Illuminismo in Italia

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ILLUMINISMO IN ITALIA

Già nella prima metà del secolo gli intellettuali italiani si erano fatti interpreti di una sentita esigenza di rinnovamento culturale e civile. Quando il moto riformistico ha inizio anche in Italia, essi si impegnano in una serrata polemica contro le vecchie istituzioni, offrendo la loro fattiva collaborazione ai sovrani “illuminati”. Il loro ambiente sociale e la loro formazione non cambiano granché rispetto al recente passato; quasi tutti hanno infatti una cultura specifica, che riflette le tendenze e gli interessi più vivi caratteristici della loro regione di provenienza: ad esempio, molti Napoletani compiono studi giuridici, mentre i Lombardi e i Toscani, che spesso sono aristocratici e proprietari terrieri, hanno per lo più competenze tecnico-scientifiche ed economiche legate alla cura dei loro interessi privati.
Gli illuministi italiani non hanno difficoltà a riconoscere quanto devono alle esperienze europee e francesi in particolare. Tuttavia, in Italia, anche se non mancano studi fecondi e l’impegno a favorire con ogni mezzo il progresso della società, non si raggiungono mai le asprezze polemiche degli stranieri, e, rispetto ai “philosophes” (i “filosofi” francesi), gli intellettuali italiani hanno minore libertà di pensiero e più scarsa autonomia anche nell’azione pratica.
Infatti, una caratteristica specifica del nostro paese è che la maggior parte degli intellettuali riformatori è composta da funzionari e consiglieri statali. Questa veste permette loro, senza dubbio, di aprire una breccia nell’isolamento che ha accompagnato la cultura italiana per quasi due secoli e di partecipare attivamente, appoggiando o suggerendo iniziative concrete, al processo di svecchiamento e di razionalizzazione delle antiquate strutture statali. D’altro canto, il ruolo che ricoprono li costringe non solo a adattare i propri interventi a prospettive di riforma politica diverse da regione a regione, ma soprattutto a rispettare il rapporto di subordinazione allo Stato e al sovrano, che era già tipico dei secoli precedenti. In tal modo resta loro preclusa ogni possibilità di assumere posizioni conflittuali rispetto allo Stato stesso, o addirittura di sovvertire le strutture, come avverrà ad esempio in Francia, con la Rivoluzione del 1789.
L’Illuminismo italiano presenta altri aspetti specifici. Ad esempio, in esso strumenti di espressione tradizionali coesistono con idee e proposte nuove: una prosa agile e moderna, come quella dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, di Cesare Beccaria e di Antonio Genovesi nasce nello stesso momento in cui per trasmettere un messaggio di grande impegno e valore civile, autori come Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri usano con altrettanta efficacia le forme proprie della tradizione classica.
Anche i centri di produzione e di coordinamento culturale già esistenti, come le accademie, cercano di ampliare i propri interessi e obiettivi, uscendo dal campo strettamente letterario per affrontare argomenti di vasta portata sociale, e sostenere idee e iniziative di carattere innovativo; ma ben presto appaiono inadeguati al compito: sorti come associazioni per dibattere e approfondire discipline e argomenti specifici, non possono essere rinnovati in modo tale da rispondere ad esigenze diverse e tanto più vaste. Per questo motivo un gruppo di letterati, già aderenti all’Accademia dei Trasformati, di indirizzo arcadico, fonda a Milano, tra la fine del 1761 e l’inizio del 1762, la battagliera Società dei Pugni. Guidata da Pietro e Alessandro Verri e da Cesare Beccaria, essa si ribella all’impostazione ancora fortemente letteraria propria delle accademie ed elabora un concreto programma di riforma basato su un generoso impegno civile e politico. Due anni dopo, i suoi membri danno vita al primo periodico italiano, di ispirazione illuminista, “Il Caffè”, un vivace mezzo di intervento intellettuale che apre prospettive davvero originali di divulgazione e di confronto delle idee, cercando di interessare e di coinvolgere un pubblico vasto e composito.
In Italia la diffusione delle teorie illuministiche avvenne su piani e livelli diversi: coinvolse aree specifiche e certamente più preparate a ricevere il dibattito dei lumi (tra queste Milano, Venezia e Napoli), produsse un rapido cambiamento negli interessi degli scrittori e nei generi letterari, si attestò intorno ad alcuni problemi principali come la rinascita del teatro, lo sviluppo della letteratura giornalistica, la rinascita di un interesse per le materie economiche e storico-giuridiche, una ripresa della poesia dai toni civili e riformisti. Napoli, grazie anche all’attività dell’Accademia degli Investiganti, fu il primo centro in Italia a introdurre le teorie filosofiche di Descartes e l’atomismo materialistico di Gassendi: a fianco dell’importante università crebbero e si svilupparono le discipline giuridiche e economiche, il cui più illustre rappresentante fu l’abate Antonio Genovesi, che tenne dal ‘54 la prima cattedra in Europa di economia politica, dando luogo a un’intensa scuola di pensiero, più tardi raccolta da Gaetano Filangieri e dall’allievo Ferdinando Galiani. Milano rappresentò invece il centro propulsore delle riviste e dell’editoria, delle riforme civili e della critica, anche se molto moderata, della nobiltà: umanitarismo, filantropismo, politica culturale volta alla modernità, acquisizione del sensismo francese, rinnovamento poetico furono i passaggi più interessanti del ventennio milanese 1755-1775. Un orientamento più marcatamente letterario e mondano spettò invece a Venezia, che fu la città di Vivaldi, di Goldoni, di Casanova, dei pittori Pietro Longhi e del Canaletto, dei fratelli Carlo e Gasparo Gozzi (il primo autore di teatro in perenne polemica con Goldoni, il secondo direttore della “Gazzetta veneta” e dell’“Osservatore veneto”), di viaggiatori e poligrafi come Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli. Nell’ambiente veneziano maturarono la riforma teatrale goldoniana, che ambiva alla costruzione di un teatro moderno, socialmente riconoscibile nella realtà economica e psicologica della Venezia mercantile, ma che dovette subire la contrastata opposizione del tradizionalismo linguistico delle Fiabe teatrali di Carlo Gozzi e di Pietro Chiari.
Gli illuministi italiani accettano da quelli del resto d’Europa l’idea che la letteratura non possa limitarsi a restare un esercizio intellettuale isolato e autonomo; essa deve contribuire a diffondere il vero, rivelato e illuminato dalla luce della Ragione, e deve collegarsi alla realtà sociale prefiggendosi il raggiungimento del benessere collettivo. Trasformata così in strumento di progresso, la letteratura non può limitarsi ad uno scopo puramente edonistico. Tuttavia, gli illuministi italiani condividono con il sensismo la teoria che l’opera d’arte viene giudicata attraverso i sensi, dai quali ricaviamo il piacere del bello. La letteratura dovrà quindi avere contenuti veri e utili e una forma piacevole.
Molti scrittori considerano arcaici, inutili e pedanti i generi e gli stili letterari del passato, e conducono una dura battaglia contro di essi. La polemica è particolarmente accesa per quel che concerne la questione della lingua, e acquista toni aspri soprattutto nei confronti del purismo e dell’Accademia della Crusca.
Nel panorama variegato e diseguale dell’Illuminismo italiano, Napoli rappresenta uno dei centri di più intensa elaborazione e diffusione delle nuove idee. Si tratta, va detto subito, di un’esperienza tutta di vertice, tale cioè che non seppe (né volle) coinvolgere strati sociali esterni al circuito esclusivo degli intellettuali di professione. D’altronde, le condizioni della società italiana, e particolarmente di quella meridionale, erano talmente degradate da rendere impensabile ogni ipotesi di larga partecipazione a iniziative e movimenti di carattere culturale: l’analfabetismo era diffuso a gran parte della popolazione; non esisteva una classe media paragonabile neanche lontanamente alle borghesie francesi, inglesi e tedesche; la vita economica ristagnava; le interferenze ecclesiastiche sulla libertà di pensiero restavano pesantissime; l’intera penisola era subalterna alle scelte politiche asburgiche o francesi. Eppure, anche in queste sfavorevolissime condizioni, vi furono intellettuali capaci di fare proprie le esigenze di una cultura più libera e moderna. Il fatto che molti di essi abbiano vissuto e lavorato a Napoli non deve stupire: nella capitale del Regno, infatti, era ancora viva e attualissima la grande lezione del Vico e del Giannone, su cui si era venuta formando un’intera generazione di studiosi; inoltre, un ruolo notevole ebbe la presenza di Bernardo Tanucci, primo ministro dal 1767 al 1776, che svolse un’intelligente politica riformatrice, volta a favorire forme di progresso civile e a moderare il potere clericale. In questo contesto poterono emergere le originali e brillanti personalità di studiosi come gli economisti Antonio Genovesi e Ferdinando Galiani, i giuristi Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano, il filosofo Giuseppe Palmieri. Comune a tutti costoro fu la tendenza a occuparsi di manifestazioni e aspetti concreti della vita sociale (l’economia, il diritto), piuttosto che della speculazione teorica sui grandi princìpi universali. Questa concretezza, se da un lato seppe in molti casi ispirare iniziative di riforma, dall’altro limitò l’orizzonte ideale di questi intellettuali, inducendoli a una costante collaborazione con il potere (gran parte di loro furono pubblici funzionari) e impedendo che dalla loro riflessione nascessero alternative veramente radicali.
Accanto a Napoli e Milano vi furono altri centri, soprattutto nell’Italia settentrionale fra Veneto e Piemonte, che aderirono in modo più o meno esplicito e coerente alle nuove idee. La linea espressa dagli intellettuali di quest’area non è, da un punto di vista ideologico, così omogenea come quella degli illuministi napoletani e milanesi, anzi, talvolta non è nemmeno riconducibile all’Illuminismo in senso proprio, come, per esempio, nel caso del veneziano Carlo Gozzi, che alla cultura “dei lumi” fu dichiaratamente avverso. Più che di filosofi o di specialisti, si tratta spesso di viaggiatori e di poligrafi, come il veneziano Francesco Algarotti, il torinese Giuseppe Baretti, il mantovano Saverio Bettinelli. Tuttavia, pur nell’orientamento un po’ dispersivo e superficiale del loro lavoro, questi scrittori sono in qualche misura partecipi del processo di rinnovamento che si sta attuando nella cultura europea: il loro Illuminismo consiste soprattutto in una costante aspirazione alla chiarezza e alla concretezza dello stile, nella polemica contro il conformismo e la pedanteria di una stanca tradizione (bersaglio prediletto, l’Arcadia), e nell’impegno per un’informazione culturale allargata ad un pubblico quanto più vasto possibile. In questo senso è significativo che molti fra questi intellettuali siano stati anche giornalisti, come il Baretti, fondatore nel 1763 della rivista “La frusta letteraria”, Apostolo Zeno, che dà vita a Venezia nel 1710 al “Giornale de’ letterati d’Italia”, Gasparo Gozzi, che, sempre a Venezia, fonda e dirige prima “La gazzetta veneta”, poi “L’osservatore veneto”. La dimensione europea di gran parte dei letterati settecenteschi dell’Italia settentrionale è confermata anche dal loro cosmopolitismo e dalla loro corrente conoscenza delle grandi lingue europee: per esempio l’Algarotti scrisse, oltre che in italiano, in tedesco e in francese, il Baretti visse a lungo in Inghilterra e ne conobbe bene la lingua e la letteratura, Melchiorre Cesarotti tradusse alcuni Canti di Ossian del poeta scozzese James Macpherson, lanciando una moda che influenzerà profondamente il primo Romanticismo italiano. Insomma, va riconosciuto a questi scrittori il merito di avere sprovincializzato la cultura italiana e di avere preso contatto in modo attivo con le più vivaci esperienze della contemporanea cultura europea.

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