le proprie origini in un retroterra culturale molto antico e per alcuni versi preistorico.
Un’analisi approfondita ha poi rivelato come le caratteristiche di questi testi, esulino da quelle degli altri testi contemporanei: da una parte c’è un alone di magia (evidente nel bisogno di mutilare i segni della scrittura perché non possano danneggiare il defunto o fuggire dall’iscrizione), dall’altra c’è un’evidente arcaicità della lingua.
La scrittura presenta infatti, caratteri particolari e c’è da sottolineare il fatto che essa, nonostante in Egitto fosse apparsa solo qualche secolo prima dell’unificazione ad opera di Narmer, sia particolarmente evoluta, tanto da aver fatto pensare ad una sua probabile importazione da fuori e più precisamente da qualche lontana regione dell’Asia..
Un sostegno a tale ipotesi sembra essere rappresentato dalle parole di Diodoro Siculo, che scrivendo nel I secolo a.C., dice: “Gli egiziani erano stranieri che, in tempi remoti, si stabilirono sulle rive del Nilo, recando con sé la civiltà della madrepatria, l’arte della scrittura e un linguaggio evoluto. Erano giunti dalla direzione del sole crescente ed erano i più antichi fra gli uomini”.
E’ in tal senso che il Libro dei Morti, in quanto diretta evoluzione dei Testi delle Piramidi e dei successivi Testi dei Sarcofagi, non può essere considerato di origine strettamente egiziana, dato che appunto, nemmeno la sua più antica recensione è ascrivibile alla popolazione indigena. L’opera di fatto, presuppone cognizioni che i nativi non possedevano e si riferisce ad un sistema elaborato di sepoltura che i dati archeologici dimostrano non essere da loro praticato.
Il titolo del libro è improprio, dato che la sua traduzione letterale è “capitoli del giorno
futuro” (Reu nu pert em hru) e l’unico motivo per cui nel 1842 l’egittologo tedesco Karl Richard Lepsius diede a questa serie di formule un titolo così terrificante, deriva dall’attenzione data dall’opera alla vita dopo la morte e alla necessaria preparazione.
Per questo motivo, la raccolta di invocazioni e formule magiche redatte su papiri stupendamente illustrati, ritrovati nei sarcofagi o infilati tra le bende delle stesse mummie, deve essere considerata come una sorta di “guida” non per il vivo ma per il defunto durante il suo difficile viaggio nell’aldilà, che grazie alle istruzioni dei papiri, si sarebbe felicemente concluso con la sua ammissione alla dimora celeste, difesa dal lago su cui il defunto, superata una serie di prove sottoforma di interrogatori, avrebbe potuto navigare per raggiungere l’altra riva.
L’enorme importanza di questo “grande compagno nell’aldilà” del defunto, è particolarmente sottolineata dal fatto che nella sua millenaria storia, il libro è stato oggetto di numerose revisioni e adattamenti, il più delle volte dettati da motivi politici o comunque indipendenti dal significato profondo dell’opera.
In tal senso, i sacerdoti delle diverse teocrazie egiziane, se da un lato erano pronti a rispettare la venerabile età del sacro libro, dall’altro provvidero a compilare opere che manipolavano abilmente le antiche dottrine,al punto da oscurarne o cancellarne molti dei significati originari. E’ per questo, che le cosiddette “tre Recensioni del Libro dei Morti”, non vanno considerate come il risultato di un’evoluzione della cultura o della mentalità egizia, quanto come un adattamento del testo a determinate situazioni politico-religiose.
Tali recensioni possono essere schematicamente riconosciute:
• nella Recensione eliopolitana, iscritta in geroglifici sulle pareti della piramide di Sakkara della V-VI dinastia e sui sarcofagi della XI e XII dinastia.
• nella Recensione tebana, scritta su papiri o dipinta sui sarcofagi nel periodo tra la XVIII e la XXII dinastia e durante la XXI e XXII dinastia.
• nella Recensione saita, scritta su papiri e sarcofagi in caratteri geroglifici durante la XXVI dinastia e quelle successive. Questa, che fu la recensione più usata durante il periodo tolemaico, può essere ritenuta come l’ultima versione del Libro dei Morti.
Al momento, la copia più antica del Libro dei Morti da noi conosciuta, è quella scritta su papiro per Nu, il figlio del “soprintendente della casa o del sigillo, Amen-hetep, e della signora della casa Senseneb”.
Questo preziosissimo documento, risale al primo periodo della XVIII dinastia (1570 a.C. circa) ma del capitolo LXIV, vengono proposte due versioni, una molto più lunga dell’altra e ciascuna preceduta da una nota che assegna una data al testo.
Delle due asserzioni, l’una ascrive il capitolo al periodo della I dinastia, l’altra, al tempo della IV. Entrambe sono da considerarsi corrette, soprattutto nella rappresentazione delle divinità principali, a dimostrazione dell’antichità del loro culto.
La versione del Libro dei Morti presentata dal Papiro per Nu, è quindi ascrivibile a quella della recensione più antica e per questo più importante, ossia la Recensione eliopolitana, detta così perché basata sul sistema teologico introdotto dal clero della grande città del Basso Egitto, che affondava le sue radici nelle religioni totemiche che avevano caratterizzato i nomi dell’era preistorica.
Tale sistema, assumeva Atum (poi Ra) come dio creatore di sé stesso, nonché dell’aria (Shu) e dell’umidità (Tefnut) che insieme generarono la Terra (Geb) e il cielo (Nut) a loro volta genitori di Osiride, Iside, Seth e Nephtys.
Era questa la cosiddetta “Grande Enneade” (gruppo di nove) a cui si aggiunsero altre due Enneadi secondarie con evidenti scopi politici, dal momento che ognuna di esse corrispondeva ad una dinastia che avrebbe dominato sulla Terra.
Poco si sa di che cosa accadde ai libri sacri durante la II-III e parte della IV dinastia, mentre sono attestate ben cinque selezioni di testi della Recensione eliopolitana ancora in uso durante la V e IV dinastia, un periodo che conobbe un grande sviluppo nei riti e le cerimonie funebri.
Tuttavia, è poco probabile che questi testi rappresentassero l’opera completa, soprattutto perché gli stessi sacerdoti introdussero consapevolmente, molti cambiamenti e omissioni, probabilmente perché non sapevano o non capivano di che cosa trattassero realmente gli originali.
I libri sacri, andarono smarriti o furono abbandonati nel periodo fra la VI e la XI dinastia ma ben poco si sa di quanto successe in quell’intervallo, durante il quale, non è dato di registrare alcun mutamento nelle procedure funerarie né alcuna nuova versione del Libro dei Morti.
La XI e XII dinastia videro riapparire varie selezioni incise, tratte dalla precedente Recensione eliopolitana dal momento che quest’epoca, conobbe un temporaneo ritorno agli antichi costumi, forse per una reazione a influenze religiose e politiche esterne.
Dalla XII alla XVII dinastia, si trova un altro vuoto nella storia di questo documento che, con l’avvento della XVIII dinastia, entrò in una nuova fase della sua esistenza: le trascrizioni di questo periodo, infatti, appaiono su papiri, mentre prima erano iscritte solo su bare, sarcofagi, piramidi e statue. Con l’avvento del papiro, che richiedeva minore perizia della pietra ed era notevolmente meno costoso, qualunque persona in grado di leggere e scrivere, o di permettersi i servigi di uno scriba, poteva avere la sua copia e far trascrivere le sue personali invocazioni.
Sede di queste trasformazioni fu Tebe, città del dio Amen-Ra. Per questo l’edizione del Libro dei Morti comunemente usata fra la XVIII e la XXII dinastia è nota come la Recensione tebana, che all’inizio si limitava a copiare i testi di Heliopolis, ma con il passare del tempo, i sacerdoti di Tebe, inclusero il nome del loro dio, che usurpò i poteri di molte delle più antiche divinità assorbendone gli attributi.
I testi di questa dinastia erano sempre scritti in inchiostro nero in colonne verticali di geroglifici, separate le une dalle altre da righe egualmente nere, mentre i titoli dei capitoli e così via erano vergati in rosso. Divennero di uso comune le vignette, ma in questi documenti, tutto fu sacrificato alla bellezza e al colore a spese delle antiche verità. Scriba e artista lavoravano insieme per produrre un’immagine di grande vivacità e movimento, piuttosto che un testo inteso ad ammaestrare.
In tal senso, uno dei più bei papiri illustrati esistenti, riferibile a questa recensione, il Papiro di Ani, omette una vasta parte dei testi, probabilmente per un errore compiuto dallo scriba, piuttosto che per qualche mutamento dottrinale o per un intervento dei sacerdoti.
Durante la XXI e XXII dinastia, caratterizzate da un graduale declino delle capacità artistiche, sia la forma sia il contenuto del Libro dei Morti mostrano notevoli mutamenti. Le imprecisioni abbondano e le istruzioni ricopiate sono grossolanamente eretiche.
Il periodo fra la XXII e la XXVI dinastia, attesta ben poco riguardo all’Egitto religioso e magico, a causa dei rivolgimenti attraversati dalla nazione.
Con l’ascesa dei Faraoni della XXVI dinastia, l’antica religione conobbe una generale reviviscenza e il Libro dei Morti fu oggetto di una nuova redazione purgata di parte delle sovrapposizioni tebane. L’esatta datazione dell’impresa è ignota, ma in generale, si ritiene che un consiglio o un collegio di sacerdoti appositamente nominato abbia compiuto l’opera. Il risultato fu la Recensione saita, corrispondente alla terza fase nella storia del libro, che rimase in uso nel periodo tolemaico, anche se gli scribi del tempo, ormai, paiono ignorare completamente il significato dei testi che copiavano e perfino la corretta disposizione delle vignette aggiunte di loro mano.
Sotto la XXVI dinastia comunque, il Libro dei Morti acquista la sua forma definitiva e l’ordine dei “capitoli” è ormai fissato.
LA LAMINETTA DI IPPONIO, I TESTI ORFICI DI TURI E LA LAMINETTA
AUREA DI PELINNA
Si tratta in tutti e tre i casi di una serie di testi metrici iscritti su sottili fogli d’oro, rinvenuti all’interno di complessi tombali, risalenti ad un periodo che si colloca più o meno tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C.
Le laminette d’oro, manifestano abbastanza evidentemente, il legame che in qualche modo si venne a creare tra le dottrine e la spiritualità dei movimenti misterici greci e quelle egizie, dal momento che in esse, sull’esempio del Libro dei Morti , sono incise delle formule particolari che istruiscono l’anima su ciò che dovrà compiere, una volta giunta nell’aldilà, per reintegrarsi nel mondo divino a cui sente di appartenere, ed essere in tal senso divinizzata.
E’ abbastanza difficile individuare il movimento misterico di provenienza di queste laminette: molti dubitano che esse si debbano definire orfiche pensando piuttosto a Eleusi, anche se il tipo di religiosità che esse esprimono appare evidentemente orfico-dionisiaco.
Nelle laminette si afferma la parentela divina dell’anima, ossia la sua origine divina, che ne legittima le aspirazioni ad un ritorno in quel mondo da cui proviene. L’anima menziona il fatto di aver subito la pena di opere ingiuste, di essere stata abbattuta dalla Moira, il Destino di questo mondo, e in un caso (laminette di Turi) afferma di essere evasa al “ciclo”, e talora conclude: “agnello caddi nel latte”.
BIBLIOGRAFIA CONSULTATA:
GUY RACHET (a cura di) “IL LIBRO DEI MORTI DEGLI ANTICHI EGIZI”,PARIGI 1996
SERGIO DONADONI “LA LETTERATURA EGIZIA”, FIRENZE 1967
CYRIL ALDRED “GLI EGIZIANI: TRE MILLENNI DI CIVILTÀ”, LONDRA 1961
KURT MENDELSSHON “L’ENIGMA DELLE PIRAMIDI”, LONDRA 1974
MURRY HOPE “IL SEGRETO DI SIRIO”,LONDRA 1996
UTET “STORIA DELLE RELIGIONI”, VOL. III, TORINO 1971
LUCIE LAMY “MISTERI EGIZI. NUOVA LUCE SULL’ANTICA CONOSCENZA SPIRITUALE”, MILANO 1982
GRAZIANO ARRIGHETTI (a cura di) “FRAMMENTI ORFICI”, MILANO 1989
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