Follia

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Testo

INTRODUZIONE

Numerose difficoltà cospirano alle spalle di chi intenda, oggi, riflettere filosoficamente sulla follia. Lo stesso oggetto sul quale una tale fatica dovrebbe compiersi appare sfuggente. Un autorevole dizionario filosofico come quello di André Lalande, dopo aver sottolineato la genericità, la vaghezza del termine, il suo ricorrere pressoché unicamente nel linguaggio comune e ordinario, rinvia il suo lettore alle pagine dedicate all’aliénation mentale1. Non diversamente Abbagnano, alla voce pazzia del suo Dizionario di Filosofia, accanto alle riflessioni platoniche ed erasmiane, conclude significativamente con un rinvio alla voce psicosi2. Pur nella loro dovuta sinteticità queste pagine una cosa arrivano comunque a dirla, e con estrema chiarezza: da un lato l’oggetto-follia nella sua dimensione filosofica pare recintato irrimediabilmente nel passato; dall’altro, nel nostro oggi, consegnato interamente al linguaggio quotidiano, metafora con funzione iperbolica e dallo scarso potere di definizione. All’interno del vocabolario scientifico il termine follia sostanzialmente fatica a trovare posto, espulso, soppiantato e specificato nella precisione dei quadri nosografici. Sembra così che il filosofo sia chiamato a prendere atto di questa trasformazione-traduzione della follia nella malattia mentale. Sembra che lo studioso di follia sia di diritto privato del suo oggetto. Se non vuole rischiare di sussumere tutti i suoi sforzi in una pura passione antiquaria, non può non tener conto di tutti quei fattori che lo sollecitano a mutare l’oggetto del suo interesse, ad esercitare i suoi atti di lettura non più e non tanto sugli scritti (antichi) di follia, quanto piuttosto su quelli (moderni) della malattia mentale. Insomma, la follia, espressione generica e vaga, propria unicamente del linguaggio ordinario, si presenta priva di un’autentica statura scientifica.
Nel passato dunque la follia, con tutto il suo corredo di rimandi alla letteratura, alla religione, alla magia, alla divinazione; oggi unicamente la malattia mentale e il suo insistere nelle scienze psicologiche. Si constata un passaggio, si deve prendere atto di un processo di trasformazione-traduzione e di tutte le difficoltà e i problemi che tale processo trascina con sé: il punto d’arrivo, la malattia mentale, che rapporto realizza con la sua origine? L’atto di traduzione che è in questione ha creato residui? E in caso affermativo, di quale natura sono questi residui, questi frammenti di significazione che la follia aveva in sé e che il movimento di traduzione ha finito col perdere? E ancora, più radicalmente: si tratta davvero di una traduzione, o non è piuttosto una cancellazione tout court dell’antico termine e della sua area semantica, l’invenzione di un qualcosa che prima non c’era? Le interrogazioni, è evidente, si potrebbero moltiplicare indefinitamente qualora in luogo di ragionare sui termini generali, follia e malattia mentale, scendessimo a considerare le speci di cui tali termini rappresentano i generi. Tutte queste difficoltà devono essere tenute ben presenti da chi intenda riflettere sul problema dell’insensato, e dal momento che non devono essere risolte pregiudizialmente, prendendo insomma partito in maniera assolutamente infondata e aprioristica (cosa da cui ci si vuole tenere sempre a distanza), sarà opportuno tenere ferma la difficoltà stessa, senza precipitarsi a risolverla. Si dovrà esercitare la riflessione nel luogo stesso in cui queste difficoltà avvengono, portare la riflessione nel luogo in cui accade il processo stesso di trasformazione-traduzione, luogo quanto mai problematico e pericoloso. Inoltre, fin tanto che il luogo (i luoghi) e il modo (i modi) di traduzione non siano stati chiariti, sarà opportuno mantenersi in una sorta di bilico tra i due mondi che il processo traduttivo pone in rapporto.
Un altro ordine di difficoltà, in qualche modo connesso a quello precedente, è già tutto racchiuso nell’etimo del termine follia, dal latino follis: mantice, sacco vuoto, pallone gonfio d’aria. Per traslazione, il folle è colui che ha la testa vuota, piena d’aria. In tal senso, una ricognizione teoretica sulla follia è, prima di ogni altra cosa, la ricognizione su uno spazio vuoto, o reso vuoto. Si tratta quindi di esercitare il pensiero sulla triangolazione di un vuoto, il che non può che risolversi nello sforzo di esaminare, e prima ancora, di far emergere il campo in cui tale vuoto viene posto, la rete concettuale su cui insiste, il ‘pieno’ di cui la follia è la mancanza e la negazione, le forze motrici che animano l’intero campo con tutto il loro gioco di luci e di ombre. Nella sua natura di vuoto la follia si presenta come scarto di senso, da leggere con cautela e attenzione per ciò che essa è capace di rivelare e insieme per le forze e le istanze che la rivelano3. Anche questa difficoltà e quest’intenzione non possono, e neppure chiedono, di essere risolte preliminarmente, già per il fatto che il solo tentativo di una loro risoluzione imporrebbe di moltiplicare indefinitamente il problema sui piani concreti della documentazione storica, verificando i modi in cui tale scarto di senso è accaduto, di volta in volta, di epoca in epoca. Opus infinitum, senza dubbio: lo scritto che segue si sforzerà, con tutta la modestia dovuta, di porre in essere solo un qualche esempio e frammento in questa direzione di ricerca. Del resto, nella misura in cui si ha a che fare con uno scarto di senso, e nella misura ancora in cui quest’ultimo costituisce l’oggetto stesso di tutto lo scritto, nella stessa misura fatica a trovare posto e condizioni di legittimità una definizione preliminare della follia, la quale rappresenta piuttosto l’obiettivo ultimo che quest’indagine si propone, non il suo punto di partenza. Pertanto non si possono accogliere le sollecitazioni derridiane, che paiono negare la bontà di una riflessione sulla follia che non chiarisca preliminarmente, e con esattezza, cosa mai s’intenda per follia4. Il presupposto da cui quest’indagine muove è semplice ed è un altro: se il vuoto-follia insiste in un campo, allora sarà questo campo e le relazioni che accadono in esso a portare alla definizione cercata. Altra alternativa la presente indagine non riesce a trovarla.
Al fine d’introdurre positivamente alla lettura delle pagine che seguono si potrebbero efficacemente utilizzare le parole di Antonello Sciacchitano, il quale osservava come sia un luogo comune dell’immaginario collettivo l’intendere la follia quale (minus ontologico(:

(Il filosofo parla di sragione, lo storico di assenza d’opera, lo psichiatra di perdita del rapporto con la realtà, lo psicoanalista di sottrazione del fantasma da parte della madre. Non è molto sbagliato esprimersi così. Nella follia c’è del (meno(. Non sarà per caso un (più(? si chiede per automatismo mentale l’analista(5.

È su questo meno che vuole esercitarsi la riflessione filosofica che segue, cercando di portare a visibilità concettuale questo più, questa eccedenza rispetto al pieno, rispetto al Logos.

È nel nostro tempo che accade la semplificazione della follia nei quadri della malattia mentale ed è sempre nel nostro tempo che possiamo porre l’interrogazione sul che e sul perché di questo accadimento. È il nostro tempo che rende possibile e genera questa interrogazione, che verte dunque sulle possibilità, sulle condizioni di possibilità di un pensiero sulla follia.
Inevitabile, già per il fatto che avviene nell’oggi, prendere spunto dalla riflessione foucaultiana intorno alla follia, incamminarsi all’interno dei suoi testi, sia di quelli scritti da Foucault, sia di quelli con i quali il filosofo francese non si stanca mai di dialogare. Inevitabile assumere quale territorio d’indagine il largo dibattito che le tesi foucaultiane hanno innestato. E tutto questo, pur nella dovuta correttezza storiografica, senza alcun intento puramente storiografico, in quanto l’obiettivo ultimo non è mai quello di portare alla luce e di verificare (o falsificare) le tesi di Foucault o di chiunque altro, quanto piuttosto arrivare a delucidare, come si è detto, le condizioni di possibilità di un pensiero sulla follia. Il punto di vista e i margini di colpevolezza dell’indagine che si sta aprendo sono tutti riassunti in questo obiettivo.
Capitolo I

Prime figure

1. I due palazzi

È una sorta di meraviglia quella che coglie il lettore delle Sacre Scritture impegnato a far luce sul territorio che si estende all’esterno della Sapientia, a chiarirne le presenze, i motivi. Un’analisi linguistica dei luoghi scritturali6 in cui viene tentata una descrizione di tale territorio di confine è ben presto destinata a sfociare in una sensazione di estrema perplessità. Il blocco monolitico della Sapientia pare accerchiato da tutto un groviglio di motivi privi di una chiara e definita identità, motivi che scivolano l’uno nell’altro, che si chiariscono e si complicano vicendevolmente. La Sapientia, nei libri sapienziali l’insieme delle massime necessarie per dirigere la vita secondo la volontà di Dio, si rapporta al suo esterno come ad un territorio selvaggio, uno spazio confuso che attende di essere ordinato, educato: un processo di conquista inesaurito e, nella sostanza, del tutto inesauribile.
Nel libro dei Proverbi campeggia centrale la figura della Sapientia, presentata non tanto nelle astratte vesti di una qualità nozionale, quanto piuttosto nell’aspetto di un essere personale: porta la parola di Dio, attende gli uomini nelle piazze, agli incroci stradali e alle porte della città, i beni che promette sono gli unici che abbiano importanza. È una matrona nel suo palazzo che prepara un sontuoso banchetto a cui invita l’intera città umana. All’esterno di questo palazzo, ma all’interno della medesima città, ha luogo un altro banchetto, di ben altro tenore.
(Mulier stulta et clamosa, plenaque illecebris et nihil omnino sciens, sedit in foribus domus suae super sellam in excelso urbis loco, ut vocaret transeuntes per viam, et pergentes itinere suo: qui est parvulus, declinet ad me; et vecordi locuta est: Aquae furtivae dulciores sunt, et panis absconditus suavior. Et ignoravit quod ibi sint gigantes et in profundis inferni convivae eius(7.
In molte traduzioni recenti questi sei versetti vengono introdotti da un sottotitolo che recita: il banchetto della Follia.8 Ciò nonostante nel testo latino non vi è traccia di tale termine, non solo: sembra non vi sia nemmeno traccia di un soggetto chiaramente esplicitato, connotato da un nome. Lo spazio che tale entità dovrebbe occupare viene riempito da tutta una molteplicità di aggettivazioni qualificanti, mulier stulta, clamosa,..., da una serie di metafore che ci pongono di fronte non un soggetto, semplice, dalla voce unica, quanto un sistema complesso. Alla stultitia si aggiunge la clamositas, il suo gridare per le vie della città, la sua volontà di essere visibile, la sua sfrontatezza che è ad un tempo il suo stesso strumento di propaganda. Una stultitia che ben conosce il cuore degli uomini, suo pascolo, la cui intelligenza ha in serbo tutta una sequela di allettamenti, di lusinghe, di attrattive (plenaque illecebris, aquae furtivae, panis absconditus). Una mulier stulta collocata in uno spazio assolutamente esterno a quello occupato dalla Sapientia: nihil omnino scit. Intendendo l’espressione alla lettera sembrerebbe che la stultitia sia l’indice di un’ignoranza assoluta, senza rimedio: in realtà il ‘sapere’, a cui l’espressione fa riferimento, riguarda i contenuti della sapienza e non sembra neppure che sia in gioco una semplice mancata conoscenza di Dio e delle rette regole di vita. Se accostiamo la citazione in analisi con un brano dell’Ecclesiastico, nel quale ancora il soggetto è la stultitia, è cosa immediata il rendersi conto che quel nihil omnino scire, più che descrizione letterale è un modo per tacitare e screditare una voce di dissenso scettico. Nel capitolo sedicesimo possiamo leggere: (Mi terrò celato al Signore! Chi penserà a me in alto? Non sarò riconosciuto fra un popolo numeroso; che cosa conto io tra tante creature senza numero?(9 Lo stolto che parla non ignora il messaggio sapienziale, semplicemente ne pone in discussione la validità: è più che sufficiente per respingerlo nel caos dello spazio esterno alla Sapientia. Il testo infatti prosegue: (Qui minoratur corde, cogitat inania, et vir imprudens et errans, cogitat stulta(10.
Una via per chiarire la fisionomia di tale ‘soggetto complesso’ consiste nell’intenderla nella sua opposizione alla Sapientia, in rapporto alla condotta della vita e alla conoscenza di Dio. In questo senso, modellata sul rovescio e nello spazio esterno alla Sapientia, la mulier stulta rivela i suoi rapporti col mondo della conoscenza e della morale: la qualificazione di stulta e il suo nihil omnino scire discutono il suo modo di relazionarsi alla conoscenza, le attrattive con cui invita gli uomini al banchetto sembrano far capo alla sfera morale. Non si dimentichi per altro che la pretesa di separare il piano conoscitivo da quello morale è un’operazione assolutamente artificiale: proprio in quanto ignara, esterna, del tutto sorda ai contenuti della Sapientia, proprio in quanto l’intelligenza che la anima prende vita da altri contenuti, la mulier stulta ha il potere di sviare, di esercitare le sue attrattive: il suo magistero non è certo confinabile nel regno della conoscenza, piuttosto sempre già rivolto e finalizzato alla perdizione dell’uomo, al suo ingresso nelle dimore infernali. (Ed egli non si accorge che là ci sono le Ombre e che i suoi invitati finiscono nel profondo dello Sheol(11. Se la Sapientia, illuminata dalla conoscenza di Dio, conduce all’eterna beatitudine, la mulier stulta pone direttamente i suoi adepti in rapporto con gl’inferi, con la morte: è già da sempre una tomba in cui cadono tutti quanti vi entrano12. Di particolare interesse sono coloro a cui la mulier stulta esplicitamente si rivolge: il suo grande bacino d’utenza risulta costituito dai parvuli, e tra questi, in particolare, dai vecordes13. Escludendo che la mulier si rivolga a dei fanciulli o a dei nani14, possiamo intendere parvuli con ‘sempliciotti’, ‘semplici’, ‘inesperti’: sono coloro ai quali non è ancora giunto l’insegnamento della Sapientia. I vecordes ne costituiscono una sottospecie, in direzione degenerativa: sono gl’insensati, coloro a cui manca il senno15. A questo punto, se volessimo ancora usare il termine ‘follia’ saremmo costretti a distinguerne almeno due speci. Una prima è caratterizzata da una precisa strategia, animata dalla finalità di condurre gli uomini alla rovina: improntata ad estrema lucidità, organizza banchetti a cui invitare le sue prede, ed è la stultitia. La seconda, del tutto diversamente, è priva di contenuti, spazio vuoto dove la mulier stulta può intervenire e gestire le sue danze, ed è la vecordia.Tuttavia questo tentativo di porre ordine nel territorio esterno alla Sapientia rivela presto tutta la sua fragilità: si sarebbe tentati di accostare quella che ho suggerito come ‘follia di seconda specie’ all’ordine della fatuitas che, come conferma il libro dell’Ecclesiastico, consiste nella perdita dell’intelligenza16. Se tale operazione fosse corretta avremmo almeno un’ordinata e comprensibile ripartizione all’interno di questo ‘territorio esterno’: la ‘follia di primo ordine’, la stultitia, con la sua intelligenza adescatrice, le sue strategie; la ‘follia di secondo ordine’, la fatuitas e la vecordia, cerchio vuoto in cui la stultitia inscrive la sua azione. Tenendo ferma la definizione di fatuitas come assenza d’intelligenza (sensus) mi sembrano fuor di dubbio gli stretti legami di parentela, per non dire di sinonimia che la assimilano alla vecordia, quale almeno appare in Prov. 9,16. Il reticolo lessicale che si snoda nell’intero capitolo 22 del libro dell’Ecclesiastico costringe per altro a respingere questa fantasia sistematizzante:

(Qui docet fatuum, quasi qui conglutinat testam. Qui narrat verbum non audienti, quasi qui excitat dormientem de gravi somno. Cum dormiente loquitur qui enarrat stulto sapientiam; et in fine narrationis dicit: Quis est hic?(17.
Come ben si vede le figure del fatuus e dello stultus risultano assolutamente interscambiabili e non costituiscono sotto nessun rispetto due ordini distinti. Nel passo citato, in particolare, viene sottolineata una totale impossibilità di rapporto tra la galassia fatuitas-stultitia-vecordia e il mondo della Sapientia: ammaestrare uno stolto è un po’ come cercare di mettere insieme i cocci di un vaso. Per quanto ci si possa sforzare il risultato non potrà che deludere e il vaso non sarà comunque in grado di trattenere alcunchè18. Ancora, comunicare allo stolto la Sapientia equivale a parlare ad uno che dorme.
Altre due immagini dunque sono chiamate ad illustrare il paesaggio esterno alla Sapientia: la disgregazione e il sonno. La figura del vaso rotto, in cocci, e la sottolineatura della vanità di ogni tentativo di ricomporre l’insieme è senz’altro tra quelle che meglio esprimono l’idea che la Sapientia possiede di ciò che le rimane esterno: l’idea appunto del disordine totale, della disgregazione irrimediabile, di un universo buio e caotico, privo della luce ordinatrice e unificante della Sapientia, un’anticamera della morte.
Stultitia, fatuitas, vecordia, inanitas, clamositas, insipientia19, imprudentia, deviazioni scettiche: queste le presenze che animano la città degli uomini, fuori dalle alte mura della Sapientia. Si tratta, come ho cercato di chiarire, di presenze dall’identità sfuggente, multipla, complessa. I termini che assumono una posizione di relativa preminenza, stultitia, vecordia e fatuitas e che dovrebbero guidare all’esplorazione, si dimostrano strumenti inaffidabili, confusi come sono l’uno sull’altro. A tutto questo si aggiunga poi lo slittamento di tali termini dal piano conoscitivo a quello morale: la figura dell’impius, la categoria della luxuria, sono sovente associati, anche in nesso esplicito20, alla galassia della stoltezza, quale strascico inevitabile, quale tragico obiettivo. La stessa cosa dicasi per la morte: essa è un tutt’uno con la mulier stulta di cui parlava il libro dei Proverbi. L’inesperto non sa che ‘il banchetto della follia’, oltre la superficie visibile modellata tutta su attrattive e lusinghe, è l’anticamera della morte, è l’inferno stesso21.
È il mondo intero a raccogliersi in questa confusione. Già il testo sacro è molto chiaro a riguardo: la ‘donna adultera’ (nome e immagine altra per mulier stulta), contro le cui seduzioni pone in guardia l’autore dei Proverbi, ne ha feriti molti, e molti ne ha uccisi, anche tra i più forti22. La mulier stulta, seduta sulla soglia della sua dimora, nel luogo più alto della città, rivolge il suo invito a tutti coloro che passano per strada (transeuntes per viam): è semplicemente all’uomo di strada che si rivolge, offrendogli un ‘sapere’ (e una ‘pratica’) che non trova la propria luce nella conoscenza di Dio, ma nella conoscenza e nella pratica del mondo. Lo spazio di esteriorità che la Sapientia traccia intorno a sé finisce col confondersi (se poi non si tratta addirittura di coincidenza) col mondo stesso, col mondo degli uomini e col mondo della morte, che la circonda da ogni parte, immenso.
Paolo di Tarso giungerà a raccogliere in estrema sintesi nella sua prima lettera ai Corinti tutta la complessità di questi motivi: (Animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei: stultitia enim est illi, et non potest intelligere: quia spiritualiter examinatur(23. L’uomo, considerato nella sua naturalità, non è in grado di comprendere quei contenuti di conoscenza (teorici e pratici) che provengono dalla Rivelazione: nessuna sorpresa dunque nel fatto che per lui siano pure follie, presenze nell’ordine della stultitia, elementi che non si piegano agli schemi della ragione naturale, a quella logica delle apparenze di fronte a cui da sempre l’animalis homo non fa che inchinarsi. Tutto il mistero della morte e della resurrezione del Cristo non potrà che presentarsi all’animalis homo come parola vuota, vana, come fatuitas.
È un gioco di specchi tra due ordini di ragioni che non si comprendono, fra due sfere estranee l’una all’altra. Nei libri sapienziali era la Sapientia ad investire dell’accusa di irragionevolezza l’intero mondo umano, inclinato irreversibilmente verso gli abissi dello sheol; negli scritti paolini la direzione sembra rovesciarsi: qui è la città umana a inscrivere l’intera predicazione del Cristo e degli apostoli nel cerchio dello scandalo e della follia24. Nello stesso tempo Dio ha reso stolta la sapienza del mondo25. L’arco della reversibilità, ancora implicito nei libri sapienziali, appare ormai teso allo spasimo: ognuna delle due parti rinfaccia all’altra il vizio della follia, tracciando ciascuna il proprio spazio di esteriorità, di distanza. Ciascuna riconosce l’altro ordine di ragioni come incommensurabile al proprio, rigettandolo così nel suo spazio esterno: tra breve una ’Follia’ come la mulier stulta dei Proverbi sarà improponibile. L’Esterno sarà il luogo destinatole: non siederà più al centro della città, nel luogo più elevato, più visibile, sul suo scranno, a chiamare a gran voce i passanti: ogni luogo, sacro o profano che sia, non potrà che espellerla, consegnarla all’Esterno.
Nella definizione della struttura complessa nella quale si articola la galassia-follia, così come nella precisazione del territorio controllato dalla Sapientia, la Natura gioca un ruolo di estrema rilevanza:
(Guardate gli uccelli del cielo! non seminano e non mietono, né ammassano nei granai; e il vostro Padre celeste li nutre! [...] E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo! Non lavorano e non filano. E io vi dico che neppure Salomone, con tutta la sua gloria, poteva ammantarsi come uno di loro( 26.
Sul rovescio delle vacuità umane, lontano dalle vane ambizioni dell'uomo che antepone il vestito al corpo, la ricchezza alla vita, che si affanna ad erigere un nuovo ordine di contro all'Ordine celeste e che, prima ancora, risulta del tutto incapace a vedere il mondo e la vita nella loro verità, i gigli del campo, gli uccelli che popolano il cielo si chiariscono come frammenti ed esempi di un Ordine, di una Natura ordinata, di un'animalità mite, pacifica, silenziosamente saggia, che predica (finora invano per l'Evangelista) all'uomo la perfezione evangelica. Una Natura serena, gentile allo sguardo, in pace con se stessa e con Dio, una Natura che ammonisce e ammaestra l'uomo senza terrificarlo, distesa su un pulpito che è il mondo stesso e che da sempre, inascoltata, recita la parabola dell'Ordine, della Misura, della Prudentia, di fronte alla Babele del mondo umano.
Sempre nel teatro del mondo, eppure a grande distanza da ogni possibile declinabilità pedagogica, si agita ruggente, indomabile, lontana da Dio e dagli uomini un'altra Natura, cornice ideale solo per tombe e sepolcreti, non tappezzata di gigli, non rallegrata dal canto di uccelli, ma sterile, abitata da pastori e da porci, coperta di pietre. Qui trova forzato asilo il folle indemoniato di Gerasa di cui parla l'Evangelista Marco27. Le parole che lo consegnano a noi sono poche ma chiare. Non appena il Cristo scende dalla barca e posa il piede in questa modesta anticamera infernale, non scorge che tombe e pietre e porci: (E smontato che fu dalla barca, subito gli venne incontro, sbucando dalle tombe, un uomo posseduto da uno spirito immondo(28. Prima ancora di offrirci un estratto del dialogo, il tempo della narrazione s'interrompe: una breve e tragica storia della follia viene condensata in poche righe:

(Egli aveva la sua dimora nelle tombe e nessuno poteva più legarlo, neppure con catene: difatti era stato più volte legato con ceppi e catene, ma aveva rotto le catene e ridotto in pezzi i ceppi, cosicché nessuno ormai era capace di domarlo. E continuamente, di notte e di giorno, se ne stava tra i sepolcri e sui monti, urlando e lacerandosi con pietre(29.

Figure di animalità bestiale, di forza inumana, di rabbia demoniaca, i silenzi del sepolcro e della morte sono convocati a tracciare lo spazio in cui dimora la follia: uno spazio a distanza da Dio, dagli uomini, dalla Natura (o, se si vuole, all'interno di una Natura esterna all'Ordine), fuori del tempo della vita e dei suoi cicli – non conosce notte e non conosce giorno, perché giorno e notte grida e si lacera –, ma non entrato ancora nel tempo immobile pacificante della morte. Il gesto del clamare solo in superficie ricorda la mulier stulta et clamosa di cui parlavano i Proverbi: quella annunciava a gran voce il suo invito a tutti coloro che passavano per strada, il suo grido era all’interno delle mura della città, faceva corpo unico col linguaggio della città. Del tutto diversamente, l’urlo dell’indemoniato è del tutto inascoltato e nemmeno viene lanciato per essere ascoltato. Dall’Esterno all’Esterno: questa la parabola senza direzione (quindi insensata) della sua clamositas30.
Prigioniero di questa solitudine desolante, al suo interno si agita un dialogo incessante, caotico, incontrollabile: una legione di spiriti abita in lui. (E gli domandava: (Qual’è il tuo nome?(. E colui rispose: (Il mio nome è Legione, perchè siamo in molti(. E lo scongiurava vivamente che non li mandasse fuori dalla regione(31.
La follia come identità plurale, ossia come deflagrazione dell’identità, come sua messa in discussione, come dialogo ininterrotto e confuso tra tutta una pluralità di identità differenti, giunge a surdeterminare la già complessa geografia di questo quadro desolato. Certo, di fronte al Cristo la Legione assume un aspetto compatto, unitario, le molteplici identità paiono defilarsi, scomparire, quasi avessero affidato alla semplicità di un delegato il compito di portare ad espressione, e ad espressione comprensibile ad altri, il desiderio di non essere scacciati. Tutto il magma agitato, ribollente di desideri, di volontà, di pensieri, di gesti, che fino a quel momento aveva martoriato il corpo e lo spirito del folle, si zittiscono, indietreggiano: la legione fa avanzare un proprio rappresentante, gli fa parlare la stessa lingua del Cristo, propone le condizioni della resa. (E lo scongiurava vivamente che non li mandasse fuori dalla regione. [...] (Mandaci nei porci, affinché entriamo in essi((32.
Ma questo è solo un episodio, non è la vita della follia. La venuta del Cristo, la cacciata degli spiriti che di lì a poco avrà luogo, la riconquista da parte del folle della propria identità umana, sono soltanto l’ultima scena dell’ultimo atto della tragedia dell’indemoniato, scena che vede l’addomesticamento della follia e il miracolo della sua repentina scomparsa. Ma questo, l’ho detto, è solo un episodio. Per tutti i giorni e le notti che precedettero lo sbarco del Cristo, siamo portati a figurarci, e del tutto verosimilmente, il caos di una voce a più voci, l’intrecciarsi labirintico e disordinato di più linguaggi simultanei che si parlano senza comprendersi, groviglio irrefrenabile (perché non più guidato dalla volontà di un’identità unica), senza senso, senza direzione (in quanto ogni voce è contemporanea e complanare alle altre). Un’eccedenza di linguaggio che non può che sfociare nell’estinguersi della comunicazione: è l’incubo di Babele33, una sua estrema rivisitazione, a darci qui la sostanza della follia. Il folle parla, ma per l’altro uomo, intenzionato ad ascoltarlo, il suo dire si presenta all’insegna dell’insensato. Il suo discorrere non trasporta un pensiero, ne trasporta molti, troppi, e finisce così per non traghettarne nessuno all’attenzione del suo interlocutore. In tempi più recenti l’imbarazzo che l’uomo ‘assennato’ sperimenterà alla presenza del vociferare multiplo del folle è già tutto condensato nel termine ‘delirio’, che appunto diagnostica alla coscienza sensata il linguaggio della follia.
Sarebbe forse chiedere troppo alla laconicità del testo scritturale interrogarlo ulteriormente sulla sostanza della follia, sulla sua figura, sul suo linguaggio, sul suo spazio. Il cuore dello scritto dev’essere cercato altrove: il folle (e la sua follia) rappresentano qui il punto di partenza, la materia prima su cui si andrà esercitando l’operare taumaturgico del Cristo ed è proprio questo operare a costituire il centro della pagina34. Per altro, emerge con evidenza tutto un reticolato di legami, di parentele, di contrasti, tutto un tessuto di connessioni che disegnano lo spazio in cui l’insensatezza ha luogo. Le sue presenze sono figure d’isolamento e di desolazione: una Natura svuotata di ogni possibile vocazione pedagogica, ridotta a paesaggio infernale, consegnata all’inabitabilità (le pietre, i porci e il folle ne sono gli unici abitanti), chiusa su se stessa ed esterna al mondo (le acque e le montagne sono i suoi invalicabili confini); la confusione dei linguaggi e la morte dell’identità (per cui la guarigione del folle, tutt’uno con la riconquista dell’identità, è qui davvero resurrezione, passaggio miracoloso dalla morte alla vita).

2. La Strangeness di re Lear

Ancora più esteso, complesso, stratificato, è lo spazio da cui emerge la follia nel Re Lear shakespeariano: qui sembra quasi che non vi sia personaggio che possa dirsi del tutto al riparo da essa.
Iniziamo da Kent, personaggio che a una prima lettura sembra tutto tranne che folle. Alto dignitario di corte, egli è l’emblema stesso di un’onestà estrema, capace di giungere nella necessità sino alla villania, fedele sino al sacrificio. Non appena il vecchio re mostra di aver ceduto alla follia – diseredando e cacciando l’unica figlia, Cordelia, che sinceramente lo ama e lo onora; rinunciando alla gestione diretta del potere e del patrimonio a beneficio delle altre due figlie degeneri, Goneril e Regan –, egli proclama: (Tanto vale che Kent sia villano, se Lear è pazzo. [...] Spetta all’onore essere schietto quando la maestà cede alla follia(35. Nella battuta immediatamente successiva, a sostanziare questa franchezza e insieme tentare di porre un argine al dilagare imminente della tragedia: (Conserva il tuo potere, e con matura riflessione, frena questo impulso mostruoso(36. E forse, più ancora che in queste parole, l’estrema sincerità di Kent risalta nel modo con cui si rivolge all’amato re: (Uccidi il medico (Kent stesso) e paga la parcella al tuo male schifoso(37. Nello stesso intorno coloro che poi lo tradiranno, e che già vanno meditando con chiarezza il tradimento, si rivolgono a lui con ben altre parole: (Regale Maestà...(; e addirittura: (Io mi professo nemica di ogni altra gioia che i sensi nel loro prezioso equilibrio posseggono, e trovo l’unica mia felicità nell’amore della cara Altezza Vostra(38. Da un lato dunque un’onestà d’animo che nel frangente drammatico non esita ad abbandonare le formule del protocollo, nel tentativo estremo (e fallito) di ricondurre il re alla ragione: da questo punto in poi la sincerità, il linguaggio, persino gli atteggiamenti di Kent divengono il più delle volte indistinguibili da quelli del Fool, il buffone della corte di Re Lear (e non credo sia solo in un registro comico che vada letta l’offerta del Fool a Kent del proprio berretto a sonagli). Dall’altro lato, (l’arte loquace e untuosa di dire senza intendere di fare(39, arte con la quale si esprimono e si muovono sulla scena gli animi rapaci di Regan e Goneril. In primo piano viene dunque a disegnarsi questo contrasto, tra una lealtà e sincerità estrema, scambiata per villania, e una vocazione al tradimento che non s’arresta neppure di fronte ai legami di sangue, che si costituisce e si muove con naturalezza nella falsità più assoluta: sullo sfondo di tale contrasto il personaggio di Kent sembra pensare se stesso ed elaborarsi a ridosso della figura del folle-buffone e imparentarsi così con tutta quella ragnatela di rimandi e presenze che da secoli e per altri secoli ancora la figura del folle-buffone istituisce intorno a sé.
Non appena il Fool compare sulla scena dice la verità. E non è mai una verità che, semplicemente, diverte. Accordato sul registro di un linguaggio popolare, infarcito di ballate, indovinelli e proverbi, il Fool dice a Lear il vero: di contro alla cecità del re, alla sua incoscienza, di fronte alla sua incapacità di vedere la sua reale situazione e i suoi reali rapporti (ormai di tragica subalternità) con le figlie, il Fool è l’occhio disincantato sul mondo, conosce le miserie umane, le chiama col loro nome. La sua funzione drammatica risiede totalmente nella sua facoltà visiva (e ovviamente nei rapporti immediati che questa intrattiene con la sua facoltà linguistica): non decide nulla, non promuove alcuna azione, non è all’origine di nessun mutamento nello snodarsi del dramma. I giochi che contano hanno sempre luogo altrove, non certo nelle battute sagaci del buffone. La sua importanza, ritengo, debba essere rinvenuta altrove, nell’accompagnare e sottolineare in controcanto realistico il viaggio di Lear verso la sua follia, nel tracciare in chiave buffonesca un commento alla negatività di Lear. Non è certo un caso che alla fine del terzo atto il buffone sparisca: non può più svolgere alcuna funzione quando il personaggio Lear riemerge dal buio ed è nuovo, opposto a quello che fu. In questo caso il Fool dovrebbe anch’egli seguire la legge del rovesciamento e divenire quindi anch’egli l’opposto di quello che fu. Ma è davvero pensabile, intendo dire, un Fool che, in modo non diverso da prima, commenta e irride e parla e canta e spiega per enigmi e giochi non più la follia di Lear, il suo errore, il disumano che ha trovato casa e voce in lui, ma il suo umano, la sua saggezza riconquistata? Non lo credo. Ad ogni modo, e in ogni caso già oltre l’esito della mia congettura, mi pare che il segreto che anima la follia del Fool risieda interamente nel suo potere di visione assoluta: è occhio puro, che nessun paravento può arrestare nella sua corsa irriverente, che nessun potere, nessuna eloquenza può intorbidire.
Figura di singolare rilievo è quella di Edgar. Non è qui il luogo, né vi è lo spazio per discutere la posizione strategica che questo personaggio occupa nello svolgersi dell’intreccio, ma non v’è dubbio che i suoi rapporti col mondo della follia siano per più versi illuminanti. I fatti sono noti: in seguito alle macchinazioni di Edmund, Edgar si trova costretto ad optare per la clandestinità, per il travestimento. Assume i panni (e le parole) della follia e della mendicità: una simulazione, la sua, gestita con grande maestria, che solo lo spettatore che coglie l’insieme della rappresentazione e che può seguire il personaggio durante le operazioni di travestimento, è in grado di leggere adeguatamente. Per tutti coloro che partecipano in prima persona al dramma, il padre Gloucester in testa, egli è solo un folle, un mendìco, che solo la tragedia in atto, solo l’inarrestabile discesa verso la disgrazia, può legare agli altri in un unico destino.
Una follia simulata dunque, artificiale, costruita a tavolino:
(Finché riesco a sfuggire sarò salvo. E ho pensato di assumere l’aspetto più ignobile e più povero col quale la miseria, in disprezzo dell’uomo, l’ha degradato quasi a bestia. Voglio coprirmi il volto di sudiciume, cingere ai fianchi uno straccio, impiastricciarmi tutti i capelli, e, presentando la mia nudità, affrontare i venti e la persecuzione del cielo. La consuetudine locale mi offre il precedente dei mendicanti di Bedlam, che, con voce stentorea, si conficcano nelle braccia nude, intirizzite e insensibili spille, schegge di legno, chiodi, rametti di rosmarino; e con queste orribili esibizioni, vanno nelle fattorie miserabili, nei villaggi più poveri, per gli ovili e i mulini isolati, talora con discorsi da pazzi, talora con preghiere, a esigerne la carità: il povero Turlupino, il povero Tom! Tom è ancora qualcuno; io, Edgar, non sono nulla(40.
Indubbiamente un passo di rara sintesi: mentre comunica allo spettatore la decisione della fuga, e l’idea di sfuggire agli occhi altrui scegliendo il travestimento, viene a tratteggiare un rapido quadro della follia, quale popolava le strade nei primi del XVII secolo41. Come in un circolo vizioso la follia s’imparenta con l’estrema povertà conducendo ciò che vi è di più umano nell’uomo nei paraggi di un’animalità bestiale. Come il folle di Gerasa, anche la figura del folle-mendìco di Bedlam42è abbandonata alle ‘persecuzioni del cielo’. Come quello si lacerava con le pietre (suggerendo un singolare rapporto col dolore che sarà ancora vivo ai tempi del grande internamento), questo va di continuo martoriandosi con ogni genere di oggetti le ‘braccia nude, insensibili e smunte’. Questo si presenta all’immaginario di Edgar con ‘voce ruggente’, quello popola i giorni e le notti delle sue urla. Diversamente dal folle evangelico è dedito alla carità, ma sulla legittimità di un’immediata e semplicistica sovrapposizione della follia alla carità43, lo stesso Gloucester pone in guardia: (Un po’ di senno ce l’ha, se no come fa a mendicare?(44. Ancora: come il folle di Gerasa, il ‘Povero Tom’ abita le estreme periferie del mondo umano, ‘fattorie miserabili’, i ‘villaggi più poveri’.
Si parla poi di lunatic bans45, ‘discorsi da pazzi’, discorsi lunatici. Se ci fermassimo a una prima e comunque corretta lettura dell’espressione, si potrebbe spiegare così: forme di discorso in cui il soggetto che parla non coincide del tutto col soggetto che pensa, forme di discorso in cui si realizza un mancato controllo da parte del soggetto parlante della sostanza stessa del suo parlare, una mancata coincidenza dovuta alla superiore forza degli influssi lunari sulla debole mente del folle. E tutto questo è vero, ma c’è dell’altro. Si ascolti un ‘discorso lunatico’: (Via! Il lurido demonio mi tien dietro. Il vento gelido soffia tra i rovi del biancospino. Mmmuuh! vattene a letto e stattene al caldo(46. Il problema che caratterizza la comprensione di questo discorso non è il fatto di essere senza senso, quanto piuttosto di averne molti, di averne troppi. Ciò che rende arduo l’intendimento di questo discorrere singhiozzante, che mai si placa in un periodare calmo e ampio, è proprio il fatto che è pluridirezionato: nello stesso intorno è capace di rivolgersi a se stesso (o meglio: a quel che rimane di se stesso), all’uomo che ha di fronte, a un interlocutore immaginario, a un demone invisibile ad altri. Quasi che sotto la superficie visibile del suo parlare si agiti un dialogo a più voci, a più soggetti, e che solo a brevi e slegati frammenti di tale dibattito venga concesso il privilegio di emergere alla soglia dell’ascoltabile. Il risultato è un gioco pirotecnico di parole dalla geometria irriconoscibile, inquietante. Come il folle di Gerasa anche la sua è una voce a più voci:

(Cinque demòni sono entrati tutti insieme nel povero Tom: quello della lussuria, Obidicut; Hoberdidance, principe del silenzio; Mahu, dei ladri; Modo, degli assassini; Flibbertigibbet, degli smorfiosi, che poi è entrato in corpo alle cameriere e alle dame di compagnia(47.

Tra le mancate coincidenze che realizzano il discorso lunatico e, credo, in posizione di primissimo piano, occorrerà dunque sottolineare quella che intercorre tra il dialogo interiore, sotto la linea del visibile e dell’ascoltabile, e il dialogo che giunge in superficie. All’interno, non visibile, la ‘legione’ dei demoni, il suo dibattito. All’esterno, sulle labbra e nei gesti del Tom o’ Bedlam, solo i relitti disordinati e sconnessi di tale dibattito.
La demenza di Lear, la (amara e dolce demenza del Re Lear(48, è il luogo nevralgico a ridosso del quale prende vita ogni azione del dramma. Innesta la villania di Kent, lo piega al linguaggio di una verità sfrontata, gli fa indossare abiti stranieri sotto i quali la sua intelligenza leale assume una brillantezza nuova; rende necessaria la figura del Fool, affinché anche la follia, nella sua assoluta cecità, possa godere di uno spiraglio di luce e di ragione49; sollecita l’emersione del cuore più autentico delle sue due figlie, Goneril e Regan, lascia campo libero ai loro sentimenti più genuini, e sarà proprio dal cerchio fetido di questi sentimenti che giungerà dolore, morte, distruzione50. La follia di Lear pare dunque in questo senso situarsi nel centro da cui s’irraggiano le altre follie periferiche. È accecamento, non solo dello sguardo ma anche del cuore. È una totale e improvvisa eclissi della memoria a guidarlo alla cacciata di Kent, a trattarlo come traditore. Un distorcimento, un’alienazione delle facoltà percettive lo trascina ad un completo travisamento di ciò che ode e vede: il silenzio di Cordelia (nella realtà rifiuto dell’arte ‘untuosa’ dell’adulazione) viene subito letto come carenza di devozione; le parole accorate del re di Francia nell’accettare la mano di Cordelia, ormai diseredata e indesiderata, parole gonfie di un amore sincero, incontaminato, scivolano di fronte a lui senza lasciare alcun segno; il diniego dell’altro pretendente alla mano di Cordelia, il duca di Borgogna (ispirato per sua stessa ammissione solo da interessi e mire finanziarie e politiche) invece d’indignarlo, lo conferma nel suo proposito e rinsalda la sua stima nel duca; quell’arte ‘loquace e untuosa’ di Goneril e Regan che ad un Lear d’altri tempi, pieno di senno, sarebbe quanto meno risultata sospetta, ha la capacità d’incidere nel suo cuore con la forza di un fatto, con la potenza irresistibile di un’evidenza indubitabile. Siamo nei paraggi di una cecità assoluta, di una follia che, ben lontana da quella del Fool (avvinghiata tenacemente alla verità), è notte profonda, oblio dei sensi.
È una follia inspiegabile, tant’è improvvisa, cieca, totale. Una spiegazione verosimile, che non ha un reale potere di comprensione, ma che almeno ha il pregio di delimitare il problema, mi pare venga offerta da una battuta del re di Francia:
(È molto strano che chi un momento fa era la vostra cinosura, l’oggetto della vostre lode, il balsamo della vostra vecchiaia, la migliore, la più cara, abbia in questo scorcio di tempo commesso azione tanto mostruosa da smantellare tutte le difese del vostro favore. Di certo la sua colpa deve essere a tal punto innaturale da farne un mostro; altrimenti si scredita l’affetto da voi già professato. Credere questo di lei è atto di fede che la ragione m’indurrà ad accettarlo solo con un miracolo(51.
Paralisi della memoria, accecamento dei sensi, deragliamento della ragione, sono le coordinate che delimitano la strangeness di Lear.
Nelle battute finali della tragedia, ad estendere ulteriormente il lago di sangue, interviene la notizia della morte di Goneril e Regan. Non è tanto la vergogna ad averle uccise, quanto piuttosto un’estrema vertigine della loro personale follia: l’infatuazione per il demonico Edmund. La loro è una follia che le conduce alle soglie del bestiale, in un territorio nel quale tutto ciò che fonda e istituisce l’umano e il civile si dileguano per lasciar posto agli istinti più brutali dell’avidità, dell’invidia, della prepotenza. Traditrici per vocazione innata, ignorano cosa sia la riconoscenza verso il padre, la lealtà verso il marito. Tutta l’architettura del loro piano è folle: costruire uno spazio ignorando i legami di sangue, di amicizia, sovvertendo le regole più elementari della morale, inabissando i propri doveri al cospetto di una sete demonica di potere. È proprio all’interno di questo spazio che troveranno la morte, ed è fatale. In tale spazio le doppie parole di Edmund suonano trasparenti, sincere, e i pochi appelli a una più cauta ragionevolezza un’affronto insopportabile. E così muoiono, ammorbate dalle virulente e folli geometrie a cui hanno dato vita.
Il capolavoro shakespeariano delinea un orizzonte inquietante. Le varie forme di follia, nessuna delle quali risulta mai semplice, essendo ognuna plurale, strutturata, sono avvinghiate e intrecciate in profondità, le une sulle altre, le une nelle altre. L’operazione che tenterebbe di isolare, quasi chirurgicamente, una forma di follia, allo scopo di analizzarla separatamente dalle altre, può trovare il suo senso solo e unicamente in una dimensione didascalica, banalmente esplicativa. Un progetto di comprensione reale deve qui muovere dal presupposto irrinunciabile di trovarsi di fronte a una galassia non frammentabile, non divisibile. Una follia che dialoga col mondo intero, in relazione con le forze della natura e con gli affetti umani, in rapporto simbiotico con una Ragione che non è sempre il suo totalmente altro e che sovente abita nella sua stessa casa. Quel processo di esclusione che la Ragione in età classica porterà avanti (sulle pagine dei libri e tra le mura chiuse dell’internamento), è ancora del tutto irriconoscibile. Piantata al centro della vita, la follia è spesso più ragionevole della Ragione, e la pretesa Ragione spesso più folle della follia. Addirittura si ha l’impressione che questo insistere sul tema dei rapporti che la follia intrattiene con la Ragione sia unicamente e banalmente una sorta di fantasia retrospettiva, un obbedire inconsapevole agli imperativi del nostro tempo e, in breve, al modo odierno d’intrattenersi col fenomeno della follia. Il quadro che emerge dal Re Lear ci parla di un’intrecciarsi molecolare della galassia-follia sulla galassia-ragione, ci parla di confini sfumati tra l’una e l’altra, ci grida che l’una e l’altra dimorano nello stesso spazio: ci impone non tanto l’analisi dei rapporti follia-ragione, quanto un’inattuale ricognizione sullo spazio comune cui danno vita.
Il Re Lear shakespeariano e il capolavoro del Cervantes rappresentano per Foucault testimonianze chiare di quella che lui chiama ‘esperienza tragica della follia’, un’esperienza che emerge a chiara visibilità in epoca rinascimentale e in modo emblematico nelle arti figurative e la cui continuità avrà modo di proseguire solo sotterraneamente, per poi riemergere in Nietzsche, Van Gogh, Artaud. In Shakespeare e Cervantes la follia occupa una posizione estrema, è senza rimedio, non v’è nulla che sia in grado di ricondurla mai alla verità e alla ragione, ha lo spessore di un simbolo escatologico ai confini del mondo, dell’uomo, della morte52.
Foucault individua con decisa chiarezza la parabola che conduce e accoglie tale particolare modo di esperire i linguaggi e i paesaggi dell’insensatezza. Sul finire del XV secolo la derisione della follia assume quella posizione di centralità e sovranità fino a quel momento occupata dai temi della morte: il folle diviene un personaggio importante proprio in ragione della sua ambiguità, della sua vocazione ad esprimere in estrema sintesi simbolica la minaccia e la derisione del nulla, la vertiginosa irragionevolezza del mondo, il meschino ridicolo degli uomini.
(La denuncia della follia diventa la forma generale della critica. [...] Non è più soltanto la sagoma ridicola e familiare che resta ai margini: occupa il centro del teatro, come colei che detiene la verità. [...] Se la follia trascina ognuno in un accecamento senza scampo, il folle al contrario ricorda a ciascuno la sua verità(53.
L’inquietudine del nulla, la sorda minaccia della fine dei tempi, dell’uomo e del mondo viene rappresentata ora dalla follia. Non che si tratti di una rottura, piuttosto di (una torsione all’interno della stessa inquietudine(54. A partire dalla fine del periodo medioevale il nulla dell’esistenza veniva avvertito quale minaccia esterna e finale, quale conclusione, limite terribile e assoluto dell’esistenza: la seconda metà del XV sec. registrerà, tanto nelle sue espressioni figurative e plastiche, quanto nelle sue espressioni letterarie, un movimento preciso d’interiorizzazione, nel quale le minacce della fine, del nulla dell’esistenza giungeranno a rimbombare all’interno del cerchio dell’esistenza stessa, quale sua forma continua e costante. Non è in gioco affatto una messa in secondo piano dei motivi della morte, un loro indietreggiare al di qua della linea del visibile sotto la pressione incalzante della follia, suo sostituto mondano. La Dance macabre55 continua, ma con diverso regista: è il berretto a sonagli ora a portare di fronte alla coscienza l’incubo del disordine, della fragilità della ragione e dell’esistenza, a mostrare nei suoi specchi labirintici e irriverenti lo spettacolo della verità estrema. Ed è anche in questo modo che l’esperienza rinascimentale della follia, quale vero e proprio anticipo e spettacolo visibile della morte, giunge a riprendere e proseguire sotto nuovo indice l’esperienza medioevale della lebbra: (L’esclusione del lebbroso lo mostrava, ancora vivo, come presenza della morte stessa(56.
La follia dunque si fa carico di condurre ad espressione antiche inquietudini e tuttavia lo fa in modo del tutto nuovo. Alla serietà che contraddistingueva l’immaginario nell’atto di tradurre a visibilità l’angoscia della morte (per cui la fine dell’uomo e dei tempi trovavano le proprie icone nelle epidemie di peste e nella tragedia della guerra) succede un’ironia prima sconosciuta, assolutamente nuova: è l’ironia del folle, il suo gesto derisorio che arriva a disarmare il terrore di fronte al limite assoluto della morte, rendendolo addirittura risibile, (dandogli una forma quotidiana e dominata, rinnovandolo ad ogni istante nello spettacolo della vita, disseminandolo nei vizi, le stranezze e il ridicolo di ognuno(. Il trionfo della morte e il suo ghigno è anticipato dal riso del folle: (egli ride in anticipo del riso della morte; e l’insensato, presagendo il macabro, l’ha disarmato(57.
Foucault registra tuttavia uno scarto significativo, sempre situato all’interno della maniera rinascimentale di esperire la follia, tra ciò che individua come coscienza tragico-cosmica, emergente in modo emblematico nelle espressioni figurative e plastiche, e coscienza critico-ironica, veicolata nel grande alveo della letteratura dotta. È sullo sfondo del disfacimento del simbolismo gotico che prende corpo la prima forma di coscienza: il significato dell’immagine si dilata, è investito da un’automoltiplicazione del senso, la cosa raffigurata intreccia molteplici e complessi rapporti col mondo della cosa reale, rapporti così numerosi e ricchi da non poter essere letti fuori dal cerchio di un sapere esoterico. Le immagini si sovraccaricano di attributi, rimandi, echi, allusioni,
(Il significato non si trova più in una percezione immediata, la figura cessa di parlare da se stessa; tra il sapere che la anima e la forma in cui si traspone si scava un vuoto. [...] Sotto la superficie dell’immagine si insinuano tanti significati diversi che essa non presenta più che un volto enigmatico. E il suo potere non è più d’insegnamento ma di fascinazione(58.
Insetti alati, farfalle con teste di gatto e altri impossibilia eruttati da un’immaginazione in preda alla follia divengono il segno della segreta natura dell’uomo, tanto più vera quanto più nascosta agli occhi dell’uomo ragionevole, specchio fedele di quella rabbia oscura e di quella sterile follia che da sempre alberga nelle oscure profondità umane. E se la follia giunge ad esprimere tale ‘natura di tenebre’, lo scopo non è certo didattico, l’intenzione non è certo quella di mettere a punto una casistica dei vizi umani: le opere di Bosch, di Brueghel, non testimoniano uno sforzo didattico o moraleggiante e non rappresentano affatto un tentativo di piegare il mistero, l’oscuro, l’invisibile della follia, al linguaggio e ai gesti solari della ragione. La Cure de la folie, la Nef des fous non vogliono spiegare il mistero che alberga nel mondo e in noi, lo vogliono rappresentare, in tutta la sua terribile complessità; vogliono rendere percepibile, quasi toccabile con mano, l’impossibilità di decifrare i silenzi notturni della follia, di ridurli a voce comprensibile alla ragione. Il potere che qui lo spettacolo della follia esercita è quello di ‘affascinare’59. Affascina perchè è ‘sapere’, sapere difficile, chiuso, esoterico, le cui voci sono quelle di quei mostri, di quelle figure assurde fuoriuscite dai bestiari medioevali, sapere tanto inaccessibile quanto temibile, le cui chiavi sono possesso esclusivo della ‘innocente grullaggine’ del folle. Questo ‘sapere dei folli’, del quale l’uomo di ragione arriva a percepire solo elementi frammentari, sapere proibito e terribile capace di svelare l’ultima verità della vita e del mondo, (predice a un tempo il regno di Satana e la fine del mondo; l’ultima felicità e la punizione suprema; l’onnipotenza terrena e la caduta infernale(60.
Nel dominio della parola e in particolare nell’ambito della letteratura dotta l’esperienza dell’insensato prende le forme di una coscienza critico-ironica. Esemplare in tal senso per Foucault è l’erasmiano Elogio della follia: mentre Bosch, Brueghel, Durer (erano spettatori terribilmente terrestri, e implicati nella follia che vedevano sorgere intorno a loro, Erasmo la scorge abbastanza da lontano per essere fuori pericolo(61. L’esperienza critica si matura nella distanza dall’oggetto sul quale si esercita, impone una distanza, la crea: la follia non è più alle radici della vita, forza oscura, qualitas occulta, che segna col proprio marchio il divenire delle cose nel mondo, non è più ‘simbolo del cosmos’. Individuata ad opportuna distanza essa si rivela semplicemente carattere dell’aevum, e per il ‘ragionevole’ spettatore estraneo e distaccato la sua caratura tragica, che la vuole legata al mondo e alle sue forme sotterranee, è ridotta a zero. I suoi movimenti, le sue vesti, le sue parole divengono oggetto di riso.
Il sapere che la follia trasporta non parla più del ‘sabba della natura’, la dimensione cosmica della follia scompare, per far posto ad un’ambientazione tutta umana. La follia diviene l’espressione di un determinato rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso: è faccenda interamente umana, che non coinvolge più l’intera totalità del mondo. Risulterebbe così espediente puramente retorico quella personificazione mitologica della follia che tesse l’elogio di se stessa nello scritto erasmiano, proprio in quanto le uniche forme esistenti di follia non possono essere che umane e prendere quindi posto all’interno della gerarchia dei vizi umani.
Rispetto alle classificazioni medioevali, che sia pure in gradi variabili non ospitavano comunque la coppia prudenza/follia alla sommità della scala dei vizi e delle virtù cristiane, l’epoca rinascimentale realizzerà un decisivo scarto, sottolineando una nuova sovranità dell’insensatezza: nell’Elogio essa afferma di regnare su tutto ciò che di malvagio vi è nell’uomo, e di fatto essa guida il corteo felice di tutte quante le debolezze umane, ma anche indirettamente su quanto vi è di buono in lui, su quella folle curiosità ad esempio che anima filosofi e sapienti. Tutto questo, come si è precisato, sullo sfondo di una perdita della dimensione cosmica: la follia non è più la voce segreta e interna del mondo che unicamente il folle è in grado di udire, è solo lo spettacolo delle debolezze e dei vizi umani, magari necessari e inevitabili nel quadro dell’esistenza, uno spettacolo ad ogni modo sempre inquadrato a distanza di sicurezza. Tutto il suo potere di fascinazione risulta mutilato, zittito. L’urlo del folle non apre le porte ai sottosuoli del mondo: quest’urlo si sente appena, coperto com’è dalla musica razionale dell’ironia, inquadrato ormai in una vera e propria didattica dei difetti umani. Il fatto che la Stulticia intrattenga ancora rapporti col sapere, precisa Foucault, non deve trarre in inganno: Erasmo riserverà grande spazio nella sua ronda di folli ai grammatici, ai retori, ai giureconsulti, ai filosofi, e a tutte quelle altre figure veicoli di sapere cosidetto ragionevole, ma la follia non detiene per questo il segreto del Sapere. Al contrario, essa è il giusto castigo di una scienza sregolata e inutile che anziché (rivolgersi al grande libro dell’esperienza si perde nella polvere dei libri e delle discussioni oziose; la scienza si riversa nella follia a causa dell’eccesso stesso delle false scienze(62.
La coscienza critico-ironica della follia introduce e si esprime in un universo interamente morale, sostanzialmente estraneo all’esperienza che si matura contemporaneamente nell’ambito delle arti figurative. Significativo a tal riguardo pare a Foucault il fatto che ad aprire il corteo al seguito della Follia sia Filautia, l’amor di sé: primo segno e ad un tempo simbolo della follia63, essa non riflette assolutamente nulla di reale, se non il miraggio della presunzione. Ha a che fare unicamente con l’uomo e con la verità di se stesso che egli sa intravedere.
La coscienza tragica della follia e insieme il riconoscimento della sua dimensione cosmica saranno destinati ad inabissarsi con il chiudersi dell’epoca rinascimentale. Tuttavia le voci, sia pure relativamente isolate di Sade, di Goya, e ancora di Nietzsche, di Artaud sono lì a testimoniare che la forma di questa coscienza, pur caricandosi di contenuti nuovi e diversi, non è andata del tutto distrutta: al pari di un fenomeno carsico essa sembra essere scorsa sotto la superficie di una coscienza critica e analitica, arteria invisibile, silente, ma capace di emersioni improvvise, impreviste. Tutto insomma pare attestare che la pretesa distruzione e cancellazione di tale coscienza sia soltanto una sua momentanea messa in ombra e che, d’altro canto, non sia possibile elaborare una geografia della coscienza critica vittoriosa senza tenere in debito conto le zone d’ombra, i sottosuoli che essa ha creato e sui quali ha potuto erigere il proprio impero64.
Si ponga attenzione anche ad un altro importante fatto, che Foucault stesso sottolinea all’attenzione del suo lettore: nell’epoca rinascimentale, nel suo quotidiano, coscienza critica e coscienza tragica della follia risultavano spesso inestricabilmente intrecciate e, di fatto, solo motivi di natura didascalica possono giustificare l’operazione chirurgica dello storico intenzionato a separare, e magari anche a contrapporre, le due forme di coscienza. Il problema viene posto da Foucault in questi termini:
(Tale può essere, in una ricostruzione frettolosa, lo schema di opposizione tra un’esperienza cosmica della follia nella vicinanza di queste forme affascinanti e un’esperienza critica della stessa follia nella distanza incolmabile dell’ironia. Senza dubbio, nella sua vita reale, questa opposizione non fu così netta né così evidente. Ancora per lungo tempo i fili furono intrecciati e gli scambi incessanti(65.
I ‘fili intrecciati’, gli ‘scambi incessanti’ ci parlano di una genesi della coscienza critica già macchiata da un peccato originale, già segnata da una parentela strettissima con quella forma di coscienza che di lì a poco riconoscerà come assolutamente estranea.
Ancora: allo studioso s’impone, una volta riconosciuta questa macchia, questo peccato originale, uno studio più attento dei documenti che veicolano tali forme di coscienza. Così, per quanto l’Elogio erasmiano possa essere stato illuminato da una precisa volontà di porsi a distanza critica da ogni dimensione tragica e cosmica e per quanto lo stesso Foucault riconosca a questo proposito all’Elogio la cifra dell’esemplarità, s’impone una verifica più approfondita dei modi in cui le due forme di coscienza si siano andate intrecciando.
3. Stulticia, amabilis insania...
Senza voler entrare nel merito della lunga discussione sulle effettive intenzioni dello scritto erasmiano66, certo è che l’intreccio tra le due forme di coscienza, meglio: il persistere della dimensione cosmica della follia all’interno della dimensione critica, appare già con estrema chiarezza nel ruolo che la follia viene a svolgere nell’impianto letterario del testo. È la protagonista assoluta, non divide il palcoscenico con alcun altra presenza, è lei che parla, ed è sempre di lei che si parla, la discussione su qualsivoglia oggetto trova sempre in lei il punto di partenza e il punto d’arrivo. I formicolanti paesaggi del mondo umano sono tutti dipinti dai suoi colori, nulla le sfugge, i cieli e la terra, gli dei e gli uomini nascono vivono muoiono sotto il suo controllo. La precisazione della propria genealogia, situata strategicamente nelle battute iniziali dell’autoelogio, pare proprio assolvere il compito d’introdurre all’uditorio la sua posizione di sovranità assoluta.
(Mio padre non fu il Caos né l’Orco né Saturno né Giapeto né alcun altro di questa generazione di divinità vecchie e ammuffite; fu invece Pluto, lui in persona, unico (padre di uomini e dei( con buona pace di Esiodo e di Omero, e anche di Giove stesso. Un suo solo cenno, e oggi come allora tutto, sacro e profano, si capovolge. A suo arbitrio le guerre, le paci, gli imperi, i consigli, i tribunali, i comizi, i matrimoni, i patti, le alleanze, le leggi, le arti, i divertimenti, le occupazioni...oh che mi manca il fiato! In breve, a suo arbitrio si amministrano tutti gli affari pubblici e privati dei mortali; senza il suo soccorso tutta la frotta delle divinità poetiche, dirò anche più arditamente, persino gli dei di prima scelta non esisterebbero affatto o quanto meno vivacchierebbero molto meschinamente in casa loro. Ad aver Pluto irato, non basta nemmeno il soccorso di Pallade; avendolo propizio, si potrà mandare a impiccarsi anche il sommo Giove con le sue saette(67.
Publica privataque omnia mortalium negocia sono dunque sotto il suo assoluto controllo, ma pure le divinità non sfuggono al suo cerchio. Ad alloggiare in dimensione cosmica il suo intervento è una prudens natura, una Natura prudente, saggia, che sa che la vita sarebbe una ben triste faccenda senza l’ausilio della Stulticia. Così, non soltanto l’origine della vita deve il suo essere a quella follia che fa dimenticare tutti i fastidi del parto, dell’educazione dei figli, della vita coniugale, ma anche tutto ciò che vi è di bello e di piacevole nell’esistenza umana è suo dono esclusivo68. Una Stulticia che opera in totale accordo con la saggezza della Natura, tanto quasi da identificarsi con essa, arriva a ribaltare e a mischiare (sacra profanaque omnia sursum et deorsum miscentur) ogni tradizionale distinzione tra ciò che è saggio e ciò che è folle: non che si tratti tanto di un rovesciamento di posizioni, per cui ciò che prima risultava opera di saggezza ora, dal punto di vista della follia, si pone sotto l’insegna dell’insensato. Vi è piuttosto la costruzione di un territorio comune, in un continuo e reciproco gioco di rispecchiamenti, in cui ciascuno dei due termini è suscettibile di trasformarsi nell’altro. Di più, la ‘saggezza della follia’ pensa i due termini in una relazione di vicariabilità, di sinonimia. Nel dodicesimo capitolo dopo aver chiarito al suo pubblico che la vita stessa, nella sua origine e nel suo svolgersi, è suo dono esclusivo, la Stulticia interroga retoricamente il suo uditorio chiedendogli se, cancellato il piacere (altro suo dono), l’esistenza umana sarebbe ancora degna d’essere vissuta. Sulla scia di un applauso scrosciante precisa subito: (Eh lo sapevo, che nessuno di voi è così saggio o meglio, così folle, ma no, così saggio da crederlo(69. Equilibrismi, ambiguità tipiche di un discorso volutamente ironico, la cui meccanica prevede il ribaltamento sistematico di ogni termine nell’altro70, ma anche prova concreta che la potenza della Stulticia è anteriore alla stessa opposizione sapere/desipere, la fonda, la istituisce. Il suo essere ‘struttura tragico-cosmica’, all’origine di ogni evento e di ogni opposizione, vieta la possibilità di discutere e d’inquadrare gli effetti che produce mediante le categorie del sapere o del desipere, che le sono successive, nient’affatto anteriori. Ed è proprio in quanto il sapere e il desipere hanno senso solo nel mondo posto in essere dalla Stulticia, e mai fuori di esso, che ai suoi occhi quasi tendono a confondersi, a perdere la distanza che li separa l’uno dall’altro. Dall’alto del suo Olimpo essa guarda la saggezza e la follia dell’uomo e del mondo che esso va costruendo, riconoscendo tutto quale sua creazione.
La pretesa ‘saggezza’ umana, che guarda alla follia come al suo assolutamente altro, che ignora il suo debito fondamentale verso la Stulticia e che per questo, del tutto follemente, lotta contro ciò che chiama ‘follia’, nello scritto erasmiano trova la sua bandiera, il suo portavoce, nella tradizione stoica. Questi seguaci fedelissimi della Stulticia, ma sommamente ingrati nei suoi confronti, questi morosofi71 ritengono che saggezza sia seguire la ragione, follia abbandonarsi alle passioni. Stolta ed erronea semplificazione secondo l’alto parere della Stulticia, e per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo la ragione risulta relegata in un piccolo angolo della testa, le passioni al contrario governano il resto del corpo e quindi, sia pure indirettamente, esercitano il loro dominio anche sulla mente; a questo si aggiunga il fatto che la ragione è sottoposta ad una duplice violentissima tirannia: quella dell’ira, (che occupa la cittadella del petto ed anzi la fonte stessa della vita, ossia il cuore(, e quella della concupiscenza, (che estende il suo dominio in basso fino al pube(72. In secondo luogo le passioni, ben lungi dall’essere in rapporto di assoluta e incolmabile distanza e alterità nei confronti della ragione, (funzionano da pedagogo per chi vuol raggiungere presto il porto della saggezza( e (agiscono da sproni e da pungoli in ogni pratica della virtù, in quanto spingono a buone azioni(73. Non sorprende così che il saggio disegnato dal vociferare stoico (e da Seneca in particolare, definito l’arcistoico), quel modello di uomo capace di non nutrire alcuna passione, risulti, all’occhio della Stulticia, un’entità impossibile, (una specie di nuovo dio, mai esistito e destinato a mai esistere da nessuna parte, [...] un simulacro marmoreo di uomo, inerte e completamente estraneo ad ogni sensibilità umana(74. Gli stoici e in loro compagnia tutti coloro che perseguono ostinatamente il miraggio della ‘saggezza’ sono gli uomini più infelici della terra e doppiamente stolti: anzitutto perché dimenticano la loro situazione umana, rincorrendo vanamente una vita da dei, e inoltre perché si pongono contro la Natura75.
Nel trentottesimo capitolo la posizione stoica riguardo la follia viene ulteriormente precisata:
(Ma ecco che sento gracidare di nuovo le rane della Stoa: (Non vi è sventura maggiore della demenza. E l’insigne Follia o è molto vicino alla demenza, o meglio è la demenza stessa. Infatti esser dementi che altro è, se non essere fuori di senno?(. Ma qui siamo completamente fuori strada. Coraggio, sbaragliamo anche questo sillogismo, col favore delle Muse(76.
Il falso che riposa in questo sillogismo all’apparenza inattaccabile risiede nella fretta con cui la ‘saggezza’ stoica liquida il problema della stulticia, piegandola totalmente nei quadri dell’insania e considerandola pertanto un’autentica sventura77. Certo, accettata l’equivalenza stulticia/insania pare inevitabile intendere anche il primo termine in chiave patologica e pertanto a questo punto il proseguire nell’elogiare la stulticia, ovvero una malattia che priva l’uomo della ragione sottomettendolo interamente alla brutalità delle passioni, risulterebbe quanto meno improbabile. L’errore consiste nel considerare l’insania un blocco monolitico, interamente consegnato al mondo del male, della malattia, dell’infelicità: occorre (insaniam ab insania distinguere(. L’intera forza del sillogismo viene invalidata proprio dimostrando la falsità della premessa maggiore: il dire (Non vi è sventura maggiore dell’insania( risulta falso qualora si verifichi che (est duplex insaniae genus( e che se la qualificazione di ‘sventura’ è più che legittima per un genere d’insania, non lo è affatto per l’altro. La confutazione del sillogismo e la messa in chiaro della distinzione tra i due generi di follia viene gestita sullo sfondo di un vasto reticolato di citazioni letterarie usate spesso in un contesto e con un senso diverso rispetto alle fonti e proprio in questo in modo perfettamente coerente alla vocazione ludica e ironica dell’elogio: Orazio parla di un’insania amabilis, il Platone del Fedro colloca il furor dei poeti, dei vati e degli amanti tra i più grandi beni della vita, la profetessa del sesto libro dell’Eneide chiama ‘dissennate’ le peripezie di Enea. E già questo, almeno da un punto di vista retorico, sarebbe sufficiente a invalidare l’argomentazione stoica. Ma la Stulticia prosegue.
(Invece esistono due specie di demenza: una, che scatenano dall’inferno le Furie vendicative quando lanciano i loro serpenti e immettono nel cuore dei mortali l’ardore della guerra o la sete incolmabile dell’oro o un amore indecoroso ed empio o il parricidio, l’incesto, il sacrilegio o qualche altra simile peste; oppure quando agitano con deliri e con le loro fiaccole terrificanti la coscienza dei colpevoli. E vi è un’altra specie di demenza, molto diversa, quella appunto provocata da me, ed è la cosa più desiderabile del mondo(78.
Il sillogismo stoico è interamente contenuto nella prima specie d’insania, gli atti a cui guida gli uomini più che giustamente la fanno rientrare nella categoria della ‘sventura’: portatrice di sventure, come la guerra, l’incesto, il sacrilegio, e sventurata essa stessa, in quanto illuminata da un delirio che è tutt’uno con la coscienza della colpa. Il fatto che la Stulticia si affretti a sottolineare la sua assoluta estraneità a questo riguardo, non è una mossa del tutto gratuita, sollecitata dalla circostanza, e che solo la bontà del suo uditorio è in grado di accettare senza richiedere ulteriori verifiche. Il suo albero genealogico e tutto quel corteo che si muove al suo seguito testimoniano in maniera completa la sua totale estraneità. L’ambiente nel quale sorge è lontano dalle dimore infernali, sono quelle Isole Fortunate dove tutto cresce senza fatica; è un vincolo d’amore e di tenerezza a presiedere al suo concepimento; i suoi primi mesi di vita la vedono circondata dalla splendida bellezza di due ninfe, Mete (ebbrezza, figlia di Bacco) e Apedia (ignoranza, figlia di Pan). La ronda al suo seguito è aperta da Filautia, l’amor di sè, e , tra gli altri, troviamo Edoné, il piacere, Anoia, la spensieratezza, Trufé, la voluttà, Como, la baldoria, Ipno, il sonno. Tutti questi motori di follia (ma anche di vita) ci pongono di fronte un quadro ben diverso da quello prodotto dalle Dirae ultrices infernali. Il secondo genere di follia, omnium maxime exoptandum, è sì un certo mentis error, che ha però il magico potere di produrre la liberazione dell’animo da tutte le preoccupazioni e da tutti i tristi pensieri, pervadendo nel contempo l’animo stesso di tutta una gran quantità di piaceri, che se pure sono falsi e del tutto illusori esercitano tuttavia la divina funzione di rendere la vita accettabile, degna di essere vissuta.
Tutto questo è gia chiaro all’uditorio: le due forme d’insania presentano origini, movimenti ed esiti del tutto differenti. Non vi è necessità di dilungarsi ulteriormente. Rimane piuttosto aperto un quesito, che lo stesso sillogismo stoico ha innestato: se qualsiasi errore dei sensi o dell’intelletto meriti il nome di demenza (insania). Una volta risolto il problema si porrà ancora la questione di come decidere a quale specifica forma d’insania riferire tale errore.
Il primo problema, per quanto sia introdotto con un registro altamente ironico, è delicato: (un cisposo che scambia un mulo per un asino, o un tale che ammira come raffinatissimo un poema rozzo( non sono per questo catalogabili tra i folli. Come dire che il semplice errore nella valutazione sensoriale o intellettuale non è sintomo di follia. Perchè si possa parlare di follia occorre che intervenga un inganno nel giudizio, e che questo inganno sia continuo e di notevoli dimensioni (come un poveraccio d’infimo rango che immagina di esser Creso, re di Lidia(79. Per poi verificare a quale genere d’insania tale follia faccia capo è sufficiente considerare il suo esito: qualora procuri diletto apparterrà a quell’amabilis insania che la Stulticia e il suo seguito soltanto sono in grado di produrre; qualora non procuri alcun diletto e determini invece la sofferenza del soggetto, non potrà che provenire dalle dimore infernali.
Emerge ovunque nel testo la parentela della follia con la dimenticanza e con l’errore, e tuttavia la questione richiede, agli occhi della Stulticia, di essere meditata con maggiore attenzione. Anche il costume e l’abitudine devono essere tenuti nel conto:
(Chi vedendo una zucca la crede una donna, eccolo definito demente, poiché è un caso raro; se però uno condivide sua moglie con molti altri e giura e spergiura che è meglio di Penelope, sommamente beandosi di quel felice errore, nessuno lo chiama demente, poichè si vede che è un incidente diffuso tra i mariti(80.
È questa una precisazione che pone fuori gioco la possibilità di definire i confini della follia sulla base di un criterio metastorico, installato al di sopra della storia, estraneo alla storia del costume, allo spirito dei tempi. E se quest’ultima questione assume grande importanza per il lettore moderno che ha visto materializzarsi in tempi recenti una scienza medica della follia, animata dalla precisa convinzione dell’immutabilità dell’essenza-follia, per la Stulticia il problema non sussiste: l’uomo è già da sempre matto, se non lo fosse l’intero mondo umano crollerebbe su se stesso81. Il serraglio della follia raccoglie tutti, tanto l’ignorante che vive senza sapere né avere alcuna intenzione di sapere, tanto il sapiente, ostinato nella sua volontà di sapere: folli entrambi ma con l’unica importante differenza che il primo è sano e felice, il secondo pallido e mesto. Le radici del mondo umano affondano nella follia, (sull’oblio della realtà e sull’errore, sul capovolgimento delle norme, individui, Stati, Chiesa, commerci, arti; persino la religione vera è follia(82.
Mutando le autorità di riferimento, abbandonando i classici e approdando ai testi sacri e in particolare agli scritti paolini, la Stulticia tesse le lodi della sublime ‘follia del cristiano’ e nel sessantaseiesimo capitolo, tirando le fila della lunga parentesi teologale, precisa come (la religione cristiana mostra propriamente di avere, in un certo qual modo, una parentela con una certa forma di follia, e nessuna conformità con la saggezza(. Le prove di questo risiedono nel fatto che sono proprio i fanciulli, i vecchi, le donne, i semplici, insomma tutti coloro che più risultano beneficiati dai doni della follia, a godere maggiormente dei riti e delle funzioni sacre; nel fatto che i patriarchi erano uomini straordinariamente semplici e sopra tutto acerrimi nemici della cultura; nel fatto ancora che coloro che sono stati folgorati dalla fede nella croce sono i più dissennati: dissipano le loro sostanze, non si curano delle offese ricevute, non fanno alcuna distinzione tra amici e nemici, hanno in odio ogni forma di piacere e la vita stessa è a loro di peso, (in una parola, sono divenuti tanto storditi rispetto al sentire comune, che il loro spirito sembra vivere altrove, non nel suo corpo. E questo che altro è se non pazzia?(83.
Le immagini tragiche della follia, evocate da Bosch e da Brueghel e costituenti l’atmosfera di fondo entro la quale veniva vissuto il fenomeno dell’insensato, saranno destinate ad inabissarsi molto presto a fronte di una vera e propria presa di potere messa in atto da una coscienza critica e da tutto il suo bagaglio di norme filosofiche, scientifiche, morali, mediche. Foucault approfondisce i motivi e i contenuti che nel corso del XVI sec. avrebbero accompagnato questa sorta d’irrobustimento dei privilegi della riflessione critica. Si trattò certo di un movimento strutturale di estrema complessità nel quale l’occultamento della dimensione tragica fu uno dei maggiori risultati, ma non certamente il punto di partenza. La stessa dimensione universale della follia, il suo essere immersa molecolarmente nella sostanza umana, il suo ruolo di fondamento nelle sotterranee meccaniche della vita umana individuale e collettiva, già parlano con sufficiente abbondanza della sua caratura tragica. In Erasmo, così come in Montaigne e poi ancora in Pascal, nessuna distanza critica conduce alla cancellazione dell’universalità ed onnipresenza della follia: quel nuovo emergente distacco critico consente piuttosto di volgersi alla follia come ad una malattia naturale e originaria, un peccato originale che rende possibile la vita stessa, che la alimenta, della quale certo è possibile ridere, ma non come si ride di un avvenimento che non ci riguarda (posto poi che sia davvero possibile ridere di un tale avvenimento). L’Erasmo che sorride di se stesso è tutt’uno con l’Erasmo che ride della follia del mondo, il suo sorriso investe il medesimo oggetto: avviene sì una decisa presa di distanza dal fenomeno dell’insensatezza, ma tale fenomeno possiede ancora intatte le sue virtù tragiche. Si consideri in parallelo le riflessioni e gli scritti cartesiani in materia: il distacco critico è deciso, netto, non conosce sfumature di sorta, e tuttavia l’insensato che tale critica investe non è più alle radici dell’umano, è divenuto sostanzialmente eccezione, deviazione dalla norma, malattia, morbo morale e fisico che allontana l’uomo da se stesso, abbruttendolo, conducendolo ad uno stato prossimo alla ferinità. Qui ormai la chiave tragica è del tutto silente e ogni tentativo di ironia assolutamente fuori posto: il saggio può ridere di una disgrazia che colpisce e abbraccia dall’origine l’umanità intera, può ridere proprio perchè la sua ironia investe l’intero mondo umano, perchè il suo sorriso senza mai offendere nessuno esercita la vitale funzione della critica. In tutt’altra chiave si pone chi ironizza su patologie e difetti particolari, di estensione assolutamente individuale: qui la risata è semplicemente stupida, prova matematica di cattivo gusto e di scarsa intelligenza84.
Secondo la ricostruzione offerta da Foucault tre sarebbero i passaggi attraverso i quali si sarebbero costituiti i privilegi della riflessione critica nel corso del XVI secolo. In primo luogo la follia diviene una forma relativa della ragione, per cui l’una è misura dell’altra. La relazione che le lega e le fonda è quella di (una reazione eternamente reversibile che fa sì che ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione la sua follia nella quale essa trova la sua verità derisoria(85. Nella definizione di tale rapporto riemerge il tema caro ai mistici che l’intero mondo è follia agli occhi di Dio. Ed è ancora follia la complessa dinamica della fede, tutto quel movimento interiore con cui il cristiano si sforza di strapparsi alla follia del mondo per accedere alla vertiginosa follia di Dio: follia la rinuncia al mondo e l’imbarco in una ricerca, della quale per programma non si conosce il termine86. In questa (serrata dialettica della reciprocità(87 accade che in rapporto alla Saggezza la ragione dell’uomo non può che rivestire gli stracci della follia, ma anche la Ragione di Dio, commisurata alla ragione dell’uomo, non può che essere follia. In tal modo, follia e ragione si trovano pensate all’interno di un rapporto di mutuo fondamento (impossibile parlare di follia se non in riferimento ad una ragione, e viceversa) che esercita automaticamente un primo grande effetto su ogni forma di coscienza tragica, scongiurandone, o almeno limitandone di molto, i pericoli:
(La follia non è più una potenza sorda che fa deflagrare il mondo e rivela fantastici prodigi; essa non rivela, nel crepuscolo dei tempi, le violenze della bestialità o la grande lotta del Sapere e della Proibizione: Essa è presa nel ciclo indefinito che l’avvince alla ragione [...]. La follia non ha più esistenza assoluta nella notte del mondo: esiste solo relativamente alla ragione(88.
L’ulteriore passaggio destinato a sottolineare per Foucault la vittoriosa emersione della riflessione critica si trova già in Erasmo, poi più visibilmente in Montaigne e Charron: la follia è una delle forme stesse della ragione, una delle sue forze segrete, un momento del suo manifestarsi, un volto estremo, uno specchio di confine nel quale la ragione può prendere coscienza di se stessa. Siamo di fronte a qualcosa di diverso dalla relazione dialettica e speculare che contraddistingueva il ‘primo passaggio’, in quanto pare che qui la ragione prenda possesso della follia, la investa, la circondi e le assegni un posto. Al precedente universo duale ragione/follia subentra il prevalere sempre più deciso di una ragione che prende coscienza della follia, la distanzia da sé e le assegna un posto, e sarà in questa direzione che l’esperienza successiva inscriverà i propri pensieri e i propri atti nei confronti dell’insensato.
Il terzo passaggio in questo movimento d’inserzione della follia nella natura stessa della ragione è segnato da alcune note di Pascal. (Gli uomini sono così necessariamente folli che il non esserlo equivale a esserlo secondo un’altra forma di follia(89 Indubbiamente emergono in queste parole gli echi di ‘una serrata dialettica della reciprocità’ e quel sapore di paradosso che facilmente, e quasi automaticamente, sgorga da quel movimento di rovesciamento che vedeva ragione e follia quali misura l’una dell’altra. Di nuovo vi è la scoperta di una follia immanente alla ragione e l’emersione di un ulteriore sdoppiamento: da un lato una ‘folle follia’, che rigetta e non riconosce la follia essenziale alla ragione, e che in questo rifiuto raddoppia e moltiplica se stessa; dall’altro una ‘saggia follia’, che ascolta le grida e i silenzi della follia nella ragione stessa, riconoscendone i diritti di cittadinanza.
Vale forse la pena di sottolineare ulteriormente, e con maggior forza rispetto a quanto sembra fare Foucault, che il movimento disegnato da questi tre passaggi fu qualcosa di estremamente lento e complesso. Se è vero che Erasmo e Montaigne furono i primi campioni di una riflessione critica sulla follia, è anche altrettanto vero che tale visione critica fu sempre accompagnata (starei per dire illuminata) dal riconoscimento della dimensione tragica del fenomeno analizzato. Ancora: lo sdoppiamento pascaliano tra una ‘folle follia’ e una ‘saggia follia’, precipitato primo del riconoscimento di una follia immanente alla ragione, sembra già di leggerlo in Erasmo, là dove disegna col riso sulla penna la figura del saggio stoico, tutto impegnato a prendere le distanze dalla follia del mondo e che proprio in questo tentativo assurdo rivela la propria incurabile follia.
La lentezza e la complessità estrema del movimento d’inserzione della follia nel cerchio divorante della ragione sollecita inoltre ulteriori cautele: non esistono punti fermi e puri dai quali sia possibile estrarre, nella sua assoluta purezza, l’idea di una coscienza tragica, di una coscienza critica ironica, nè mi pare sia possibile, se non ponendo sotto colpevole silenzio gran parte della documentazione, distinguere i luoghi testuali che metterebbero in scena il rapporto dialettico di reciproca relatività tra ragione e follia, da quelli che invece insisterebbero esclusivamente sull’immanenza della follia nei confronti della ragione e che rappresenterebbero quindi un primo deciso passo verso la costituzione della posizione di privilegio e assolutezza che la ragione ben presto assumerà sul palcoscenico della storia. Per quanto riguarda i testi del XVI sec., e in particolare le pagine di Erasmo e di Montaigne, questa distinzione non si rivela del tutto percorribile: nei fatti, elementi tragici e ironici, relatività e immanenza nel rapporto ragione-follia, s’intrecciano di continuo.
Del resto una filosofia della storia che si ostinasse a procedere a blocchi, a compartimenti stagni e che si rifiutasse quindi di ammettere un continuo scambio e un’incessante circolazione tra le varie forme di coscienza e di esperienza dell’insensato (e in tal senso l’unico rapporto ammesso tra coscienza critica ed ironica sarebbe quello della reciproca sostituzione) rimarrebbe seriamente disorientata di fronte al riconoscimento erasmiano di una dimensione patologica della follia. Scatenata dalle Furie, di origine e di esito infernale, questa specifica forma d’insania trova sì l’uomo per oggetto, ma senza costituirne in alcun modo l’essenza (a differenza di quell’insania quae vergit ad voluptatem): è sventura, disgrazia, malattia, che colpisce l’individuo suo malgrado, allontanandolo dall’umano90. Giusta questa lettura, ci troviamo di fronte il ritratto di un Erasmo che dà voce nel suo scritto ad una coscienza tragica della follia (per cui essa è ovunque nel mondo umano, è il mondo umano), ad una coscienza critica (già tutta alloggiata nel distacco ironico dal quale guarda il mondo) e a una coscienza che di lì a poco sarà praticamente la sola ad avere voce (quella che guarda alla follia così come si guarda a una degenerazione patologica del tutto individuale). Interessante è anche il fatto che Erasmo, subito dopo averla introdotta si affretta ad escluderla, a zittirla: essa non ha nulla a che fare con la Stulticia e, cosa questa di maggior interesse per la presente indagine, non è faccenda che riguardi l’umanità nel suo complesso ma solo qualche individualità sventurata.
4. La resverie di Montaigne

La lettura del testo erasmiano che questa indagine ha poco sopra condotto si muoveva su un duplice binario di colpevolezza. In primo luogo l’interesse specifico per il tema, interesse che già di per sè incoraggia la mancata messa a fuoco di altri temi, che senza dubbio ad un’indagine più approfondita potrebbero risultare anche pertinenti. In secondo luogo, è stato accolto fino in fondo il gioco della finzione retorica che presentava l’intero scritto come la trascrizione fedele del discorso tenuto dalla Stulticia al suo pubblico di folli91. Si comprenderà bene come da tale osservatorio le questioni sull’effettivo significato da attribuire al testo siano volutamente rimaste irrisolte: il discorso della Stulticia, in sé e per sé considerato, non poneva certo particolari problemi d’interpretazione e, nella misura del possibile, esimeva dal prendere in considerazione l’uomo Erasmo, la sua attività, il suo pensiero. Tutto quell’universo strutturato in cui la Stulticia viene a situarsi non può mutare di una virgola una volta appurata l’intenzione didattico moraleggiante dello scritto o una volta dimostrata con certezza la sua dimensione leggera, di semplice passatempo92.
Nella pagina di Montaigne viene a mancare quel sostegno retorico che poneva lo scritto erasmiano a distanza dal suo autore, un’assenza che viene esplicitamente evidenziata nelle famose pagine che il terzo libro dedica al problema del pentimento:
(Qui noi andiamo d’accordo e allo stesso passo, il mio libro ed io. Altrove si può considerare l’opera separatamente dall’artefice; qui no: chi tocca l’uno, tocca l’altra. Chi ne giudicherà senza conoscerlo farà più torto a se stesso che a me; chi l’avrà conosciuto, mi avrà soddisfatto completamente(93
Risulta annullata dunque ogni distanza e affermata insieme l’esigenza di collocare la lettura di qualsivoglia pagina montaigneana sempre sullo sfondo dell’intera riflessione consegnata negli Essais. Tenendo presenti passi come questo Solmi precisava le ragioni che spiegano quella difficoltà d’inquadrare storicamente e filosoficamente l’intero lavoro di Montaigne: le sue idee, per quanto provenienti da ambiti culturali ben individuabili, assumono prospettive eccentriche proprio in quanto sempre legate alla sua persona e filtrate da essa; a ciò si aggiungeva un sempre vivace istinto pirronista che lo portava a saggiare ogni pensiero al fuoco della propria individualità e sempre alla luce di circostanze particolari; la propensione a sviluppare le idee non tanto nei loro termini logici quanto nella loro concretezza psicologica, con tutto il loro pesante involucro d’immagini e citazioni, esemplificazioni, aneddoti. Il risultato è una (riflessione vivente(, sempre legata alla realtà intuitiva, un sempre lucido formicolare d’intuizioni e riflessioni ancorate all’esperienza. (Veramente Montaigne ‘dipinge’ il suo pensiero, più che offrircene le deduzioni e le conclusioni(94.
Già nella Prefazione dell’opera Montaigne aveva precisato: (Sono io stesso la materia del mio libro(. A prima vista pare dunque di trovarsi di fronte a un libro autobiografico, a un sorta di memoriale organizzato secondo un indice di materie, infarcito di citazioni ed aneddoti provenienti sopratutto dalle biblioteche dei classici latini: tutto questo è senz’altro vero, ma vi è anche qualcosa di più, di diverso. La dimensione autobiografica non soffoca il respiro filosofico, non annulla la volontà e la capacità di operare ricognizioni di più vasto respiro; le inevitabili particolarità, il riferimento costante alla memoria individuale, sono il motore di riflessioni che si spingono fino al problema dell’uomo, della sua natura, del suo posto di fronte al mondo e a Dio. La considerazione filosofica dell’uomo si determina negli Essais (come considerazione di quel singolo uomo che è egli stesso(. Un filosofare autobiografico dunque, che si rivolge all’umanità stessa del proprio io, che (comprende e afferra insieme la singolarità dell’individuo e l’universalità estrema della condizione umana(95.
Sempre nel terzo libro, in una sorta di densa introduzione teorica al problema del pentimento, egli precisa come (gli altri formano l’uomo; io lo descrivo, e ne presento un esemplare assai mal formato, e tale che se dovessi modellarlo di nuovo lo farei in verità molto diverso da quello che è(96. Les autres a cui fa riferimento sono verosimilmente i filosofi sistematici, orbitanti intorno alla galassia aristotelico scolastica e a quella platonica e neoplatonica: incuranti dell’esperienza, ciechi di fronte all’individualità, costoro formano un’immagine dell’uomo muovendo da principi primi che ritengono assolutamente indubitabili. Il risultato è una definizione fissa, statica; tutte le eccedenze che l’esperienza umana nel mondo produce all’esterno dell’edificio teorico che si sforza di comprenderla sono zittite, negate, puri accidenti non certo in grado d’intaccare la solidità, solo e tutta teorica, della definizione. L’azione del réciter, del semplice descrivere, segna una parabola del tutto differente: non muove da principi primi verso l’esperienza, ma piuttosto, partendo dall’esperienza, s’ingegna di rinvenire delle costanti, dei tratti comuni. Lavoro duro, che comporta il mettere le mani in mezzo alla vita, rendendosi ben presto conto anche della vanità dello sforzo. Per questa via infatti non si giunge ad una definizione dell’uomo, ad una definizione del mondo. Ciò che si scopre è che (il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa [...]. La stessa costanza non è altro che un movimento più debole(97. Emerge dunque un’impossibilità a bloccare ogni tentativo di sistematizzazione, una difficoltà di fondo che scaturisce dalla vita stessa:
(Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una naturale ebbrezza. Io lo prendo in questo punto, com’è, nell’istante in cui m’interesso a lui. Non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio: non un passaggio da un’età all’altra o, come dice il popolo, di sette in sette anni, ma di giorno in giorno, di minuto in minuto. Bisogna che adatti la mia storia al momento. Potrei cambiare da un momento all’altro, non solo per caso, ma anche per intenzione. È una registrazione di diversi e mutevoli eventi e di idee incerte e talvolta contrarie(98
Emerge il senso sempre vigile della problematicità dell’esistenza, quale problema sempre aperto, esperienza continua che non può mai definitivamente concludersi e deve pertanto incessantemente chiarirsi a se stessa: (Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei; essa è sempre in tirocinio e in prova(99. L’essere dell’uomo vive dunque in questo continuo passaggio, è questo passaggio stesso. È fluttuazione, natura ricca di pieghe, di contrasti, complicata da incessanti mutamenti. Una (carenza( di fondo pare sia la cifra della personalità umana, che sfugge ad ogni norma fissa e si determina sperimentandosi attraverso continue modificazioni. Da questo punto di vista, come ben chiarisce l’Apologie de Raimond Sebond nel secondo libro, le definizioni ‘formali’ della condizione umana, definizioni ultimative, esaustive, chiuse, metastoriche, non possono risultare che risibili100. Se il testo montaigneano ci offre nella sintesi di una formula la possibilità di comprendere l’uomo, questa formula è quella del passaggio. Formula certo quanto mai ambigua: la presenza di una costante viene del tutto esclusa nella misura in cui si constata che (la stessa costanza non è altro che un movimento più debole(. Inoltre la sorte, ovvero il fatto che l’uomo è immerso in un universo fisico, storico, geografico e linguistico che lo precede, lo determina e lo influenza (ne sia consapevole o meno, lo voglia o meno), e la sua stessa volontà sono, nello scorrere del tempo motori infaticabili di cambiamento, di un cambiamento e un movimento incessante che l’uomo non può fermare. Si rilegga a questo riguardo la chiusa del primo paragrafo del capitolo sul pentimento: (Si mon ame pouvoit prendre pied, je ne m’essaierois pas, je me resoudrois(. Insomma: se da una formula si attende la definizione di un fenomeno e una certa capacità di prevedere i suoi comportamenti futuri e i suoi esiti, questo chiarire la natura umana quale continuo passaggio, è invece formula che esclude ogni definizione valida una volta per tutte e ogni possibilità di previsione, ponendo quale sua unica ambizione quel semplice raccontare, descrivere (réciter) la sempre incerta navigazione dell’uomo nel mondo. Se fosse lecito confondere libri ed epoche, si potrebbe spiegare sinteticamente l’uomo di Montaigne con quell’espressione che Foucault riserverà al folle dell’età rinascimentale: il prigioniero del Passaggio101.
Questa descrizione dell’essere dell’uomo quale incessante fluttuare, quale continuo passage, risulta innervata su due fondamentali risultati cui approda la riflessione critica di Montaigne: l’invalicabile impossibilità per la mente umana di accedere alla realtà di Dio e della natura umana stessa. Il senso e la portata di tali inquietudini scettiche vanno comunque ulteriormente precisate. Solmi ricordava, discutendo in modo particolare dell’Apologia, che se gli interpreti spiritualisti, come lo Strowski102, tendono a piegare il suo scetticismo a conclusioni mistiche, secondo gli interpreti razionalisti tutta la critica della ragione e della scienza distesa nei Saggi deve piuttosto intendersi filosoficamente come critica dell’intelletto astratto e implicita affermazione di un’immanentistica ‘ragione in sé’. In realtà lo scetticismo dei Saggi non giunge mai, neppure implicitamente, a conclusioni dogmatiche. Il suo intento è ben altro. Se teniamo ferma la portata speculativa di queste tesi, ci accorgiamo che esse non risultano affatto innovatrici rispetto alle posizioni dello scetticismo antico (Sesto Empirico, Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa avevano già svolto con ampiezza il tema dei limiti e della vanità del sapere, dell’incertezza che caratterizza anche le cognizioni più salde): esse sono piuttosto (un semplice metodo individuale, quasi si direbbe igienico, di dare aria ai pensieri, di rifiutarsi alle discussioni sulle cose supreme dimostrandone la perfetta inconclusività(103.
Nelle pagine centrali dell’Apologie de Raimond Sebond il problema della mancanza di un passaggio che permetta alla ragione e alla scienza umana di accedere alla realtà suprema di Dio viene affrontato con dovizia di particolari. Dopo aver precisato come l’inciviltà, l’ignoranza, la rozzezza si accompagnino all’innocenza, laddove la curiosità, l’acutezza, il sapere trovano per madre la malizia, Montaigne investe una questione nodale: la curiosità, ovvero il desiderio di accrescere il proprio sapere e la propria saggezza, e quindi, in ultima analisi, la filosofia stessa, è (un male naturale e originario nell’uomo, [...] la prima rovina del genere umano; è la via per la quale si è precipitato nella dannazione eterna(104. Risultato primo di una sempre falsamente appagata sete di sapere è l’orgoglio, la presunzione, fonte perenne di disgrazia e corruzione, cifra invalicabile della distanza che ci separa da Dio. In questo quadro l’unica modalità di conoscenza del divino è quella negativa, già tracciata da Agostino: (melius scitur Deus nesciendo(, ovvero si conosce meglio Dio proprio rinunciando ad ogni autonomo tentativo di comprenderlo. Quella minima parte di verità che conosciamo è Dio ad avercela data. La (nostra religione( non è una conquista della nostra ragione, del nostro intelligere, quanto piuttosto un (puro dono della liberalità altrui( e l’uomo l’ha ricevuta
(per autorità e per comandamento estraneo. La debolezza del nostro giudizio ci aiuta in questo più della forza, e la nostra cecità più della nostra chiaroveggenza. È per mezzo della nostra ignoranza più che della nostra scienza che siamo sapienti di questo divino sapere(105.
Così, dal momento che i nostri mezzi, del tutto e senza scampo naturali e terreni, non possono concepire quella conoscenza soprannaturale e celeste, ciò che occorre è obbedienza e sottomissione. E questa ‘obbedienza’, questa ‘sottomissione’ (che indubbiamente possono raggelare ad una prima lettura qualche interprete moderno) vengono a svolgere la precisa funzione ‘igienica’106 di distrarci dal pensiero delle cose impensabili. Certo: la Rivelazione non ci da alcuna partecipazione, neppure per via di mistico intuito, alla realtà assoluta; non ci offre passaggio a Dio, alle realtà soprasensibili, che restano comunque del tutto indecifrabili alla nostra mente, al pari del loro Autore. Insomma, di questo Dio inaccessibile la ragione umana non può occuparsi, è meglio che non se ne occupi (fuor della formale reverenza al costume e dell’ossequio alle prescrizioni della Chiesa(107.
Una prima forma di stultitia emerge già in quest’orgoglio, in questa sfacciata presunzione di sfondare i recinti che la natura ha posto intorno a noi. Per altro, tra i corollari immediati di questa insuperabile ‘carenza’ si rinvengono con estrema facilità altri volti e stracci di follia. La realtà divina ci è, a stretto rigore, inconoscibile, ma lo spirito umano non potrebbe resistere a lungo vagando in questo cattivo infinito di pensieri informi: cerca così di formularli secondo la sua propria misura, che è la misura dei suoi sensi e della sua immaginazione, forgiandoli in immagini terrestri che (riscaldino l’anima dei popoli di un sentimento religioso di grandissima utilità(108. In genere, comunque, con lo sguardo rivolto anche alle religioni dell’antichità, si precisa come le concezioni antropomorfiche della divinità, risultato dello sforzo umano di piegare l’impensabilità del divino alle forme e alle misure dei nostri sensi e della nostra immaginazione, siano il risultato di (una straordinaria ubriachezza dell’intelletto umano(109. Ed è follia anche il linguaggio umano, nella misura in cui s’illude di quadrare la realtà e la natura divina nelle pieghe delle sue modestissime geometrie, ed è follia la logica sottesa a questo linguaggio, che crede (ma altro non è che volgare superstizione) di poter ridurre Dio alla sua misura.
Il rovescio, folle, di questa mancata (e impossibile) conoscenza della natura e delle realtà celesti è l’aver posto e il continuare a porre l’uomo al centro dell’universo e, per converso, immaginare l’universo a suo esclusivo servizio: (Guardate il registro che, per duemila anni e più, la filosofia ha tenuto degli affari celesti: gli dei non hanno agito, non hanno parlato che per l’uomo; essa non attribuisce loro altro ufficio e altra funzione: eccoli in guerra contro di noi, [...] eccoli che prendono parte alle nostre liti(110. Con ogni probabilità al lettore contemporaneo queste pagine potevano sembrare rivolte a colpire le sistematizzazioni rinascimentali dell’uomo microcosmo, con tutti i loro corollari di pretese, ma è certo che la portata della critica montaigneana dev’essere anche intesa in senso più ampio: è una tradizione millenaria quella che viene investita in queste pagine, un registre, una philosophie che conta duemila anni. Non è un caso, mi pare, che questa critica radicale all’antropocentrismo sia gestita nelle pagine dell’Apologie non tanto attraverso una lettura delle più recenti posizioni filosofiche, quanto piuttosto sullo sfondo di un più vasto esame delle capacità conoscitive umane. La percezione delle cose, e quindi anche della posizione dell’uomo nel mondo, avviene sempre secondo le forme della conoscenza umana, forme storiche e determinate. Così, se si domandasse a Zenone che cos’è la natura, egli risponderebbe che è un fuoco, un fuoco che produce e procede sulla base di regole ben determinate. Archimede direbbe che il sole è un dio di ferro rovente111. Abbagnano, discutendo sullo scetticismo di Montaigne, precisa bene questo punto: tutta la scienza umana comincia e si conclude all’interno di un universo sensibile, le radici e i princìpi dell’intero edificio dello scibile umano sono nei sensi. Questo è l’estremo limite della nostra esperienza, il fatto che non vi sia nulla al di là di essi che possa servirci a scoprirli, a fondarli. La conoscenza sensibile, e i suoi risultati, mancano di un sicuro criterio che ci consenta di discernere le apparenze vere da quelle false: questo criterio implicherebbe la possibilità di controllare le percezioni sensibili mediante il confronto con le cose che le hanno prodotte in noi. Ed è questa una procedura impraticabile, da cui discende l’assoluta impossibilità di verificare la veridicità delle sensazioni, così come chi non mi conosce non può giudicare se un mio eventuale ritratto mi rassomigli o meno112. Tutti i tentativi di chiarire il mondo con pretesa ultima di verità sono dunque destinati di principio al fallimento, (sono tutti sogni e fanatiche follie(113.
A risultati del tutto analoghi giunge poi la filosofia quando sposta la sua attenzione dal cielo alla struttura dell’uomo. Anche in quest’ambito di ricerca (la persuasione della certezza è un indizio certo di follia e di estrema incertezza; e non vi sono persone più pazze né meno filosofe dei filodossi di Platone(114. In fondo, almeno per quanto riguarda la corrente indagine, non ci sarebbe quasi bisogno di procedere oltre: negata alla ragione umana la possibilità di effettivo passaggio alla natura di Dio, del mondo, dell’uomo stesso, ogni affermazione che pretenda di porsi (e di imporsi) al di fuori di questo recinto, non può essere che prodotto di sogno, di stravaganza, di follia. Follia che è tutt’uno con un pregiudizio, una falsa presunzione di fondo, con una (fantasia, (vale a dire) che la ragione umana è sindacatrice generale di tutto quello che è al di fuori e al di dentro della volta celeste, che abbraccia tutto, che può tutto, e per mezzo della quale tutto si sa e tutto si conosce(115. Certo, qualche vera cognizione alberga senz’altro in noi, ma per caso e senza che sia possibile distinguerla con certezza dalle altre vane apparenze che ci popolano e ci costituiscono: gli errori e le verità ci provengono dalla stessa via e noi, è stato chiarito, non disponiamo di alcun criterio per distinguere il vero dal falso. Da qui, inevitabilmente, una singolare definizione di ragione:
(Chiamo sempre ragione quell’apparenza di ragionamento che ognuno fabbrica in sé; questa ragione, della cui specie ce ne possono essere cento contrarie riguardo a uno stesso oggetto, è uno strumento di piombo e di cera, allungabile, pieghevole e adattabile a tutti i versi e a tutte le misure; non resta che l’abilità di saperlo limitare(116.
A ridosso della profonda analisi di Starobinski e sullo sfondo dell’intera parabola dei Saggi, il problema del rapporto vero/falso e dell’altro rapporto ad esso connesso, quello di ragione/follia, appare in tutta la sua luce. Montaigne sviluppa, e proprio all’interno della sua scrittura, un tema fondamentale e antico, anteriore a Platone, argomento inesauribile per moralisti e predicatori di ogni stagione storica: il mondo umano non è che menzogna, inganno, dissimulazione, vane apparenze. L’istanza scettica giunge per altro a complicare e moltiplicare labirinticamente le conseguenze della denuncia di tale stato di cose. Certo: ogni protesta sulla falsità del mondo suppone, con evidenza, la fede in un valore opposto, in (una verità che si situerebbe altrove (in questo mondo oppure fuori di esso) e che ci autorizzerebbe a intervenire in nome suo e a farci gli accusatori della menzogna(. E tuttavia, in questa sua opposizione al mondo, Montaigne non può appellarsi ad alcuna verità autenticamente posseduta. Di concreto, documentabile, argomentabile, vi è (solamente il suo odio per il (far finta(. Il vero è positivo, ancora sconosciuto, implicito nella negazione rivolta contro il male dilagante; il vero non ha un volto determinato, è l’energia insoddisfatta che anima e arma l’atto del rifiuto(117. In tal senso la follia non è semplicemente ciò che si oppone alla verità e alla ragione118, fantasma del tutto latitante nell’universo scettico di un Montaigne, quanto piuttosto la fede cieca in una sedicente verità, costruita da mani umane, una verità edificata sull’ignoranza dei reali ed evidenti limiti della ragione umana, su quella presunzione che ne è insieme causa ed effetto, una verità che intende negare e sostituirsi alla Rivelazione, una verità che allontana l’uomo dalle (opinioni sane e moderate(.
Per altro verso la follia, nel suo abito melanconico e delirante, pare investire la genesi storica e psicologica degli stessi Essais. All’inizio dell’ottavo capitolo del secondo libro Montaigne pare lasciarsi andare ad una sorta di confessione:
(È un umore melanconico, e un umore quindi molto contrario alla mia indole naturale, prodotto dalla tristezza della solitudine nella quale qualche anno fa mi ero immerso, che mi ha dapprima messo in mente questa fantasia di mettermi a scrivere. E poi, trovandomi del tutto sprovvisto e vuoto di ogni altra materia, ho presentato me a me stesso, come argomento e soggetto(119.
All’origine stessa della scrittura degli Essais, e quindi della Grande Opera del (ritorno a sé(, Montaigne fa intervenire una disposizione fisica, un disordine del temperamento (qual è appunto l’umore malinconico), scaturiente a sua volta da una disposizione affettiva: quella tristezza che fu causa ed effetto della scelta di vita appartata. Quest’umore determina la resverie, da intendersi qui in senso forte, quale delirio, follia, ossessione. Ci troviamo di fronte a un quadro che la dottrina galenica potrebbe sottoscrivere: una precisa psicosomatica, ovvero una serie di cause e di effetti in cui le modifiche del corpo e quelle dello spirito si influenzano e si determinano reciprocamente. Qui Montaigne accetta l’antropologia medica di lontana ascendenza galenica, per altro diffusa e generalmente accettata nel suo secolo. La relazione tra solitudine e melanconia è stretta, diretta. Il melanconico è il prodotto della propria solitudine e la solitudine è il naturale esito di un temperamento melanconico. Sullo sfondo vi è anche la consapevolezza del rischio di melanconia che accompagna come un’ombra la vita intellettuale, per cui il melanconico tenderà a passare la vita a leggere e a scrivere libri, e d’altra parte l’eccessivo tempo dedicato alla lettura e alla scrittura è il preciso detonatore all’esplosione di un temperamento melanconico. Ancora: non si ignora che la melanconia può sortire due effetti tra loro opposti, (l’ispirazione geniale e lo stupore tetro(120.
Ciò che qui comunque importa sottolineare è questa (a prima vista) stravagante identificazione delle responsabilità che stanno a monte di questa scrittura: la melanconia ( mi ha dapprima messo in mente questa fantasia di mettermi a scrivere(. Montaigne sembra volersi discolpare dal peccato dello scrivere, o quanto meno affermare una mancanza di spontaneità: la causa è nascosta nelle tenebre del corpo e della mente, in quel temperamento melanconico, prodotto e produttore di solitudine, di una solitudine che erutta resveries, fantasie, deliri, che guidano, dall’ombra, la scrittura, la riflessione121.
Un’analoga resverie pare costituire la cifra stessa della natura e del destino dell’uomo, una follia, un costante e incurabile delirio, pressoché indistinguibile da ciò che si chiama ‘ragione’. Si legga a questo riguardo il passo sottolineato da Foucault:
(La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell’universo, all’ultimo piano della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizioni; e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della Luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature(122.
Il disincanto della semplice constatazione non può che guidare l’uomo al riconoscimento della propria debolezza, dell’estremo pericolo, dell’estrema precarietà, che lo circonda e lo minaccia da ogni parte, della sua posizione insuperabilmente terrena, vicina (alla più morta e putrida parte dell’universo, all’ultimo piano della casa(. Lo stultus di cui parlava l’Elogio della follia, vale a dire l’uomo stesso, fuggiva da questa situazione per il tramite dell’Amor di sé e della Dimenticanza. L’uomo di Montaigne, non molto diversamente, tenta ostinatamente la fuga dai risultati di ogni sua eventuale disincantata constatazione per virtù dell’immaginazione e dei suoi prodotti primi: l’orgoglio e la presunzione. È un’immaginazione connotata dalla vanità, da un vuoto fondamentale, e incolmabile, di conoscenza e di verità, ma anche di sincerità e onestà intellettuale. Fiore malato di quest’immaginazione è l’orgoglio, la presunzione, la quale non riguarda soltanto l’uomo della strada: è anzitutto tra le pieghe di una filosofia millenaria che l’uomo osa eguagliarsi a Dio, separare (se stesso dalla folla delle altre creature(, attribuirsi (prerogative divine(. Legge molto bene Foucault questo passo: questo oblio della nostra reale condizione e, sullo sfondo di questo spazio svuotato, la costruzione di improbabili fantasmi di potenza umana, sono (la peggiore delle follie(: il primo risultato del lavorio dell’immaginazione è il mancato riconoscimento della nostra condizione miserevole, di quella congenita e insuperabile debolezza che ci preclude la via al vero e al bene. Ora, il rifiuto di (questa sragione, che è il segno stesso della nostra condizione(, equivale al rifiuto a (usare per sempre in modo ragionevole la propria ragione(. Insomma, la ragione, in quanto dall’origine accecata, zoppa, impossibilitata al passaggio verso la comprensione ultima del mondo, del cielo e di se stessa, è già dall’origine intrisa di follia, di resverie, di sogni e deliri. E a questo punto l’unica forma possibile di saggezza non può che sussistere in (questo cerchio continuo della saggezza e della follia, nell’essere chiaramente coscienti della loro reciprocità e della loro impossibile separazione(123. Scompare allora per l’uomo l’eventualità di accedere allo spazio esclusivo della Sapientia: non resta che accettare lo spettacolo vano e fatuo del mondo, con coscienza della fatuità e della vanità insuperabile, tanto dello spettacolo, tanto dello spettatore. Ogni ricerca tesa verso una fantomatica verità ultima non sarebbe che (una forma peggiore di follia(.
Si comprende così in quale misura la visita al Tasso in preda al delirio abbia affascinato (oltre che rattristato, ovviamente) Montaigne. Egli vide con chiarezza ciò che già la vita e la scrittura, nei loro diversi ma convergenti registri, gli avevano insegnato: che la ragione è infinitamente vicina alla profonda follia e rinviene le sue specifiche risorse proprio da essa. Certo, la vivacità delle immagini, la violenza delle passioni, quel grande ritrarsi dello spirito in se stesso, che appartengono per essenza alla follia, risultano essere anche gli strumenti più acuti, e più pericolosi, della ragione stessa: (la follia è un momento duro ma necessario nel lavorio della ragione; [...] la sua forza viva e segreta(124.
5. Un tentativo di sistematizzazione, L’Encyclopédie
Tre sono per gli Enciclopedisti gli ambiti scientifici nei quali il problema della follia può trovare posto: la letteratura, la morale e la medicina. Resta indubbio che la sezione occupata dalla riflessione medica occupa uno spazio, e un’importanza, maggiore; tuttavia pare emergere anche la precisa volontà di una comprensione globale del fenomeno, un’attenzione puntuale alle diverse angolazioni visuali dalle quali il problema può essere accostato, e insieme anche un’obbedienza ai princìpi di sistematizzazione delle conoscenze sottolineati da d’Alembert nel Discours préliminaire125.
L’analisi dello spessore letterario e storico della figura del fol fu affidato dagli Enciclopedisti all’infaticabile chevalier De Jaucourt126. Ci troviamo di fronte a una rapida sintesi storica della presenza e del ruolo del folle/buffone (fol, fou, bouffon), a una compilazione paziente di testimonianze storiche che si tiene sempre ben distante da una visione medico-patologica della follia127. Non vi è sventura alcuna che circonda e investe questo personaggio, e tanto meno il suo ritratto risulta calato all’interno di un orizzonte tragico: per quanto possa influire in maniera obliqua e sotterranea alle vicende politiche del mondo che lo ospita, egli non detiene alcun potere rivelatore sui destini ultimi del mondo, dell’uomo. La sua folle sapienza è tutta e solo mondana, non esce dal cerchio ristretto della corte. Il chevalier adotta per dipingerlo una cornice di chiara ed esplicita ironia: parlando dell’uso dei potenti di circondarsi di queste figure, lo definisce ridicolo, e le ragioni di queste ridicolaggine, dell’assurdità e del vuoto che caratterizza quest’antica usanza non è dovuta semplicemente al fatto che essa, come si precisa, appartiene del tutto al passato128. Vi è forse una ragione ben più profonda, ben più attuale, che il lettore dell’Encyclopédie può scorgere fra le righe: la precisa condanna di un modo di far politica che continuava a sussistere anche dopo la morte del Re Sole, la critica serrata ad una società nella quale la figura del fou si era di fatto tradotta in quella del parassita. È una pagina, questa del chevalier, che non credo vada letta unicamente nel registro della passione antiquaria; essa è un tentativo, non diverso da quello perseguito nelle pagine dedicate all’esame della ‘follia morale’, di esercitare una pressione critica su un costume sociale ancora fortemente radicato nel momento in cui queste righe venivano pensate e scritte: il nipote di Rameau ne costituisce prova testuale129.
Nell’esordio si precisa come l’uso da parte dei re di tenere presso la propria corte dei folli/buffoni risalga molto indietro nel tempo. All’inizio del IX sec. l’imperatore Teofilo aveva per fou un tale chiamato Daudery. Lo scopo, l’attività, per la quale venivano mantenuti a corte era (divertirli (i re e i cortigiani) con le loro battute, i loro gesti, i loro scherzi, o le loro impertinenze(130. Dietro le quinte di tale attività vi stavano vaste e diverse capacità. Non poteva trattarsi semplicemente di stupidi, e del resto la stupidità pura e semplice, immediata, spontanea, non ha tanto l’ufficio di rallegrare, quanto piuttosto l’effetto di rattristare, di annoiare: dovevano conoscere la lingua con sufficiente perizia da saper elaborare all’occasione gli equilibrismi più arditi, gli accostamenti più paradossali, i giochi di parole più suggestivi; dovevano conoscere gli usi e i costumi, essere al corrente degli avvenimenti; dovevano disporre di un ben sviluppato senso della misura, affinché le loro impertinenze non debordassero in volgari insulti. Solo sullo sfondo di queste competenze comuni possiamo pensare come ciascuno dei fous esercitasse la propria arte con quell’originalità che lo rendeva apprezzato, necessario, insostituibile: Daudery era indiscreto e la sua servile indiscrezione in un certo senso gli assicurava un ruolo e un peso politico. L’episodio che il chevalier riporta ne costituisce una valida prova: un giorno Daudery entrò bruscamente nella stanza privata della principessa Teodora e la sorprese che pregava davanti ad un oratorio ornato di bellissime immagini, che ella guardava in gran segreto per evitare che l’imperatore, ispirato da furore iconoclasta, ne venisse a conoscenza. Il fou, che non aveva mai visto immagini sacre in vita sua (così almeno racconta la storia), si contentò della spiegazione offerta da Teodora: quelle immagini erano delle bambole di cui l’imperatrice avrebbe fatto dono alle figlie. A pranzo Daudery cominciò ad informare Teofilo dell’accaduto e l’imperatrice solo a fatica riuscì a destreggiarsi nella difficile situazione.
Il quadro pare abbastanza preciso: confidente, amico, intimo del monarca, il fou può addirittura permettersi di entrare nelle stanze private dell’imperatrice. Ciò equivale a dire che ha accesso ovunque. Qui addirittura viene a svolgere il suo ruolo all’ombra delle tensioni iconoclaste: la sua presenza attiva e apprezzata nelle stanze del potere gli conferisce con ciò stesso un rivelante ruolo e peso politico131.
Proseguendo la propria storia lo chevalier documenta di una rapida espansione su suolo europeo dopo le crociate della moda di avere dei fous stabiliti nelle corti, (che servissero loro da zimbello e da divertimento. [...] Le grandi casate si procurarono un folle che abbigliarono ridicolmente, affinché l’erede presuntivo avesse modo di divertirsi dei suoi discorsi o delle sue cantonate(132. L’autore manca di sottolinearlo, ma la cosa è oltre modo ovvia: ridendo del linguaggio, dei gesti e delle vesti del fou, non si rideva tanto della follia, quanto dello spettacolo di essa, della sua messa in scena. Nel fou non prende voce affatto la follia: è una ragione piuttosto, una ragione tutta imbastita di furbizia e di scaltrezza, che veste per gioco, e per contratto e mestiere, gli stracci dell’insensato133. Queste bevues, queste cantonate, che tanto facevano ridere, e tanto facevano riflettere, erano tutt’altro che sincere e immediate. Erano costruite ad arte. Gonelle, il fou di Nicola III d’Este, divenne famoso per le sue reparties, ossia le sue repliche, le sue risposte. Non diversamente dal folle di Francesco I:
(Il folle di Francesco I, chiamato Triboulet, disse che Carlo V era più folle di lui a passare per la Francia per andare nei Paesi Bassi; ma, gli disse Francesco I, Se sono io in persona a lasciarlo passare! In questo caso, disse Triboulet, cancellerò il suo nome dalle mie tavolette, e vi metterò il vostro(134.
Il folle si rivela quanto mai prudens, produce un consiglio di capitale importanza politica e militare, anche se in vesti senza dubbio insolite, in un registro non certo formale e protocollare, ma popolare, giocoso (centrale in questo senso risulta il richiamo alle tablettes in cui, verosimilmente, il fou scriveva i nomi, teneva il conto dei matti). Può risultare paradossale il gioco che viene a realizzarsi sul palcoscenico quando si recita la follia: irriverenza, verità, onestà divengono la cifra del servilismo; la verità trova modo di sopravvivere solo mascherata nel berretto a sonagli; i potenti, soffocato ogni spiraglio di dibattito ed edificato all’interno del recinto invalicabile della censura un mondo di silenzio e di oscurità, cercano, e pagano, l’occhio indiscreto e senza veli del folle. È un cerchio di necessità reciproca a legare l’attore e il principe: da un lato il bisogno di sopravvivere, e di arricchirsi, dall’altro il ben più tremendo bisogno di vedere135. E questa riflessione non fa che seguire fedelmente la sottolineatura che De Jaucourt pone di fronte al suo lettore riguardo ai meriti, alle capacità, all’intelligenza di l’Angely, il fou di Luigi XIV. A giustificazione di questa messa in evidenza non basta il fatto che i tempi dei quali si narra erano molto vicini a quelli della stesura dell’articolo e che qualcuno ancora poteva serbare memoria di questo personaggio: la figura di l’Angely pare piuttosto avere un estremo potere di sintesi per illuminare le meccaniche che producono la messa in scena della follia: (L’Angely era un folle pieno di spirito, che trovò il segreto di piacere agli uni, di farsi temere dagli altri, e d’ammassare in questo modo una somma di venticinquemila scudi di quei tempi là(136. I folli che nella stessa epoca affollavano le petits maisons avevano in comune con lui unicamente il nome di fous, non certo le ricchezze, e la furbizia, la scaltrezza, la rapidità di spirito, quell’innata e forse inesplorabile capacità di arrampicarsi socialmente. A Versailles divenne famoso per le sue battute: railleries piquantes dice il testo, centrando proprio in quest’espressione ossimorica la fonte del suo successo. Le railleries sono asinerie, espressioni vuote, prive di contenuto: quelle di l’Angely erano piquantes, piccanti, mordaci, vale a dire centrate, puntuali, costruite ad arte, con solo l’apparenza della vuota e innocente spontaneità, che sola consentiva di oltrepassare le soglie della censura137.
L’articolo immediatamente successivo a quello del De Jaucourt, folie138, strutturato in due grandi ambiti di riflessione, morale e medico139, risulta del tutto privo di intenzioni critico-ironiche. Certo, anche in queste righe non è difficile ravvisare accenti polemici e una diffusa volontà di riformare abitudini e costumi sociali radicati, ma il distacco obiettivo che l’autore dimostra nei confronti del suo oggetto appare sempre ispirato da serietà scientifica, dalla volontà precisa di chiarire oggettivamente il problema, senza che il discorso sia disturbato da eventuali deviazioni caricaturali, ironiche. Ciò che qui cerca di prendere forma è proprio il tentativo di chiarire i complessi rapporti che la follia intrattiene con il vero, con la ragione, con la salute individuale e sociale: l’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un’indagine autenticamente filosofica, che poco si lascia viziare da programmi politici e morali che la precedono. L’attenzione con cui si distinguono diversi generi di follia, il modo in cui la riflessione morale su di essa prosegue e si specifica nell’analisi medica, ne costituiscono una prova.
Al di là delle varie e puntuali classificazioni che vengono proposte, un punto resta fermo: la follia abita lo spazio esterno alla ragione, la distanza e il modo di questa distanza dalla ragione decide della qualità della follia. Quest’ultima dunque non pare vivere di vita propria, è piuttosto una fantomatica entità di relazione, mai definibile in sé e per sé, ma sempre in relazione alla ragione. Ed è sulla scia di questa dialettica che l’autore arriva a distinguere tre grandi generi di follia, incorniciati ciascuno all’interno di una precisa formula.
Il primo genere segna uno stato prossimo allo spegnimento dell’attività cerebrale: (allontanarsi dalla ragione, senza rendersene conto, poichè si è privati delle idee, è essere imbecille(140. Un écartement che è lontananza assoluta dalla ragione, assenza di idee e di coscienza, privazione del pensiero, grado ultimo di insensatezza, in cui la distanza dal vero non pare neppure misurabile: oltre, ma davvero a distanza minima, vi è solo la morte.
Il secondo genere si distingue per la coscienza che il soggetto ha di questo écartement: (allontanarsi dalla ragione con coscienza, ma a malincuore, poiché si è schiavi di una passione violenta, è essere debole(141. A disegnare il suo spazio concorrono la visione chiara della posizione che si occupa rispetto alla ragione, il consapevole servaggio nei confronti di una passione incontrollabile, la debolezza della volontà incapace di restare nei sicuri recinti della ragione. Insomma, un allontanamento consapevole dalla ragione, un allontanamento non volontario, ma obbligato dall’emergenza di una violenta passione: il soggetto che rientra in questa fenomenologia non è propriamente folle, è foible, debole.
Il terzo genere è quello sul quale maggiormente si ferma l’attenzione dell’Enciclopedista: (allontanarsi (dalla ragione) con fiducia, e nella ferma persuasione che non la si fugga, ecco, mi sembra, ciò che si chiama essere folle(142. Anche qui, come all’interno del primo genere, è in gioco un allontanamento dalla ragione privo di consapevolezza, ma non perché l’attività della coscienza sia ridotta a zero: qui il soggetto può prendere visione della sua posizione nei confronti della ragione, ma la sua è una visione del tutto erronea. Egli vive nella tranquilla sicurezza di star seguendo le regole della ragione143.
Tutte e tre queste forme di follia, e in modo particolare la terza, escludono nella maniera più totale l’idea stessa di messa in scena, di quella distanza vigile e critica tra il soggetto e il proprio comportamento, che invece caratterizzava la figura del folle/buffone di corte: qui vi è sempre spontaneità, immediatezza; la gestione del linguaggio, del comportamento, dell’immagine, non risulta mai mediata dalle regole di un’arte meditata; le parole e i gesti non sono pilotati, né sono pilotabili, dai gusti e dagli umori dell’eventuale pubblico, dalle necessità politiche sociali o psicologiche di chi tiene i cordoni della borsa. All’ironia sufficiente che l’Encyclopedie riserva alla figura, tutta sociale, del folle/buffone, subentra nei confronti dei folli autentici una pietà pensosa, comunque sincera, capace di congelare ogni eventuale spiraglio ironico. L’affermazione, la constatazione, che al terzo genere di follia fanno capo (quegli sventurati che si rinchiude(144, viene improvvisamente ad aprire uno scenario tragico, ‘tragico’ in senso forte, dal momento che si precisa che costoro non differiscono dagli altri uomini se non per il fatto che le loro follie sono meno comuni e non rientrano nell’ordine della società. Il rischio della follia pare dunque riguardare tutti gli uomini, svelare un lato oscuro e comune all’umanità intera, e l’unico, del tutto insoddisfacente, criterio per operare un discrimine tra quelli che sono folli e quelli che non lo sono, è la norma sociale, la consuetudine. Manca del tutto la possibilità di rinvenire un criterio più solido145.
Questa difficoltà di definire la follia emerge a chiare lettere nell’imbarazzo che mostra l’Enciclopedista nella delucidazione dei rapporti follia/ragione. In effetto tanto la follia quanto la ragione possono chiarirsi solo vicendevolmente, all’interno di un rapporto dialettico in cui l’una chiarisce i confini dell’altra. Si segua punto per punto il faticoso ragionamento dell’Enciclopedista: a) la follia è una privazione (privation, un termine negativo, una semplice negazione, e in quanto tale non definibile in sé e per sé, a prescindere dal termine di cui è negazione); b) il suo positivo, il suo contrario, è la ragione (l’Enciclopedista giunge qui a sottolineare la necessità che, per chiarire l’essenza della follia, occorre chiarire l’essenza della ragione. E qui emergono le difficoltà); c) (che cos’è la ragione? Ciò che chiamiamo così, almeno in senso contrario alla follia, in generale non è altra cosa che la conoscenza del vero(146. Lo si vede: il sottolineare la necessità di una definizione preliminare della ragione e poi accontentarsi dell’uso linguistico generale, è senza dubbio la prova di un certo imbarazzo, così come il definire la ragione sul rovescio della follia (au moins dans un sense contraire à la folie). Spiegato diversamente: a) si vuole definire la follia; b) si riconosce che non è altro che la negazione della ragione; c) per conseguire l’obiettivo di definire la follia occorre quindi definire la ragione; d) si definisce la ragione sul rovescio della follia, la quale però attende ancora di essere definita. Certo, così posto il problema pare destinato a rimanere insoluto, e tuttavia un’indicazione sembra comunque suggerirla: occorre considerare la coppia dialettica ragione/follia, senza più pretendere di definire autonomamente l’uno o l’altro dei termini147.
Una ricognizione semantica sulla metafora dell’écartement, che ritorna ossessivamente ogni volta che si tratti di tracciare gli spazi della follia, già sarebbe sufficiente a sollecitare riflessioni capaci di contribuire notevolmente all’analisi dei rapporti follia/ragione. L’uso transitivo del verbo écarter non mette in gioco affatto un movimento da un luogo a un altro, ad esso esterno ed estraneo. Si pensi all’espressione écarter les doigts, écarter les jambes: l’atto dell’écartement qui viene semplicemente a realizzare una diversa sistematizzazione, una diversa organizzazione di un unico e medesimo luogo. Ora, nel discorso dell’Enciclopedista l’espressione non è usata in questo modo, la forma riflessiva del verbo e la presenza del complemento di luogo suggerisce l’idea di due spazi distinti, e di una sorta di movimento, di tragitto, che il soggetto deve compiere per portarsi da uno spazio all’altro. Tuttavia, l’idea di una separazione, di una divaricazione all’interno di ciò che prima costituiva un unico indifferenziato spazio riaffiora nella quasi (mancata) precisazione del rapporto dialettico che di fatto intercorre tra follia e ragione. Insomma: l’impianto teorico costruito dall’Enciclopedista sembra quasi produca autonomamente il riconoscimento di questo vincolo dialettico, che per altro l’Enciclopedista stesso fatica a riconoscere, prigioniero com’è della convinzione aprioristica che la follia è comunque e sempre altro dalla ragione. Eppure Erasmo, Montaigne, Shakespeare, l’avevano già compreso: nel costituirsi in quanto coppia dialettica follia e ragione formano, anzi, sono uno spazio unico148.
Verificata dunque l’impossibilità di definire la follia e la ragione all’interno di queste coordinate, l’Enciclopedista introduce un terzo termine, la verità. La misura della follia e della ragione sta tutta nella loro capacità di cogliere e di vivere il ‘vero’, il luogo della follia e quello della ragione si determinano sulla base della distanza che li separa dal ‘vero’. Viene così a porsi la necessità di delucidare la nozione di verità, che si rivela uno snodo fondamentale di tutto il ragionamento. Ragione e follia non sono in fondo che due funzioni di verità.
Nella definizione del ‘vero’ che viene proposta sembra emergere una eco degli Essais di Montaigne149, in quanto qui non parla, e non è affatto in gioco, quel ‘vero’ che (l’autore della natura ha riservato per lui solo(150, un ‘vero’ montaigneanamente inattingibile all’intelligenza umana. Il ‘vero’ che può fungere da unità di misura nella ricognizione sulla follia e la ragione è quel (vero sensibile(151 che è alla portata di tutti e che risulta necessario alla conservazione (conservation) e alla felicità (bonheur) sia dell’individuo sia della società. La riflessione sulla follia s’innesta così in un quadro patologico, chiarendo ad un tempo l’assoluta empiricità del criterio in grado di riconoscerla: il termometro, e il pericolo, della follia è la mancata salute e l’infelicità.
Vi sono due sottotipi di ‘vero sensibile’, fisico e morale. (Il vero fisico consiste nel giusto rapporto delle nostre sensazioni con gli oggetti fisici, cosa che succede quando questi oggetti c’impressionano alla stessa maniera di tutti gli altri uomini(152. Il criterio di delimitazione e identificazione del vrai physique è ancora empirico, anzi: statistico. Non è mai in gioco un qualche preteso aggancio delle sensazioni alla cosa reale, più semplicemente la valutazione di ciò che è vero e di ciò che è falso viene effettuata sulle sfondo di un comune sentire. Ed è ancora un giusto rapporto, tra gli oggetti morali e tra gli oggetti morali e noi, a definire sul piano specifico della morale i territori della ragione e della follia: (Il vero morale consiste nella giustezza dei rapporti che noi vediamo, sia tra gli oggetti morali, sia entro questi oggetti e noi(153. La follia scaturisce proprio dal valicare i confini di tale justesse. Autentici motori di follia sono dunque tutti quegli errori che ci trascinano (erreurs qui nous entraîne), che piegano la nostra condotta fuori dai dettami della ragione; sono tutti i difetti, le bizzarrie, le irregolarità (travers) del nostro esprit, le illusioni dell’amor proprio, le passioni portate a un grado estremo: (sono dunque vere follie tutte le bizzarrie del nostro spirito, tutte le illusioni dell’amor proprio, e tutte le nostre passioni, quando esse siano condotte sino all’accecamento(154. In queste righe non si legge solo il gusto per l’espressione ossimorica (e come si potrebbe definire diversamente l’espressione véritables folies? Cosa vi è, almeno per l’Enciclopedista, di più lontano ed estraneo alla verità che la follia?): i motori della follia, le travers de notre esprit, le illusions de l’amour propre e le passions sembrano pazientemente collocate a creare una sorta di climax ascendente, in cui il termine successivo, una specie di effetto, riassume e amplifica il precedente, una specie di causa. Se questa lettura presenta un fondo di verità, allora le passions, ultimo termine della catena ascendente, costituiscono il punto di arrivo e di sintesi potenziata degli elementi che lo precedono. E non si fraintenda questa sottolineatura moralistica del ruolo negativo delle passioni, l’Enciclopedista non intende affatto resuscitare e sottoscrivere l’ascetico buon senso stoico (già dileggiato dalla Stulticia nell’Elogio erasmiano155) tutto riassunto nell’esatto rapporto di equivalenza e sinonimia tra passioni e follia. Per chi scrive l’articolo le passioni non sono di per sé un male: lo divengono quando, spinte all’eccesso, dilagano in tutto l’esprit, accecandolo. Punto d’arresto del climax non sono affatto le passioni, quanto piuttosto l’aveuglement che esse eventualmente possono produrre. In un linguaggio che non è più quello dell’Enciclopedista potremmo intendere l’accecamento come una struttura, una forma a priori dell’errore: l’aveuglement è il territorio, l’elemento in cui si muove e vive la follia, è lo spazio esterno alla ragione, ai lumi. è (il carattere distintivo della follia(156.
In esatta conformità alla definizione precedentemente offerta del terzo genere di follia, non si pensi che a costituire la ‘follia morale’ sia sufficiente il puro e semplice écartement dal rispetto delle regole morali. Risulta necessario che un tale écartement si accompagni alla mancata consapevolezza della sua realizzazione. L’esempio proposto risulta chiarissimo: un soggetto compie un’azione criminale; qualora sia stato consapevole, commettendola, di essere fuoriuscito dai recinti della morale comunemente accettata, è uno scellerato; qualora al contrario sia persuaso di esserne rimasto all’interno, e solo in questo caso, è un folle157.
La follia è dunque per l’Enciclopedista un aveuglement, un écartement inconsapevole dai ‘giusti rapporti’, fisici e morali. Follia fisica e follia morale si distinguono anche relativamente al ‘territorio umano’ in cui espletano la loro azione: la follia fisica riguarda una gran moltitudine di persone, nessuno può ritenersene a priori del tutto immune (infatti, per soddisfare questa pretesa occorrerebbe rinvenire un criterio ultimo, definitivo, che convalidi i risultati delle percezioni nelle loro pretese di verità). La follia fisica è insomma sparsa per il mondo, laddove quella morale è invece ben rinchiusa nelle maisons de force, senza dubbio allo scopo di impedirne gli effetti di pericolosità sociale158.
Prima di approfondire ulteriormente l’esplorazione del territorio di competenza della follia, vengono affrontate due questioni di un certo interesse. La prima riguarda il livello di comprensione che il linguaggio ordinario può offrirci della follia. Nell’espressione (dire o fare delle follie( tutta quella complessa meccanica di aveuglement e di écartement è del tutto assente. Il termine ‘follia’, precisa l’Enciclopedista, non è usato qui in senso rigoroso. Anzi, quel tipo di follia, cui allude il linguaggio ordinario, a ben vedere assomiglia a una forma particolare di saggezza, a una sorta di stratagemma igienico con cui la ragione sfugge, momentaneamente e senza alcuna pericolosa conseguenza, alla sua stessa soffocante severità159.
La seconda questione viene qui solo accennata in poche righe, per poi essere ripresa in tutta la sua ampiezza nelle pagine che discutono il problema dell’insensatezza nei suoi risvolti medico-patologici. Il problema è se la follia provenga da un’alterazione dell’anima per poi estendersi agli organi del corpo o se invece il percorso della malattia non si muova in senso inverso: è una questione difficile da dirimere, si afferma, e comunque di scarso interesse, quasi inutile, oziosa. Gli effetti sono comunque gli stessi160.
Follia è dunque allontanarsi dalla ragione, dal vero: è accecamento, eccesso. (Tutti gli eccessi sono follia(161 sentenzia laconicamente l’Enciclopedista. L’eccesso viene più precisamente inteso, sempre all’interno della metafora spaziale, quale allontanamento immotivato, non necessario: in questo modo la follia può insinuarsi anche nella condotta più lodevole, nell’amicizia, nell’amore della gloria, che è senz’altro bene perseguire, ma con dei limiti definiti dalla ragione stessa. Allontanarsi da tali limiti, da tali pietre di confine, equivale a mettere a repentaglio la reputazione, il patrimonio, la salute. Tuttavia questa regola non sembra valere universalmente: gli eccessi, che possono condurre fino alla perdita della vita, sono da considerarsi delle vere e proprie virtù, qualora siano guidati e illuminati da un principio di dovere generalmente riconosciuto162.
Ad ogni modo la metafora dell’eccesso pare improntata a un assoluto relativismo. Si è visto come lo spingere l’azione morale fino alla perdita della propria reputazione, del proprio patrimonio e della vita stessa sia da considerare un parto cieco della follia, e tuttavia, qualora sia giustificata da un principio d’ordine superiore l’intera tavola dei valori si rovescia. Oltre a ciò, l’eccesso, la definizione di ciò che è eccesso, diviene uno spazio da determinare volta a volta sulla base dell’età (ciò che è follia in un vecchio può non esserlo in un giovane), dello stato e della fortuna (ciò che è folle in uno stato mediocre e sullo sfondo di scarsi mezzi economici, può non esserlo in un rango elevato e sulla base di un patrimonio cospicuo). Al di là dei casi eccezionali, l’Enciclopedista approda comunque a dei punti fermi: generalmente la ragione si trova nel giusto mezzo, le due estremità sono da considerarsi ugualmente folli, come insegnano i casi del dissipatore e dell’avaro, del sibarita e dell’ipocondriaco. Inoltre, sempre generalmente e al di là dei casi eccezionali, gli unici veri beni sulla terra sono la salute, la libertà, la moderazione dei desideri, la buona coscienza: il sacrificio volontario di questi tesori equivale ad excedere dal territorio della ragione: è follia163.
Al serio rigore della distinzione subentra nella chiusura della sezione dell’articolo dedicata alla riflessione morale un’inevitabile e pacata constatazione: la follia dilaga nell’intero mondo. Non resta che rassegnarsi. Questo eccedere i limiti della ragione è, nei fatti, qualcosa di connaturato, un istinto insuperabile, per l’uomo e per la società. La divertita e distaccata panoramica164 che l’Enciclopedista traccia delle follie più diffuse sul territorio umano, sembra quasi avanzare la pretesa di descriverlo per intero. Dopo aver passato in rassegna i melanconici, i collerici, i vendicativi, l’amabile e dolce follia dei giovani, i vanagloriosi, la pazzia di chi vive al di sopra delle proprie possibilità, si giunge finalmente a precisare che l’ordine della follia è in fondo l’ordine stesso della società:
(Se qualcuno di questi folli comparisse per la prima volta presso una nazione che non ha mai conosciuto che la ragione, è verosimile che lo si farebbe internare. Ma tra noi l’abitudine di vederli ce li fa sopportare; alcune delle loro follie ci sono necessarie, altre ci sono utili, quasi tutte entrano nell’ordine della società, poichè questo ordine non è altra cosa che la combinazione delle follie umane. Se ve ne fossero alcune che apparissero inutili o anche contrarie, esse sono la sorte di un così gran numero d’individui, che non è possibile escluderle. Ma esse non cambiano di natura per questo: ciascuno riconosce per follia quella che non è la sua, e spesso la sua propria, quando la vede in un altro(165.
Riemergono, assieme ai temi dell’Elogio, anche quel registro critico-ironico sul quale era accordato il discorso della Stulticia. Non solo gli individui, ma le stesse città cui danno vita, sono edificate sulle acque della follia, senza rimedio. La definizione teorica dell’insensato, il fatto di essere giunti, sia pure con difficoltà, ad aprire la strada ad una ‘triangolazione’ dello spazio della follia, se da un lato rende possibile la sua individuazione, il suo seppellimento diagnostico, la sua conseguente esclusione, dall’altro non la estirpa certo dal tessuto del mondo, perché questo tessuto è la follia stessa (puisque cet ordre n’est autre chose que la combination des folies humaines). Anche per l’Enciclopedista non resta che rassegnarsi: se la ragione è la norma, la regola, e la follia è invece l’eccesso e l’eccezione, è comunque quest’ultima a scandire i ritmi della vita dell’uomo.
6. Il nipote di Rameau
La produzione letteraria e filosofica di Diderot, al di fuori del suo impegno nel progetto dell’Encyclopédie, presenta motivi di grande originalità e rilievo riguardo all’indagine che qui ha corso. Foucault, uno dei numi tutelari di chi oggi si trova a riflettere sul problema dell’insensato, dedica numerose pagine all’analisi del Neveu de Rameau, attribuendogli un’importanza centrale, emblematica, nell’ambito di una ‘storia della follia’. Il significato dell’esistenza sragionevole di Rameau, affondando le sue radici nel tempo, raccogliendo in sé antichissime figure (quali ad esempio il buffone medioevale) e preannunciando le forme moderne della sragione (Nerval, Nietzsche, Artaud), viene a presentare in forma generale, sintetica, le grandi strutture della sragione latenti nella cultura occidentale. In tal senso Rameau costituisce un paradigma raccorciato della storia166.
In questa sede il dialogo diderotiano interessa in primo luogo in quanto prosegue ed amplifica le poche note che il De Jaucourt, nell’Encyclopédie, dedicava alla figura del folle/buffone di corte, una figura che l’autore considerava del tutto estinta all’epoca del suo scrivere. Da un certo punto di vista la constatazione del De Jaucourt risulta incontestabilmente vera, quanto meno per il territorio francese: il licenziamento, la cacciata di l’Angely dalla corte di Luigi XIV segna un momento storico preciso, ben documentabile ed individuabile, al di là del quale non è più dato rinvenire nelle corti reali la figura, investita di una certa ufficialità, del folle/buffone. Tuttavia a questa scomparsa sembra sia seguita la riemersione su ben più vasta scala sociale della figura del parassita, figlio legittimo del buffone di corte e ben consapevole di tale discendenza. Come se la figura e la funzione del folle/buffone si fosse scissa e moltiplicata a dismisura: confinata prima in un unico luogo, la corte del re, riemerge poi in tutta una vasta e multiforme pluralità di luoghi diversi, ovunque vi siano potenti da servire.
Quest’indagine, con evidenza, non intende prefiggersi il compito di inseguire e individuare né la figura storica del folle/buffone, né i percorsi storici da lui seguiti. A questo proposito anzi, se si tiene conto che anche l’antichità greca e latina conosceva la figura del parassita e quella del potente che ne aveva bisogno, potremmo giungere a rovesciare il senso di quella parabola di evoluzione e metamorfosi storica azzardata poco prima: non è tanto la figura del folle/buffone a convertirsi e a moltiplicarsi nel grande e variopinto popolo dei parassiti, quanto piuttosto il contrario. Il folle/buffone di medioevale memoria, non sarebbe che un rappresentante, tra i più illustri, della galassia sotterranea dei parassiti, presuppone (storicamente e logicamente) questa galassia e si distingue da essa per l’estrema perizia in un’arte che non è certo lui il solo a possedere, ma che condivide con gli altri parassiti di rango inferiore. La sua visibilità storica non è conseguenza della sua assoluta unicità, quanto piuttosto del luogo in cui si trova ad esercitare quest’arte diffusa. Per questo, credo, l’Encyclopédie ricorda l’Angely e non, per costruire un esempio fra mille, i parassiti che popolavano i salotti di provincia dell’ancien régime.
È ciò che si muove dietro la figura, i gesti, il linguaggio del folle/buffone/parassita a sollecitare l’interesse di quest’indagine. La sua arte produce la finzione della follia, una sua imitazione, e quindi ci parla di essa. L’Encyclopédie, almeno esplicitamente, non sembra porre alcun legame (come già l’omonimia suggerirebbe) tra il folle/buffone di corte e il folle propriamente detto, il delirante, il maniaco, melanconico. Certo, il buffone non è folle, non è un malato, ma pone in scena la follia, ci dà la rappresentazione della malattia, ed è per questo che pagine come quelle del Neveu, centrate sulla figura del parassita e ancora esterne alle mura dell’internamento e dell’ospedale possono entrare di diritto nei termini di quest’indagine167.
È Rameau stesso a teorizzare una sorta di continuità storica tra l’antica figura del buffone di corte e il moderno parassita. (Non c’è ruolo migliore presso i grandi di quello del mattacchione. C’è stato per molto tempo il mattacchione del re in carica [...]. Io sono il buffone di Bertin e di molti altri(168. Verificare la correttezza storica di questo inquadramento porterebbe certo oltre i confini di quest’indagine. Una cosa comunque rimane certa, il fatto che Diderot costruisca la figura di Rameau sul prolungamento di quella del buffone medioevale. Identici appaiono i ruoli che entrambi si trovano a occupare nel contesto in cui vivono, identica appare la relazione di necessità reciproca che li lega ai potenti, loro padroni. Se è vero infatti che la stessa soppravvivenza fisica di Rameau è legata ai benefici che i potenti gli accordano per i suoi servigi, è altrettanto vero che la figura da lui impersonata nei salotti risulta di estrema ed irrinunciabile necessità ai potenti stessi. Al Rameau cacciato dalla casa di Bertin e dubbioso sull’eventualità di ribussare a quella porta, il suo interlocutore lo rassicura, lo esorta a ripresentarsi: (Al vostro posto andrei a trovare quella gente. Per loro siete più necessario di quanto non credete(169.
Un rapido confronto tra le pagine del De Jaucourt sulla figura del fol/bouffon e il dialogo diderotiano fa emergere ulteriori e precise linee di continuità. Entrambi costruiscono rapporti di profonda amicizia e intimità coi potenti, un’intimità che, almeno per quanto riguarda il fol è tutt’altro che sincera, spontanea. Tutta una lunga e difficile arte conduce a questo risultato: occorre saper adulare, mentire, sedurre (ed egli conosce più di cento maniere per sedurre la fanciulla che passeggia a fianco della madre), spergiurare, promettere, mettersi a quattro zampe, favorire gl’intrighi, aiutare le unioni amorose e all’occorrenza gli abbandoni, incoraggiare il giovane timido e persuadere Madamigella ad ascoltarlo170. Mentre il testo del De Jaucourt lasciava soltanto intravedere l’arte complessa e l’estenuante fatica necessaria al fol per raggiungere tali vertici, Diderot viene a integrare tale mancanza, precisando gli studi necessari a chi voglia intraprendere una tale attività: (ho letto e rileggo continuamente Teofrasto, La Bruyère e Molière. [...] Io vi raccolgo tutto ciò che si deve fare e tutto ciò che non si deve dire(171. Anche l’arte del parassitismo ha la sua scienza pedagogica. La lettura dell’Avaro è indispensabile a chi, avaro, non vuole tuttavia parlare come un avaro; la lettura del Tartufo a chi, genuinamente e invincibilmente ipocrita, vuole evitarne il tono e le apparenze. Una pedagogia rovesciata, al negativo, quella che costruisce e nutre l’arte del fol: la lettura dei filosofi e dei moralisti non insegue uno scopo edificante. La conoscenza dei vizi umani risulta subordinata non certo alla volontà di estirparli, o quanto meno di correggerli, ma alla necessità di nasconderli, necessità e nascondimento che è tutt’uno con il ruolo e l’arte del fol172. Possiamo immaginare che siano stati studi simili a questi a dotare l’Angely della rara conoscenza del segreto di piacere agli uni e di farsi temere dagli altri. Per altro, l’esercizio e lo studio da soli non bastano. Essi s’innestano e prolungano doti, qualità naturali, senz’altro indispensabili al buon esercizio dell’arte e che Rameau dichiara di possedere a un grado sommo: (Sapete che sono un ignorante, uno sciocco, un pazzo, un impertinente, un pelandrone, quel che si dice un accattone matricolato, uno scroccone, un ghiottone(173.
Il buffone medioevale, l’abbiamo chiarito, muoveva i propri gesti e il proprio linguaggio su un difficile crinale: doveva divertire, rasentando quei vertici di verità che solo il folle, nella sua non-cura delle regole di protocollo, riesce a raggiungere, ma nello stesso tempo doveva essere in grado di non oltrepassare la misura, ed era in questa capacità di calibrare le battute, le reparties, che emergevano le potenzialità della sua arte. Molte volte quest’arte fredda e ragionata veniva meno, magari sotto l’incalzare di passioni imperiose, il crinale veniva oltrepassato e, in tal caso, le sue raielleries piquantes lo facevano cacciare da corte. In maniera del tutto analoga, Rameau si abbandona durante un pranzo ad una battuta un po’ troppo spiritosa nei confronti degli altri commensali, innescando le ire del padrone di casa e decretando la sua cacciata.
Vi è una nota tuttavia che stona, una discordanza che disturba il parallelismo tra il fol/bouffon di medioevale memoria e il formicolante universo dei parassiti qui descritto. Sin dalle prime battute del dialogo Rameau lucidamente presenta se stesso come un pauvre diable de bouffon:
(di tanto in tanto avrebbe dato (il potente) un franco a un povero diavolo di buffone come me che l’avrebbe fatto ridere, che all’occasione gli avrebbe dato una ragazza [...]; perché in casa sua avremmo fatto ottimi pranzi, giocato grosse poste, bevuto vini eccellenti, eccellenti liquori, eccellenti caffé, avremmo fatto gite in campagna(174.
Qui Rameau sta sognando un suo eventuale ingaggio presso un potente del tutto immaginario, ma questo piccolo delirio affonda le radici e trova i suoi materiali in una lunga e tribolata esperienza concreta. Quella misera pistole guadagnata, se da un lato giustifica il perché Rameau dipinga se stesso come un pauvre diable, dall’altro misura con esattezza la distanza che separa i moderni buffoni dai loro più illustri antenati: siamo infatti ben lontani dalle migliaia di écus ammassati da l’Angely. Anche se Rameau poco oltre correggerà il tiro su questa presunta totale povertà economica del parassita, è certo comunque che ci troviamo di fronte ad un’enorme disparità, la quale per altro è semplicemente il risultato del diverso ambiente, della diversa ‘piazza’, in cui il parassita si trova a vendere la propria merce: non più la ricca e opulenta corte reale, ma i ben più modesti salotti della nobiltà e della ricca borghesia. Rameau non approfondisce certo questi motivi, né pare interessato a misurare con precisione la distanza storica che lo separa da figure come quella di l’Angely. Ciò nonostante quando afferma: ( C’è stato per molto tempo il mattacchione del re in carica [...]. Io sono il buffone di Bertin e di molti altri( si avverte una nota di rammarico, proprio leggendo quest’affermazione cogli occhi di Rameau: ora, gli unici potenti, sembra dire tristemente tra le righe, presso i quali è possibile esercitare la ‘nobile arte’, sono i vari Bertin, i vari Monsauges, individui meschini, stupidi in sommo grado e sommamente ingrati. Insomma, l’Angely viene riconosciuto come suo diretto antenato, un uomo con qualità analoghe alle sue e che esercitava lo stesso mestiere, solo un po’ più fortunato. Questo, del destino di miseria del buffone moderno, è un pensiero che corre sotterraneo nella mente di Rameau e che affiora quasi impercettibilmente nel suo discorrere. In ogni caso, la retribuzione economica, modesta, saltuaria, elargita secondo i capricci del potente, risulta comunque a suoi occhi notevolmente corretta dai benefici materiali che l’intimità coi potenti assicura: pranzi, ottimi e frequenti, la possibilità di gustare sino e oltre la sazietà vini e liquori eccellenti175.
Com’è noto la critica ha sovente insistito sul ‘realismo’ di questo dialogo, sottolineando e comprovando con ampia documentazione non solo l’esistenza fisica di un parassita parigino che era nipote del famoso musicista Rameau, ma anche il suo incontro con Diderot, ormai giunto agli apici del suo successo. Quest’incontro, che così tanto avrebbe impressionato l’Enciclopedista, sarebbe da collocare nei mesi immediatamente precedenti l’inizio della stesura del dialogo, fissata nel 1762. Non è certo mia intenzione discutere i risultati di tali ricerche e tuttavia esse possono risultare in qualche modo fuorvianti: può esser vero che la scaturigine delle varie riflessioni che Diderot intreccia nel dialogo siano da rinvenire nella meraviglia, nello stupore, che l’incontro con questo strano personaggio avrebbe suscitato, ma la costruzione e descrizione del personaggio, la paziente riscrittura (scrittura) dei suoi deliri e delle sue pantomime, non poteva essere semplicemente il frutto di un paziente ed estenuante esercizio di memoria, che dal ’62, anno probabile dell’incontro, si sarebbe protratto sino al ’72, anno in cui il Neveu sarebbe stato finalmente concluso. Più verosimile mi pare ipotizzare, al di là di un’inafferrabile e inspiegabile catalogazione di realismo176, una ben più lenta, meditata e problematica costruzione tanto del personaggio, quanto del dialogo. Se l’idea del lavoro prese effettivamente le mosse (cosa di cui non si vuole dubitare) da un’esperienza personale, le intuizioni che tale esperienza produsse furono tuttavia integrate, moltiplicate, precisate, confuse attraverso molteplici letture, la memoria delle quali finì di fatto per prendere il posto di quella sempre più lontana esperienza personale. La lunga elaborazione dello scritto, il fatto che il dialogo tra il Moi e il Lui non trova il suo habitat nelle strade parigine quanto piuttosto nella stessa coscienza dello scrivente177, rappresentano già elementi sufficienti che da un lato escludono la possibilità d’intendere il dialogo come una sorta di calco fotografico di un’esperienza passata, dall’altro autorizzano una ricerca filologica più complessa, tesa ad individuare le fonti letterarie, scientifiche e filosofiche sulle quali è maturata la costruzione della figura di Rameau.
Così, mi sembra probabile, che nell’approfondire e nel chiarire la situazione sociale di Rameau, la sua arte e il suo mestiere, egli abbia tenuto presenti, tra le altre, pagine come quelle del De Jaucourt, collega stimato all’Encyclopédie, che potevano offrirgli in rapida sintesi il punto di vista dei philosophes su quest’antica figura178. Non diversamente, le numerose pagine che Diderot dedica a rappresentarci i lunghi soliloqui e deliri di Rameau, paiono risentire della lettura di quegli spazi che l’Encyclopédie riservava alla follia, a quella considerata da un punto di vista essenzialmente patologico, in quanto pura e semplice malattia.
Sono oltre quindici i luoghi in cui il dialogo del Moi e del Lui s’interrompe per lasciar posto alle pantomime, agli entusiasmi deliranti di Rameau. In quei momenti il Moi si fa da parte, tace, e prende inizio un nuovo dialogo, tutto all’interno del Lui, tra gli oggetti, le presenze, le realtà, a cui la sua immaginazione da vita: sono tutti esempi di una messa in scena della follia e proprio in quanto tali rappresentano un osservatorio privilegiato dal quale osservare i gesti e i linguaggi della follia stessa. Le pagine dedicate a gettar luce sulla complessa situazione sociale ed economica del folle/buffone parassita sono insistentemente affiancate e intrecciate alla descrizione di questi ‘deliri’, destinati a render conto del prodotto della sua arte e del suo mestiere: è il buffone sorpreso nella sua officina di teatrante, sul palco. In uno degli ultimi intermezzi, forse il più lungo ed impegnativo, tutta una folla viene a far ressa intorno: è uno spettacolo quello che Rameau sta facendo, lo spettacolo della follia.
Gli spazi occupati da questi intermezzi, per quanto sostanzialmente trascurati dalla critica179, rivestono per quest’indagine un’importanza centrale: è il tentativo diderotiano di descrivere la follia, di farla parlare. È Rameau stesso a presentare lo spettacolo che la sua arte produce come qualcosa d’imparentato strettamente con l’insensato. La sua arte viene a porsi sulla traiettoria di una parabola il cui vertice è costituito dalla follia di grado patologico, quella rinchiusa nei luoghi d’internamento: (Posso stillarmi il cervello quanto voglio per arrivare alla sublimità dei manicomi(180. Questi vertici, questa sublimità, vengono inseguiti, tentati, inscenati appunto in questi intermezzi. Prendendo quello che forse è l’intermezzo più complesso e riuscito, si legge:
(Tutti gli spingi-legna avevano lasciato le loro scacchiere e gli avevano fatto crocchio intorno. Le finestre del caffé erano occupate, all’esterno, dai passanti che si erano fermati a quello strepito. E tutti facevano delle risate da far crollare il soffitto. Egli non si accorgeva di niente; continuava, colto da un’alienazione della mente, e tanto vicino alla follia da dubitare se possa tornare in sé, se non si dovrà buttarlo in una carrozza di piazza e portarlo diritto in manicomio. [...] Che cosa non gli vidi fare? Piangeva, gridava, sospirava; guardava intenerito, o tranquillo, o furioso. [...] Aveva totalmente perduto la testa(181.
L’inserzione di questi lunghi intermezzi non produce in nessun modo delle fratture all’organicità del dialogo182, proprio in quanto questa poetica del frammento e del delirio è essenziale all’organicità del lavoro stesso. Una volta messe da parte le interpretazioni riduttive di tali deliri, emergono con grande chiarezza i legami che collegano questi frammenti, questi massi (solo apparentemente) erratici, all’intera struttura teorica che regge lo scritto e anche ad altri momenti della produzione letteraria e filosofica di Diderot. Vale la pena di approfondire la sostanza di questi legami, che rappresentano per noi altrettante svolte, altrettanti ambiti di ricerca, essenziali per chiarire la natura, la materia di questi ‘deliri’.
Gli intermezzi deliranti, considerati globalmente, ci offrono una sorta di ‘fenomenologia dell’insensato’, tutta una lunga galleria di gesti e di linguaggi attraverso i quali la follia affiora. Le descrizioni che il Moi a più riprese tenta del Lui non fanno che parafrasare, spiegare (o tentare di spiegare) tali fenomeni, quasi fossero espressione di una coscienza critica, a volte ironica a volte indignata, che si esercita sull’oggetto che gli si pone di fronte, a distanza di sicurezza.
Per altro, alla difficile elaborazione di questa ‘fenomenologia’ e delle parafrasi critiche e didascaliche che la preparano e l’accompagnano contribuirono anche letture scientifiche, come le pagine che l’Encyclopédie dedicava all’esposizione del punto di vista medico sulla follia, pagine che trasportano in maniera limpidissima una coscienza critico-analitica della follia, ciò insomma che vi è di più lontano da una coscienza tragica della stessa183.
Nelle prime righe dello scritto, dopo aver sottolineato all’attenzione del lettore la dimensione assolutamente eccezionale, di modello euristico, di Rameau184, Diderot sintetizza un ben singolare ritratto del personaggio:
(è un composto di altezza e di bassezza, di buon senso e di irragionevolezza. Bisogna che i concetti dell’onesto e del disonesto siano ben stranamente confusi nella sua testa, poiché mostra senza ostentazione quel tanto di buone qualità che natura gli ha dato, e senza pudore quel tanto di cattive che ne ha ricevuto. Per il resto, è dotato di una forte costituzione, di un singolare calore d’immaginazione, e di una robustezza di polmoni fuori dal comune(185.
Vi è qui in estrema sintesi non soltanto il volto ambiguo, di ardua decifrabilità, di quello che s’imporrà tra breve come il protagonista dell’intero dialogo, ma anche nello stesso tempo la chiave per leggere il dialogo stesso, interamente pensato e costruito a ridosso della bizzarria di questo personaggio. Le lunghe pause che il dialogo si prende per lasciar posto all’irruenza mimica e delirante di Rameau altro non sono che la traduzione, sul piano della scrittura, delle pause, delle ambiguità, delle bizzarrie che costituiscono la cifra psicologica ed esistenziale di Rameau. Ben lungi quindi dal disturbare l’organicità dello scritto, sono piuttosto magistralmente aderenti all’oggetto che tale scritto intende portare alla luce, aderenti alle sue aritmie, ai suoi scarti repentini, ai suoi frequenti cambiamenti di rotta e d’umore. In altre parole, le rapide ricognizioni sulla bizzarria di Rameau186 presentano su un registro di distanza critica gl’intermezzi deliranti, costituendone una sorta di perifrasi, di didascalia: solo artificialmente ha senso il separare questi due momenti. Di fatto, sono espressioni, su registri diversi, di un medesimo fenomeno. Negli intermezzi deliranti è la follia a parlare, nelle ricognizioni che il Moi tenta di Rameau la follia è invece oggetto di discorso, fenomeno posto a distanza critica, interrogato da una coscienza critica che si ritiene esterna ed estranea ad esso. Negli intermezzi deliranti trovano posto citazioni prese direttamente dal mondo della follia; nelle descrizioni ‘oggettive’ si tenta di tradurre nel linguaggio familiare della ragione i geroglifici dell’insensato. Molte volte il delirio e il discorso sul delirio s’intrecciano ripetutamente e rapidamente nel corso di poche righe, altre volte risulta persino difficile il distinguerli, dal momento che sovente la scrittura del delirio è elaborata in forma indiretta, quasi in un estremo tentativo di porre una qualche parvenza d’ordine nelle esplosioni entusiastiche e caotiche di Rameau.
Ora, non v’è dubbio che Diderot, nel costruire il delirio del suo personaggio e il relativo discorso su tale delirio, abbia tenuto presenti le riflessioni e i risultati della scienza medica contemporanea e che proprio attraverso tali letture, di cui le pagine dell’Encyclopédie possono offrirci un’autorevole sintesi, egli abbia meditato (e per circa dieci anni) la scrittura del suo personaggio riflettendo sugli sventurati delle Petites-Maisons. Non si esageri e non si fraintenda: Rameau non è la costruzione artificiale di un ‘caso clinico’, non presenta affatto un quadro sintomatologico nel quale sia possibile rinvenire la figura esatta, precisa, del maniaco, o del melanconico, o del frenetico. Lo scopo diderotiano non fu certo quello di elaborare una tavola di esempio da porre a margine di qualche manuale sulle patologie mentali (qualcosa, sto pensando, di simile alle tavole sulle arti e sui mestieri che accompagnarono la publicazione dell’Encyclopédie). Una certa disinvoltura nell’uso dei quadri nosografici era pressoché essenziale alla costruzione di un personaggio che doveva risultare emblematico, eccezionale, cruciale e che, non da ultimo, doveva raccogliere in sintesi estrema la follia della società intera187.
Nell’articolo folie la sezione dedicata alla riflessione medica inizia sottolineando la difficoltà di operare una lucida ricognizione sul territorio dell’insensato: nemmeno i più famosi ed attenti nosografi, si precisa, avrebbero mai creduto di poter pervenire in tale ambito a (un’idea precisa, una definizione ben distinta(188. All’ombra di questa riserva l’autore dell’articolo tenta comunque una sistemazione della complessa materia. La follia (consiste in un forte deragliamento della ragione, in una depravazione della facoltà pensante, la cui cancellazione è ciò che si chiama demenza(189. Questa depravation può aver luogo in modi differenti, assumendo così forme diverse nel delirio, nella melanconia e nella mania, che risultano dunque manifestazioni, forme fenomeniche, speci di quel genere che è la folie. Il delirio, pur rimanendo una ben precisa patologia, distinta dalle altre due, assume tuttavia una portata più ampia, onnicomprensiva, in quanto di fatto costituisce la ‘struttura di fondo’ non solo del delirio propriamente detto, ma anche della mania e della melanconia. (L’errore dell’intelletto che giudica male, durante la veglia, di cose sulle quali tutti la pensano alla stessa maniera, è il genere (la struttura di fondo) di queste tre malattie(190. E questo genre, precisa l’autore, viene solitamente chiamato ‘delirio’.
Nel ben più ampio articolo dedicato estesamente al délire191, a cui le pagine sulla folie esplicitamente rinviano, al di là della maggiore attenzione dedicata ai fondamenti fisiologici delle patologie mentali, la definizione riassuntiva di ‘delirio’ risulta pressoché identica: (il delirio non è altra cosa che il deragliare, l’errare dello spirito durante la veglia, che giudica male di cose note a tutti(192. Se questa è la ‘struttura di fondo’, la sostanza del delirio consiste nel fatto che le idee e i giudizi, che altro non sono che la comparazione che l’esprit compie fra le sue idee, sono in proporzione più forti o più deboli delle impressioni che gli provengono dagli oggetti esterni. Lo spirito, durante lo stato di veglia, si presenta delle idee che non sono affatto conformi alle impressioni che gli provengono dagli oggetti esterni e che sono nel migliore dei casi soltanto simili a quelle naturalmente eccitate dall’impressione di tali oggetti: da qui discende l’impossibilità di (un giudizio sano e naturale(193. Si vengono in questo modo a distinguere diversi gradi di delirio a seconda del grado di alterazione che si produce nel sensorium commune, l’organo delle sensazioni.
Ad un primo livello troviamo un delirio di grado leggero: i malati credono di percepire certi oggetti attraverso la via normale dei sensi, ma è sufficiente che una voce esterna li avverta perchè immediatamente si rendano conto dell’errore. Qui le alterazioni indotte dal sensorium sono di lieve entità, le impressioni risultano più leggere di quelle prodotte da cause esterne che agiscono sui sensi. È dunque la possibilità di condurre facilmente il delirante al di fuori del cerchio del suo stesso delirio la cifra che identifica questo primo livello. E si comprende altrettanto bene che Rameau non abita certo nelle vicinanze di questo livello: coinvolto interamente nel mondo evocato dalla sua stessa (calda immaginazione(, il Moi non tenta nemmeno di ricondurlo alla ragione, al dialogo. Non è nemmeno possibile che una voce esterna raggiunga l’interno, quel mondo che si agita e vive all’interno di Rameau: il delirio si svolge a porte chiuse: (e tutti facevano delle risate da far crollare il soffitto: Egli non si accorgeva di niente(. Tutta un’orchestra, mille partiture si risvegliavano nella sua immaginazione: (affastellava e intrecciava insieme trenta arie italiane, francesi, tragiche, comiche, e ogni specie di caratteri.[...] Rendeva i corni e i fagotti, [...] fischiava i flauti, tubava i clarini(194, esattamente come se li avesse davanti, con la stessa enfasi, la stessa precisione, la stessa ostinazione. In un altro intermezzo, seduto a un clavicembalo del tutto immaginario, seguendo su un ipotetico soffitto una complessa partitura, riusciva persino a sbagliare, dimostrando una fede cieca e assoluta all’oggetto della sua visione. Diderot non manca di sottolineare questo vertice: (Ma la cosa più bizzarra era che di tanto in tanto andava a tentoni, si riprendeva come se avesse sbagliato, e s’indispettiva di non avere più il testo tra le dita(195.
Proseguendo la lettura dell’articolo enciclopedico giungiamo ad un livello di delirio in cui l’azione della causa interna sul sensorium è forte, eguaglia o addirittura sorpassa l’impressione che giunge ai sensi da cause esterne. In questo caso risulta del tutto vano persuadere i malati (che la causa di ciò che essi sentono non ha alcuna esistenza fuori di loro stessi. [...] L’idea che ne risulta è ostinatamente presente nella loro mente e non può essere corretta da alcun ragionamento(196. Inutile sottolineare ulteriormente che questo è proprio il livello in cui si situano i deliri di Rameau, deliri che solo per forza interna trovano il potere di placarsi, deliri senza quasi aggancio alcuno al mondo esterno effettivamente circostante, e tuttavia deliri che hanno una loro logica, che dimostrano come la facoltà di pensare, di giudicare, d’intrecciare e confrontare idee, di distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il riuscito dall’abortito, non sia affatto del tutto esterna ad essi. Certo, a chi assiste al delirio mancano tutti quei riferimenti visivi, sonori, tattili che animano il delirante, che sono la sostanza del suo ‘ragionare nascosto’. Il delirante Rameau vede, sente, ode il clavicembalo, lo tiene tra le gambe flesse come d’abitudine, ne avvolge il manico con la mano sinistra completamente aperta, piega il collo: lo spettatore che gli è a un passo vede solo un matto che si dispone in una positura assolutamente innaturale. Eppure una logica c’è, all’interno delle alte mura del delirio, ed è una logica ben ferrea, che può arrivare persino a rinvenire nei suoi stessi gesti e linguaggi la presenza dell’errore. Il Rameau che s’indispettisce per aver perso il filo della sua lettura immaginaria ne è un esempio chiarissimo. Anche l’Enciclopedista sottolinea come gli organi che servono al giudizio non risultano, a delirio in corso, del tutto privati delle loro facoltà. Anzi, la facoltà del giudizio, internamente ai processi deliranti, svolge l’importante funzione di decretare agli occhi del soggetto la verità delle idee risultanti dalle impressioni esercitate dalla causa interna:
(tutto ciò che accade in noi, che prende il nome di giudizio, dipende dall’interna facoltà del pensiero, che confronta le sue idee: così un uomo che è nel delirio si persuade che le idee, che gli vengono rappresentate quando la causa interna le eccita, sono vere, perché esse sono ugualmente vive e gli sembrano simili a quelle che eccitano altre volte in lui gli oggetti esterni(197.
L’Enciclopedista prosegue ricordando come tutte le idee che nascono in noi, e quindi anche quelle che non risultano da impressioni provenienti da cause esterne, rappresentano comunque un oggetto che può essere piacevole, spiacevole o indifferente198 e in quanto tali ci determinano ad agire di conseguenza. Ora, quando ai deliranti si presentano oggetti agréables e désagreables, ovvero gli oggetti più adatti ad eccitare violente affezioni dell’animo, si agitano molto, giungono anche a ferire gli assistenti, spazzano via tutti gli ostacoli. (Né le minacce, né i pericoli, né la ragione, possono trattenere i malati che ne sono investiti (dalla visione, tutta interna, di questi oggetti) [...]. Li si paragona a delle bestie selvagge(199. Anche in Rameau le visioni innescano passioni che puntualmente si traducono in un fitto gesticolare, in tutta una vasta gamma di espressioni che si succedono a ritmo incalzante: (sulla sua faccia si susseguivano le passioni. Vi si leggeva la tenerezza, l’ira, il piacere, il dolore(200. Altrove la mimica viene a costituire la struttura portante del delirio stesso ed è comunque l’elemento più interessante e suggestivo per lo spettatore, che riesce quasi a ricostruire, partendo dai gesti del delirante, lo spazio fisico nel quale il delirio ha luogo, quella scena che solo gli occhi di Rameau riescono a vedere: (avresti una bella casa (e ne misurava l’ampiezza con le braccia), un buon letto (e vi si stendeva con noncuranza), buoni vini (che assaporava facendo schioccare la lingua contro il palato)(201.
Le meccaniche sottostanti al delirio, così come sono presentate dall’Enciclopedista, sembrano proprio essere state puntualmente ripercorse da Diderot nell’atto di elaborare la scrittura degli intermezzi mimici e deliranti del suo ‘bizzarro’ personaggio. Difficoltà notevoli s’incontrano invece qualora si tenti di piegare e circoscrivere gli eccessi di Rameau all’interno di un preciso quadro sintomatologico che rinvii invariabilmente a una o a un’altra chiara patologia clinica202. L’assenza di febbre porta ad escludere l’eventualità della frenesia, ma non è elemento sufficiente a diagnosticare con una certa sicurezza se si tratti di manie o di mélancholie, dal momento che entrambe non necessariamente comportano accessi febbrili. Il carattere generico e distintivo della mélancholie è l’essere una forma particolare di delirio, (che verte su uno o due oggetti determinati, senza febbre né furore(203. Un delirio particolare, non universale, assicura l’Enciclopedista, un delirio sovente unito a una tristezza invincibile, a un umore tetro, alla misantropia: tutti elementi non pertinenti a centrare la follia di Rameau, che al contrario si dimostra il più delle volte all’insegna dell’entusiasmo gioioso, quasi di allegria solare. Vi sono per altro alcuni elementi significativi che avvicinano il melanconico alla figura di Rameau: (i malinconici sono ordinariamente tristi, pensosi, sognatori, inquieti, costanti nello studio e nella meditazione, insensibili al freddo e alla fame(204. L’estrema inquietudine del personaggio Rameau è ampiamente testimoniata in tutto il dialogo, così come il suo essere sognatore, il suo vero e proprio vivere di sogni, di ‘deliri’ appunto, nel corso dei quali non partecipa di quella normale sensibilità che caratterizza gli altri uomini: il caldo soffocante non frena le sue energie, non interrompe i suoi deliri gesticolanti, non riesce nemmeno ad imporre una misura all’impegno fisico necessario a porli in atto. (Faceva un caldo da morire; e il sudore che gli colava lungo le pieghe della fronte e le guance stillava giù solcando la parte superiore dell’abito(: Rameau non cerca il fazzoletto per tergersi la fronte. È troppo impegnato a suonare e forse nel luogo, nello spazio delirante, in cui si trova non fa tutto quel caldo. Ad ogni modo, (egli non si accorgeva di niente(205.
Il motivo dell’insensibilità riguarda forse più da vicino la figura clinica del maniaco: (quando la mania è conclamata [...], essi non sono più sensibili alla fame, alla sete, al bisogno di dormire(206. I loro corpi si rinforzano, lo stesso temperamento si fortifica; dimostrano un forza esplosiva ed è raro vederli malati. Vivono molto a lungo. Tornando a Rameau, Diderot ce lo presenta all’inizio del dialogo come un uomo dotato di ottima costituzione fisica e robustezza non comune, che si adatta a dormire sulle panchine del parco, che trascorre intere giornate senza toccare cibo e che ciò nonostante, all’occorrenza, è in grado di mostrare la forma più smagliante.

Un carattere di fondo dell’intero scritto diderotiano è il gusto, la ricerca del frammentario. Non è un caso, nè tantomeno la prova di una mancanza di organicità: è il delirio che per esprimersi ha bisogno del frammento, e non può certo distendersi in un discorso piano, la cui origine sia nota, le cui conclusioni del tutto esplicitate. Il delirio, in quanto fenomeno, così come si presenta all’osservatore esterno, è solo un piccolo ritaglio di un mondo che si agita nei sotterranei mentali del delirante, ed è un ritaglio fortemente impoverito: in superficie non giunge tutta la ricchezza della visione interna. Gli oggetti, e i movimenti, i gesti, le parole di tali oggetti, i loro significati, lo spazio e il tempo, l’atmosfera in cui sono immersi, tutti questi elementi che costruiscono nella vita di veglia ciò che chiamiamo ‘realtà’, e che nel delirio costruiscono la realtà della visione, non superano la soglia del visibile. A varcare tale limen è solo qualche gesto del delirante, qualche sua parola, del tutto sganciata dal contesto che l’ha prodotta e che la sostiene. Il delirio, inteso come fenomeno, ha insomma la dimensione del frammento: è l’unico angolo visibile di una più larga struttura del tutto invisibile, l’unica pagina che ci è dato leggere, perso ormai il volume che la ospitava. Il delirio non può che presentarsi allo spettatore come una collezione disorganica di frammenti e, all’interno di una lettura diacronica del delirio stesso, come una successione disarticolata di elementi eterogenei.
La sapienza con la quale questa poetica del frammento si esercita nel Neveu dimostra con ampiezza quanto Diderot fosse consapevole di tutto questo, consapevole dello scarto che sussiste tra il protagonista e lo spettatore del delirio, consapevole dei due diversi mondi abitati dall’uno e dall’altro, consapevole che la cifra del ‘delirio raccontato’ non può essere che il frammento. E anche riguardo a questi motivi poteva trovare interessanti letture nelle riflessioni mediche sulla manie. L’Enciclopedista nel presentare questi malati al lettore insiste ripetutamente sul fatto che non cessano per un istante, durante i loro attacchi, di cantare, di ridere, di piangere, di parlare, alternando a ritmo sorprendente e senza motivo alcuno gli stati d’animo più diversi, (cambiano l’oggetto del loro interesse ad ogni istante, parlano a spron battuto, dimenticano ciò che stanno dicendo e lo ripetono continuamente(207. E questo è esattamente il volto di Rameau.
La posizione, l’atteggiamento che Diderot a più riprese mostra nei confronti degli eccessi di Rameau è alquanto singolare, in particolar modo qualora lo si metta a confronto con le reazioni dell’intera platea. Tutti si limitano a ridere, ridono e basta, fanno cerchio attorno alle improvvisate bizzarrie di quel personaggio a loro indubbiamente familiare e, nel momento in cui Rameau placa i suoi entusiasmi e riprende a dialogare con il suo interlocutore, semplicemente si allontanano. Lo spettacolo circense si è concluso. Diderot è lapidario nel dipingere queste comuni reazioni: (la folla che ci circondava o non capiva niente, oppure trovando ben poco interesse in quel che egli diceva, perché in generale al bambino come all’uomo, e all’uomo come al bambino, piace di più divertirsi che istruirsi, si era ritirata(208. Questa sottolineatura diderotiana si presta a una duplice lettura. In primo luogo, tenuta ferma l’intenzione di critica sociale e morale dell’intero scritto, non v’è dubbio come la constatazione sia qui intesa a sottolineare il generale disinteresse dell’uomo di strada nei confronti di quelle attività (come il dialogo, di estetica musicale in questo caso), che possono contribuire alla sua maturazione. L’immagine è chiara: il divertimento superficiale, mai problematico, istintivamente restio ad imparentarsi con la riflessione, rimane l’obiettivo costante dell’uomo, dall’infanzia all’età adulta. L’emancipazione dell’uomo, come dirà Kant, dallo stato di minorità, trova anche in questo un suo rilevante ostacolo.
In secondo luogo, tenuto presente che queste pagine investono anche una complessa riflessione sulla follia, la rapida ricognizione diderotiana sulle reazioni del pubblico, illustra anche quella che è la coscienza comune, diffusa, istintiva e indiscussa nei confronti dell’insensato: qualcosa di estraneo, di distante, di assolutamente straniero rispetto alla ‘ragione’ che, riteniamo, abita tranquilla e solitaria in noi. Questa è la distanza massima cui la coscienza critica della follia può giungere, il punto più lontano dal riconoscimento di una dimensione tragica della follia stessa. Proprio per questo lo spettacolo della follia inscenato da Rameau diverte, fa ridere, senza mai innescare nemmeno un pallido spiraglio di riflessione. La prova di questo è già tutta nel fatto che quando l’eccesso delirante si spegne, e lo spettacolo è concluso, la folla si disperde: il divertimento è finito.
L’atteggiamento di Diderot nei confronti di questi ‘spettacoli’ è ben più complesso, e non si appiattisce certo su questo grado ultimo di coscienza critica: (ammiravo? Sì, lo ammiravo! Ero mosso a pietà? Ero mosso a pietà; ma una venatura di ridicolo era frammista a questi sentimenti e li snaturava(209. Anche il Moi non risulta del tutto estraneo al divertimento generale, ma il suo è un divertimento assolutamente particolare, innestato e intrecciato su un fondo di ammirazione, per la grandezza degli scenari che lo spettacolo di Rameau riesce ad accendere nella sua immaginazione, venato di pietà, per l’ingratitudine dimostrata dal pubblico e per la sorte, la vita stessa di Rameau, volontario zimbello di uomini insulsi. Pietà verso un mondo che ospita, produce e incoraggia personaggi dello stampo di Rameau.
Ad ogni modo una cosa pare chiara: la coscienza che Diderot mostra nei confronti della follia, proprio attraverso il caso cruciale di Rameau, non è mai semplice coscienza critica, non presuppone mai un puro distacco incolmabile che separi la sua persona, la sua vita, il suo modo di guardare il mondo e di riflettere su di esso, dal caos apparente dell’insensato. La coscienza critica, si è già detto, si costruisce e definisce per la distanza che la separa dal suo eventuale oggetto, impedisce o almeno rende difficile ogni sentimento di partecipazione con tale oggetto: si risolve o nel disprezzo o nel riso, in ogni caso in un ‘divertimento’ del tutto passeggero, senza profondità, senza conseguenze. La coscienza che anima il Moi non può essere costretta e semplificata all’interno di queste coordinate, in quanto essa stessa richiede, per essere compresa adeguatamente, coordinate ben più complesse.
All’interno di un articolo fondamentale dell’Encyclopédie lo spazio dedicato alla memoria di Montaigne risulta quasi interamente occupato dalla sottolineatura del ruolo che la resverie ha giocato nell’elaborazione della scrittura degli Essais, (che saranno letti finchè vi saranno uomini che ameranno la verità, la forza, la semplicità(210. Senza alcun riferimento a quel luogo dell’opera montaigneana in cui l’autore confessa quale ruolo abbia giocato l’influenza, l’umore melanconico, nella sua volontà di scrittura e nelle meccaniche che controllano la scrittura stessa, Diderot precisa, di fronte all’eventuale lettore deluso della (apparente) scarsa organicità e coerenza degli Essais, come
(le contraddizioni della sua opera sono la fedele immagine delle contraddizioni dell’intelletto umano. Segue senz’arte la concatenazione delle proprie idee; non si preoccupa del punto di partenza, né del modo di procedere, né della mèta. Dice ciò che lo interessa nel momento in cui scrive(211.
Come si vede, la dimensione del ‘frammentario’ pare essere addirittura la cifra, non solo dello scrivere di Montaigne, ma dello stesso intelletto umano, raccogliendo così in un medesimo destino l’uomo che pensa, l’uomo che sogna, l’uomo che delira: (non è più serrato né più sconnesso quando scrive, di quando pensa o sogna; ed è impossibile che l’uomo che pensa o sogna sia del tutto sconnesso(212. È questa un’affermazione che nel Neveu sembra più volte sul punto di essere pronunciata e che qui viene chiarita in tutta la sua estensione. La ‘frammentarietà’ della scrittura montaigneana, specchio fedele (delle contraddizioni dell’intelletto umano( è solo apparente, è unicamente il risultato di un punto di vista, è ciò che riesce a vedere l’osservatore esterno213, che non è in grado di afferrare e visualizzare quel contesto che produce, sostiene e spiega il frammento stesso. È chiaro infatti che qualora si disponesse dell’intera struttura, dell’intero habitat, di cui il ‘frammento’ è parte, il ‘frammento’ in quanto tale cesserebbe di esistere, per divenire, positivamente, parte di un insieme, coerentemente e logicamente connesso al tutto a cui appartiene. La mancanza di una visione olistica produce, nello spettatore, la visione del frammento214, ma la natura di quest’ultimo non è che la natura dell’apparenza, la sua consistenza è quella, fragilissima, dell’illusione ottica. Insomma, il ‘frammento’, l’isolamento e la mancanza di legami che lo costruisce, è il risultato di un vizio dello sguardo, che mette a fuoco l’oggetto senza cogliere la struttura invisibile dentro la quale abita215. A dimostrazione di ciò, riguardo la reale natura e consistenza del frammento, Diderot giunge a proporre una sorta di reductio ad absurdum. Proviamo ad immaginare che il ‘frammento’ sia realmente tale e che non vi sia alcuna fantomatica struttura a suo fondamento. Quali conseguenze produce una simile ipotesi? (Bisognerebbe che un effetto potesse cessare senza causa e che un altro effetto potesse improvvisamente prodursi da sé. V’è un legame necessario tra i due pensieri più disparati(216.
Questa convinzione diderotiana è naturalmente viva anche quando riflette sulla follia, caso estremo di ‘apparente frammentazione’: (è una regola alla quale persino i pazzi sono soggetti, pur nella loro estrema confusione mentale(217. Se si potesse abbracciare olisticamente, ben oltre la distanza e l’osservazione critica, ciò che avviene nella mente dei folli, prosegue Diderot, (vedremo che tutto è coerente nella loro mente, così come nell’uomo più saggio e sensato(218.
Quest’articolo, la stesura del quale è senza dubbio da collocare in tempi anteriori a quella del Neveu, può indirettamente contribuire a chiarire con quali occhi Diderot si rivolga alla follia di Rameau. La figura del lontano maestro e la sua scrittura vengono focalizzati e illuminati proprio riflettendo sulle figure del sognatore e del delirante. Anzi, nei sentieri interrotti, nei frammenti, che sono la scrittura visibile, i geroglifici del delirio, si nasconde la cifra stessa dell’intelletto umano: Montaigne lo dimostra scrivendo, Rameau vivendo e recitando.
Le pagine che Casini nel suo lungo saggio su Diderot dedica al Rêve de d’Alembert consentono di chiarire e approfondire ulteriormente tutta l’abbondanza di motivi di cui si nutre il modo diderotiano di accostarsi alla follia, gettando luce in modo particolare sui poteri conoscitivi di quest’ultima e sul suo essere in relazione armonica con la Natura tutta219.
Com’è noto, il vero e proprio Rêve de d’Alembert costituisce una sorta di ‘parte seconda’ dell’Entretien entre d’Alembert et Diderot, scritto nel quale grandi problemi filosofici e scientifici venivano posti e sviluppati in una forma semplicemente discorsiva, opportunamente dislocati nella struttura e nel movimento del dialogo immaginato tra i due enciclopedisti220. Il Rêve fu uno sviluppo ulteriore di questo dialogo, una sua fantasiosa rilettura. Conscio di non aver affatto esaurito la complessa problematica affrontata nell’Entretien, ne offrì un’elaborazione ulteriore, e attraverso l’artificio del sogno e del delirio: (i deliri di d’Alembert esprimono con l’apparente veridicità e incoerente coerenza dei sogni, un contenuto di coscienza che non è possibile articolare tal quale entro le rigide categorie mentali della riflessione razionale(221. La scelta di prolungare le linee dell’Entretien nelle frammentate geometrie del paesaggio onirico e delirante non fu soltanto un abile espediente letterario, teso a garantire una qualche omogeneità a tutta una serie d’ipotesi scientifiche debolmente legate e connesse le une alle altre. Casini insiste a lungo su questo fatto:

(Diderot aveva riflettuto sulla natura dell’istinto, dell’entusiasmo, delle passioni. Aveva intravisto le radici irrazionali così del genio poetico, musicale, pittorico, come del (génie de la physique expérimentale(, autentici doni della natura(222.

Emerge qui a chiare lettere un senso, un modo d’intendere l’irrazionale, il pre-logico, la follia insomma223, assolutamente lontano da una banale quanto diffusa coscienza critica di essa. Ci troviamo quasi di fronte a una vera e propria sopravvivenza della coscienza tragica rinascimentale della follia. Non solo gli strumenti e i materiali di cui usufruiscono le arti, (ma anche gli esatti sillogismi delle matematiche e delle scienze sperimentali gli erano apparsi frutto di un’arte inventiva celata in una più profonda zona della psiche e sottratta all’analisi del pensiero cosciente(224. Il sapere dunque, anche quello scientifico, non è esclusivo prodotto dell’esperienza e della ragione, in quanto facoltà analitiche astrattive. Secondo Diderot, il pensiero cosciente, nella sua attività di combinazione e sintesi dei dati empirici, non è affatto qualcosa di ‘totalmente altro’ rispetto ai fenomeni psichici del sogno e del delirio, (anzi inerisce nel loro contesto, ne emerge solo parzialmente(225. Il lavoro della coscienza consiste nell’isolare e ritagliare alcuni elementi dal fondo oscuro dell’inconscio e nel connetterli in sintesi deduttive; tuttavia tutti quegli altri elementi, ignorati nell’opera di pescaggio effettuata dal pensiero cosciente nei sotterranei oscuri dell’inconscio, continuano la loro vita segreta, continuano a costruire tra loro segrete relazioni, che poi parzialmente (si rivelano nel sogno e nella libera associazione di idee che ha luogo, ad esempio nella conversazione in società(226.
Si legga inoltre tutto questo tenendo ben presente il fatto, che Casini non manca di sottolineare, che nell’ambito della concezione diderotiana della natura, il nesso tra la sfera pre-logica, che si esprime parzialmente nel sogno e nel delirio, e la sfera della ragione, assume un’importanza di fondamento. Questo è il punto in cui uomo e natura si connettono e nello stesso tempo si distinguono, ed è di questo luogo e di ciò che accade in esso che il sogno e il delirio ci parlano, presentandosi con ciò stesso quali (fenomeni psichici degni di studio e capaci di rivelare, almeno in parte, il segreto della natura(227. I deliri di d’Alembert rappresentano inequivocabilmente l’irruzione prepotente dell’irrazionale nel dominio delle scienze della natura. Casini lo spiega bene:

(il rampollare apparentemente incoerente delle ipotesi, delle congetture, delle immagini simboleggia (nell’artificio cosciente dell’autore) la frammentarietà della nostra coscienza empirica. Ma insieme tutti questi frammenti sono parti di un complesso omogeneo, la totalità e coerenza inconsapevole della vita psichica. Siffatta totalità è parallela alla totalità della natura(228.

Sulla base di constatazioni come queste non risulta certo esagerato parlare di una sopravvivenza dell’antica maniera rinascimentale d’intendere e leggere la follia, di un riemergere insomma di una coscienza tragica che riconosca alla follia il privilegio di abitare nei sotterranei della coscienza e della natura, di aver contatto con la Totalità e di essere per ciò stesso depositaria di un sapere oscuro, alle radici dell’uomo e del mondo.
È con questi occhi che bisognerebbe ritornare a leggere il Neveu de Rameau, non solo opera di meditazione morale, di critica e satira sociale e politica, ma autentica fenomenologia dell’insensato.
Capitolo II
La follia della (nella) esperienza cosmico-tragica
1. I divini doni della follia

Nella vasta ricognizione foucaultiana la Prima Meditazione cartesiana assurge a luogo di coronamento di un lungo, laborioso e complesso processo, il risultato primo del quale è rappresentato dall’imprigionamento dell’insensato all’esterno del territorio abitato e ordinato dalla ragione, da una messa al bando della follia dal cammino metodico del dubbio, dalle sue meccaniche ragionevoli, dalle sue logiche controllabili229. La follia e i suoi gesti, le sue parole, le sue visioni, i suoi ambienti, i suoi deliri, all’interno dello spazio di discorso fondato, prodotto e controllato dall’Ego cogito, non possono né trovare diritto di cittadinanza, né vantare un sia pur lontano legame di parentela. Il discorso filosofico costruisce se stesso proprio nel gesto, da ritenersi originario, dell’ex-cludere, del chiudere-fuori, nella vastità informe esterna ad esso, ciò che ritiene essere l’assolutamente altro da sé. Precipitato primo di tale operazione è il riconoscimento della pervasività molecolare e onnicomprensiva della Ragione nel discorso filosofico: Soggetto sempre cosciente di sé, essa occupa il centro di ogni agire teoretico, estendendo nel contempo la sua azione rischiarante e illuminante sino alle estreme periferie di tale agire. La follia, suo assolutamente altro, non è mai per sé soggetto, (vale a dire: libera, indipendente e autonoma nel suo essere), ma sempre e soltanto oggetto di riflessione e di definizione del cogito divorante. Nasce così un universo che conosce una sola grande divinità, un universo rigidamente monistico, in cui la Ragione è misura di se stessa e della follia, e la follia, dis-locata e zittita nello spazio esterno ad essa, non esiste che come suo assolutamente altro, come suo oggetto. Da questo momento in poi ogni ricorrenza della follia nella scrittura del cogito si muoverà secondo i canoni della riflessione critica, della coscienza critica, presupponendo comunque e sempre una precisa distanza tra Ragione, Soggetto cosciente-osservante-scrivente, e Follia, pura oggettività silente che attende di essere compresa-osservata-scritta, ma che non ha più alcun potere di comprendere, di osservare, di scrivere.
I privilegi della coscienza e della riflessione critica, il cui carattere prioritario e distintivo risiede nella distanza che viene a porre tra sé e il proprio oggetto, si sono venuti maturando attraverso un lento processo svoltosi tra il XV e il XVII secolo. Foucault, a cui si deve un primo tentativo di chiarire l’evolversi di tale processo, di questo movimento d’inserzione della follia nel cerchio divorante della Ragione, individua tre ‘passaggi’ essenziali230. Nel primo di questi ‘passaggi’ follia e ragione vengono a trovarsi e situarsi all’interno di un rapporto di mutuo fondamento. Il motivo, caro ai mistici, della ‘follia della croce’ risolve in estrema sintesi la particolarità del rapporto che viene a instaurarsi tra follia e ragione: è la (serrata dialettica della reciprocità(, per dirla con Foucault, il pensiero di un universo duale in cui non è possibile parlare di follia al di fuori di un riferimento a una ragione e, viceversa, la ragione trova la sua unica possibilità di definirsi a ridosso dell’insensato. Rispetto a quanto avveniva nella dinamica di un’esperienza cosmico-tragica della follia questo ‘passaggio’, la costituzione di tale universo duale, viene a realizzare un decisivo scarto, scongiurando tutti i pericoli che la follia, esperita tragicamente, non poteva non produrre. La follia, osserva Foucault, (non ha più esistenza assoluta nella notte del mondo(, non è più il Libro dalle cui righe si affaccia l’ombra inquietante di un sapere esoterico che ci parla della natura nascosta, dei destini ultimi dell’uomo e del mondo: essa, ormai priva di ogni assolutezza, (esiste solo relativamente alla ragione(231.
Già nel secondo di questi ‘passaggi’ la ragione acquista una sicura posizione di privilegio, prendendo possesso della follia, assegnandole un posto. La scrittura in cui si espresse questo nuovo modo d’intendere la follia risulta chiaramente visibile in Erasmo, in Montaigne, in Charron: al dualismo che caratterizzava il ‘passaggio’ precedente si sostituisce il riconoscimento di una posizione centrale e fondante della ragione, per cui la follia diviene una delle forme stesse della ragione, una sua forza segreta, un momento estremo e segreto del suo manifestarsi232.
Ulteriore torsione di questo processo, suo terzo ‘passaggio’, viene ad emersione nell’affermazione pascaliana che (gli uomini sono così necessariamente folli che il non esserlo equivale ad esserlo secondo un’altra forma di follia(. È un rapporto d’immanenza quello che lega follia e ragione e proprio quest’immanenza della follia nella ragione viene, pressoché meccanicamente a produrre uno sdoppiamento: da un lato una ‘saggia follia’, la quale riconosce la coessenzialità della follia alla ragione, conferendo ad ambedue un medesimo spazio abitativo; dall’altra una ‘folle follia’, del tutto incapace di cogliere tale rapporto di coessenzialità233. Accettando le coordinate pascaliane, si potrebbe sostenere che Descartes, ignorando del tutto il topos della ‘saggia follia’ abbia finito col dislocare il suo agire teoretico esclusivamente all’interno della ‘folle follia’, codificando una Ratio che pensa e produce se stessa proprio rimuovendo ogni eventuale legame con l’insensato. Ed è appunto in Descartes che Foucault ritiene di dover individuare il primo, evidente, punto d’arrivo del movimento innescato dall’urgenza di prendere le distanze da ogni tipo e forma di esperienza cosmico-tragica della follia.
Del resto l’esperienza critica della follia non si presenta certo all’insegna della semplicità e dell’omogeneità: essa si rivela piuttosto come qualcosa di complessamente strutturato, in quanto diverse e molteplici sono le modalità attraverso cui giunge ad espressione234. Punto di partenza indiscusso e inindagato di tutte queste forme di coscienza è l’assoluta esteriorità dell’oggetto del quale intendono essere coscienza; esse si distinguono l’una dall’altra, sottolineano la propria specificità e originalità, pretendono a una relativa autonomia, esclusivamente nel modo con cui si rapportano a tale oggetto esterno, nella piattaforma da cui muovono, nella singolare strumentazione che utilizzano. Del tutto inindagato rimane invece per tutte loro la sostanza di quel movimento, necessariamente anteriore alla loro costituzione, attraverso il quale è avvenuta l’esteriorizzazione della follia, la sua riduzione ad oggetto,quel processo che ha consentito da un lato la totale messa in ombra di un’esperienza cosmica della follia e dall’altro l’emersione di una piattaforma distante e separata dalla follia dalla quale risulterebbe possibile una riflessione critica su di essa. Tutte queste forme di coscienza cominciano ad esercitare la loro azione muovendo dal fatto che la follia è oggetto esterno al soggetto conoscente, senza assolutamente mai portare l’indagine sul terreno di coltura, dal quale, necessariamente, tale fatto è emerso. Insomma: il grado zero di ogni indagine critica sulla follia è l’esistenza del fatto. Le eventuali radici del fatto stesso, il modo stesso di produzione del suo darsi come fatto, in quanto fatto, restanno irrimediabilmente fuori da ogni sua possibile interrogazione, da ogni sua possibile riflessione.
Nel capitolo introduttivo alla seconda parte della sua Histoire de la folie Foucault sintetizzava la parabola di espressione che la coscienza critica ha disegnato dal XVII secolo sino ai giorni nostri. Le formule in cui l’esperienza critica della follia, esperienza di distanza, si è venuta declinando, risultano in estrema sintesi essere quattro: quella critica propriamente detta, quella pratica, quella enunciativa e quella analitica. Vale la pena ora di considerarle nel dettaglio.
La coscienza critica sente la follia come (opposizione immediata(. In questo stadio iniziale la ragione (è sicura di sé stessa, sicura di non essere folle(. La semplicità e l’immediatezza dell’opposizione presenta tuttavia un grave rischio, in quanto viene a mancare un punto di riferimento certo da cui stabilire e fissare l’opposizione. Il pericolo risiede proprio nel fatto che l’opposizione rischia di divenire reversibile, per cui la follia potrebbe rivelarsi come ragione e la coscienza della follia come (presenza segreta, stratagemma della stessa follia(235. Da questo pericolo la ragione riesce a preservarsi spingendo il proprio rigore sino a divenire (critica radicale di se stessa e fino ad arrischiarsi nell’assoluto di una lotta incerta(236, al termine della quale essa potrebbe arrivare a scorgere in se stessa il volto della follia. Da questo rischio la ragione si preserva in anticipo, (riconoscendosi come ragione, per il solo fatto di accettare il rischio(237. Al di qua di ogni pericolo di reversibilità, la ragione, del tutto segretamente, istituisce il confronto con la follia e si arrischia nell’opposizione con essa, già da una posizione di sicurezza, di un (intero disimpegno(, da una piattaforma che la distanzia preventivamente e protettivamente da ogni legame con l’insensato. Una piattaforma, lo si è già detto, assolutamente inindagata, indiscussa e indiscutibile, essendo il punto a partire dal quale soltanto la ragione può effettivamente indagare e discutere. Cercando di sottolineare all’attenzione del suo lettore l’esistenza di questo fondamento segreto, inindagato, Foucault osserva:

(Coscienza critica che finge di spingere il rigore fino a diventare critica radicale di se stessa e fino ad arrischiarsi nell’assoluto di una lotta incerta, ma che se ne preserva segretamente in anticipo, riconoscendosi come ragione per il solo fatto di accettare il rischio. In un certo senso, l’impegno della ragione è totale in questa opposizione semplice e reversibile nei riguardi della follia, ma è totale solo a partire da una segreta possibilità di un intero disimpegno(238.

Il disimpegno che caratterizza la coscienza pratica non trova il proprio fondamento in quell’atto originario e segreto di esclusione. Qui non v’è nulla di segreto: la coscienza della differenza follia/ragione affonda nella realtà concreta, ancorata com’è alla (omogeneità del gruppo considerato come portatore delle norme della ragione(239. Chi ne è all’esterno è per ciò stesso folle. È una coscienza questa che non si produce tanto nella riflessione e nella critica, quanto piuttosto nel (dogmatismo immediato(, avendo una portata e una dimensione sociale e normativa. Tuttavia (questa coscienza pratica della follia non è per questo meno drammatica; se essa indica la solidarietà del gruppo, essa indica egualmente l’esigenza della separazione(240. Ogni dialogo con la follia viene spento, zittito: (non resta che la tranquilla certezza di dover ridurre al silenzio la follia(241. Ma in questo silenzio, nella de-finizione di questo silenzio, vengono a riemersione gli antichi orrori. Se da un lato la follia viene posta a distanza di sicurezza, nel luogo del silenzio, assolutamente disarmata contro la ragione (e in questo senso (essa si offre a ogni istante come una reazione immediata di difesa(242), dall’altro proprio in questo suo difendersi implicitamente riconosce il pericolo che la follia rappresenta: (contro l’ordine, contro ciò che la ragione può manifestare di se stessa nelle leggi delle cose e degli uomini, essa rivela strani poteri. [...] Questa difesa (quella attivata dalla coscienza pratica) non fa altro che riattivare tutte le vecchie ossessioni dell’orrore(243.
Assolutamente lontana da ogni drammaticità, la coscienza enunciativa della follia non è che una semplice comprensione percettiva di essa che (non passando per il sapere, evita anche le inquietudini della diagnosi(244. Al di là di ciò che ha a che fare coi valori, coi rischi e coi pericoli, essa non qualifica né squalifica la follia: si limita semplicemente ad indicarla. ((Quello è un pazzo(. [...] Davanti allo sguardo c’è qualcuno che è irrimediabilmente folle, evidentemente folle(245. Anche questa semplicità ha tuttavia un fondamento, una presa di posizione preliminare, originaria: essa può essere e prodursi quale coscienza immediata della follia solo e soltanto presupponendo di non essere follia. Tale coscienza è in grado di prodursi nella percezione immediata dell’insensato solo a condizione, condizione originaria e segreta, che abbia già preso le distanze da esso. Tale percezione immediata dunque non costruisce e non produce affatto la distanza tra noi, ragionevoli e sensati, e la follia: la distanza è piuttosto il presupposto indispensabile, e segreto, della possibilità stessa della percezione246.
La coscienza analitica viene a rappresentare nella ricognizione foucaultiana l’estremo punto d’arrivo e di espressione dell’esperienza critica dell’insensato, arrivando a fondare compiutamente la possibilità di un sapere oggettivo della follia, un sapere che non comporti più rischi, nè separazione, che non supponga altro arretramento diverso da quello richiesto da qualsiasi oggetto di conoscenza. (Qui la follia non è più che la totalità almeno virtuale dei suoi fenomeni(247, ed è qui che ha inizio lo sforzo moderno di non parlare della follia se non nei termini sereni e obbiettivi della malattia mentale, dimenticando, segretando, i valori patetici della stessa. Quest’ultima forma di coscienza, emblematica del XIX e XX secolo, contenendo e presupponendo le altre, si propone quale loro effettivo superamento, considerando le altre forme di esperienza alla stregua di approssimazioni, di arcaismi: solo essa è in grado di cogliere (la verità totale e finale della follia(248, o almeno d’instradare verso un tale obiettivo.

L’intera costellazione249 rappresentata dalla coscienza critica, con tutto il suo bagaglio strumentale, normativo e drammatico, poggia su un fondamento, presupposto indispensabile di ogni sua percezione, riflessione e ricerca e, nello stesso tempo, presupposto che rimane del tutto inindagato, segreto. È la distanza soggetto-oggetto a garantire la coscienza critica di fronte al rischio di confondersi con la follia, a permettere alla sua forma enunciativa di percepirla, a legittimare gli sforzi pratici di difesa contro di essa. Ed è sempre il postulato di questa distanza ad illuminare e giustificare la totale riduzione di essa a fenomeno, messa in atto dalle scienze analitiche.
Se è indubbio che in tale postulato sia da ricercare il momento di origine, non tanto temporale quanto propriamente teorico, dell’intera costellazione critica, sappiamo anche che tale momento non costituisce il ‘cominciamento’, l’inizio assoluto. Questa distanza che si scava tra soggetto e oggetto non è primo effetto, effetto sine causa: essa viene piuttosto prodotta nel movimento stesso di allontanamento da ogni esperienza cosmico-tragica della follia. Quest’ultima risulta dunque anteriore, più originaria, rispetto alla costituzione della distanza soggetto-oggetto, la quale si viene piuttosto ad affermare attraverso la negazione, l’occultamento, la rimozione, della prospettiva cosmica della follia. Su questa sarà dunque opportuno focalizzare l’indagine, portando così insieme un decisivo chiarimento circa la stessa dimensione critica.
In via preliminare è possibile ammettere anche nel contesto esperienziale cosmico-tragico (contesto che Foucault localizza storicamente nel Rinascimento europeo) un punto zero nel quale l’uomo assiste allo spettacolo della follia da una posizione distante da essa. L’uomo rinascimentale, non meno dell’uomo delle epoche precedenti e di quelle che seguiranno, posto di fronte a un’esibizione della follia, certo non poteva fare a meno di darle un nome de-finito, non poteva fare a meno di isolarla nel cerchio del fenomeno, ponendola così a distanza da sé. La forza della coscienza critica, e in particolare critico-analitica, consisterà proprio nel considerare come insuperabile la situazione di questa distanza, nello sforzarsi di convalidarla nella prassi e di verificarla analiticamente nella teoria. Per quanto anche l’uomo del Rinascimento potesse proseguire per questa linea, l’episteme250 del tempo gli lasciava aperta tuttavia un’altra possibilità, del tutto diversa.
Com’è noto la ricostruzione foucaultiana arriva a cogliere l’emergere dell’esperienza rinascimentale cosmico-tragica della follia nell’ambito delle arti figurative e plastiche, sullo sfondo di un disfacimento del simbolismo gotico251. L’immagine non viene più esperita come rinviante a un qualcosa di determinato, a un significato definito e chiuso, o almeno a una struttura di significati definita e chiusa. L’immagine viene colta come surdeterminata, carica di una catena inesauribile di rinvii, sovraccarica di attributi, rimandi, echi, allusioni. Il suo significato non si consegna più attraverso e nella percezione immediata: (la figura cessa di parlare da se stessa(, non è più in grado di comunicare direttamente il suo significato. Al di sotto della superficie dell’immagine si muovono, si condensano e si spostano, tutta una vasta pluralità di significati, rispetto ai quali ogni tentativo di comprensione esaustiva è già di principio votato al fallimento252. In tal senso l’immagine, più che offrire risposte, sollecita domande, presentandosi nelle vesti dell’enigma, definendo il proprio potere e la propria vocazione non tanto nei termini del sapere, quanto in quelli della fascinazione, dell’incantesimo.
L’immagine della follia, esperita nel cerchio di questa particolare episteme, s’incammina verso un destino di significazione assolutamente altro rispetto a quello critico-ironico-analitico. Le fantasie impossibili, le stravaganze, le urla illeggibili eruttate dalla follia divengono immagini surdeterminate che ci parlano di un processo che avviene sotto la soglia del visibile, del quotidiano, del logico, in quei sotterranei che sono le radici dell’uomo e del mondo. Lo spettacolo della follia insomma ci porrebbe in presenza, o almeno solleciterebbe il sospetto, della vertiginosa irragionevolezza del mondo. Non è certo una conoscenza quella che la follia nel suo teatro produce. Il suo potere rivelativo sul destino dell’uomo e del mondo viene a tracciare le linee di un sapere esoterico (opaco, di pochi, dei folli) che non è mai teso all’insegnamento, ma alla fascinazione. Ed è proprio il fascinum che lo spettacolo della follia esercita a cancellare ogni residuo di distanza tra il soggetto osservante e la follia-oggetto-fenomeno, tra spettacolo e spettatore. Il potere fascinante dell’immagine è il potere di assorbire nel suo cerchio sacro, nello spessore indefinito del suo enigma la coscienza, la volontà. il raziocinio del suo osservatore. Scompare, in quanto trasceso, l’io, il soggetto, la coscienza: l’osservante è in uno con l’osservato. Ogni coscienza, in particolare ogni coscienza critica, è posta nella totale impossibilità a essere, proprio in quanto è stato trasceso e cancellato il suo stesso fondamento: la distanza soggetto-oggetto. Si può dire di più: non solo la distanza soggetto-oggetto risulta del tutto trascesa, ma con essa le stesse categorie di soggetto e di oggetto, di interno e di esterno253, su cui si fonda e si alimenta costantemente ogni agire critico-analitico, mostrano tutta la loro inadeguatezza. L’esperienza cosmico-tragica pone in un topos in cui non trova più legittimità alcuna il gesto di appellarsi alle categorie dell’Ego, del soggetto, della coscienza, per fondare e giustificare l’esperienza stessa.
Un ulteriore approfondimento e conferma di questo modo d’intendere l’esperienza cosmico-tragica, esperienza fascinante, si possono rinvenire nelle pagine che il Dodds, noto e autorevole storico del mondo greco, dedica ai divini doni della pazzia254. È indubbio infatti che, per quanto Foucaul focalizzi la sua riflessione riguardo l’esperienza cosmico-tragica nel modo rinascimentale, tale esperienza non è da considerarsi certo come esclusiva di tale cornice storica: già il mondo greco conosceva qualcosa di simile.

È da leggersi come ‘cosciente paradosso’ ciò che Socrate nel Fedro afferma riguardo alla follia: (Invece la verità è che i maggiori beni ci sono largiti per mezzo d’una follia che è un dono divino(255. La voluta paradossalità consiste proprio nel fatto che l’opinione corrente al tempo di Platone considerava la follia uno stato obbrobrioso, assolutamente non auspicabile. Da qui la precisazione platonica: si vuole parlare della follia concessa per dono divino, di quella speciale alterazione delle normali condizioni mentali prodotta dall’influsso del divino nella sfera umana. Rimane certo comunque che la distinzione fra le due specie di follia, tra il divino furore e la comune pazzia di origine patologica, risulta già propria di un’epoca anteriore alla riflessione platonica. Il Dodds ricorda che (Erodoto ci dice che la pazzia di Cleomene, considerata dai più castigo divino per un sacrilegio, era attribuita dai suoi compatrioti agli eccessi alcoolici(, certificando così l’esistenza, ben anteriore alla lezione platonica, di due modi distinti d’intendere la follia, come generata dall’intervento divino, di origine soprannaturale (una sorta di castigo, di punizione) e come generata da cause naturali (da una minorazione fisica intervenuta al seguito di cattive abitudini). Non diversamente si fa risalire alla scuola di Empedocle la distinzione tra (pazzia ex purgamento animae( dalla (pazzia dovuta a minorazione fisica(256.
Prima ancora dell’emergere di ogni riflessione scritta si può legittimamente credere che ogni genere di follia, sotto qualunque forma si manifestasse, venisse vissuta e sentita come il risultato d’ingerenze soprannaturali, rappresentando nello stesso tempo una porta d’accesso privilegiata al divino, alla verità. (È credenza comune dei popoli primitivi in tutto il mondo che tutti i tipi di turbamento mentale siano prodotti da ingerenze soprannaturali(257. Di fatto, la coscienza della follia prodotta dall’Atene classica fatica ancora a porre una sicura e netta linea di demarcazione che separi la pazzia volgare dal furore divino: come attesta Aristofane i malati di mente venivano evitati, tenuti a debita distanza, proprio perché in loro, nel loro corpo e nella loro mente, si esercitava una maledizione di origine divina. Entrare in contatto con loro costituiva già di per sé un grave pericolo, (si prendevano a sassate per allontanarli o quanto meno, come precauzione minima, si sputava(258. L’essere-a-distanza del folle non può essere ritenuto tuttavia solo e soltanto il risultato di un semplice disprezzo, esercitato dall’uomo comune, ‘normale’, nei confronti di chi, trascinato dalla follia, si trova ridotto a uno stato prossimo alla ferinità. Questo essere-a-distanza era l’altra faccia, l’effetto ultimo di un rispetto che rasentava la vera e propria venerazione, rispetto tributato dall’uomo comune al folle, entità in diretto contatto col divino, manifestante (proprio nell’esercizio della sua follia) poteri e verità sconosciute agli uomini comuni259. In tutto questo si riconosce una sopravvivenza di quello che era un luogo comune del pensiero popolare al tempo di Omero (e, per quanto ci è dato supporre, anche prima), vale a dire la convinzione circa l’origine soprannaturale delle malattie mentali, ed è su questo sfondo, del tutto prossimo a quella che Foucault chiama esperienza cosmico-tragica della follia, che bisogna collocare e intendere la pagina platonica del Fedro sul divino furore.
L’agire del divino nell’uomo conduce, secondo la lezione platonica, alla pro-duzione di quattro grandi generi di divino furore: il furore profetico, il cui patrono è Apollo; quello telestico (o rituale) ispirato da Dioniso; quello poetico infuso dalle Muse; quello erotico guidato da Afrodite e da Eros.
A differenza dell’esperienza dionisiaca, essenzialmente collettiva, collegiale, la medianità apollinea, nella quale viene a risolversi il furore profetico, è una dote rara, propria di persone elette. Socrate ricorda al suo interlocutore come (nel delirio la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, privatamente e pubblicamente, han reso alla Grecia tanti grandi servigi; a mente sana, pochi o nessuno(260. L’ispirazione infusa da Apollo comunica la conoscenza delle cose future, ma non solo: essa si esprime anche nello svelare i fondamenti occulti dello stesso presente, la sua struttura nascosta, il suo motore invisibile. Le parole della sacerdotessa aprono il sipario su una realtà del tutto inaccessibile all’uomo comune, una realtà che si estende al di qua di tutto ciò che viene colto ed esperito abitualmente: la sua conoscenza guida alle radici stesse della storia dell’uomo e del mondo. Di questa conoscenza per altro l’uomo ne è il semplice portatore, non certo il soggetto: ispirato da Apollo (autentico soggetto) l’uomo in preda al furor è solo il mezzo attraverso il quale il sapere divino si apre in forma umanamente comprensibile, lo strumento della rivelazione di ciò che è ancora occulto all’intera società umana. Significativo mi pare il fatto che la divinità scelga quale modalità di manifestazione del proprio sapere la forma dell’entusiasmo. (La Pizia diventava entheos, plena deo: il dio entrava in lei e si valeva dei suoi organi vocali come fossero i suoi propri [...]; è per questo che i responsi delfici di Apollo sono sempre enunciati in prima persona (è il dio il soggetto), mai in terza(261. Come sottolinea Dodds, il termine entusiasmo dev’essere inteso in senso originario, letterale: entheos non significa che l’anima ha abbandonato il corpo ed è in Dio, ma che il corpo contiene un dio. Particolarmente interessante anche il destino a cui l’idea di entusiasmo andò incontro, un destino ripercorribile nelle pagine di Aristotele, di Cicerone, di Plutarco: muovendo dal presupposto che poco si addicesse alla natura del divino l’assunzione di vesti mortali, si

(preferì credere, come fanno molti studiosi di metapsichica ai nostri giorni, che ogni forma di furore profetico derivasse da una facoltà innata che l’anima può sfruttare in certe condizioni, quando cioè il sonno, la trance o il rituale religioso la liberino sia dalle ingerenze del corpo, sia dal freno della ragione. Quest’opinione è rinvenibile in Aristotele, Cicerone e Plutarco(262.
Questa particolare interpretazione dell’entusiasmo, al di là del problema della sua correttezza, presenta l’indubbio merito di chiarire efficacemente, in termini umanamente comprensibili, le esatte meccaniche attraverso le quali avviene il furore profetico. Si parla di una liberazione dalle ingerenze del corpo, di una disattivazione della ragione, la quale, rispetto a ciò che giunge ad emergere nell’esperienza dell’entusiasmo, esercita una funzione inibitoria, frenante. Occorre uscire dal corpo e dalla ragione per poter accogliere l’ispirazione del dio. Meglio: occorre porre in parentesi tanto l’uno, quanto l’altra, riducendo in tal modo al silenzio la propria persona, la propria specifica individualità, che appunto nel corpo e nella ragione trova i suoi motori costitutivi, fondanti. L’esperienza dell’entusiasmo è dunque esperienza di uscita dal proprio sé, esperienza di nullificazione dell’individualità.
La funzione sociale esercitata dall’estasi dionisiaca si risolveva in una catarsi di tipo psicologico. Non finalizzata all’emersione e alla socializzazione di un sapere occulto, essa assolveva l’altrettanto importante compito di purgare (l’individuo da quegli impulsi irrazionali contagiosi che, contenuti e repressi, avrebbero provocato, come è accaduto in altre civiltà, accessi di danzimania e analoghe manifestazioni d’isterismo collettivo; esso (il furore telestico) risolveva tali impulsi offrendo loro uno sfogo rituale(263. Se da un lato Apollo mostrava la sua necessità sociale promettendo e garantendo la sicurezza di un sapere di origine soprannaturale, Dioniso, dio della gioia, offriva la libertà. Dioniso, (Signore delle Illusioni(, è Lysios, Liberatore, ovvero la divinità che consente a ciascuno di non essere più se stesso, di porre in atto, sia pure per un tempo limitato, la fuoriuscita da se stesso. Infatti il suo culto, essenzialmente collettivo, di massa, trova specifico coronamento nell’estasi, e questa, sottolinea Dodds, (poteva voler dire qualsiasi cosa, dall’uscir fuori di sé sino alle alterazioni profonde della personalità(264.
Tale processo di nullificazione del proprio sé, caratteristico del furore profetico e, sia pure con accenti diversi, della stessa estasi dionisiaca, si presenta ancora come la vera e propria chiave d’accesso a quel particolare genere di furore che trova la sua fonte nelle Muse e che Platone dichiarava come indispensabile alla vera poesia: il furore poetico. Anche il poeta, non diversamente dalle profetesse di Apollo, chiede che gli venga infusa conoscenza. Ciò che le Muse infondono al poeta (e ciò che il poeta chiede) non è mai una particolare sensibilità lessicale o metrica, quanto piuttosto un (contenuto(, una conoscenza appunto, un qualcosa che gli occhi semplicemente umani non possono vedere, che la memoria semplicemente umana non è in grado di ricordare, di riportare ad espressione consapevole. (Il poeta domanda sempre alle Muse che cosa deve dire, non come deve dirlo, e l’oggetto della sua domanda è sempre un dato di fatto(265. Il poeta diviene così un depositario di Verità; la sua diviene una visione che, del tutto analoga a quella del veggente, conduce oltre la soglia dell’immediatamente visibile. E non si pensi che questa straordinaria profondità della visione sia il risultato di risorse tecniche e di una faticosa preparazione professionale. L’attività del far-poesia, la dinamica insomma che conduce alla poesia, poggia su una facoltà del tutto (misteriosa, solo in parte sotto il controllo del soggetto e dipendente, in definitiva, dalla grazia divina(. Anche qui dunque l’autentico soggetto del poetare, l’autentica fonte, il primum agens di quel movimento di rivelazione che è la poesia, non è il poeta, ma è altro dal poeta: il dio266. A partire dal V secolo il poeta ispirato dalle Muse sarà sempre inteso come poeta frenetico, che esercita il proprio mestiere, porsi all’ascolto del dio, in stato di estasi. E sarebbe Democrito, ben prima di Platone, a parlare dell’estasi poetica e a negare la possibilità stessa di produrre poesia sine furore267.
(Invece la verità è che i maggiori beni ci sono largiti per mezzo d’una follia che è un dono divino(. Alla luce di tutto ciò che è emerso, l’affermazione del Socrate del Fedro può essere ora letta in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua portata. In primo luogo Socrate descrive un movimento, un processo. Il dio fa dono della follia, la quale a sua volta produce quelli che sono da considerare i beni più grandi per l’uomo. Dio, la follia, i beni, l’uomo sono le presenze che animano il processo; il donare e il produrre le azioni che lo sostanziano. È la divinità che innesca e sostiene l’intero processo, il quale dunque non trova la sua scaturigine nell’uomo, in un écartement268 gestito interamente nel cerchio dell’umano. Il luogo originario è altro dall’uomo. L’azione posta in essere dal divino consiste nel dono della follia, la quale, declinata come entusiasmo, altro non è che ulteriore prolungamento e manifestazione del divino269. Certo, si precisa anche nelle forme dell’estasi e della catarsi, ma queste non fanno altro che riprodurre su piani diversi il medesimo fenomeno, la medesima assenza: quella dell’Io, del soggetto, della coscienza. Anche nella follia allora, quale momento intermedio del movimento delineato da Platone, l’Uomo risulta assente, quanto meno non risulta occupare una posizione di rilievo, di soggetto. Non stupisce a questo punto il constatare che persino l’oggetto prodotto, l’oggetto in cui si realizza l’intero movimento sia caratterizzato dalla medesima assenza. I beni più grandi consistono nella vera conoscenza, quella di origine soprannaturale, la quale non fa che disvelare il destino dell’uomo e del mondo, quelle leggi e quelle meccaniche che permettono, sorreggono e regolano l’agire dell’uomo nel mondo, il suo agire consapevole. Ed è attraverso questa conoscenza, cosmica e tragica a un tempo, che l’uomo apprende di non essere il vero soggetto del suo agire. Tra i beni più grandi quel processo di follia che muove da Dioniso assicura poi la liberazione dalle angosce dell’individualità, dal pesante fardello della soggettività. Nell’espressione socratica l’uomo è presente solo nella modeste vesti di un complemento di termine, indicando a vantaggio di chi avviene l’intero processo. Ogni altra presenza all’interno di questo processo è essenziale, vitale al processo stesso: tolta la divinità, tolto il motore della follia, tolto l’oggetto prodotto, l’intero movimento non ha più senso e l’affermazione socratica si presenterebbe come mutila. Si provi invece a togliere il ci, a estromettere l’uomo, quello che semplicemente assiste allo spettacolo della follia e gode dei frutti da essa prodotti: il processo rimane, nella sua purezza e nella sua complessità. Resta solo privo di spettatore, una sorta di teatro che non comunica con eventuali spettatori. Un teatro la cui partitura è elaborata in un linguaggio non comunicante270.
La follia, dono divino, in quanto trascendimento del sé, non caratterizza unicamente la produzione poetica, l’arte divinatoria, l’estasi dionisiaca e il furore amoroso. Nella sua struttura di fondo, nel suo carattere estatico, nel suo porre fuori gioco le categorie di Io, soggetto, coscienza, essa presenta motivi che definiscono essenzialmente il modo stesso di produzione del pensiero, anche e soprattutto di quello filosofico. È D’Alessandro che suggerisce e giustifica questa interessante (ipotesi(271. Punto di partenza della sua riflessione risiede nell’affermazione del Socrate del Teeteto che (codesto sentimento, codesta meraviglia, è veramente da filosofo; né altro inizio ha il filosofare all’infuori di questo(272. Socrate sta rassicurando il suo giovane interlocutore: quell’esperienza estraniante che sta sperimentando, quella meraviglia, quelle vertigini che sorprendono Teeteto nell’atto di osservare attentamente il ciò-che-appare, il fluire delle cose, lo spettacolo del mondo, non sono semplicemente un qualcosa che accompagna il pensiero, un semplice accessorio, un sentimento che affianca superficialmente la dinamica del pensare. Questo stupore, queste vertigini, sono il principio e il fondamento del pensiero, il suo unico fondamento, la sua arché. Nel leggere il passo platonico D’Alessandro giunge a precisare:
(Socrate sta qui sostenendo che l’inizio di ogni scienza risiede nel provar-stupore dell’uomo dinanzi alle sensazioni, meglio forse dinanzi allo sguardo più accorto che considera il divenire delle cose. Soltanto a partire da tale complesso status emotivo (provar-stupore e vertigine assieme) l’uomo è posto nella condizione di pensare: sta qui nascendo il filosofo(273.
Il momento fontale del pensiero è dunque contrassegnato da un’estraneazione dell’uomo da se stesso, da un totale sconvolgimento dell’equilibrio psicofisico: l’uomo insomma diviene filosofo, si dis-pone al pensiero nella misura in cui cade nell’estasi, nel luogo estatico in cui Io, coscienza, soggetto, perdono la loro consueta posizione di privilegio. Ed è esperienza di cosmicità: (si finisce infatti col rispecchiare, senza mascheramenti e privi di difese, la percezione del divenire, del fluire delle cose senza punti fermi, né certezze, né sicurezze(274.
Ora, la dimensione estatica che caratterizza il thaumázein si avvicina pericolosamente a quelle che sono le condizioni specifiche del divino furore. Accogliendo il dono divino della follia l’uomo si dis-pone in un luogo in cui le condizioni stesse del pensiero (quelle condizioni che il nascente pensiero metafisico intende assicurare al pensiero), vale a dire l’Io, il soggetto, la coscienza, vengono del tutto meno, trascese, assolutamente decentrate rispetto all’intero processo di produzione di conoscenza. Precipitato primo di questo stato di cose è, nella riflessione platonica, una vera e propria esclusione della conoscenza dall’ambito proprio del furor, della follia. Con riferimento alla mania poetica D’Alessandro precisa:
(in quanto invasato il poeta esce di senno, s-ragiona, meglio non è messo in condizioni di ragionare: vive infatti nella sfera dell’emotività, della sensibilità e dell’intuizione, piuttosto che in quella dell’intellezione. Nella poesia, così come nella mania, non si dà mai pertanto conoscenza(275.
Non sorprende così che proprio in virtù dello stretto legame di analogia e di parantela che corre tra l’esperienza estatica del furor e il thaumázein, l’atto di esclusione posto in atto nei confronti della mania si ripercuota anche nei riguardi di quello che per il Socrate del Teeteto rappresenta il momento fontale del pensiero filosofico. È un fatto che la sottolineatura del thaumázein quale arché del filosofare è tutta rinchiusa in queste poche battute del Teeteto e che non se ne trova traccia alcuna nei dialoghi successivi. Le ragioni di questo (atto di autentica rimozione(276 posto in essere da Platone nei confronti del suo stesso detto, sarebbero da ricercare interamente nel fatto che la filosofia (intesa come logica dialettica(, imperniata sul logos e tesa a una sempre maggiore sottolineatura della propria distanza dall’universo mitico-poietico, non può ammettere il thaumázein (così come ogni altra esperienza estatica) (né all’interno del proprio processo, né quale sua scaturigine(. Quindi, (per la filosofia, intesa come logica dialettica, il thaumázein viene rimosso, perchè in esso l’io non svolge più (o non svolge ancora) il ruolo di protagonista(277. Al di qua di tale rimozione, attraverso la quale si costituisce l’uomo logico-dialettico, il thaumázein rimane il luogo in cui accade il processo di produzione del pensiero, luogo che non vede l’Io come soggetto del pensiero: è lo stupore che ci determina, attraversandoci e coinvolgendoci sino all’alterazione dello stesso equilibrio psicofisico, (si provano le vertigini, si è spaesati(. All’interno di tale luogo le categorie di soggetto e oggetto, attività e passività, rivelano tutta la loro inadeguatezza. Solo (impropriamente( si potrebbe intendere il thaumázein come un’esperienza nella quale il ‘soggetto’ pensante esercita un ruolo passivo: a tale esperienza si accede unicamente attraverso il trascendimento dell’io, del soggetto, della coscienza, trascendimento che è da intendere in uno con il provar-stupore, con l’aver vertigini. Ma se la possibilità di rinvenire un soggetto (un’entità che sia cosciente di sé e nel contempo dell’altro-da-sé) viene meno, allora necessariamente anche le categorie di attività e passività non possono più risultare pertinenti: soggetto/oggetto, attività/passività definiscono la strumentazione propria dell’intera tradizione filosofica logico-dialettica, che costruisce se stessa proprio rimuovendo, misconoscendo la sua origine estatica. 278
2. Schopenhauer, genio e follia
Quest’indagine è dunque giunta ad affacciarsi su un territorio quanto mai insolito, su un luogo nel quale le meccaniche che muovono e strutturano la follia sembrano definire nel contempo il sottosuolo dell’esperienza artistica e filosofica, uno spazio estatico nel quale la categoria di ‘soggetto’ diviene improponibile, inadeguata, non richiesta. È il naufragio dell’identità personale. È l’erosione della distanza che il soggetto (naufragato, appunto) aveva costruito tra se stesso e l’oggetto, destinandosi così ad una lettura di superficie dell’oggetto stesso, semplificato ormai a fenomeno. È il luogo del furor e del thaumázein.
Inoltrarsi in questo territorio è cosa quanto mai ardua e non solo per il peso dell’intera tradizione metafisica che vive alle nostre spalle e che, volenti o nolenti, ci costituisce nel nostro essere-nel-mondo, dettandoci le coordinate del nostro stesso orizzonte precomprensivo. Allacciata a questa difficoltà, di fatto tutt’uno con essa, se ne nasconde un’altra, suo immediato corollario. La fatica che il linguaggio sostiene nello scrivere il luogo dello stupore e della vertigine, dell’entusiasmo e dell’estasi, si trova già tutta inscritta nelle formule ‘negative’ attraverso le quali si affaccia a questo territorio: ‘negazione’ del soggetto, ‘negazione’ dell’oggetto, ‘negazione’ della distanza... Del resto questo è il territorio in cui ogni de-terminazione sfuma, meglio: in cui sfuma la possibilità stessa di ogni possibile de-terminazione, e in tale luogo lo stato d’animo che accompagna l’uomo è quello dell’angoscia. Stato d’animo (Grundstimmung, dis-posizione fondamentale per Heidegger) caratterizzato appunto dal silenzio, dallo spegnimento del linguaggio: (l’ammutolimento in cui si cade, per il fatto stesso che eclissandosi l’ente nella totalità (l’ente quale oggetto, quale Gegenstand) viene anche meno la possibilità di ogni ‘è’ (ovvero, di ogni de-terminazione), è rotto soltanto da discorsi indiscriminati e privi di senso compiuto(279. E non sembra esserci altro modo per il linguaggio (e per il pensiero metafisico che lo anima) di aprirsi a questo spazio280.
Un contributo ci può venire da Schopenhauer, la cui riflessione, proprio in certi suoi aspetti centrali e decisivi, si pone decisamente fuori dalla strategia speculativa comune al pensiero occidentale281. In particolare, gli stretti legami che quest’indagine ha inteso sottolineare tra follia, esperienza estetica, estasi, entusiasmo, provar-stupore, aver vertigini, riemergono e vengono attentamente considerati nelle osservazioni che si dipanano nei capitoli centrali del terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione. La lettura della pagina schopenhaueriana consentirà così un ulteriore e decisivo approfondimento del campo teorico che quest’indagine ha inteso portare in luce.
Il passaggio dalla conoscenza comune delle cose, quella conoscenza costruita sulle relazioni fondate sul principio di ragione, alla conoscenza intuitiva delle idee, quella che (non si preoccupa più del dove, del quando e del perché delle cose, ma unicamente e semplicemente di ciò che le cose sono(282 si realizza anzitutto attraverso una profonda trasformazione che investe lo stesso soggetto conoscente.
(La conoscenza (die Erkenntnis) si affranca dal servizio (die Dienst) della volontà (der Wille); il soggetto cessa (aufhören) con ciò di essere puramente individuale (bloss individuell), e diviene il soggetto conoscente puro e libero dalla volontà (reines und willenloses Subject der Erkenntnis); non si preoccupa più allora di andar dietro alle relazioni fondate sul principio di ragione (der Satz vom Grunde), ma si riposa e si assorbe nella contemplazione profonda dell’oggetto che gli è dinanzi, al di fuori delle sue correlazioni con altri oggetti(283.
La metamorfosi che interessa la sfera della soggettività conoscente è parte di un processo che deve essere rischiarato nella sua totalità. La conoscenza comune, (la maniera volgare di considerar le cose( (die gemühnliche Betrachtungsart der Dinge) si sforza di cercare, alla luce del principio di ragione, le relazioni che gli oggetti intrattengono fra loro, relazioni che presuppongono l’individualità conoscente, per il semplice fatto (che in ultima analisi [...] si risolvono [...] nella relazione (die Relation) di tali oggetti con la nostra volontà(284. Del resto questo è il modo di conoscenza che viene a riassumersi nella nota formula, (Il mondo è una mia rappresentazione(. Il mondo, quale appare nell’immediatezza, così come anche nell’agire proprio della razionalità scientifica, si chiarisce come insieme di rappresentazioni ordinate secondo le categorie di spazio, di tempo, di causalità. Si comprende facilmente come all’interno di un tale processo conoscitivo il soggetto conoscente, considerato in quanto individuale, eserciti una funzione essenziale. L’oggetto, in quanto rappresentato, non può certo vantare un’esistenza obiettiva, indipendente da colui che compie l’azione del rappresentare, ma esiste piuttosto solo e soltanto in relazione con un altro essere, con il soggetto percipiente. Schopenhauer comunica al suo lettore questo stato di cose, questa (verità (die Wahreit) che si può affermare a priori(, sin dalle battute iniziali del Mondo: quando l’uomo comprende finalmente che il mondo è una sua rappresentazione (die Vorstellung) , (allora egli sa con chiara certezza di non conoscere (kennen) né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d’una terra(285. La conoscenza comune è confinata nel cerchio della rappresentazione, della riduzione dell’oggetto a fenomeno, senza possibilità alcuna di superare la barriera fenomenica e attingere finalmente la cosa in sé, una conoscenza del mondo non più condizionata e sottomessa al soggetto e alle sue forme rappresentative. In questa prima, immediata, comune forma di conoscenza
(il soggetto è dunque il sostegno (der Träger) del mondo, la condizione (die Bedingung) universale, sempre sottintesa, di ogni fenomeno (die Erscheinung), di ogni oggetto: infatti tutto ciò che esiste (per la conoscenza comune), non esiste che in funzione del soggetto(286.
Se tali sono i caratteri distintivi ed essenziali della conoscenza comune, è chiaro come ogni tentativo di oltrepassarla non possa che investire il suo Träger, il suo fondamento, l’individualità, operandovi una trasformazione radicale. Infatti nell’ambito della conoscenza intuitiva il soggetto depone le sue vesti individuali per farsi soggetto conoscente puro, ormai affrancato da ogni legame con il principio di ragione in tutte le sue forme, affrancato da ogni relazione, da ogni Dienst, con la volontà. Ciò che viene conosciuto in tale processo non è più la cosa particolare, soggetta al principio di ragione in tutte le sue forme, esistente in un dato luogo, in un dato tempo, irretita in tutto quel complesso di relazioni causali che la lega all’altro-da sé. Oltrepassata la sfera della rappresentazione, la conoscenza intuitiva muove decisamente verso l’idea, verso la forma eterna, e non ha altro interesse che per essa. Da questa piattaforma raggiunta si comprende come
(le cose particolari (die einzelnen Dinge), in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo sussistano, non sono altro che le idee rese multiple dal principio di ragione (forma conoscitiva dell’individuo come tale) e offuscate (getrübten) nella loro oggettità pura(287.
Alla conoscenza prodotta dall’intelletto, conoscenza scientifica, interamente assorta nel disegnare la rete delle relazioni che accoglie il fenomeno oggetto di studio e che quindi lo comprende sullo sfondo dei nessi spaziali, temporali e causali (scoprendone il ‘dove’, il ‘quando’, il ‘perché’), subentra il soggetto conoscente puro (das reine Subject der Erkenntnis) (e il suo correlato , l’idea, [...] liberi da tutte queste forme (die Formen) del principio di ragione: il tempo, lo spazio, l’individuo conoscente, l’individuo conosciuto, non hanno più significato alcuno(288.
La conoscenza intuitiva dell’idea produce, e presuppone insieme, una sorta di fusione e di reciproco completamento tra il soggetto e l’oggetto: il soggetto
(si perde (sich verliert) completamente in quest’oggetto, dimentica cioè il suo individuo, la sua volontà, e non sussiste più se non come soggetto puro (das reine Subject), come limpido specchio dell’oggetto, sicché l’oggetto sembri esistere da solo, senza nessuno che lo percepisca, e non sia più possibile separare (trennen) il percipiente dal percepito, ma entrambi si confondano in una sola cosa, in una coscienza totalmente piena e compresa di un’immagine intuitiva unica(289.

Il movimento della contemplazione, dell’intuizione, sembra dunque produrre qualcosa di analogo all’estasi, caratterizzata appunto dal venir meno dell’individualità del soggetto coinvolto, da una perdita del Sé, da una sopravvenuta impossibilità di separare il percipiente dal percepito. Siamo condotti in un luogo nel quale alla metamorfosi dell’individuo conoscente in soggetto conoscente puro (fuoriuscito dai recinti dell’individualità, ormai (limpido specchio dell’oggetto() si accompagna la trasformazione dell’oggetto considerato in idea. È una conoscenza altra quella che viene a dischiudersi mediante la contemplazione, non più conoscenza soggettiva del reale, conoscenza fenomenica imprigionata nelle strutture cognitive del soggetto individuale. Mentre annulla il Träger del fenomeno (il soggetto individuale), la contemplazione apre a ciò che sta al di qua dell’Erscheinung, all’idea. Apre alla possibilità di una conoscenza oggettiva, nella quale il soggetto non occupa più una posizione di centralità290. Inoltre sulla scia della con-fusione soggetto/oggetto, il soggetto conoscente puro, in quanto diviene limpido specchio del mondo, si apre a un’esperienza cosmica. Nello sprofondarsi, nel perdersi nella contemplazione della natura, si sentirà tutt’uno con essa, annullando ogni distanza: (non la sente più se non come un accidente del suo proprio essere(. All’interno di un tale raggiunto sentimento di partecipazione il soggetto conoscente puro non potrà che far proprie le parole di Byron: (Are not the mountains, wawes and skies a part of me and of my soul, as I of them?(291.
Nel trentacinquesimo capitolo del terzo libro la natura dell’idea viene ulteriormente precisata riprendendo l’insegnamento platonico. Tutto ciò che si muove nella sfera della rappresentazione, tutte le cose che sono nel tempo e nello spazio, in una parola l’intero edificio conoscitivo che ha come suo fulcro l’individuo, non ha altra consistenza che quella del sogno, dell’illusione, dell’apparenza. Sole le idee hanno (realtà vera e propria(292. L’attività dell’intelletto, ordinando e sistemando attraverso la categoria della causalità i dati delle intuizioni spazio-temporali, coglie i nessi tra gli oggetti, le leggi del loro comportamento, ma non è in grado di condurci oltre la sfera sensibile, oltre una conoscenza fenomenica, sia pur ordinata e sistematizzata. L’attività contemplativa, nella quale viene a compiersi il soggetto conoscente puro, (arriverà a comprendere come l’idea una e identica si manifesti in così innumerevoli fenomeni (die Erscheinungen), e non riveli il suo essere all’individuo conoscente, se non a frammenti e una faccia dopo l’altra(293. Frammentarietà, dispersione, accidentalità sono i caratteri della conoscenza rappresentativa, la quale culmina nello sforzo di porre la caoticità e accidentalità dei fenomeni sotto le categorie ordinatrici del principio di ragione. Il soggetto conoscente puro colloca la sua attività nel territorio che si estende al di qua di questo sforzo, arrivando (a distinguere l’idea dalla maniera in cui il suo fenomeno cade nell’appercezione dell’individuo; si riconoscerà la prima come l’essenziale (wesentlich), e nella seconda non si vedrà che l’accidente (unwesentlich)(294. Schopenhauer costruisce diversi esempi atti a chiarire la distinzione tra l’idea e i suoi del tutto inessenziali sviluppi nella molteplicità dei fenomeni.
(Per il ruscello che scorre giù fra i sassi, i gorghi, le increspature e gli spruzzi, i capricci delle schiume che vediamo alla superficie, sono cose affatto indifferenti e non essenziali (unwesentlich); ma l’ubbidire alla legge di gravità, il comportarsi come liquido anelastico, perfettamente mobile, amorfo, trasparente, questa è la sua essenza (das Wesen), questa è, se si ricorre alla conoscenza intuitiva (wenn anschaulich erkannt), la sua idea; le altre formazioni esistono soltanto per noi, che le conosciamo come individui(295.
L’idea si rivela dunque come wesentlich, ciò che viene colto come essenziale. Ogni suo eventuale sviluppo, che giunge a realizzarsi sotto le forme del principio di ragione e che produce la molteplicità e la varietà delle Erscheinungen non risulta essenziale all’idea: i fenomeni, in quanto rappresentazioni, trovano la loro realtà unicamente nella coscienza dell’individuo e non sono reali che per lui296.
Questa distinzione tra conoscenza comune e intuitiva, tra idea e fenomeno, viene anche ad innescare una comprensione assolutamente originale della storia del genere umano, una filosofia della storia che non conosce Origine, né Causa prima, né Fine ultimo, né Soggetto: una prospettiva filosofica della storia assolutamente altra rispetto a quella del pensiero metafisico tradizionale. L’indefinita molteplicità degli avvenimenti, le varie forme che assume la vita umana col variare dei luoghi e dei tempi, non sono che (la forma accidentale del fenomeno dell’idea( (die zufällige Form der Erscheinung der Idee). Tutte queste determinazioni particolari, vale a dire tutte quelle particolarità di cui è intessuta la storia umana, non appartengono affatto essenzialmente all’idea, che sola costituisce (l’oggettità adeguata della volontà( (die adäquate Objektität des Willens). Tali determinazioni appaiono del tutto estranee, inessenziali e indifferenti all’idea: sono parte unicamente del fenomeno, del fantasma-Erscheinung, e, in quanto tali, trovano la loro consistenza unicamente nel conoscere dell’individuo (che è in grado sì di ordinarle, ma mai di oltrepassarle). Il vero essenziale della storia umana non risiede dunque nei fenomeni e nelle relazioni spazio-temporali e causali con cui vengono compresi dall’intelletto, ma piuttosto nell’idea che è l’(oggettità adeguata e immediata della cosa in sé, della volontà(. Così nell’incessante fluire della storia evenemenziale l’attenzione del filosofo dovrà rivolgersi a ciò che è veramente permanente ed essenziale, ovvero all’idea,
(l’idea in cui la volontà di vivere ha raggiunto il suo più alto grado di oggettità; l’idea, che mostra le sue facce differenti nelle qualità, nelle passioni, negli errori e nelle virtù del genere umano [...]; tutto ciò, combinato e fissato in mille forme diverse (individui), spinge incessantemente innanzi la grande e la piccola storia del mondo; grande commedia(297.
La conoscenza della storia, prodotta dall’intelletto, risolta com’è nel recinto onirico del fenomeno, tesa a porre ordine spaziale, temporale e causale tra i fenomeni, produce immancabilmente una concezione teleologica del processo storico stesso, l’illusione che la storia abbia un inizio e una fine, un disegno riconoscibile, che la trama degli avvenimenti abbia uno svolgimento sensato che può essere decodificato e portato finalmente in luce, che (il tempo possa generare qualcosa di nuovo e di veramente importante; che nel tempo e per via del tempo qualcosa possa attingere ad una realtà assoluta(298. La storia, una volta considerata dal punto di vista dell’idea, non si presenta più come ‘processo’ ordinato causalmente e teleologicamente: è piuttosto una grande commedia, e come (nei drammi del Gozzi( gli avvenimenti (die Begebenheiten) sono sempre diversi, ma sempre uno e identico lo spirito (der Geist) che li anima. Ogni conoscenza filosofica della storia, che intenda attingere al vero essenziale della storia umana, non può che muovere da tale presupposto299.
È indiscutibile per Schopenhauer che la storia, la scienza della natura, la matematica, che nel loro insieme animano la nostra comprensione scientifico-etiologica del mondo, non sono in grado di accedere alla realtà dell’idea, rinchiuse come sono nella cerchia del fenomeno, sottomesse alle varie forme del principio di ragione. Non è certo questo il luogo in cui l’individuo conoscente assurge a soggetto conoscente puro, trascurando i fenomeni e contemplando unicamente le idee (che sono l’oggettità immediata e adeguata della cosa in sé, della volontà(. Il luogo in cui avviene l’importante metamorfosi è l’arte (die Kunst), l’opera del genio (das Werk des Genius). Sua attitudine essenziale è appunto la pura contemplazione (die reine Kontemplation), attraverso la quale e nella quale essa giunge a oltrepassare l’inessenzialità del fenomeno e ad attingere all’essenzialità dell’idea. L’arte trova qui la sua scaturigine, nell’intuizione dell’idea, che poi riproduce impiegando materie volta a volta diverse e dando così vita all’opera d’arte, attraverso la quale l’intuizione dell’idea giunge sino a noi, fruitori dell’opera d’arte. Estranea ad ogni impianto di tipo etiologico, essa esercita la sua azione al di fuori dell’infinita catena di cause ed effetti, (l’arte si attiene all’oggetto singolo, considerato a sé stante(. Quelle molteplici relazioni che l’oggetto intesse con l’altro-da-sé rimangono fuori dal suo orizzonte. Tutte le relazioni, spaziali, temporali, causali, che realizzano la comprensione scientifica dell’oggetto, sono messe del tutto fuori gioco. Ciò che per la comprensione scientifica non è che (particella fuggitiva evanescente, diviene agli occhi dell’arte il rappresentante del tutto (das Rapräesentant des Ganzen), l’equivalente della molteplicità infinita nel tempo e nello spazio(. L’arte, dice Schopenhauer, (ferma la ruota dei tempi; svanite le relazioni, l’essenziale, l’idea, formano il suo unico oggetto(300.
Sarà proprio nell’approfondire i caratteri del genio, del suo distanziarsi dall’(uomo volgare (der gewöhnliche Mench), questa merce di fabbrica della natura(301, che si renderà pressoché necessario il riferimento ai fenomeni propri della follia. Anzitutto la contemplazione del genio si costruisce facendo astrazione dal principio di ragione, in tutte le sue forme: la genialità è appunto l’attitudine a mantenersi nel luogo dell’intuizione pura, luogo in cui avviene la perdita, la rinuncia del Sé. Risulta pertanto inseparabile da un’oblio completo della propria personalità e di tutte le relazioni che sostiene (e la sostengono) nel mondo302. Nell’intuizione estetica non siamo più consapevoli di noi stessi, ma solo degli oggetti intuiti, in uno con essi. In quanto tale essa è anche esperienza di un annullamento (sia pure temporaneo) della propria volontà, e quindi del dolore. Nella contemplazione dell’idea il genio infrange la sua servitù (der Dienst) alla volontà, non è più lo strumento che le procura i mezzi per soddisfarla. La voce della volontà individuale tace, (il genio non è altro che il più alto grado dell’oggettità, ossia la direzione oggettiva dello spirito, in opposizione alla direzione soggettiva, che fa capo alla propria persona, alla propria volontà(303.
Di particolare interesse sono per noi le ricadute della posizione im-personale del genio nella vita pratica, nella vita di tutti i giorni. Non più servo della volontà individuale, teso interamente alla conquista del’idea, egli guarda alla vita con occhi del tutto diversi da quelli dell’uomo comune, non interessandosi tanto di considerare e organizzare (la sua via nella vita(, quanto piuttosto di contemplare la vita stessa, in ciò che vi è di permanente, di essenziale, di incausato. (La conoscenza, mentre per l’uomo volgare è la lanterna che illumina la via (la sua via individuale nella vita), per l’uomo di genio è invece il sole che illumina il mondo(304. La considerazione delle molteplici relazioni che la sua individualità intrattiene con gli oggetti del mondo non trova posto nell’attività contemplativa del genio; ponendosi altrove rispetto al campo d’applicazione del principio di ragione, la genialità non potrà che risultare deficitaria per quanto riguarda (la prudenza (die Klügheit) e la saggezza pratica(, con tutti i correlati che tale deficienza immancabilmente produce nello svolgersi della vita quotidiana305. Già qui Schopenhauer sta costruendo la strada che porterà all’analogia conclusiva tra la genialità e la follia e, significativamente, nello stesso paragrafo, allaccia la sua particolare concezione della genialità al motivo dell’entusiasmo. L’ipotesi schopenhaueriana muove dalla constatazione che la genialità non è un abito stabile, durevole: la meta rappresentata dalla contemplazione delle idee libera dalla volontà è qualcosa che si conquista solo per brevi intervalli. In altre parole, l’oltrepassamento della conoscenza comune non è mai conquista duratura. Da qui l’ipotesi:
(Ecco perché si è in ogni tempo considerata l’opera del genio come un’ispirazione (die Inspiration); e non solo, ma come il nome stesso lo indica, vi si è visto l’opera di un essere sovrumano (übermenschlichen Wesens) differente dall’individuo stesso, e che non ne prende possesso se non a intervalli periodici(306.
In tal modo la considerazione della genialità viene approfondita, pensata sullo sfondo del modo arcaico di concepire la follia e, con questo, analogizzata a ciò che quest’indagine ha chiamato col nome di esperienza cosmico-tragica. Da questo punto in poi Schopenhauer procede a grandi passi sino al parallelo finale genialità-follia, conclusivo del trentaseiesimo capitolo: tutto ciò che viene detto del genio è già nutrito dall’intenzione finale di chiarire la genialità nella follia. A questo riguardo è interessante che venga ‘ricordata’ al lettore la ripugnanza del genio nei confronti della logica307 e la sua scarsa attitudine alla discussione. È proprio nella conversazione che la distanza che separa la genialità dal modo comune di vivere, di conoscere, di dialogare, rivela le sue misure: (discorre di cose che la prudenza (die Klügheit) consiglierebbe di tenere in sé [...]. Ha tendenza al monologo(308. Non v’è più dubbio: ad orecchie educate al principio di ragione il dis-correre del genio, che sembra non vedere il suo interlocutore (assorto com’è nella contemplazione dell’idea) e si mostra del tutto incurante di ogni rispetto nei confronti della coerenza logica, non può che assumere i caratteri del delirio, di un discorso non solo e non tanto imcomprensibile, quanto piuttosto non-comunicante.
E infine il genio (può mostrare tante di quelle debolezze che rasentano veramente la follia (der Wahnsinn). Che genio e follia abbiano un lato in cui si toccano, anzi si confondono, è un’osservazione che venne fatta più d’una volta(309. La giustificazione e l’approfondimento di questo parallelo avviene dapprima attraverso citazioni letterarie, poi richiamando esperienze di carattere personale, per approdare infine a una riflessione puntuale sulla natura della stessa follia: un’architettura senza dubbio complessa310. Il grande muro di citazioni letterarie, posto in limine dell’esplorazione della follia, raccoglie affermazioni da Orazio, da Seneca, dal Platone del Fedro, da Cicerone, da Pope, affermazioni che concordano tutte nel ritenere che senza un briciolo di follia non vi può essere autentica genialità311. A tutta questa documentazione letteraria viene poi affiancata, a produrre ulteriori conferme, l’esperienza personale: (io visitai frequentemente delle case di alienati (die Irrenhäuser), e m’imbattei spesso in soggetti d’incontenstabile valore: il loro genio balenava attraverso la follia(312. E se il folle gli rivela i caratteri del genio, non diversamente persone d’indiscussa superiorità intellettuale (presentavano in pari tempo una leggera traccia di follia (das Anstrich von Verrücktheit)(. La conclusione a cui si arriva è quasi obbligata: (sembrerebbe [...] che ogni superiorità intellettuale oltrepassante la media comune debba venir considerata come un’anormalità predisponente alla follia(313.
La riflessione viene bruscamente interrotta per far spazio (a un breve esame preliminare sulla follia in se stessa(314. Preliminarmente si osserva come la razionalità scientifica non sia di fatto ancora giunta a un’autentica e sicura comprensione della natura della follia (das Wesen des Wahnsinnes) e non è quindi in grado di produrre il concetto (der Begriff) della differenza tra follia e salute mentale. È una realtà incontestabile che i folli (die Wahnsinningen) siano anche in grado di ragionare e che dunque in loro l’attività dell’intelletto e della ragione non è del tutto spenta. Sono in grado di capire e di farsi capire. Non sono nemmeno del tutto estranei all’ordine impartito dal principio di ragione, se è vero che hanno (generalmente una percezione abbastanza esatta di quanto avviene intorno a loro, e afferrano la connessione delle cause e degli effetti(315. In breve: la follia sembra far capo a una mancanza della memoria (das Gedächtnis). Non si può comunque parlare di una paralisi dell’intera facoltà mnemonica, in quanto i folli riescono spesso a ricordare scene del proprio passato e talora anche a rappresentarsele con estrema vivezza. Ciò che accade in loro è che (il filo della memoria viene spezzato, la continuità della sua concatenazione soppressa, e ogni richiamo regolare coerente del passato è reso impossibile(316. Lo spazio della memoria è dunque costellato di vuoti, macchiato da chiazze d’ombra impenetrabili per il pensiero cosciente e la follia giunge a realizzarsi proprio nel riempire questi vuoti, nel colmarli con finzioni (die Fiktionen)317. Ora, l’importanza della memoria va ulteriormente sottolineata. Anzitutto una certa difficoltà nell’esercizio della facoltà mnemonica era già stata presentata come costitutiva della genialità, nel suo tenersi a distanza da ogni metodo logico, sempre risolventesi in una catena di sillogismi fondata sul principio di ragione: infatti il metodo logico (fra tutte le facoltà dello spirito, impegna sopratutto la memoria (das Gedächtnis), per aver presenti sempre le proposizioni anteriori che gli servono di base(318. Insomma: la memoria così intesa, inerente al processo di organizzazione etiologica posto in atto dal principio di ragione, è una facoltà che muove in direzione opposta a quella seguita dal genio, il quale deve concentrarsi sull’inseità dell’oggetto, sulla sua idea, e non sulla catena di relazioni causali che lo dis-pongono nel mondo. La memoria del genio è un’altra: i contenuti che questa memoria produce provengono dall’entusiasmo, dalla condizione particolare di ‘soggetto conoscente puro’. Analogamente a quella del poeta ispirato dal dio, la sua non è ‘memoria individuale’, dal momento che agisce nel luogo dell’estasi, della negazione del Sé319. Non è un caso infatti che l’incespicante e frammentata memoria del folle inneschi un processo al termine del quale vi è una profonda trasformazione dell’identità personale. Nel costruire queste finzioni, dice Schopenhauer,
(il vero e il falso si confondono (vermischen) in modo costantemente crescente nella sua (del folle) memoria. Il presente immediato vien certo percepito con esattezza, ma è falsato da relazioni fittizie con un passato chimerico; i pazzi confondono se stessi e gli altri per persone che non esistono se non nel loro passato fantastico(320.
La follia è dunque, attraverso la memoria, disturbo della personalità. Si provi a ripensare il processo. In primo luogo si pensi al ‘come’ di questi vuoti all’interno del tessuto mnemonico. La meccanica che li produce viene ripercorsa per sommi capi e risiede tutta nel tentativo di porre in parentesi un dolore, un’afflizione insopportabile, che non ci concede tregua. È una sorta di meccanismo di rimozione quello che segna il passaggio dal dolore alla follia321. Riguardo le modalità di costruzione di queste Fiktionen il testo schopenhaueriano mi pare taccia. Forse, ma qui si tratta di debordare dalla pagina schopenhaueriana, la meccanica che regola la produzione dei ‘riempimenti’ è la stessa che guida la vita inconscia, controllata dai processi di condensazione e spostamento. Processi, lo si sottolinei, operanti all’insaputa del soggetto, in un luogo altro rispetto a quello dell’io cosciente. È chiaro che se il proprio passato viene controllato, costruito, da una memoria assolutamente obbediente al principium individuationis, il risultato sarà la percezione presente di un ‘io’ stabile, che si prolunga con coerenza dal passato e che altrettanto coerentemente si affaccia verso il futuro, all’insegna insomma di una continuità e di una coerenza in uno con il principio di ragione che l’ha posta in essere. Qualora invece il tessuto mnemonico sia colmo di buchi, e la continuità interrotta interamente colmata da finzioni prodotte al di fuori dell’io, allora non vi è più possibilità di rinvenire alcuna continuità, alcuna coerenza. Non si può più parlare di ‘io’. La percezione che avviene ora, nel presente, nella misura in cui si affaccia al tessuto mnemonico (quando magari un qualche particolare della percezione attuale chiede, per essere compreso, la partecipazione del ricordo) viene a trovarsi in un luogo disancorato dal principio di ragione, un luogo nel quale la nozione stessa di ’io’ risulta assente. Non sorprende così che la percezione dell’individualità sfumi. E non solo la percezione della propria, ma anche di quella altrui: (i pazzi confondono se stessi e gli altri per persone che non esistono(.
Si tratta allora di estendere il detto schopenhaueriano. La questione della follia non sembra risolversi esclusivamente in una questione di connessioni e relazioni mancate tra (un’esatta percezione del presente e di alcuni elementi frammentari del passato(. Nell’atto in cui il folle, percependo qualcosa (in forma esattissima, cosciente di farlo e di essere lui a farlo) si richiama al tessuto mnemonico che abita in lui, in quel momento (ma è lo stesso momento in cui accade la percezione) la natura estatica, impersonale, arazionale di questo tessuto lo avvolge, lo fa suo, parla attraverso di lui, lo ispira. Questo tessuto disgregato, del tutto impersonale, costituisce il suo orizzonte precomprensivo, la grande struttura che affiora attraverso la sua (del folle) percezione, che parla attraverso di essa. La figura di un uomo in camice bianco che mi si avvicina porgendo un piatto non viene letta attraverso e nella struttura spazio-temporale e causale ordinata dal principio di ragione, che porterebbe a vedere in essa semplicemente un inserviente che mi sta offrendo del cibo. Proiettata sullo sfondo di un tessuto mnemonico lacerato, non più controllato dall’io, ogni relazione spaziale, temporale e causale si annulla e la figura assume il senso che la struttura gli conferisce, non quello che io, in forza del principio di ragione, gli potrei conferire322. Insomma, è il delirare della percezione.
Il parallelismo tra genialità e follia non dev’essere per altro inteso in senso assoluto, quasi si trattasse di una totale coincidenza. La genialità, è stato precisato, è qualcosa di momentaneo, di essenzialmente transitorio; la follia, al contrario, è una condizione duratura, che tende a perpetuarsi. Inoltre la disgregazione totale della memoria, caratteristica prima della follia, non è propria del genio, quanto meno non nella stessa misura. Ad ogni modo è innegabile che vi sia per Schopenhauer un (punto di contatto( tra genialità e follia, il quale in ultima istanza risiede nel collocare la propria attività di conoscenza al di fuori del raggio d’azione del principio di ragione, in tutte le sue forme323.
La considerazione del fatto che gli uomini non sono soltanto capaci di produrre le opere d’arte, ma sono anche in grado di fruirle, porta inevitabilmente al riconoscimento che l’attitudine propria del genio, (attitudine a svincolarsi dal principio di ragione(, sia pure in una misura diversa dev’essere propria di (tutti gli uomini, senza di che sarebbero incapaci di gustare le opere d’arte, né più né meno di quello che non siano a produrle(324. Così se è vero che la dis-posizione all’attività intuitiva, alla genialità, risulta essere qualcosa che appartiene alla natura umana, allora quest’ultima viene a trovare tra i suoi connotati di fondo anche la follia, indissolubilmente legata e difficilmente distinguibile dalla stessa genialità: così come in ognuno di noi alberga la dis-posizione alla genialità, allo stesso modo nessuno di noi può ritenersi del tutto al riparo dalla follia. Per quanto messa a tacere dall’attività della conoscenza razionale, essa è elemento costitutivo dell’essere dell’uomo. Al pari della genialità, si presenta come la dis-posizione che apre all’uomo la possibilità di una conoscenza vera, svincolata dal principio di ragione, tesa all’intuitzione dell’idea.
Giuseppe Riconda, nel suo saggio su Schopenhauer, sottolineava i profondi rapporti di affinità, di quasi coincidenza, tra arte e filosofia. L’arte esercita l’importante compito di educare l’uomo a una conoscenza del mondo al di là del principio di ragione, proiettandolo verso l’intuizione dell’(intima ed eterna essenza delle cose(, aprendolo all’idea. In tal senso l’arte è tutt’uno con la filosofia, è già ricerca filosofica,
(e la filosofia si distingue da essa unicamente per il modo d’espressione. All’artista come al filosofo occorrono due qualità: a) genialità, cioè conoscenza capace di trascendere il principio di ragione o conoscenza delle idee; b) la capacità di ripetere attraverso una tecnica trasmissibile, che può essere acquistata mediante esercizio, le idee intuite in una certa sostanza (questa sostanza per il filosofo sono i concetti, come per lo scultore il marmo, per il pittore i colori, ecc.)(325.
La genialità risulta così il fondamento, la condicio sine qua la produzione e la fruizione estetica, così come la stessa ricerca filosofica, non potrebbero nemmeno essere. Quella traduzione/ripetizione delle idee intuite nella sostanza concettuale, fatica che caratterizza l’esercizio filosofico, trova il suo fondamento ineliminabile nella dis-posizione geniale. Ora, se la genialità e la follia avvengono nel medesimo luogo (o quanto meno individuano nel loro confondersi un territorio comune), allora è inevitabile riconoscere anche alla fatica filosofica un fondamento nella follia. Il linguaggio filosofico insomma, che prende vita nella sostanza dei concetti, attinge la propria origine nella concezione intuitiva del mondo, nella genialità-follia, che costituisce dunque il suo autentico fondamento, il suo Grund.326
Capitolo III

Un dialogo sulla follia
1. L’avvento di una ratio
Pochi giorni dopo che l’Histoire con tutto il suo carico tragico di eroi salpava verso il suo pubblico, Foucault offriva ai lettori in estrema sintesi quella che considerava la tesi di fondo di tutto il suo lavoro:
(La follia esiste solo nella società. [...] Essa non esiste al di fuori delle forme di sensibilità che la isolano, o delle forme di repulsione che la espellono o la catturano. Perciò si può affermare che, dal Medioevo al Rinascimento, la follia è stata presente nell’orizzonte sociale come fatto estetico e mondano; poi, nel diciassettesimo secolo – a partire dalla segregazione (del folle) – la follia ha subìto una fase di silenzio, di esclusione(327.
Foucault proseguiva poi la sua sintesi sino a giungere al ventesimo secolo, sottolineando da un lato l’atteggiamento filantropico posto in essere dalla psichiatria nei confronti del folle, dall’altro accennando alle esperienze della follia che emergeranno dall’opera di Artaud. È un resoconto conciso, non certo in grado di dar ragione e rendere giustizia all’immensa vastità dell’opera, alla lunga fatica di studio e di scrittura che precedette la pubblicazione. Una cosa comunque voleva essere chiara, del tutto inequivoca: si trattava di una riflessione sulla follia che, di principio, non intendeva rinchiudersi nel dominio ristretto di una qualsiasi disciplina; non si presentava come ‘trattato’ facente capo alla scienza medica; né era semplicemente una monografia storica, d’impianto tradizionale, animata da un’intuizione filosofica che le sta alle spalle, sorreggendola328; né poteva essere ridotta a un infiammato pamphlet volto a riscattare, a ridare dignità umana a chi soffriva di secoli di esclusione. Insomma: voleva essere una riflessione globale, mai pilotata da interessi interni alle diverse discipline e, proprio per questo, aperta di necessità a tutta una pluralità di ambiti, di interessi e problemi, da quello artistico, letterario, figurativo, a quello filosofico, teoretico, morale, storico, scientifico. Se qualche lettore, conferendo eccessiva fiducia alle promesse del titolo, si attendeva una delucidazione storica della grande vicenda dell’internamento, già il primo capitolo, già la lettura delle sue prime pagine venivano a confondere irrimediabilmente le sue attese, proiettandolo in un orizzonte ben più ampio. Le citazioni foucaultiane aprono al suo lettore le porte di ambienti senz’altro inusitati, oltre che vasti e diversi: biografie di santi, storie del comune di Parigi, documenti e riflessioni sul mondo dei lebbrosi, pagine di archivi di ospedale, trattati sulle malattie mentali (a volte famosi e autorevoli, a volte pressoché sconosciuti e assolutamente singolari), studi su Bosch, su Brueghel, studi e citazioni dall’Elogio di Erasmo, dagli Essais di Montaigne, dal teatro shakespeariano, un frammento di Pascal, un riferimento ad Artaud329.
Fatta eccezione per quelle poche righe in cui affronta il problema di distinguere l’esperienza cosmico-tragica della follia da quella più propriamente critica, il capitolo sulla Stultifera navis non sembra appartenere a un testo di letteratura filosofica: il richiamo a Pascal, per fare un esempio, s’inserisce in una più ampia argomentazione, in cui arte, letteratura, storia del costume s’intrecciano inestricabilmente. Sorprende così che le battute d’inizio del secondo capitolo, che innestano la riflessione sul mondo classico vero e proprio, si focalizzino nella discussione sulla Prima Meditazione cartesiana, raggiungendo risultati e sottolineando motivi che più volte saranno ripresi nel corso di tutta la restante opera. È uno spazio breve quello dedicato a Descartes, nemmeno quattro pagine nell’edizione italiana, dopo di che la navigazione foucaultiana riparte ad esplorare il vasto territorio (non solo filosofico) del mondo classico, il suo modo particolare di dis-porsi nei confronti dell’insensato. Sono sporadici, è innegabile, i riferimenti a Descartes che Foucault produrrà nel corso dell’opera, così come sporadico è in genere in quest’opera il suo richiamarsi a momenti importanti e fondamentali della storia del pensiero filosofico. Tuttavia la discussione che qui si intrattiene con il filosofo del cogito è tutt’altro che marginale. Già la sua posizione lo attesta, collocata com’è nel momento in cui prende avvio la ricognizione del mondo classico, posta alle sue fondamenta. Significatività che aumenta quando si consideri l’azione che queste pagine producono sul lettore, proveniente da un paesaggio formicolante di immagini, di personaggi, di simboli, dipinto con una saggezza stilistica degna della migliore tradizione letteraria francese e nell’intento, che a tratti è quasi palese, di fascinare il lettore, di attrarlo nel suo cerchio magico330. Girata la pagina, quasi si avesse cambiato libro, il tono cambia, cambia l’intero registro su cui la scrittura si modula, richiedendo nel contempo al lettore tutto un altro atteggiamento, tutta un’altra dis-posizione. Non è più richiesto, e nemmeno è più possibile, un’approccio di tipo intuitivo, sintetico, alla pagina che si legge. Non vi sono più immagini che richiedono un tale approccio. La Prima Meditazione viene smontata analiticamente, il linguaggio cerca di farsi freddo, distaccato, ‘scientifico’: il motore di ragionamento che anima la pagina cartesiana viene portato a visibilità teorica, e il lettore è chiamato a prenderne piena coscienza, assumendo un atteggiamento di tipo non più intuitivo e sintetico, ma razionale e analitico. La densa fluidità delle immagini lascia il posto al rigore dell’argomentazione. Non siamo più nel giardino lussureggiante di immagini, carico di echi, a cui ci avevano abituato le pagine della Stultifera navis: siamo in presenza di quella sobrietà e semplicità che sono indispensabili per condurre adeguatamente una riflessione filosofica.
A dimostrazione dell’importanza capitale che queste poche pagine rivestono nell’economia dell’intero scritto, oltre alla sua strategica posizione e a quell’effetto di vero e proprio ‘dirottamento’ che produce sul lettore, si aggiungano anche gli esiti a cui queste pagine approdano. I risultati che qui Foucault raggiunge riverberano i propri effetti sino all’ultima pagina del lavoro, vengono instancabilmente ripresi, riletti su chiavi volta a volta diverse. In una parola: la posizione cartesiana è emblematica del modo classico di esperire la follia, tanto nelle sue declinazioni pratiche, quanto in quelle teoriche331.
È (con uno strano colpo di forza( che il mondo classico (ridurrà al silenzio(332 la follia, facendo zittire ogni sua voce, rinchiudendo oltre le alte mura dell’internamento ogni suo gesto. La Prima Meditazione cartesiana non viene posta certo quale causa di quest’esclusione, e non è certo qui, in una sede puramente teorica, che Foucault individua il sorgere di questo ‘colpo di forza’. L’importanza del testo cartesiano, la sua emblematicità va cercata altrove: nel suo raccogliere un modo d’intendere e valutare la follia che nell’arco di pochi decenni già era diventato consuetudine. La follia è l’assolutamente altro dalla ragione, dal pensiero. Così, nel tormentato cammino del dubbio la follia non può trovare più posto, in nessun modo e in nessun senso. (Non si può [...] supporre, neppure col pensiero, di essere folle, perchè la follia è proprio l’impossibilità del pensiero(333. Senza entrare per ora nel dettaglio dell’analisi foucaultiana, rimane certo che l’importanza che il testo cartesiano assume all’interno di una storia della follia nell’età classica, risiede proprio nel suo farsi portavoce del modo particolare che quest’età ebbe di rapportarsi all’insensato. E quanto più nella pagina cartesiana il rapporto ragione-follia appare inindagato, non problematizzato, assunto come ovvio, quanto più la stessa pagina si fa bandiera di un modo di sentire comune, di un’esperienza della follia che attraverso le strutture e le istituzioni dell’internamento andava acquistando una sempre maggiore visibilità. Foucault è lapidario: (fra Montaigne e Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che riguarda l’avvento di una ratio(334. Il Montaigne che si reca a visitare il Tasso in preda alla follia arrivava a scorgere nella tragedia del grande genio italiano quella che era una sua convinzione di fondo: ogni pensiero è intriso di sragione, il pensiero e il sapere non possono ritenersi al riparo del rischio della follia. Giusto pochi decenni dopo, in Descartes, (il rischio della follia è scomparso dall’esercizio stesso della Ragione. Quest’ultima è ridotta a un pieno possesso di se stessa, in cui non può incontrare altre insidie che l’errore, altri pericoli che l’illusione(335. Nel cammino che porta il soggetto alla verità la follia è del tutto assente. Si legga bene: non si sta dicendo che l’uomo non può essere folle. La possibilità della follia è una di quelle tragedie che possono senz’altro investire l’uomo. Ma il soggetto che cerca la verità, che pensa, che medita, non può, nella misura in cui pensa e medita, essere folle, per il semplice motivo che il pensare, in quanto (esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato(336. Ne consegue che follia e ragione si trovano in un rapporto di esclusione reciproca, dove c’e l’una non c’è l’altra, senza possibilità alcuna di contatto, senza rischio di contagio. La pagina cartesiana risulta innegabilmente emblematica di tale (avvento di una ratio(, di un particolare dis-porsi della ragione nei confronti della follia. Il destino che attende questa ratio è per altro duplice, ‘dialettico’: la parte visibile di essa verrà ad esprimersi nel progresso sempre più trionfante del (razionalismo(, la parte meno visibile, quella più segreta, sarà rappresentata (dal movimento con cui la Sragione è sprofondata nel nostro sottosuolo, per sparirvi senza dubbio, ma (anche) per prendervi radice(337.
Pare chiaro dunque che la riflessione foucaultiana sulle pagine di Descartes non si limitava a portare in luce le strutture di pensiero attraverso le quali il mondo classico si rapportava, nella teoria e nella prassi, all’insensato. Assieme a tali strutture, tutt’uno con esse, giungeva in superficie lo stesso statuto del linguaggio filosofico, del discorso filosofico, che veniva a costruire se stesso proprio escludendo la follia, garantendosi in anticipo di fronte al rischio di ogni possibile contagio. La discussione arrivava così ad investire il problema dei fondamenti stessi della filosofia, del pensiero filosofico. Polemizzando con Derrida egli chiariva:
(La posta in gioco del dibattito è indicata con chiarezza (da Derrida): potrebbe esservi qualcosa di anteriore o di esterno al discorso filosofico? Può avere la sua condizione in una esclusione, in un rifiuto, in un rischio eluso, e, perché no, in un timore? Sospetto che Derrida respinge con passione. Pudenda origo, diceva Nietzsche, a proposito dei religiosi e della loro religione(338.
Nella discussione tra Foucault e Descartes era intervenuto nel frattempo anche Derrida, sollevando da un lato problemi di fondo del testo foucaultiano, dall’altro presentando critiche e correzioni alla particolare lettura che l’autore dell’Histoire aveva fatto della Prima Meditazione. Un dialogo che si sarebbe prolungato attraverso Derrida, anche dopo la morte di Foucault, e che nelle sue strutture essenziali muove un problema che non riguarda semplicemente la follia, ma i fondamenti stessi del linguaggio e del pensiero filosofico339.
Si rende così indispensabile interrogare analiticamente questo dibattito, sondarlo nelle sue innervature, nei suoi movimenti, nei suoi presupposti e negli esiti diversi a cui volta a volta approda. A scoraggiare un approccio al dibattito di tipo sintetico, teso unicamente a raccogliere in breve i risultati, cospirano diversi fattori. In primo luogo, la dinamica temporale della discussione si snoda lungo un arco di tempo troppo ampio per poter essere efficacemente raccolto da un unico colpo d’occhio; non si tratta insomma di una discussione che è avvenuta in un determinato luogo e in un determinato tempo. In secondo luogo, ciascuno degli interlocutori prende parola sullo sfondo di un mondo culturale, storico, filosofico, del tutto diverso da quello che sostiene gli altri dialoganti: un’esposizione sintetica correrebbe il rischio di trascurare questi orizzonti che si muovono alle spalle di ogni momento del dibattito. In terzo luogo, l’interessante del dibattito non sta solo in ciò che viene effettivamente detto e recepito, anzi: il più delle volte a imporsi all’attenzione del lettore è proprio ciò che non viene detto, ciò che non viene recepito. Questo non è tanto vero per Descartes, che è il primo a prendere la parola, a innescare il dibattito, ed è l’unico che per ovvie ragioni non ha modo di ascoltare le repliche dei filosofi francesi: di fatto, il non-detto e il non-recepito riguarda solo questi ultimi due. Ora, il tradurre a visibilità ciò che a prima vista non risulta visibile richiede di necessità uno sguardo più accorto, più paziente e più profondo di quello che può offrire una semplice e veloce ricognizione sintetica.340
2. Insani, amentes, dementes
È inevitabile, anche se alle volte del tutto inatteso, il fatto che un oggetto, osservato più da vicino, riveli una forma diversa rispetto a quella che appariva in lontananza. Emergono a visibilità il suo spessore, la sua profondità, la sua struttura, prima pressoché invisibili; si riescono a vedere tutti quei fili che lo legano all’altro-da sé e che formano il campo entro cui tale oggetto è e per il quale esiste. A distanza, questo campo non era percepibile. Lo si poteva presumere in forza del sospetto che a questo mondo non pare vi sia nulla che non abiti da qualche parte, che non abbia un’ambiente, un campo appunto, che sorregga il suo vivere. Ma tale sospetto non è ancora di per sé in grado di esplorare tale ambiente, di navigarci all’interno, vedendo così l’oggetto per quello che esso effettivamente è.
Quest’indagine è giunta a scorgere la presenza della Prima Meditazione da lontano, attraverso la riflessione foucaultiana, e da un tale punto di vista lo scritto cartesiano si presentava quale ‘punto zero’ di un intenso dibattito che si svolgeva sulla sua superficie, sul suo destino storico. Foucault arriva a precisare, è vero, che la follia, così come compare nella scrittura cartesiana, ha dietro sé un lungo processo, del quale Descartes si limiterebbe a raccoglierne i risultati, ma una tale ammissione non è ancora sufficiente a cogliere lo spessore del campo che ospita la presenza della follia in tale scrittura. Conviene dunque abbandonare momentaneamente la pagina foucaultiana e fare rotta verso Descartes: la necessità che s’impone è quella di disegnare gli spazi nei quali la follia viene pensata nel testo cartesiano.
La centralità dell’autore delle Meditationes nell’ambito della filosofia moderna pare difficilmente contestabile, così come il suo influsso in larghi settori del pensiero filosofico e scientifico. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, poneva la riflessione cartesiana, nei suoi caratteri metodologici e speculativi, a fondamento stesso del pensiero moderno341. In tal modo la scelta di Foucault di porre la pagina cartesiana sul portone d’ingresso della sua particolare lettura del mondo classico appare ulterioromente giustificata: dove, relativamente a tale periodo storico, era possibile reperire una fonte più autorevole a testimonianza di un modo comune e largamente condiviso di rapportarsi all’insensato?
La speculazione metafisica cartesiana fu dislocata dal suo autore in quattro fondamentali opere. Anzitutto in un testo redatto in latino nel 1629 e non pervenutoci, il cosidetto (piccolo trattato di metafisica(; nel Discours de la méthode del 1637, e in modo particolare nella sua IV parte; nelle Meditationes de prima philosophia del 1641 e nella I parte dei Principia philosophiae del 1644. Nel contesto di quest’intera speculazione la pagina delle Meditationes occupa un posto di singolare rilievo, da intendere quale testo fondamentale per accedere alla comprensione della riflessione cartesiana sui problemi metafisici. L’importanza e la centralità delle sei meditationes viene sottolineata dallo stesso Descartes nella Praefactio ad lectorem:
(Quaestiones de Deo et mente humana jam ante paucis attigi in Dissertatione de Methodo […], gallice edita anno 1637, non quidem ut ipsas ibi accurate tractarem, sed tantum ut delibarem, et ex lectorum judiciis addiscerem qua ratione postea essent tractandae(342.
La riflessione contenuta nelle Meditationes si presenta dunque come un decisivo approfondimento di quelli che sono i due grandi impegni su cui verte la metafisica cartesiana: la dimostrazione dell’esistenza di Dio e della distinzione dell’anima dal corpo343. E si tratta di un’approfondimento che lo stesso Descartes dei Principia, elaborati com’è noto in epoca posteriore, riteneva di fatto ancora insuperato344. Ciò che importa sottolineare è che da una lato il testo delle Meditationes rappresenta un momento di un dibattito già all’interno dell’intera scrittura cartesiana, anzi: momento centrale di tale dibattito; dall’altro lato emergono dei fili che lo legano all’esterno, a quel dialogo che sugli stessi temi si svolgeva nella cultura sua contemporanea. Infatti le Meditationes accadono in un momento successivo al Discours, le cui pagine trasportavano unicamente un (assaggio( (tantum ut delibarem) di questioni metafisiche, in tal senso pubblicate con l’intento d’innestare, ma anche di collegarsi a un più ampio dibattito e, in questo modo, anche attraverso l’ausilio delle risposte e dei giudizi dei lettori, guadagnare una prospettiva (ratio) più ampia e matura da cui muovere alla comprensione di tali questioni. La pagina delle Meditationes sottolineata da Foucault, e in seguito da Derrida, non è solo momento di maturazione del pensiero cartesiano, ma è maturazione avvenuta già sullo sfondo di un dialogo, dialogo con i suoi lettori e con il mondo culturale che lo circondava.
Echi precisi di questo dibattito emergono già nella Praefactio dove Descartes allude con chiarezza a scritti che gli sarebbero pervenuti in risposta alle riflessioni che egli aveva consegnato al Discours. In particolare ricorda (duo quaedam scripta satis longa(345, i quali riprendevano motivi diffusi nell’ateismo del tempo. Crapulli appare sicuro nel sostenere che tra le intenzioni di fondo dello scritto cartesiano vi sia la precisa volontà di contrastare l’atteggiamento antimetafisico dei libertini (impegnandosi nella dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio e della spiritualità dell’anima(346. Comunque sia, la vasta mole di corrispondenza che precede e segue la pubblicazione delle Meditationes ci parla già a sufficienza di un Descartes che pensa e scrive all’interno di un dibattito. A tutto questo poi si deve aggiungere una circostanza ben nota: il testo, ancora manoscritto, fu sottoposto all’esame di numerosi studiosi e pubblicato unitamente alle objectiones avanzate e alle relative risposte. Vale a dire: si trattò di un’emersione a visibilità pubblica di un dialogo tra studiosi, dialogo di estrema complessità, non solo per la vastità dei temi trattati, ma anche e sopratutto per le numerose personalità dialoganti, ciascuna delle quali conduceva nel cerchio della conversazione il proprio linguaggio, le proprie coordinate filosofiche, politiche, religiose347.
A differenza del Discours, redatto in lingua francese, e già per questo aperto a un vasto pubblico, la scelta della lingua latina, della lingua dotta, per la redazione delle Meditationes, rispondeva all’intenzione di rivolgersi a un pubblico più ristretto. E si tratta di un intento esplicitamente dichiarato fin dalle prime battute della Praefactio ad lectorem: un’esposizione in lingua francese e quindi l’elaborazione di uno scritto di facile lettura e di più ampio accesso non risulterebbero convenienti alla natura di ciò che viene trattato e agli obbiettivi che l’intera trattazione si propone. Alle spalle cospira il (timore che anche agli ingegni più deboli fosse possibile credere che pur essi potessero affrontarla(348. Questa necessità di una lettura attenta e meditata dell’opera e insieme la coscienza che solo un pubblico ristretto e colto avesse la potenzialità di soddisfare una tale esigenza, riemerge ancora nel corso della Praefactio, in maniera più precisa e giustificata. In qualità di author Descartes è risoluto nel consigliare la lettura di queste sue pagine a nessun altro se non a coloro (qui serio mecum meditari, mentemque a sensibus, simulque ab omnibus praejudiciis, abducere poterunt ac volent, quales non nisi admodum paucos reperiri satis scio(349.
Viene qui delineata la ragione di fondo che giustifica la particolare scelta linguistica e ad un tempo la necessità di arrivare a un pubblico ristretto: il testo proposto non intende semplicemente sollecitare una lettura, più o meno attenta e paziente. La volontà è quella d’innescare un vero e proprio movimento di meditazione nel lettore, movimento che presuppone nello stesso lettore delle precise competenze (poterunt abducere) e un’altrettanto precisa intenzione di addentrarsi nel movimento meditativo (volent abducere). D’altra parte queste competenze e queste intenzioni sono in grado di produrre gli esiti voluti solo a patto che siano accompagnate (fondate), da (su) uno sforzo dello spirito di distaccarsi dagli inganni dei sensi e dei pregiudizi. Se queste sono le pretese che lo scritto richiede al suo lettore, allora non sorprende che esso si rivolga già preliminarmente a una ristretta cerchia di persone. Polemizzando anticipatamente con coloro che, pur non abilitati alla navigazione nel testo, disinteressati o incapaci di meditazione, ciò nonostante avanzano critiche su momenti puntuali e circoscritti dell’opera, Descartes ribadisce ancora la particolare natura dello scritto, che non permette sintesi affrettate, estrapolazioni frettolose:
(Quantum autem ad illos, qui, rationum mearum seriem et nexum comprehendere non curantes, in singulas tantum clausulas, ut multis in more est, argutari studebunt, non magnum ex huius scripti lectione fructum sunt percepturi(350.
Essenziale è dunque la series e il nexum rationum, ed è questo che si chiede al lettore di cogliere, di ri-produrre. L’atto di lettura deve farsi atto di meditazione, non tanto finalizzato alla sottolineatura dei momenti conclusivi o di maggior rilievo, quanto piuttosto impegnato a far rivivere il movimento dell’intero ragionamento. In una lettera a Mersenne del 24 dicembre 1640, quando ormai la stesura delle Meditationes era ultimata, Descartes offriva importanti indicazioni di metodo, precisando quale fosse l’ordine da lui seguito nelle sue opere, e in modo particolare nelle Meditationes: (in tutto ciò che scrivo non seguo l’ordine delle materie (ordre de matières), ma solo quello delle ragioni (ordre de raisons)(351. E, come precisa nello stesso luogo, l’ordre des matières, che consisterebbe nel raccogliere in uno stesso luogo tutto ciò che riguarda una determinata materia, un determinato oggetto, risulta nei fatti impraticabile, quanto meno poco rigoroso, dal momento che sovente le motivazioni che sostengono un certo argomento fanno capo a procedimenti dimostrativi differenti, poggiano su premesse dislocate all’interno di diverse e distanti catene deduttive. L’ordre des raisons procede invece dalle cose più semplici a quelle più complesse, arrivando così a dedurre conseguenze che investono ora una materia ora un’altra, (e questo è secondo me il vero cammino per trovare ed esporre debitamente la verità(352. L’ordre des matières, senz’altro più gradito ai gusti e alle competenze del vasto pubblico, rimane qualcosa di fondamentalmente estraneo a una pratica filosofica seriamente intesa, la quale non può certo maturarsi in un luogo dove le raisons, gli elementi dell’argomentazione, appaiono del tutto slegati gli uni dagli altri, dove le catene deduttive risultano del tutto assenti, dove insomma si può (parlare di una questione come di un’altra(353.
La (succesione e il nesso dei ragionamenti(, la concatenazione deduttiva nella quale si trovano a essere, conferisce certezza e valenza logica agli elementi che la costituiscono, i quali vengono ad acquisire tale status proprio in quanto occupano una posizione definita nella serie delle ragioni. Fintanto che una conoscenza resta fuori da tale ordre, esterna ed estranea alla catena deduttiva, essa risulta di fatto priva di qualsiasi consistenza logica. Si capisce in tal modo la critica che Descartes volge in anticipo a coloro che fermano la loro attenzione in singulas tantum clausulas, ignorando tutto l’iter dimostrativo che le sostiene e pretendendo magari di metterne in discussione la validità chiamando in causa argomenti che non sono stati dimostrati, che sono esterni all’ordre de raisons e in quanto tali del tutto privi di valenza logica354. Questo ordre de raisons, che è struttura di fondo della meditatio e che esercita una precisa funzione normativa rispetto alle conoscenze dis-poste al suo interno (conferendo loro certezza e validità) e a quelle che rimangono al suo esterno (negando loro certezza e validità fintanto che rimangono in questo spazio esterno), coincide con l’ordine stesso della conoscenza razionale, che procede sempre a simplicioribus ad difficiliora, da ciò che è elementare e immediatamente accessibile a ciò che è complesso e strutturato. Per questo l’iter metafisico tracciato nella scrittura cartesiana e del quale si sollecita una ri-produzione da parte del lettore (che deve farsi lettore-meditante) ha i caratteri di un movimento analitico: l’argomento che occupa il primo anello della catena deve potersi conoscere immediatamente, senza il supporto logico che gli può venire dagli argomenti seguenti; questi ultimi devono essere disposti nella catena in modo tale da venir dimostrati dai precedenti355.
La scelta di uno sguardo analitico con cui quest’indagine dichiarava di volersi affacciare al dibattito intercorso tra Cartesio, Foucault e Derrida, sembra dunque trovare una sua prima fondamentale giustificazione proprio nel testo cartesiano. Ne sorge anche un’importante conseguenza: l’oggetto-follia, comparendo tra le presenze che animano la Prima Meditazione, collocato all’interno di un’ampia catena di ragionamento, non può essere estrapolato da questa. Esso trova la sua consistenza logica solo all’interno dell’ordre des raisons nel quale è dis-posto e, al di fuori di tale ordine, isolato, cessa di parlare, diviene (uno zero di realtà(356.

Il movimento della Prima Meditazione prende le mosse dalla semplice constatazione che nel corso della vita e (fin dalla prima età( tutta una lunga serie di opinioni si viene formando e imponendosi senza alcun controllo da parte della ragione. Molte sono le (cose false( accolte come (vere( e su queste falsità si sono venute costruendo una gran quantità di conoscenze dubbie. Ne consegue di necessità che se l’obbiettivo è quello di ((ali-) quid firmum et mansurum in scientiis stabilire(357 occorre anzitutto rinnovare le fondamenta del nostro conoscere, dedicarsi a un (generale sommovimento e rovesciamento (generalis eversio) delle opinioni (opiniones)(358. Il superamento di ogni idea dubbia o anche solo probabile si realizza attraverso un momento cruciale dell’iter metafisico, l’instaurazione del dubbio cosiddetto metodico, le cui linee essenziali erano già state disegnate nella quarta parte del Discours, ma che ora si presentano sullo sfondo di una ben più ricca articolazione. Si tratta di un procedimento non certo spontaneo, facile, immediato: occorrono piuttosto precise condizioni che ne permettano l’effettivo e positivo realizzarsi. Risulta necessario liberare l’anima (da ogni altra preoccupazione( (omnibus curis), raggiungere una certa (tranquillità( (securum otium) e appartarsi in solitudine (solus secedere). Insomma: niente e nessuno deve distrarre la mente nel suo esercizio di totale messa in dubbio delle opinioni acquisite359. In tal senso il dubbio metodico comporta una sorta di messa in parentesi della quotidianità, che costruisce e mantiene se stessa proprio su quelle conoscenze che il movimento meditante vuole porre in dubbio, vuole evertere360. Solo il raggiungimento di questo luogo liminare può consentire l’effettivo compiersi del dubbio e, ad un tempo, l’effettivo cominciamento della meditazione. Inoltre, rispetto a quanto già è affermato nel Discours, non solo le condizioni che consentono l’esercizio del dubbio sono meglio specificate, ma anche la natura stessa del dubbio si presenta in maniera più articolata. Il dubbio è radicale, in quanto intende investire le fonti, le radici appunto, del conoscere. È universale, in quanto trova il proprio campo d’applicazione su ogni nostra conoscenza effettivamente acquisita o anche soltanto possibile. Tale dubbio, radicale e universale, assume di fatto sin dall’inizio un ulteriore carattere, l’essere iperbolico, carattere che dimostra nel ritenere, con la forza di un postulato, che un errore è sufficiente a screditare tutto un ordine di conoscenza e là dove procede assimilando in un unica negatività ciò che è semplicemente dubbio a ciò che è palesemente falso361.
Si è detto che il primo anello della catena dell’ordre des raisons portava a riconoscere la necessità di evertere tutte le opinioni non assicurate nel loro fondamento. Il carattere iperbolico del dubbio giunge in un certo senso ad alleggerire l’immane impresa: dal momento che l’assenso deve essere rifiutato tanto per le conoscenze del tutto false, quanto per quelle semplicemente dubbie, allora non sarà più necessario che per ognuna di queste, singolarmente prese, si dimostri la falsità. (Satis erit ad omnes rejiciendas, si aliquam rationem dubitandi in unaquaque reperero(362. Così Descartes non prende ad esaminare singolarmente ciascuna opinione, indubbiamente (impresa senza fine( (opus infinitum), ma inizia con l’indagare intorno a (quegli stessi principi( (ipsa principia) sui quali poggiano queste opinioni, ovvero sulle (fondamenta( (fundamenta) stesse del conoscere.
È a ciò che proviene, immediatamente o mediatamente, dai sensi che io, dice Descartes, ho attribuito fino ad ora il massimo grado di verità. Nel contempo, più volte nel corso della vita accade che le conoscenze percettive o le opinioni maturate su di esse vengano smentite nelle loro pretese di verità, e una tale constatazione, risolta nelle meccaniche normative del dubbio, impone di sospendere l’assenso riguardo a tutto ciò che deriva da tale fonte. È singolare, ma su questo si avrà modo di tornare più tardi, che la dimensione normativa del dubbio, per cui un solo errore è sufficiente a screditare un intero ordine di conoscenze, assuma qui le vesti della prudentia363.
Il raggio d’azione del dubbio che investe le radici sensibili della conoscenza e che dunque tenderebbe ad estendersi verso ogni rappresentazione d’ordine sensoriale, subisce tuttavia un’immediata restrizione. È vero, certo, che spesso i sensi ci ingannano circa (le cose più minute e lontane( (circa minuta quaedam et remotiora), ma vi sono giudizi, indiscutibilmente fondati sui sensi, che sarebbe autentica follia trascinare nel vortice del dubbio. Vi sono cose di cui non si può (completamente( (plane) dubitare, (che io sono qui, sono seduto presso il fuoco, sono vestito dell’abito invernale, ho tra le mani codesta carta, e cose simili(364. Tali percezioni, attraverso le quali io giungo a rappresentarmi il mio ‘io attuale’, la mia attualità, non possono essere poste in dubbio: verrebbe meno lo stesso primum agens dell’intero movimento dubitante, il soggetto che dubita, l’io. Il negare che la mano che scrive, che il corpo chino sullo scrittoio siano miei, equivale ad annebbiare, a sconvolgere la percezione della mia attualità, equivale a confondere a me stesso la percezione della mia stessa identità, ponendomi con ciò al di là di ogni movimento pensante, al di là di ogni ‘ragionevole’ traiettoria di dubbio. Significa insomma por fine alla meditazione, la quale necessita, come presupposto di fondo, di un ‘io’ che pensi. In questo contesto il rimando cartesiano alla follia appare chiarissimo: io, dice Descartes, facendo confluire nelle meccaniche del dubbio anche quelle rappresentazioni di ordine sensoriale che mi consegnano la mia attualità, ovvero la percezione della mia identità attuale, mi comporterei esattamente come i (dissennati( (insani), dal cervello sconvolto e offuscato dall’atra bile, la cui caratteristica distintiva è appunto la costruzione della propria identità attuale attraverso rappresentazioni fantastiche e false. Quell’io che affermano di essere non è il loro ‘io attuale’: sono convinti di essere ‘x’ e invece sono ‘y’. Così, quell’entità che dovrebbe fungere da primum agens, da soggetto del loro pensare, è in loro un’entità del tutto fantastica, dis-fatta, elaborata dai capricci patologici dell’atra bile. In tali uomini il movimento della meditazione è impossibilitato a essere, e non solo perché in luogo di un io reale si propone un io fantastico e falso, che si presenta alla loro coscienza con poteri di totalizzazione, accompagnato dagli attributi della certezza e dell’evidenza, dell’indubitabilità. Gli stessi caratteri che distinguono questo ‘io fantastico’ – prodotto a capriccio (al di sotto di ogni consapevolezza) e che a capriccio produce – contrastano con i requisiti ritenuti indispensabili a una seria meditazione. Descartes aveva precisato le condizioni che caratterizzavano un positivo predisporsi all’esercizio meditante: occorre essere liberi da ogni preoccupazione, guadagnare uno status contrassegnato dalla tranquillità (mentem curis omnibus exolvere), dalla solitudine (securum sibi otium procurare), dalla libertà (libere opinionum eversioni vacare), tutte formule che con parole altre affermano la necessità della consapevolezza. L’esercizio consapevole e solare della meditazione non deve subire interferenze, non dev’essere in nessun modo contagiato da movimenti d’insondabile, e notturna, provenienza. Per queste ragioni la follia è la negazione, l’impossibilità di ogni possibile meditazione, la quale è un processo che richiede un soggetto che sia autenticamente tale, un ‘io attuale’, consapevole di sé, capace di dirigere consapevolmente se stesso all’interno del circuito della meditazione. L’insanus non può essere meditante, il suo (non-) pensiero si costruisce interamente su quel (non-) soggetto dis-fatto, caotico, sempre cangiante, plurimo, che le meccaniche malate del suo cervello gl’impongono. Al folle manca il requisito della solitudo, distratto e frastornato com’è dalle voci che emergono dal profondo, dalla notte dell’inconsapevolezza; gli manca la libertas, perchè tali voci s’impongono e assumono il pieno dominio di ogni agire del soggetto, tanto pratico quanto teorico; viene per lui meno ogni possibilità di securum otium, il quale può darsi solo quando tutto è sotto controllo, e qui non vi è nulla che sia sotto controllo.
Sul filo di queste ragioni si arriva a comprendere perché Descartes restringa il raggio d’azione del dubbio, e dell’eversio, almeno riguardo a certe rappresentazioni sensoriali. Dubitare che (queste stesse mani e tutto questo corpo non sono miei( è una traiettoria di dubbio che conduce nei pressi della follia e, quindi, dello spegnimento del pensiero, della meditazione: (Ma costoro sono pazzi (amentes), né io sembrerei meno demente (demens), se qualche esempio da loro trasferissi a me(365.
Esclusa la possibilità d’inserire nel movimento meditante le meccaniche incontrollate e incontrollabili della follia (e quindi escluso il rischio che essa comportava), l’ipotesi che essa suggeriva, ovvero che le rappresentazioni sensoriali che consegnano al soggetto la sua stessa identità attuale siano false, rimane ancora del tutto aperta. È incontestabile infatti che durante il sonno e il sogno sovente s’impongano all’attenzione delle rappresentazioni dell’identità attuale assolutamente non rispondenti al vero. Si può sognare di essere accanto al fuoco, intenti a scrivere, quando invece si è nel proprio letto, con gli occhi chiusi, le mani ferme. Ed è questa, lo si vede, una situazione del tutto analoga a quella che i folli vivono da svegli, credendo (di essere re, quando invece sono poveri in canna, o vestiti di porpora, quando sono ignudi(. Ora, particolare su cui davvero meditare, mentre l’ipotesi-follia viene considerata non percorribile dal movimento meditante e di conseguenza esclusa, l’ipotesi-sogno non subisce la medesima sorte. Eppure, almeno esplicitamente, per quello che è dato leggere nel testo cartesiano, non si precisa la differenza, anzi: in un primo tempo Descartes è interessato a sottolineare la somiglianza tra le due ipotesi, del sogno e della follia: (Praeclare sane, tanquam non sim homo qui soleam noctu dormire, et eadem omnia in somnis pati, vel etiam interdum minus verisimilia, quam quae isti vigilantes(366. Si provi a smontare la definizione di questa somiglianza. In primo luogo l’analogia folle-sognatore non è data alla stregua di un’ipotesi, come qualcosa che dev’essere ancora dimostrato: è cosa certa, del tutto chiara (praeclare), una chiarezza che si estende all’intera considerazione che segue, la quale non parla dunque che di fatti certi, chiari, evidenti367. In secondo luogo tanto il sognatore quanto il folle subiscono (patiuntur), si trovano nelle condizioni di chi ‘subisce’, ovvero il loro ruolo rispetto alle rappresentazioni cui danno credito si presenta all’insegna della passività: tali false rappresentazioni s’impongono loro emergendo da zone d’ombra, quali il processo onirico e i meccanismi cerebrali alterati dall’atra bile, da luoghi insomma in cui la loro consapevolezza (il soggetto cosciente) non ha diritto alcuno di cittadinanza368. Inoltre il sogno pare addirittura superare la follia per quanto riguarda l’infedeltà alla verosimiglianza ((interdum minus verisimilia(). Anzi, in forza di quel che si è detto riguardo alla ‘passività’ del folle e del sognatore, potremmo anche estendere il detto cartesiano fino a sottolineare che all’interno di entrambi i processi il problema del vero e del falso, della verosimiglianza, non si pone in alcun modo. Tale problema può essere innescato solo da un soggetto consapevole, che esercita l’atto consapevole del giudizio, all’interno del quale soltanto si può parlare di vero o di falso. Sia nel sogno che nella follia il soggetto è ‘preso’, ‘prigioniero’ della rappresentazione, è tutt’uno con essa, incapace di uscire, di svincolarsi dal suo abbraccio fascinante per giudicarne, consapevolmente, la validità.
L’unica distinzione che Descartes esplicitamente sottolinea al suo lettore-meditante è data dal fatto, assolutamente ovvio e saputo, che il sogno investe unicamente il periodo del sonno, mentre la follia interessa anche lo stato di veglia. Altra distinzione, non del tutto esplicitata e sottolineata ma anch’essa tranquillamente ovvia e saputa, è che il sogno riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso, mentre la follia è degenerazione patologica che interessa solo alcuni individui e, in quanto tale, non distintiva ed emblematica dell’umano in generale.
Per l’uomo folle non c’è scampo, non si da possibilità alcuna di spezzare il fascinum della rappresentazione falsa: quando è sveglio, il folle è solo lo spazio inerte, ‘passivo’, in cui le meccaniche fisiologiche malamente attivate ex atra bile organizzano la loro pantomima; quando dorme, all’inganno della follia si aggiunge quello del sogno. Per l’uomo comune, diversamente, la possibilità di valutare rappresentazioni sensoriali è compromessa di diritto solo durante il sonno369. Così, se si potesse efficacemente distinguere la veglia dal sogno, se fosse possibile reperire elementi sicuri capaci di operare una tale distinzione, il problema sarebbe risolto: l’impossibilità del pensiero e del giudizio sarebbe interamente confinata negli spazi delimitati del sogno; le rappresentazioni sensoriali che, durante la veglia, parlano al soggetto della sua stessa attualità potrebbero essere giudicate, come vere o come false, a seconda dei casi. E comunque, se fossi certo di essere sveglio e se le rappresentazioni sensoriali mi comunicassero immediatamente, senza alcuna mediazione immaginativa, che sono qui, intento a scrivere, chino sullo scrittoio, allora sulla base di queste premesse potrei senza paura di errore dare il mio assenso, e considerare come vero il contenuto della rappresentazione. In quel momento sarei sicuro di aver finalmente trovato nell’iter del dubbio qualcosa di assolutamente indubitabile. Ma così non è, per la semplice ragione che (plane video numquam certis indiciis vigiliam a somno posse distingui(370, quindi: non posso sapere se sto sognando o se sono desto, non posso sapere se le rappresentazioni con cui io adesso consegno a me stesso la mia attualità abbiano effettiva corrispondenza con la realtà o semplicemente siano un parto del sogno. Insomma, la mano che vedo tracciare parole in nero sul foglio bianco è la mia? O non sto forse sognando di avere un corpo dotato di tali arti, quando invece sono un uccello, privo di mani e tutto coperto di piume? Infatti, molte volte ho sognato di avere un corpo capace di volare, e ho volato. Dunque anche le rappresentazioni che mi consegnano immediatamente la situazione attuale possono essere false e pertanto anch’esse debbono essere poste in dubbio371.
Vista l’impossibilità di distinguere certis indiciis lo stato di veglia da quello di sonno, l’iter del dubbio non può che procedere accogliendo sino in fondo la conseguenza ultima di tale situazione. Supponiamo dunque di stare dormendo e che tutto ciò che mi sto rappresentando non sia vero: suppongo che questa mano che scrive, che questo scrittoio di legno e vetro siano soltanto immagini irreali di sogno. Anche ammesso questo, bisogna comunque riconoscere che i materiali di base, con i quali la mia immaginazione produce a capriccio tali figure fantastiche, siano reali. La fantasticheria onirica, e il suo allontanarsi dal vero, trova il proprio luogo solo nell’atto del comporre assieme elementi singoli, i quali di per sé sono da considerare indubbiamente reali. L’analogia con l’attività del pittore, proposta da Descartes, è chiarissima: nei suoi dipinti l’artista può immaginare le (forme più inusitate possibili( (maxime inusitatae formae), può dar corpo e figura ad entità assolutamente immaginarie, come le Sirenae e i Satyrici, ma nella creazione-composizione di tali immagini fantastiche egli non può non servirsi di elementi tratti dal mondo reale, indiscutibilmente veri. Qualora anche intenda (ri) produrre qualcosa di mai visto, di assolutamente nuovo, (chiaramente fittizio e falso( (plane fictitium et falsum), è certo che almeno i colori necessari a realizzare l’impresa sono veri, non possono non essere veri. Si deve quindi ammettere la verità, al riparo da ogni possibile dubbio, degli elementi, delle realtà più semplici e universali:

(quamvis etiam generalia haec, oculi, caput, manus, et similia, imaginaria esse possent, necessario tamen saltem alia quaedam adhuc magis simplicia e universalia vera esse fatendum est, ex quibus tanquam coloribus veris omnes istae, seu verae, seu falsae, quae in cogitatione nostra sunt, rerum imagines effinguntur(372.
Estensione, forma, corporeità, grandezza, numero, spazio e tempo sono quelle categorie semplici e universali, assolutamente vere e reali, alle quali anche le costruzioni più fantastiche, artistiche od oniriche che siano, devono conformarsi. Da questa piattaforma raggiunta il movimento meditante è ora in grado di giudicare della dubitabilità o meno delle varie scienze. Dubbie risultano essere tutte quelle scienze, come la fisica, l’astronomia, la medicina, che poggiano sulla (considerazione delle cose composte( (quae a rerum compositarum dependent). Le scienze che trattano di realtà semplici e universali, come l’aritmetica e la geometria, debbono al contrario contenere (qualcosa di certo e di indubitato( (aliquid certi atque indubitati). Nell’ambito di tali scienze, ovvero nel luogo di queste categorie semplici e universali, la distanza tra lo stato di veglia e quello di sonno si assottiglia sino a scomparire. (Nam sive vigilem, sive dormiam, duo et tria simul juncta sunt quinque, quadratumque non plura habet latera quam quattuor(373.
Eppure il movimento dubitante ha la capacità di far vacillare le pretese alla verità e alla certezza anche di questo ultimo gruppo di scienze. Non può infatti Dio, nella sua onnipotenza, indurmi in errore tutte le volte che sommo due più tre o conto i lati di un quadrato? L’attributo dell’infinita bontà che la vetus opinio accredita al divino ((dicitur enim summe bonus() parrebbe in un primo tempo spegnere questa eventualità così inquietante, che la potenza illimitata del creatore dell’uomo comporterebbe anche il potere d’ingenerare estesamente l’inganno nella stessa creatura. Ma, ragiona Descartes, se alla bontà divina ripugnasse che la sua creatura sia confinata sempre nell’inganno, allora è cosa quanto mai strana che permetta che qualche volta s’inganni374.
Si potrebbe credere poi di poter far tacere ogni ragione di dubbio semplicemente negando l’esistenza di un Dio così potente: prosciugata la sorgente dell’inganno, il cui potere è per definizione sommamente superiore a ogni tentativo di resistenza eventualmente posto in essere dall’uomo, sarebbe con ciò stesso scomparso l’inganno. Tuttavia l’ipotesi della negazione di Dio non fa che precipitare in peggio le conseguenze del dubbio. In questo caso, nel caso in cui non vi sia Dio, non sarei stato creato da un creatore perfetto, ma sarei debitore della mia esistenza soltanto a una serie di eventi accidentali o a qualche altra imperfetta sequenza causale e, quindi, se le mie origini sono a tal punto imperfette, allora ho ancora meno ragione di credere che i miei giudizi siano liberi da errori375. A questo punto si dovrebbe sospendere l’assenso nei confronti di ogni nostra convinzione attuale o precedente che sia, riguardi essa realtà complesse e strutturate o semplici e universali: (tandem cogor fateri nihil esse ex iis quae olim vera putabam, de quo non liceat dubitare, idque non per inconsiderantiam vel levitatem, sed propter validas et meditatas rationes(376
Il dubbio metodico giunge, al termine della Prima Meditazione, al limite estremo del suo carattere universale e iperbolico. Descartes propone qui d’immaginare che (non optimum Deum, fontem veritatis, sed genium aliquem malignum, eundemque summe potentem et callidum, omnem suam industriam in eo posuisse, ut me falleret(377. In questo modo diviene ipotesi possibile che tutto il nostro intero rappresentare e pensare sia un inganno, che non solo le realtà complesse e strutturate come il cielo, l’aria, la terra, ma anche quelle del tutto semplici come i colori, le figure, altro non siano che un enorme inganno. La meditazione raggiunge attraverso l’ipotesi del genio maligno il massimo della negazione, dell’eversio: approdato a tale ipotesi, il movimento del dubbio non può che constatare una sorta di terra bruciata, di deserto di conoscenza. La verità risulta del tutto inattingibile, e non solo quella eterna e immutabile. Anche quella sempre cangiante che riguarda l’attualità presente, cui l’uomo sovente dà il suo assenso, non si rivela altro che una burla di sogno. A rigor di logica (considerabo meipsum tanquam manus non habentem, non oculos, non carnem, non sanguinem, non aliquem sensum, sed haec omnia me habere falso opinantem(378.
Il risultato cui approda la Prima Meditazione è quello del dubbio totale, di una totale sommersione di ogni punto di riferimento certo e stabile379. Altro non rimane che procedere oltre, alla scoperta di qualcosa di certo e non più dubitabile. Nella peggiore delle ipotesi si raggiungerà almeno l’incrollabile certezza (che non vi è nulla di certo( (nihil esse certi). Si avverte già comunque il lettore-meditante che l’approdo a un (punto saldo e immobile( (punctum firmum et immobile), a una verità certa e assolutamente indubitabile, inconcussa (non più patibile di eversio), fondamento vero e reale, indiscusso e indiscutibile, del nostro conoscere, non tarderà a essere raggiunto380. Il viaggio verso il punctum firmum inizia dai risultati cui era giunta la Prima Meditazione: bisogna dubitare della realtà e verità di ciò che vedo, di ciò che ricordo; tutti gli esiti delle mie attuali e precedenti esperienze sensoriali devo supporli falsi; (corpus, figura, extensio, motus, locusque sunt chimerae(381. Sarà proprio questa convinzione, maturata nella Prima Meditazione, unitamente all’ipotesi di un genio maligno, astuto e ingannatore, a produrre la prima indiscutibile certezza. Il dubbio metodico, proprio nell’accentuare all’estremo limite il suo carattere iperbolico, porta all’emersione una verità capace di resistergli incodizionatamente:
(Sed mihi persuasi nihil plane esse in mundo, nullum coelum, nullam terram, nullas mentes, nulla corpora; nonne igitur etiam me non esse? Imo certe ego eram, si quid mihi persuasi. Sed est deceptor nescio quis, summe potens, summe callidus, qui de industria me semper fallit. Haud dubie igitur ego etiam sum, si me fallit(382.
Dunque ego sum, ego existo, già in quanto oggetto dell’azione ingannatrice del genio maligno: l’affermazione della mia esistenzialità (tutte le volte che è da me pronunciata, o concepita dallo spirito, è necessariamente vera(. Poco più oltre Descartes arriverà a chiarire anche la natura di questo ego, che esiste in quanto è una cosa che pensa, in quanto, come sottolinea Crapulli, (l’unico attributo inscindibile dall’affermazione dell’esistenza dell’io è il pensare(, il cogitare383.
Una lettura della Prima Meditazione che concentri i fuochi della sua attenzione sul problema ‘follia’ è già di per sé qualcosa di singolare. Operando una rapida ricognizione delle pagine cartesiane in questione ci si rende presto conto che lo spazio effettivamente occupato dalla follia è talmente ristretto che potrebbe passare anche del tutto inosservato: lo stesso Descartes nella Synopsis sex sequentium meditationum, elaborata allo scopo di anticipare al lettore un quadro sintetico dei problemi che verranno dibattuti, non fa menzione alcuna dell’ipotesi-follia, implicitamente sostenendo la sua scarsa, marginale importanza strategica nello snodarsi dell’ordre des raisons384. A questo dato di fatto si aggiunga che lo stesso parlare di un’ipotesi-follia è, comunque la si voglia intendere, un prolungare la lezione cartesiana al di là del suo detto esplicito. Infatti nel paragrafo in cui diciamo che tale ipotesi viene vagliata, il termine ‘follia’ non compare, né tantomeno compare una sua definizione tecnica. Il testo ci parla solo di insani, di amentes, di dementes, qualificazioni generiche che alludono, senza alcuna pretesa di precisione, ai personaggi, alle dramatis personae che popolano il sotterraneo teatro dell’insensato. Ci troviamo insomma di fronte a un documento quanto mai avaro di notizie, estremamente breve ed estremamente vago, per di più inserito in un contesto che ha altrove i suoi interessi.
Si è detto che l’ipotesi follia è tutta recintata in un preciso paragrafo385. Questo è indiscutibilmente vero, almeno per quanto è dato cogliere in una prima lettura. Tuttavia la presenza, sia pure ancora silenziosa, dell’insensato sembra muoversi anche al di là di questo ristretto spazio. Essa viene richiamata per contrasto, come suo negativo, dall’appello alla prudentia, appello che risuona già nelle prime righe della Meditazione: (prudentiae est nunquam illis plane confidere qui nos vel semel deceperunt(. Descartes ricorda qui come spesso abbia avuto modo di accorgersi che i sensi a volte ingannano e quindi, come insegna la saggezza pratica, che porta a non farci più confidare in coloro che anche una sola volta ci hanno ingannato, estende e radicalizza il movimento del dubbio riguardo a ogni conoscenza che ci proviene dai sensi386. La prudentia si presenta qui come una sorta di corrispettivo del dubbio all’interno dell’agire pratico, è la saggezza pratica che ci insegna come dobbiamo comportarci e regolarci in rebus agendis, ed è una saggezza che nelle sue istanze di fondo può essere estesa anche nei riguardi della conoscenza, dell’agire teoretico. Ciò che a noi interessa è l’implicito, meglio: il necessario rovescio di questo detto. L’imprudentia, l’atteggiamento e le meccaniche tipiche di questa non-saggezza, non hanno nulla da insegnare al dubbio metodico, anzi: nella misura in cui prudentia e imprudentia sono incompatibili e contrarie, nella stessa misura (la misura della totalità) una luce sulla prima pone in ombra la seconda. Là dove la prudentia parla, l’imprudentia tace. Prolungando la scrittura del testo cartesiano, si potrebbe avanzare una domanda: cosa direbbe l’imprudentia in questo luogo specifico, se potesse parlare387? Insisterebbe sul fatto che i sensi, anche ammesso che qualche volta c’ingannano, sono comunque degni di fiducia, sempre. Se i miei sensi rappresentano attualmente un me stesso dotato di un peso e di una forma tale da poter agevolmente camminare sul pelo dell’acqua, devo senz’altro riconoscerlo come vero. Di fatto poi tutto questo ‘portare in giudizio’ le mie rappresentazioni attuali e l’atto conclusivo del riconoscimento hanno il sapore di una prudenza che mal si accorda alla leggerezza (immediatezza) dell’imprudentia: nell’ambito dell’agire pratico, luogo d’elezione della follia, se mi trovassi ad avere (a subire) queste rappresentazioni nei pressi di un fiume, mi precipiterei immediatamente a passeggiare su di esso. Non v’è dubbio comunque che ciò che il magistero della prudentia riduce al silenzio sia proprio la voce della follia, che da tempi immemorabili, declinandosi nell’agire pratico, si presenta come imprudentia, come stultitia388.
Poco oltre, già dopo il paragrafo incentrato sulla figura degli insani, la figura della prudentia ricompare: (manum istam prudens et sciens extendo et sentio; non tam distincta contingerent dormienti(389. Nella proposizione immediatamente successiva lo scenario che vede la possibilità di operare una distinzione netta e sicura tra lo stato di veglia e quello di sogno si dissolverà nella constatazione che non vi sono indizi certi per condurre con successo una tale distinzione. Tuttavia, finché tale constatazione non viene sottolineata, Descartes si dichiara convinto che la chiarezza e la distinzione delle percezioni è criterio sufficiente a distinguere la veglia dal sogno. Ora, le due qualità che contrassegnano l’uomo non-dormiente (e non-folle) sono proprio la prudenza e la consapevolezza: prudens et sciens dice Descartes. Il che, per noi, significa che imprudentia e inscientia sono i caratteri dell’uomo non desto, cioè sognatore, cioè folle.
Ancora, a movimento dubitante concluso, nel tentativo di produrre conoscenze sul fondamento della certezza finalmente raggiunta dell’ego sum, ego existo, Descartes si propone di chiarire quale mai sia la natura del suo io, (quisnam sim ego ille, qui jam necessario sum(390. Come primo passo verso una soluzione, come condizione preliminare alla ricerca, esclude l’ipotesi di ascoltare la voce dell’imprudentia: (cavendum est ne forte quid aliud imprudenter assumam in locum mei, sicque aberrem etiam in ea cognitione, quam omnium certissimam evidentissimamque esse contendo(391. Pare qui ritornare, e a lettere sufficientemente chiare, la sostanza stessa che animava il paragrafo sulla follia. Imprudentia è qui l’assumere se stessi come altra cosa rispetto a ciò che si è, è credersi x quando si è y. Un’imprudentia che rischia di trascinare nel vortice del nulla quell’unico dato certo e indubitabile a cui la Meditazione è approdata. Sulla base di tutto questo non pare dunque azzardata l’ipotesi che la riflessione sulla follia, fatta emergere e subito zittita nello spazio di poche righe, continui a correre sotterranea, quale presenza minacciosa e oscura lungo tutto l’arco della meditazione.

Spunti di ulteriore interesse emergono qualora si cerchi di sondare lo spessore dei termini con i quali Descartes conduce il lettore a riflettere sull’ipotesi-follia. Questa, come già si è detto, viene introdotta attraverso la figura del folle, dell’insanus. Non solo: alla mancanza di una precisa categoria diagnostica che individui almeno il genere di follia a cui s’intende fare riferimento, non corrisponde quale minimo correttivo la definizione di una precisa figura di folle. Si rimane estremamente nel vago: il termine insani rimanda in primo luogo a tutti coloro che, semplicemente, ‘non sono sani’ e solo in seconda istanza individua il ‘demente’, il ‘pazzo’, senza mai per altro entrare nello specifico. Di per sé l’insanus-demente potrebbe rinviare tanto all’uomo semplicemente e saltuariamente stravagante, quanto a quello irragionevole, o addirittura più pericolosamente rabbioso e furioso: tutto ciò che è patologico insomma può rientrare a buon diritto nella categoria generale dell’insania, la quale, proprio in forza della sua stessa generalità ed estensione, fatica a raccogliere in sé una qualificazione morale. L’insanus, prima ancora di essere buono o cattivo, è un malato. E questa genericità risulta ulteriormente amplificata dal contesto in cui si trova immediatamente inserita: (nescio quibus insanis(. Descartes sembra qui lasciare ogni iniziativa di precisione al suo lettore: decida lui su quali insani focalizzare il paragone che si va compiendo. La proposizione relativa immediatamente successiva, (quorum cerebella tam contumax vapor ex atra bile labefactat(, dalla quale ci si aspetterebbe l’intervento chiarificatore di una specificazione, solo in parte minima giunge a soddisfare le attese che innesta, introducendo inoltre elementi nuovi. Il termine cerebella è un diminutivo, di fatto funzionante come dispregiativo392. In tal modo, quel tono di sufficienza che il (nescio quibus insanis( lasciava appena trasparire, viene confermato e sottolineato. I cervelli di questi uomini sono ‘cervellini’, qualcosa di simile a quei debiliora ingenia a cui nella Praefactio si sconsigliava vivamente la lettura del testo: in più vi è la degenerazione patologica.
L’aggettivo contumax si lega anzitutto al soggetto logico della proposizione, al vapor (il vapore, le esalazioni emanate dalla bile), ma di fatto qualifica, e anche questa volta spregiativamente, la natura di questi cerebella, totalmente sconvolti, guastati, rovinati (tale il senso del labefactat) dagli effetti di questo vapor. L’aggettivo, contumax, sottolinea l’arroganza, l’insolenza, l’ostinazione di questi ‘piccoli cervelli’, incapaci dunque di quell’estremo esercizio di autocritica che è il dubbio metodico. Tuttavia, se l’inserzione di questo aggettivo svolge la funzione di amplificare la qualifica spregiativa393, non dice comunque ancora nulla riguardo a quale specifica categoria d’insania ci si voglia riferire.
L’espressione atra bilis è forse la più precisa dell’intero contesto, rinviando a quell’umor nero che tradizionalmente si riteneva essere provocato dalla bile394: un umor nero che tuttavia raccoglie nel suo ambito etiologico tanto la malinconia e la tristezza immotivata, quanto la rabbia e la frenesia. Un’espressione dunque anch’essa generica, imprecisa.
Tentando una sintesi di ciò che emerge dal reticolo lessicale dell’intero paragrafo, si potrebbe evidenziare in primo luogo l’assoluta (voluta) mancanza di precisione scientifica. L’unico elemento di cui il lettore effettivamente dispone per identificare questi insani è la loro costante attitudine a credersi x quando sono y. In secondo luogo emerge una precisa intenzione-strategia spregiativa, volta a screditare questa particolare categoria umana e psicologica, ponendo così definitivamente a congedo l’ipotesi che essa incarna395.
Ciò che dell’insania interessa Descartes, e in questa direzione le definizioni proposte risultano soddisfacenti, sono unicamente quegli elementi che la pongono in relazione negativa (relazione di totale esteriorità) rispetto a quanto avviene nel movimento meditante. Si tratta, come si è già visto, della passività che caratterizza l’agire rappresentativo del folle (per cui i folli subiscono anche da svegli le medesime cose-rappresentazioni che l’uomo sano subisce unicamente durante il sogno), della sua conseguente incapacità-impossibilità ad esercitare la facoltà del dubbio nei confronti delle sue stesse rappresentazioni. Del resto, come si può leggere chiaramente nel testo, l’intenzione di questo breve excursus sulla follia è tutta racchiusa nei recinti di un exemplum, di una logica della comparazione: (nec minus ipse demens viderer, si quod ab iis exemplum ad me transferrem(. La logica dell’insensato riveste per il meditante un qualche interesse solo e soltanto nella misura in cui presenta momenti di possibile (e temibile) tangenza con la situazione che il dubbio metodico è venuto a produrre. Si legga bene: non è il movimento della meditazione che nel suo snodarsi da un anello all’altro dell’ordre des raisons, approda all’ipotesi-follia. Accade qualcosa di diverso. La radicalità del dubbio che ha investito ogni rappresentazione e conoscenza in qualche modo facente capo alla sfera dei sensi, ha condotto il meditante, e di necessità, alla produzione di quella che fin d’ora risulta essere la più estrema ipotesi di diffidenza: il dubitare (me hic esse, foco assidere, hyemali toga esse indutum,…(. L’anello raggiunto, il luogo a cui l’io meditante è approdato, è quello in cui non può essere nemmeno più certo della propria identità attuale. Dovrebbe negare che ‘questa’ mano che vede, che ‘questo’ corpo che sente non sono i suoi. A questo punto entra in gioco l’ipotesi-follia, non perché prodotta dal movimento dell’ordre des raisons, quale ulteriore anello della catena, ma come semplice exemplum, innescato per analogia, luogo paradigmatico in cui si presentano fenomeni simili e nel quale è forse possibile guadagnare una visione ulteriore sulle particolarità e conseguenze del dubbio estremo cui si è approdati. Ed è un exemplum quanto mai complesso, dal momento che la situazione di colui che dubita che la mano che vede e che il corpo che sente non siano i suoi, non risulta affatto coincidente con la situazione dell’insanus. Io, dice Descartes, sono dunque arrivato a dubitare che le percezioni che mi consegnano la mia attualità siano false. In questo modo mi considero alla stregua di quei folli che, credendosi x quando sono y, sono sempre preda di false rappresentazioni. E proprio in questa piega emerge l’inapplicabilità del caso-follia alla situazione del dubitante: il folle non dubita mai; è sempre qualcun altro, esterno al folle, che sulla base di dati comportamentali osservabili arguisce che l’osservato è vittima di una falsa rappresentazione della propria identità. Dal canto suo il folle non esercita alcuna attività di dubbio. Insomma: ciò che si vede essere, semplicemente e immediatamente è. Se questo è per Descartes il folle, un essere assolutamente e sempre certo della fedeltà e della completezza delle informazioni che gli provengono dai sistemi percettivi, allora è chiaro che accogliere e prolungare all’interno della Meditazione questo spunto, questo esempio-follia, vuol dire porre termine alla meditazione stessa. Il convincimento che si muove sul fondo della pagina cartesiana sembra essere questo: quando penso e dubito non posso essere folle e quando sono folle non posso né pensare, né dubitare. L’exemplum-follia dev’essere così abbandonato, operazione di riduzione al silenzio che da un lato non presenta difficoltà alcuna (l’estraneità della follia alla meditazione è già tutta inscritta nella sua incapacità al dubbio), dall’altro non provoca alcun vuoto, non segna un mancato sviluppo all’interno dell’ordre des raisons, proprio perché di quest’ultimo non costituiva certo un anello, ma piuttosto un semplice exemplum a margine di un’argomentazione.
Rimangono ciò nonostante delle difficoltà difficilmente superabili. Alla soppressione dell’ipotesi-follia subentra l’ipotesi-sogno e, significativamente, introdotta attraverso le maglie di un rapporto analogico con la follia: in entrambi gli status il soggetto si rivela del tutto passivo rispetto alle rappresentazioni che gli si presentano; queste ultime sono per lo più false ed egli (il folle e il sognatore) le accoglie-subisce sempre come vere. Certamente i due status, come già si è avuto modo di vedere, presentano momenti di diversità, ma identici appaiono in entrambi la posizione e il movimento del soggetto rispetto alle proprie rappresentazioni. Ci si aspetterebbe quindi una logica e coerente esclusione dal processo meditante anche dell’ipotesi-sogno, un’esclusione fondata sugli stessi motivi che avevano guidato la riduzione al silenzio della follia. Di fatto questa ulteriore esclusione che la macchina teorica della meditazione sembra destinata a produrre non avviene. Non solo: mentre l’ipotesi sogno viene proseguita per numerosi paragrafi e inserita organicamente nell’ordre des raisons, l’ipotesi-follia scompare definitivamente. Eppure numerosi sono i luoghi in cui sarebbe legittimata a riemergere, e sulla base dello stesso ambiente teorico della Prima Meditazione. Anche per il folle, non meno che per il sognatore e il pittore dovrebbe essere valido il fatto che
(benché anche queste cose generali, gli occhi, il capo, le mani e cose simili, possono essere immaginarie, si deve tuttavia ammettere necessariamente almeno che sono vere talune altre cose ancor più semplici e universali, dalle quali si formano le immagini delle cose(396.

Così, quando il folle s’immagina di essere re, i colori con i quali immagina la sua corona, lo spazio che questa corona occupa, la forma geometrica che disegna, tutti questi elementi ‘semplici’ non possono non essere veri. Com’è noto Descartes estende l’esempio dal pittore al sognatore, tacendo riguardo la possibilità di un ulteriore prolungamento sino alla follia. Allo stesso modo, tenuto conto dei rapporti di analogia sogno-follia introdotti all’inizio, una volta accertata la totale impossibilità di distinguere certis indiciis la veglia dal sogno, davvero non si riesce più a comprendere perché la follia non venga ripresa in considerazione. Ciò che accade al soggetto nel sogno è in tutto e per tutto simile a ciò che gli accade durante la follia. A differenza di quest’ultima tuttavia il sogno non occupa l’intera vita del soggetto, ma soltanto una frazione di essa, quella notturna. Riuscire ad accertarsi del limen che separa la veglia dal sogno, il poter giungere alla certezza di non stare sognando, è tutt’uno con l’essere finalmente certi di non subire il gioco delle rappresentazioni, è tutt’uno con l’affrancarsi dai rischi legati al sogno e alla follia. Tuttavia Descartes dopo aver precisato l’impossibilità di reperire questi certis indiciis si limita a dire (Age sommniemus(: non si pronuncia in alcun invito a riprendere in considerazione l’ipotesi-follia.
Se si prova a venire a capo del problema semplicemente seguendo l’ordre des raisons non si può che rimanerne delusi. Questo ordre, questa catena di argomentazioni che si snoda nella Meditazione, sollecita, attende una ripresa dell’ipotesi-follia, ma del tutto invano. Siamo di fronte, come osserverà bene Foucault, a un’ingiustificata disparità di trattamento riguardo al sogno da un lato e alla follia dall’altro, una disparità e un’esclusione che deve cercare la sua ragion d’essere in un pre-giudizio nei confronti dell’insensato, pregiudizio anteriore ed esterno all’ordre des raisons che la meditazione stessa produce397.
Senza affrontare per il momento queste questioni, e quindi rimanendo sempre nell’ambiente dell’ordre des raisons esplicitato, si può comunque tentare qualche spiegazione riguardo all’improvvisa eclisse dell’ipotesi-follia. Si tratterebbe insomma di verificare ulteriormente la totale inagibilità di tale ipotesi situandola nel reticolato teorico tracciato dalla Prima Meditazione, senza debordare mai al suo esterno, senza mai chiamare in causa qualche giudizio, qualche decisione anteriore ad essa.
Una possibile spiegazione potrebbe celarsi nel fatto che l’ipotesi-follia sembra escludere la possibilità di venire assunta unicamente a livello conoscitivo, teorico. Rappresenta un’ipotesi che, per sua stessa natura, non si lascia ridurre al cerchio esatto della speculazione. Essa è immediatamente pratica. Non solo: essa non conosce ancora, esattamente come il sogno, una vera e propria distinzione tra teoria e prassi. Nel suo spazio, qualunque sia la rappresentazione che s’imponga, essa s’impone sempre e sin da subito a livello pratico, reclamando all’azione, reclamando l’intero soggetto all’azione. Qui non vi è posto per alcuna supposizione o finzione teorica. Il folle non conosce finzione: tutto ciò che si presenta alla sua coscienza ha sempre e immancabilmente i connotati della verità, e questa verità non si lascia porre in parentesi, congelando le spinte che urgono all’azione, in attesa di una sua verifica. Se mi rappresento me stesso nelle vesti di un monarca, questo è tutt’uno, immediatamente, con il dare ordini e attendere magari la dovuta genuflessione di coloro che mi stanno accanto; se mi rappresento come uccello, allora cerco subito un trampolino da cui spiccare in volo. Ora, la meditazione dubitante richiesta da Descartes al suo lettore esige altro. Io, dice Descartes, (illas aliquandiu omnino falsas imaginariasque esse fingam, […]. Etenim scio nihil inde periculi vel erroris interim sequuturum, […] quandoquidem nunc non rebus agendis, sed cognoscendis tantum incumbo(398. Mentre dunque per l’insanus non si dà che un puro rapporto di passività rispetto a tutto quello che si muove nella sua stessa coscienza, qui al contrario si sottolinea che il meditante deve fingere, deve simulare, deve intervenire attivamente nel processo di rappresentazione, conferendogli un senso altro rispetto a ciò che può presentarsi in prima battuta. In questo modo, quando l’io meditante pensa che ‘questo’ corpo, che ‘queste’ mani non siano i suoi, nel far questo non si avviccina di un solo millimetro alla situazione propria del folle: l’io meditante non subisce queste rappresentazioni, le simula. E quest’attività di simulazione, oltre a presupporre l’indubbia capacità di separare l’ambito teorico-conoscitivo da quello pratico, risulta interamente (e prudentemente) relegata nella sola sfera conoscitiva. Proprio per questo all’universalità del dubbio che investe tutte le mie opinioni attuali non fa seguito alcun pericolo: si sta solo simulando. Qualora la revoca della veridicità di tutte le mie opinioni accadesse sul serio, e non solo in modo simulato, l’io (non più ormai meditante) arriverebbe a mettere a repentaglio la sua stessa sicurezza fisica, la sua stessa vita.
Oltre e insieme a tutto questo si deve tenere in debito conto anche il fatto che il punto d’arrivo del cammino del dubbio e quello della follia sono radicalmente distanti. Significativa a questo riguardo può risultare una veloce rilettura della pagina cartesiana in cui viene delineata l’ipotesi del genio maligno. Qui il dubbio totale approda a una vera e propria negazione totale, anzi: ad un’ipotesi-simulazione di negazione totale: (considerabo meipsum tanquam manus non habentem, non oculos, non carnem, non sanguinem, non aliquem sensum, sed haec omnia me habere falso opinantem(399. Qualunque rappresentazione, opinione o conoscenza mi si affacci alla mente, devo considerarla dubbia, non accoglierla. In questa situazione l’io meditante non ha praticamente di fronte a sé alcun contenuto a cui possa dar credito, non può più considerarsi né x né y (e l’unica cosa che rimane certa, il suo stesso dubitare, verrà scoperta solo più avanti). Il procedere della follia approda invece a ben altri risultati: i cerebella, spinti dal vento della follia, arrivano a credere di essere re, di essere brocche di vetro, insomma, credono sempre di essere qualcosa. Uno status come quello della follia non può contenere, in nessun modo e in nessun senso, una realtà come quella della ‘negazione totale’, per il semplice fatto che l’insanus è del tutto incapace di dubbio: egli è sempre nella condizione della certezza, è sempre certo di essere x, o di essere y400.

Ragione e follia vengono così a distinguersi sulla base delle relazioni che intrattengono col dubbio, con l’effettivo esercizio del dubbio. Mentre la prima è tutt’una con esso, la seconda realizza un rapporto di assoluta esteriorità: la follia è l’impossibilità di ogni possibile movimento di dubbio. Ne consegue di necessità una discontinuità radicale tra l’una e l’altra. La Ragione è un luogo-altro rispetto alla follia, al riparo da ogni contatto e contagio con essa.
Se questa è la situazione che si può rinvenire all’interno del lavoro teorico cartesiano, non si può fare a meno di prendere atto di quanta distanza la separi dal modo in cui veniva intesa e vissuta la follia nel mondo pre-classico401. Si consideri anzitutto la Stulticia erasmiana. Da un certo punto di vista si potrebbe essere indotti ad assumerla tra la schiera degli insani di cui parla Descartes e a leggere in essa le tracce di quella certezza assoluta e immediata che li caratterizza nel testo cartesiano: si presenta sul palco, di fronte al pubblico dell’intera umanità, e qui tiene il suo magistero di verità. È maestra di tutto, esercita il suo potere disvelante su ogni piega del sapere umano, dall’ambito cosmologico a quello psicologico, arrivando anche ad illuminare lo sfondo costitutivo della stessa ragione filosofica. Non ha mai un dubbio, non si muove mai attraverso ipotesi, non può mai essere sorpresa a dire un ‘forse’ e la sua non è certo una verità che emerge a seguito di un faticoso cammino. All’origine di tutto, persino di quell’atto con cui la ragione separa se stessa dalla follia, essa è il luogo stesso in cui ogni verità trova la propria scaturigine. Per questi motivi è forte la tentazione di assimilarla agli insani di Descartes, incapaci, impossibilitati al dubbio. Eppure la differenza è netta: i folli cartesiani non intervengono mai, in nessun momento, all’interno del cammino del dubbio; la Stulticia erasmiana, del tutto diversamente, lo sollecita. La verità che ella consegna all’uomo, proprio perché infalsificabile e nello stesso tempo in contrasto con quella prodotta surrettiziamente dalla ragione umana, finisce con l’innestare un movimento di dubbio all’interno dell’uomo stesso, che vede, proprio dietro i contenuti che la follia gli presenta, vacillare e infine crollare tutte le sue abituali opinioni e certezze sul mondo, sulla vita, sulla sua stessa natura. In tal senso la Stulticia, se è esterna e refrattaria ad ogni possibile dubbio – in quanto vive nel luogo dell’assoluta e immediata certezza –, lo è solo perché costituisce il momento fontale di ogni autentico dubitare402.
Analogamente nel Re Lear shakespeariano la funzione esercitata dalla follia simulata di Kent e del Fool è appunto quella d’innestare un processo di dubbio in Lear. A fronte della cecità assoluta in cui è improvvisamente piombato il monarca, l’unica terapia che viene organizzata nei suoi confronti si sostanzia in quella verità sfacciata che la follia trasporta. Una verità sfacciata, affermata con estrema sicurezza e immediatezza e certezza, che va a contrapporsi alle false certezze che tiranneggiano la mente di Lear e, in questo modo, le intaccano, le indeboliscono, innestano su di esse un movimento di dubbio. Così, anche se al termine dell’azione tragica saranno i fatti più che i discorsi a riportare la luce nella mente sconvolta di Lear, rimane comunque incontestabile che qui la follia, quella simulata e artificiale di Kent e del Fool, esercitano la funzione d’innescare il movimento della ragione verso la verità403.
Anche leggendo le pagine del Neveu de Rameau sulla griglia di questo specifico interesse si vedono emergere gli stessi risultati. La necessità dei potenti di circondarsi di folli-buffoni, sottolineata a più riprese dal Neveu, risulta sorretta e animata dagli stessi motivi che costruivano la relazione tra Lear e il suo Fool. Il potente, circondato com’è da opportunisti, da potenziali traditori, da adulatori, da personaggi sempre in qualche modo interessati e mai sinceri, rischia, prigioniero della solitudine estrema del suo trono, di perdere ogni contatto col reale: il folle-buffone diviene così una sorta di alter ego, meglio, il suo stesso occhio, la sua trasparente e veritiera finestra sulla realtà. In tal senso, lo si è detto, la follia diviene momento essenziale del cammino verso la verità.
Vi è un luogo nel dialogo tra il Lui e il Moi nel quale il Neveu afferma, e con estrema decisione, una sorta di mancata relazione tra follia e saggezza: (Un uomo saggio non avrebbe mai un buffone. E dunque chi ha un buffone non è saggio; se non è saggio è matto(404. Questo rapporto di esclusione reciproca saggezza-follia parrebbe emergere con evidenza cristallina dall’ambiente teorico cartesiano, ma così non è. L’uomo saggio, dice il Neveu, non ha bisogno del folle, non ha bisogno dello spettacolo della follia per avviarsi alla ricerca della verità. Tutto questo non perché la sua saggezza sia, cartesianamente, lontana ed estranea da ogni rapporto con la follia. La mancata relazione affermata dal Neveu non può e non deve essere spiegata sulla scorta della posizione di Descartes, ridotta ad epifenomeno di essa. Adoperando il linguaggio cartesiano (ma, si badi bene, solo quello), si potrebbe sostenere che il saggio già dubita, è saggio proprio perché dubita, e in quanto tale gli risulta del tutto superflua la mediazione della follia. E quest’ultima, ben lungi dall’essere cartesianamente un luogo del tutto e irrimediabilmente lontano ed estraneo rispetto ad ogni movimento razionale, costituisce piuttosto una sorta di medium tra l’uomo e il dubbio, tra l’uomo, nella sua immediatezza sensibile e rappresentativa, e l’effettivo movimento ed esercizio della sua ragione.
Capitolo IV
Le aperture derridiane
1. Il discorso dell’Histoire de la folie
Nel 1972 il lungo studio foucaultiano sulla follia fu riedito dall’autore con singolari modifiche. Nel titolo anzitutto, ormai ridotto a Histoire de la folie à l’âge classique, ridotto alla formula che nell’edizione del 1961 compariva nelle funzioni di un sottotitolo, sottolineando la precisa e irrinunciabile dimensione storica nella quale il problema rappresentato dal rapporto tra folie et déraison veniva discusso. La modifica più rilevante, e comunque quella destinata ad avere una maggiore risonanza nelle attenzioni della critica, riguardava la Préface, che nell’edizione precedente veniva ad offrire al lettore le coordinate teoriche, le intenzioni di fondo che animavano il vasto scritto, quasi fosse una sorta di bussola, una specie di strumentazione teorica ritenuta indispensabile per navigare con profitto e senza rischio di perdersi tra le acque agitate di quell’oceano di dati storici, di resoconti, di numeri, di teorie, di punti di vista che s’intrecciano e si complicano incessantemente per tutto il lavoro. Perché, se è vero, come qualcuno ha detto, che il testo foucaultiano è sostenuto da una geniale (intuizione di semplicità adamantina(405, è altrettanto vero che un tale nucleo semplice e irriducibile è a tal punto intrecciato e sostenuto, a tal punto sommerso dai risultati esplicitati della ricerca storica da risultare il più delle volte introvabile a una prima lettura. Basti pensare a questo riguardo al larghissimo dibattito che l’Histoire innescò sin dal suo primo sorgere, vero e proprio specchio rivelatore della complessità dell’opera stessa. Dal momento che la scrittura foucaultiana coinvolgeva e attraversava così tanti ambiti (dalla storia della medicina a quella della società e della politica, dalla storia delle istituzioni ospedaliere a quella filosofica e letteraria), era pressoché inevitabile che i vari specialisti si sentissero chiamati, ognuno nelle e per le sue specifiche competenze, a una particolare lettura e conseguente critica del testo, chiamati a raccogliere e a sottolineare diversamente il fantomatico ‘significato di fondo’ del testo, alle volte per difenderlo, alle volte per falsificarlo. Non è dato sapere se Foucault avesse previsto, già nell’atto della stesura dello scritto, tutto il lungo, vario e acceso dibattito che ne sarebbe seguito, ma lasciando a margine quest’insolvibile problema rimane certo il fatto che l’edizione del 1961, proprio nella sua prefazione, offriva al lettore una precisa chiave di lettura, un modo chiaro di leggere il testo, al di qua di qualsiasi dibattito su di esso. Le intenzioni dello scritto venivano insomma esplicitate al lettore. Bene! La Préface che introduce l’edizione del 1961 non viene più riproposta nel 1972.
Prima di affrontarne la lettura sarà opportuno prendere preliminarmente le distanze da quanto viene frequentemente affermato da numerosi commentatori a giustificazione di questa scomparsa, di questa così importante assenza. Miller, tra gli altri, inserisce l’evento di quest’assenza tra gli echi della critica innescata da Derrida. Quest’ultima non avrebbe soltanto sollecitato l’autore dell’Histoire a una réponse riguardo alla giusta lettura della pagina cartesiana, réponse che si sarebbe concretizzata nelle pagine di Mom corps, ce papier, ce feu, posto appunto in appendice all’edizione del 1972. Tra le conseguenze della discussione con Derrida sarebbero anche da annoverarsi, secondo la ricostruzione messa in opera da Miller, il ridimensionamento del titolo e sopratutto la soppressione della Préface: (La sua risposta (di Foucault a Derrida) fu come sempre complessa. Battendo in ritirata strategica, egli soppresse la prefazione della prima edizione di Storia della follia(406. Prima ancora di ragionare sulla giustezza o meno di tale ricostruzione storica, è forse più interessante rendere chiaro e presente il fatto che tale giudizio può pretendere di avere dalla sua soltanto deboli ragioni di tipo psicologico. Ci parla di un Foucault preoccupato e irritato del fatto che il suo vecchio allievo avesse passato al setaccio il tessuto teorico della sua Préface e seminato in esso notevoli ragioni di dubbio, viziando così e minando la stessa stabilità e coerenza dell’intero scritto. Preoccupazioni e irritazioni, si dirà, più che comprensibili e giustificabili. Ad ogni modo, il ragionamento su cui si affatica Miller pare essere questo: a) Derrida in Cogito et histoire de la folie, investendo criticamente le tesi della Préface, ne pone in luce il discutibile rigore teorico; b) il tessuto teorico della Préface sostiene, quale guida di lettura e griglia di fondamento tutto il senso dell’intero scritto; c) per difendere lo scritto, o almeno per aumentarne il potenziale autodifensivo, si sopprime la Préface. Quest’argomentazione, all’apparenza accettabile, viene già ad incontrare una grave difficoltà nel fatto che la creazione di questo vuoto, l’esserci di quest’assenza, di per sé non è in grado di dire nulla. Proprio in quanto ‘assenza di parola’, il vuoto inserito nell’edizione del 1972 di per sé non parla, non parla di un’accettazione, non parla di un rifiuto. Non può sollecitare alcun riscontro di natura testuale, per il semplice fatto che il testo è assente, sia pure (lo concedo) significativamente assente. L’avvenuta soppressione della Préface, nella misura in cui è ‘assenza di parola’, nella stessa misura non può essere con sicurezza intesa come un’accettazione delle tesi derridiane, un riconoscimento della loro giustezza, la tacita espressione di una volontà di allargare in qualche modo l’impalcatura teorica dell’Histoire per far posto ai suggerimenti derridiani. Anzi, proprio perché priva di prefazione teorica, l’Histoire del 1972 si consegna nuda al lettore, intatta, senza più la segnalazione e la definizione di un preliminare punto di vista dal quale accedere preferenzialmente alla lettura del testo. Ancora, se il punto di vista foucaultiano non è più sottolineato esplicitamente, non si fa per altro nemmeno una parola della particolare lettura operata da Derrida. Infine, prima ancora di librarsi in fantasie psicologiste e attribuire significati infalsificabili a delle assenze, occorre leggere ciò che si dà in presenza, ciò che è leggibile. A tal riguardo si ponga mente a un fatto assolutamente ovvio: i nodi teorici che la Préface sottolineava non sono esclusivi di essa. Certo, trovare un luogo del testo in cui tali principi siano così emblematicamente sintetizzati, semplificati, quasi denudati del loro pesante fardello di prove e riscontri storici, non è impresa facile e forse nemmeno possibile, ma rimane indiscutibile che queste medesime presenze teoriche vengono riprese e ripercorse a più livelli e in diversi registri nel corso dell’intera scrittura. Tenuto conto di tutto questo, è da ritenersi più probabile che se davvero Foucault avesse voluto in qualche modo dare ascolto e seguito alle intuizioni derridiane, allora avrebbe toccato il testo stesso, lo avrebbe manomesso, invece di limitarsi alla semplice soppressione della Préface. E questo, come si sa, non è avvenuto. Inoltre lo stesso nuovo titolo proposto per l’edizione del 1972, sottolineando il luogo storico su cui si esercita la riflessione sulla follia, potrebbe facilmente e legittimamente essere interpretato come un’ulteriore replica, globale e lapidaria ad un tempo, alla posizione derridiana. Di fronte al filosofo della Grammatologie che con dovizia di particolari e rigore di analisi giungeva ad affermare che l’esclusione operata dalla ragione nei confronti della follia è senza dubbio anteriore al Cogito cartesiano e risale quanto meno a Socrate407, Foucault sottolinea, già nell’intitolazione, che la riflessione filosofica su quest’esclusione è tutt’uno con un Histoire de la folie à l’âge classique.
Si consideri con attenzione anche i presupposti, del tutto inandagati (e inindagabili) che sorreggono in profondità la tesi di Miller, secondo la quale Foucault (battendo in ritirata strategica, […] soppresse la prefazione della prima edizione di Storia della follia(. Egli presuppone un Foucault tutto preso nel replicare a Derrida. Quando nel 1972 si appresta a mettere in opera una seconda edizione dell’Histoire, l’unico pensiero si concentrerebbe nell’intenzione di replicare in qualche modo a Derrida: la soppressione della Préface è diretta e completa conseguenza del confronto con la pagina derridiana. Questa ricostruzione ha anzitutto il torto di mal accordarsi con quella figura di un filosofo certo di sé e sicuro dell’originalità del suo pensare, dell’importanza della sua ricerca, che lo stesso biografo in queste stesse pagine si sforza di presentarci. In secondo luogo, si ignora completamente il ruolo che in tale soppressione può aver svolto tutta la vastità del dibattito che accompagnò la pubblicazione del 1961 e che era ancora ben vivo e presente nel 1972, una vastità multiforme che Derrida certo non poteva né riassumere nella sua totalità, né rappresentare emblematicamente. Inoltre, il biografo americano sottolinea del tutto unilateralmente l’atto di soppressione, senza degnare mai, in nessun luogo del suo lavoro, della minima considerazione i contenuti della nuova prefazione del 1972, la quale invece ci parla, e neppure tanto indirettamente, della complessa discussione di cui era oggetto in quegli anni la sua Histoire all’interno della comunità scientifica408.
Una seconda presupposizione, inseparabile dalla prima e di fatto tutt’uno con essa, si lascia già leggere in filigrana in quel (battendo in ritirata( che verrebbe a segnare, secondo Miller, la reazione foucaultiana agli attacchi di Derrida. È una reazione strana, singolare. Altamente significativa (il fatto che sia del tutto supposta e costruita lo lasceremo a margine, per il momento). È una reazione nascosta, privata, che Foucault si sarebbe guardato bene dal rivelare e dall’ammettere. E proprio per questo più vera, più autentica. Cogliendo e descrivendo questa reazione, Miller stana un motivo, una struttura psicologica, che è al fondo del dibattito Foucault-Derrida e che è in grado di spiegarlo ancor più e ancor prima dei documenti stessi.
Quest’indagine non intende certo entrare nel merito della giustezza o meno di questo preciso rinvenimento, semplicemente si rifiuta di utilizzarlo. Del resto quest’attenzione alla ‘psicologia’ del personaggio emerge a più riprese nell’opera di Miller, anche e sopratutto a proposito della genesi e del significato dell’Histoire. Il biografo ricorda a questo riguardo un’intervista rilasciata dallo stesso Foucault a Trombadori nel 1978, nella quale confessava di aver avuto (un rapporto personale, complesso e diretto con la follia e anche con la morte(409 e a più riprese sottolinea l’urgenza di verificare la scrittura foucaultiana alla luce di tali esperienze personali, ‘psicologiche’. Esigenza, si dirà, più che giusta in un biografo, il cui compito pare quello di individuare i possibili legami tra vita e opera. Ma in sede di analisi filosofica? Quali sono le strade che viene ad aprire un’indagine che vuole fondarsi su dettagli biografici, su (ricostruite) atmosfere psicologiche? E, prima ancora, è possibile una tale indagine? Quali titoli di legittimità è in grado di presentare? Lasciando a margine tutta questa sequela d’interrogativi, un fatto rimane certo: non disponiamo di documenti sufficientemente chiari per ricostruire con precisione accettabile né la fisionomia psicologica di Foucault, né il modo in cui tale psicologia fece teoria. Disponiamo unicamente della teoria. Quei pochi fatti biografici di cui siamo a conoscenza, la frequentazione degli ambienti e delle pratiche sado-maso, le saltuarie esperienze psicadeliche, un giovanile tentativo di suicidio, formano un quadro al quale si potrebbero applicare le premesse più diverse e dal quale si potrebbero dedurre le conseguenze più varie. Tentare poi di dar ragione di quel maestoso e sfuggente edificio di pensiero che è l’Histoire sulla base di elementi biografici così grezzi e di sentimenti umorali visti così da lontano e confusamente, pare un’impresa già dall’inizio votata al fallimento. Non da ultimo, sempre riguardo la questione dell’utilizzabilità di questi elementi biografici ai fini di una ricostruzione filosofica, si tenga presente che i maggiori detrattori di Foucault, in particolare quelli provenienti dall’ambito delle scienze psichiatriche, psicoanalitiche e psicologiche, troveranno proprio in questo bacino di confusi e scarsi dettagli esperienziali una facile arma per porre sotto silenzio l’attacco epocale rivolto al loro sapere, ai fondamenti stessi del loro sapere, dall’Histoire. (Il cielo cadeva loro sulla testa(410, (Michel Foucault denunciò tutte le ideologie sulle quali poggiava il loro sapere(411. Canguilhem, il relatore della tesi di Foucault (comprese molto presto che si trattava di una revisione radicale della maniera psichiatrica di pensare la follia(, di una vera e propria (rimessa in questione dello statuto (scientifico( della psicologia(412. Si comprende facilmente quale uso i difensori dell’ortodossia abbiano potuto fare di questi frammenti biografici:

(Perché quest’elegante filosofo, figlio di un medico, s’interessava tanto alla follia, pur non avendo voluto orientarsi verso una carriera psichiatrica? Perché tanta violenza e tanta ribellione, perché una tale trasgressione? Non era forse, quest’uomo, attraversato da un’esperienza della devianza che lo induceva a identificarsi a dei folli immaginari per meglio prendere le distanze da una corporazione della quale aveva deciso di non far parte? Si sapeva che Foucault aveva voluto suicidarsi, si sapeva che era omosessuale, si sapeva che aveva provato per tre settimane ad entrare in analisi, si sapeva infine che aveva frequentato i folli all’ospedale Sainte-Anne e che aveva seguito, per il suo diploma di psicopatologia, numerosi casi di malati. Si pensò dunque che il suo libro era un’autobiografia mascherata(413

Individuate le incursioni di Foucault non solo nei testi sulla follia, ma all’interno delle patologie stesse dell’insensato, la pretesa scientificità ed obiettività dell’opera veniva depressa al livello di una semplice autobiografia, uno scritto che ripercorreva sotto l’abito letterario proprio della saggistica storico-filosofica un’esperienza assolutamente e semplicemente personale. Sed amens est iste…414. Nessuna paura! Una volta compressa l’opera scientifica negli spazi ben più modesti del ‘diario mascherato’, l’obiettivo non sarà più quello, tremendamente impegnativo e ricco d’incognite, di sondare sul terreno delle idee e della teoria la verità, la falsità, le esatte dimensioni e gli inevitabili effetti di ciò che viene detto. L’importante è piuttosto trovare sotto la mascherata dell’erudizione storica, sotto la schiuma della sintesi filosofica, quegli elementi capaci di guidarci alla vita dell’autore. Da questo raggiunto punto di vista lo scritto foucaultiano non è più in grado di rappresentare un serio e pericoloso attacco al sapere e al potere del medico e dello psicologo: nella sua realtà più intima e più vera esso è solo un semplice e del tutto innocuo diario, un autobiografico romanzo filosofico. Detto questo, va anche sottolineato che l’intelligenza di Miller è sempre ben lontana dall’avallare simili itinera di lettura, ma ciò nonostante non v’è dubbio che l’insistere sull’importanza dell’esperienza personale di Foucault possa alla fin fine fuorviare una più seria interpretazione della sua stessa opera. L’abbandono dell’ipotesi psicologico-biografica, nel suo tentativo di chiarire i contenuti profondi del dibattito Foucault-Derrida e la stessa genesi e scrittura dell’Histoire, non equivale dunque a una messa in discussione degli esiti a cui tale ipotesi approda, o degli strumenti di cui si avvale: è abbandono tout court dell’intera ipotesi in quanto non dà nessun luogo a procedere415. Anzitutto, già dal punto di vista di una preliminare ricostruzione storiografica, lo stesso Foucault al termine della lunga introduzione a L’archeologia del sapere scoraggia l’eventualità di leggere le proprie opere attraverso i filtri delle vicende biografiche che lo riguardano: l’esercizio della scrittura comporta un prendere congedo dalla propria identità, dalla propria soggettività.

(Più d’uno, come faccio senz’altro io, scrive per non avere più volto. Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere(416.

Del resto, anche all’interno di un’ottica propriamente teoretica, quando si tratta di pensare la follia in e attraverso il testo di Foucault, i riferimenti al suo privato, alla sua persona, possono risultare fuorvianti, nella misura in cui ostacolano, ritardano, impediscono il movimento dello sguardo verso quelle strutture e quei processi che sono a costituzione e a fondamento del fenomeno su cui s’indaga.
Detto questo, si comprenderà bene perché quest’indagine rileghi a margine tutta una massa di elementi biografici su cui altri invece insistono. Miller, Roudinesco, Rovatti parlano di un Foucault misteriosamente silenzioso, nell’atto di ascoltare le critiche mosse da Derrida alla sua particolare lettura della pagina cartesiana. Insistono sulla sopravvenuta inimicizia. Plaudono alla riconciliazione avvenuta nel 1981. Pensano con tristezza al cortile dell’Hôpital de la Salpêtière, che nel XVII e XVIII secolo funzionava da prigione per accattoni, prostitute, criminali e pazzi e che dopo la Rivoluzione fu trasformato da riformatori umanitari in un manicomio, luogo in cui Foucault aveva svolto tante ricerche, poi confluite nell’Histoire. Pensano con tristezza a questo cortile, alla mattina del 29 giugno 1984, in cui amici e ammiratori del filosofo scomparso erano convenuti per assistere al rito tradizionale della levée du corps, il momento in cui la bara lascia l’obitorio. E diversamente da quanto accade solitamente in simili occasioni, in cui ci si scambia saluti e battute, (in quella soleggiata mattina il silenzio attanagliava il cortile( Anche Derrida era presente e anche lui stava in perfetto silenzio417. All’interno di questa parabola biografico-psicologica, che va dal silenzio di Foucault a quello di Derrida, viene inserita anche la soppressione della Préface del 1961. Escludendo la possibilità di sondare esaustivamente le ragioni di questa scomparsa sulla base di strutture così fragile e fumose, quali sono quelle offerte dalla minuteria biografico-romanzesca, quest’indagine si apre con maggiore e rinnovato interesse all’esame di ciò che la Préface del 1972 effettivamente contiene.

Una lettura della Préface del 1972, nei suoi semplici contenuti positivi ed espliciti, dovette senza dubbio esercitare un effetto spiazzante sul lettore contemporaneo, sia su quello che già aveva negli anni precedenti familiarizzato con l’Histoire e che, addentro al dibattito sollevato da essa, si aspettava forse da queste righe un preciso intervento chiarificatore da parte dell’autore, sia su quello che per la prima volta si affacciava allo spettacolo offerto da quest’opera, desideroso di conquistare in fretta un punto di vista privilegiato da cui muovere in relativa sicurezza alla volta del testo stesso, un punto di vista segnalato dallo stesso autore. Questi dovrebbero essere, nelle aspettative di chi si appresta a leggere (o a rileggere) il libro, gli obbiettivi che una prefazione deve, solitamente, perseguire. Al contrario in queste righe l’autore offre le ragioni dell’assenza di una prefazione di tal genere, i motivi di diritto per i quali le pur giuste e spontanee attese del lettore non possono e non debbono essere soddisfatte.
Una nuova prefazione a un (libro già vecchio( (livre déjà vieux)418, quanto meno nelle attese del lettore, dovrebbe espletare due essenziali e distinte funzioni. In primo luogo si tratterebbe di ricordare e risottolineare il Senso del testo stesso, quel Senso, per intenderci, che è uscito direttamente dalle mani di chi ha scritto il testo, quel Senso che dev’essere cercato attraverso la lettura, ma che già esiste prima di essa e del quale il padre-autore è l’unico legittimo depositario. In secondo luogo, tenuto conto di tutto il discorrere che la lettura dell’opera ha suscitato, tenuto conto di tutta la pluralità di significati e interpretazioni emersi da tali discussioni, la nuova prefazione dovrebbe proporsi quale obiettivo quello di giustificare, di fissare il Senso dello scritto, di determinare e imporre la ‘giusta lettura’, escludendo certe interpretazioni, correggendone altre, avallandone altre ancora. A tal riguardo Foucault non può fare a meno di confessare un diffuso disagio: dar voce a una prefazione così intesa (non sarebbe onesto( (ce ne serait pas honnêt), non solo e non tanto nei riguardi del lettore, quanto piuttosto nei riguardi della natura stessa del libro. Quest’ultimo infatti, una volta prodotto, una volta uscito dalla mani del suo autore, diviene (oggetto-avvenimento( (objet-événement) consegnato al lettore e il cui destino dipende ormai interamente da lui. Nell’incontro che realizza col pubblico la scrittura produce tutta una serie di (doppi( (doubles), di (ripetizioni( (répétitions), di (simulacri( (simulacres), ciascuno dei quali ha la pretesa di raccogliere l’autentica identità dello scritto o di precisarne almeno qualche frammento. Certo, la tentazione del padre-autore è quella d’intervenire, dettando un paradigma al quale ogni interpretazione e lettura del testo dovrebbe conformarsi. A questo punto, il valore di ogni singolo ‘doppione’, di ogni particolare e specifica lettura del testo, verrebbe ad essere misurato secondo il grado di rassomiglianza e di avvicinamento che ha raggiunto rispetto al paradigma. Nella prefazione si esprimerebbe così la statura monarchica e la vocazione tirannica dell’autore: (Io (l’autore) sono il nome, la legge, l’anima, il segreto, la bilancia di tutti quei doppi(419. E se è evidente la forzatura inevitabilmente operata dalla prefazione alla natura del testo, che è vivo, che è (oggetto-avvenimento( nella misura in cui, affidato al tempo, costruisce e diviene dialogo coi lettori e attraverso i lettori, altrettanto evidente è la violenza esercita nei confronti del lettore-interpretante: la (modestia( con cui l’autore, nel dettare il suo paradigma, limita il senso del suo stesso scritto, è prima ancora limitazione, ingabbiamento della libertà interpretativa del lettore420.
Ferme queste considerazioni, (un libro, almeno dalla parte di chi lo ha scritto(, non dovrebbe mai essere (nient’altro che le frasi con cui è fatto(421, lasciato libero, nudo, consegnato al lettore senza l’autorità soffocante di uno scritto preliminare che riduca e attutisca le innumerevoli potenzialità significative del testo stesso, le quali soltanto nelle misura in cui sono attivate portano il libro a vera vita. Perché il libro non dev’essere un testo, murato, reso immobile, irrigidito tra le colonne di un’Interpretazione invalicabile e indiscutibile, punto di partenza e di ritorno obbligato di ogni ricognizione al suo interno. Il libro dev’essere (discorso( (discours), scrittura che trova il senso del proprio essere e dunque la vita stessa solo dialogando col lettore. Impedire questo dialogo attraverso la pre-definizione del Senso equivale a uccidere il libro, a rendergli estremamente difficoltoso l’accesso al luogo in cui soltanto può essere vivo. Ritornare all’onestà significa dunque tener conto della ‘natura del libro’, della sua più autentica vocazione. Non si tratterà più né d’ingabbiarlo preliminarmente in una qualche giustificazione autorevole, né d’intervenire per fare ordine nel dibattito labirintico che esso intrattiene coi lettori.
Ritornando a quanto già detto, dovrebbe risultare chiaro il fatto che la soppressione della primitiva prefazione non possa essere semplicemente ricondotta tra le conseguenze innescate dalla replica derridiana, ma vada piuttosto spiegata nello spessore semantico che il testo, passando attraverso i lettori e divenendo in tal modo discours, aveva ormai acquisito. A undici anni dalla prima pubblicazione dell’Histoire il suo ‘vecchio’ autore sostiene l’urgenza, il dovere di un atto di (onestà( che è tutt’uno col riconoscimento che questo lungo scritto sulla follia non è più semplicemente il testo edito nel 1961, ma si è ormai ingrossato, ingigantito a dismisura, moltiplicatosi indefinitamente, con una vita ormai indipendente dal suo autore. L’atto onesto consiste nell’eclissare la soggettività dell’autore, nel far tacere le sue pretese dispotiche nei confronti della sua stessa creazione422.
Se tutto ciò è vero, allora questa ‘teoria dell’atto di lettura’ suggerisce anche che nessuna interpretazione, per quanto puntuale, documentata e veritiera possa pretendere di essere, ha il diritto di ambire a una posizione privilegiata, di dominio, rispetto a tutte le altre, attuali o potenziali che siano. Il taglio di lettura offerto da Derrida è senz’altro tra quelli che più hanno segnato il (destino( dell’opera, e questo in particolare tra i lettori animati da interessi filosofici, ma non è questa certo l’unica interpretazione, l’unico punto di vista. Non è il depositario del Senso dell’opera. Se intendessimo così la questione, dando insieme credito all’esistenza di questo ‘Senso’, saremmo noi a compiere quell’atto disonesto dal quale il Foucault del 1972 intende prendere le distanze, esortando, e nemmeno tanto implicitamente, il lettore a fare altrettanto. Insomma: l’Histoire è tutt’uno con la sua tradizione, con il destino che ha incontrato a partire dalla sua prima pubblicazione, tutt’una con i suoi (doppi(, i suoi (simulacri(, ciascuno dei quali, sorgendo in un discours, nasce già innervato agli altri, in un dialogo a più voci che raccoglie l’intera comunità dei suoi lettori, attuali e potenziali. Comprendere il (i) senso (sensi) e la portata della critica derridiana al di fuori di questa comunità (che, come insiste Foucault, è la vita stessa dell’Histoire) non appare possibile.
Ancora: scartata la via dell’interpretazione psicologico-biografica, il dibattito Foucault-Derrida (-Cartesio) inerente alla follia viene a trovare una più efficace struttura ermeneutica nella considerazione preliminare del dibattito innescato dall’Histoire. Ancora meglio: dall’Histoire considerata nella sua natura di discours.

I giudizi dei primissimi lettori dell’Histoire rappresentano in estrema sintesi la reazione ambivalente con la quale il mondo accademico avrebbe in seguito accolto questo scritto. I professori incaricati dalla Sorbona di valutare la tesi dottorale di Foucault, (rimasero abbagliati dalla preparazione dell’autore e dalla sua padronanza di una documentazione fino ad allora mai esaminata(423. Fuori discussione l’eccezionale intelligenza del testo. Perplessità e turbamenti emergevano invece riguardo alla tesi centrale del libro e ancor di più sulla complessità e lo spessore della sua forma letteraria. Canguilhem, il primo a prendere visione del voluminoso manoscritto di 943 pagine, si rese conto immediatamente dell’originalità del lavoro, della (sorpresa( che esso provocava ad ogni pagina. L’idea centrale del libro custodiva una svolta epocale nelle maniere d’intendere la follia:

(Nulla fu più sorprendente dell’idea centrale di Foucault: la pazzia era un’invenzione, un prodotto dei rapporti sociali, e non una realtà biologica indipendente. Le implicazioni lasciavano storditi. Se Foucault aveva ragione, osservò Canguilhem, allora (tutte le precedenti storie dell’origine della psichiatria moderna erano viziate dall’illusione anacronistica che la pazzia fosse data, per quanto inosservata, nella natura umana(424.

Ciò che risultava messo in discussione era lo statuto scientifico di tutte le discipline e le pratiche che fino a quel momento si erano occupate delle patologie mentali425. Ciò nonostante Canguilhem sottolineò come le opinioni dell’autore riguardanti gli aspetti medici e biologici della follia come malattia fisica fossero evasivi. Il libro, intuì Canguilhem, non riguarda tanto la malattia mentale quanto piuttosto (l’importanza filosofica attribuita alla vita, agli sfoghi e alle opere di artisti e di uomini di pensiero che secondo le convenzioni sono considerati (folli((426. Anche Henri Gouhier, docente di storia alla Sorbona e che presiedette la discussione della tesi di Foucault, portò l’attenzione sul particolare ed enigmatico rapporto che nell’opera veniva ad instaurarsi tra l’oggetto cui mirava la riflessione, la follia, e la raffinata struttura stilistica in cui era immersa. Gouhier non mancò a tal riguardo di esprimere delle riserve: l’esperienza della follia veniva evocata servendosi di (concetti mitologici(, di personaggi immaginari. Un poco controllato talento letterario avrebbe trascinato Foucault ben oltre i fatti effettivamente constatabili, spingendolo verso indebite incursioni metafisiche nella storia427.
Gli storici di professione, passando al setaccio la documentazione sulla quale poggia l’Histoire, a più riprese sottolinearono momenti dubbi, mancanze, riserve, ponendo in discussione l’accuratezza del resoconto di Foucault428. Rimane certo comunque che le reazioni negative di maggior peso e forza giunsero dal mondo degli psichiatri. A partire dal 1961 Henri Ey e il suo gruppo de l’Évolution psychiatrique ribattezzarono significativamente Foucault con l’appellativo di (psychiatricide(. Nel 1969 organizzarono anche un convegno di studi che altrettanto significativamente portava il titolo di Conception idéologique de l’Histoire de la folie, convegno a cui Foucault, invitato, non intese partecipare429.
La difesa del sapere e della tradizione psichiatrica si complicò ulteriormente nel momento in cui le tesi dell’Histoire incontrarono quelle del movimento antipsichiatrico, che almeno già dal 1959 aveva messo in opera una critica della nozione di malattia mentale e una messa in questione della stessa psichiatria, considerata come patogena, seguendo vie molto diverse da quelle battute da Foucault. Gregory Bateson, Franco Basaglia, David Cooper, Ronald Laing, tutti costoro avevano fatto riemergere al di sopra della facciata patologica della follia l’esistenza di una storia:

( gli antipsichiatri condividevano dunque con Foucault l’idea che la follia doveva essere pensata come una storia, i cui archivi erano stati rimossi al prezzo di una straordinaria congiura: quella dell’alienismo divenuto psichiatria, quella della ragione divenuta oppressione(430.

Certo, gli antipsichiatri non erano propriamente filosofi e teorici, si limitavano a utilizzare nella loro critica alle norme istituzionali gli strumenti offerti dalla riflessione sartriana e dall’antropologia. Ora trovavano nel testo foucaultiano nuovi percorsi, nuovi strumenti431: l’attacco dell’Histoire al dominio delle scienze psicologiche si presentava all’insegna della radicalità. Ben al di là dell’opinione accademica corrente secondo la quale la nascita dell’arsenale concettuale della psicopatologia è ciò che ha permesso (di spiegare la presenza della follia nella natura umana(, Foucault mostrava che (questo arsenale si è costruito sull’illusione retroattiva di una follia già data nella natura umana(432. Quindi la follia non è presenza inscritta per natura nell’uomo, ma è prodotto di cultura, di storia, e la sua storia, il suo archivio, è quello delle culture che l’hanno definita tale e che l’hanno perseguitata. La follia non è cosa a-storica, già-da-sempre dell’uomo, che è divenuta prima parzialmente visibile attraverso le lenti del sapere popolare, religioso, magico e la cui lettura esatta e completa è stata possibile solo recentemente, sulla scorta del sapere medico. Al contrario, quest’ultimo è soltanto una delle forme storiche nelle quali è avvenuto il rapporto ragione-follia. Proprio per questo gli strumenti che esso offre non risultano adeguati a comprendere il rapporto in questione433.
Quasi proseguendo le riserve di Gouhier relative all’imbarazzante letterarietà del testo foucaultiano, vale a dire alla sua discutibile scientificità, non mancarono neppure coloro che tentarono di pianificare il naufragio dell’Histoire, accusando il suo autore di avere letteralmente inventato una storia della follia della quale non è possibile trovare traccia negli archivi di storia della psichiatria. La follia di cui parla Foucault non vive nella realtà degli ospedali, non è quella con cui il medico è alle prese: è piuttosto qualcosa di magicamente evocato, figlia di una costruzione letteraria assolutamente brillante, ma pericolosamente irresponsabile. L’autore aveva trasformato, confuso, la folla anonima dei pazzi autentici in (un affresco sublime(. (In che cosa(, (si) chiedevano questi detrattori, (il folle ordinario dell’ospedale ordinario assomiglia a un Artaud, a un Van Gogh?(434.
Altra strategia mirata a minare la struttura stessa dell’Histoire e quindi a ridurne l’impatto sul sapere medico, si concretizzò nello sforzo di una ricostruzione biografica che dimostrasse l’effettivo coinvolgimento del suo autore nelle patologie mentali: l’Histoire come l’opera di un folle435.
Seguendo la ricostruzione di Roudinesco, nel momento in cui l’Histoire comparve, gli storici della psicopatologia non avevano ancora prodotto nulla che pottesse efficacemente rivaleggiare con la fatica foucaultiana. Il primo grande testo comparve soltanto nel 1972, ad opera di Henri F. Ellemberger, A la découverte de l’inconscient436. Di ispirazione positivista e annalista il testo fu elaborato senza accogliere (quanto meno direttamente) le sollecitazioni che muovevano dall’Histoire, che Ellemberger dichiarò di aver letto soltanto in seguito. In esso non compariva nulla che potesse mettere in discussione lo statuto ‘scientifico’ della psichiatria, e della psicoanalisi, nelle sue pretese di spiegare e curare la follia. Secondo Ellemberger la follia è presenza (naturale( nell’uomo, ma di fatto essa diviene visibile solo

(nella diversità delle sue manifestazioni culturali. […] Essa esisteva certo dalla notte dei tempi ma non era divenuta comprensibile che dal giorno in cui l’uomo aveva potuto apprenderla, sotto la forma di un pensiero magico o di un pensiero razionale(437.

Numerosi comunque furono gli storici della psichiatria che riconobbero all’opera foucaultiana una posizione inaugurale. Gladys Swain e Marcel Gauchet, nel loro lavoro del 1980, La pratique de l’esprit humaine. L’institution asilaire et la révolution démocratique, riflettendo sul problema della nascita dell’asilo nel XIX secolo, giungevano a riprendere, e consapevolmente, alcune linee di fondo dell’Histoire. Se da un lato, contrariamente agli esiti della ricostruzione foucaultiana, la nascita dell’asilo veniva fatta corrispondere alla realizzazione di un’utopia democratica, secondo la logica dell’integrazione e dell’egualitarismo (e non secondo quella dell’esclusione dell’alterità), d’altra parte il tentativo di chiarire come la follia fu trasformata e intesa in modo nuovo proprio in funzione delle istituzioni psichiatriche, veniva ad inserirsi perfettamente nel disegno generale dell’Histoire, proseguendolo438.
È dunque all’interno di un tale contesto, che la corrente indagine ha potuto evocare solo da lontano, dirne la presenza senza poterla percorrere nei particolari, che anche la critica derridiana va ad inserirsi, complicandolo ulteriormente. Il 23 novembre 1991 Derrida prendeva ancora posto ufficialmente all’interno dell’annoso discorso dell’Histoire, prendendo la parola dopo Canguilhem, che confessava il suo orgoglio per aver contribuito alla fortuna di un libro che a trent’anni dalla sua comparsa era ancora capace di far parlare di sé; dopo Jacques Postel che disegnava la figura di Pinel secondo i canoni della storia della psichiatria; dopo Claude Quétel, che poneva in dubbio le tesi foucaultiane sull’internamento degli insensati; dopo Agostino Pirella, che ricordava l’impatto che la Préface del 1961 esercitò negli ambienti antipsichiatrici italiani439.

2. L’archeologia del silenzio

In Cogito et histoire de la folie Derrida faceva precedere alla sua particolare lettura della Prima Meditazione una riflessione critica che investiva i momenti salienti della Préface del 1961 all’Histoire. Grande merito che dev’essere riconosciuto al filosofo della Grammatologie, prima ancora di sondare la giustezza o meno delle sue riflessioni, è quello di aver sottolineato l’impossibilità di comprendere appieno quanto Foucault dice di Cartesio senza un’attenta considerazione delle linee teoriche tracciate nella Préface. La pagina cartesiana verrebbe a costituire una sorta di documentazione, di prova, attraverso la quale la ‘struttura d’esclusione’, quella ‘decisione’ che sarebbe maturata nella separazione assoluta della ragione dalla follia, verrebbe ad assumere una sua precisa e riconoscibile fisionomia storica. Seguendo l’indicazione derridiana, ma tenendosi per il momento al di qua delle aperture problematiche che contiene e innesta, sarà bene anzitutto muovere ad un’attenta ricognizione dei contenuti di questa Préface, la cui scrittura, vale la pena ricordare, accade prima che l’Histoire diventi ‘discorso’, in un momento precedente il suo incontro col pubblico, nel dialogo silenzioso che essa, allora, intratteneva col suo autore.

L’obiettivo a prima vista si presenta all’insegna della semplicità: (cercare di raggiungere nella storia questo grado zero della storia della follia(440. Questo (grado zero( è il momento, ancora al di qua della storia, al suo margine, nel quale Ragione e Sragione, Follia e non Follia risultano inseparabili, esistono l’una per l’altra, in uno scambio e ricambio continuo, incessante, dall’una all’altra. Il ‘grado attuale’ di questa storia, l’unico chiaramente visibile (nelle strutture d’internamento) ed enunciabile (nel sapere delle scienze psicologiche), è quello in cui ormai ragione e follia si rapportano l’una all’altra come (cose ormai esteriori, sorde ad ogni scambio, quasi morte l’una per l’altra(441. In altri termini, coi quali quest’indagine ha già familiarizzato, si potrebbe descrivere la (curva( (courbure) di quest’evoluzione come il passaggio dal tramonto di un’esperienza cosmica della follia all’emergere a una sempre maggiore definizione di un’esperienza critica caratterizzata appunto dal distacco ragione-follia, distacco con il quale la ragione va acquisendo la sua specifica identità. Tra il (grado zero( e quello attuale si pone, costitutivamente il (gesto di una separazione( (geste de coupure). In questi primi paragrafi della Préface l’impressione è di trovarci nei pressi di un processo temporale caratterizzato da una tranquilla orizzontalità, nel senso che la linea di evoluzione-sviluppo segnata dalla coppia ragione-follia sembra poter essere semplicisticamente intesa secondo la logica del prima-poi: all’inizio, il (grado zero(, troviamo la con-fusione dell’una nell’altra, confusione rinchiusa a distanza di sicurezza, nel passato; al termine, il grado attuale, la distinzione e separazione assoluta, al riparo ormai da ogni confusione passata. Se così fosse, allora la Storia della follia, vale a dire quello studio che si propone di risalire sino al (grado zero( dell’evoluzione attuale, sarebbe uno studio soltanto e semplicemente storico, nell’accezione più banale e elementare del termine: si tratterebbe di muoversi di documento in documento, a ritroso nel tempo, sino a raggiungere l’obiettivo prefissato, senza mai abbandonare il buon senso rassicurante racchiuso nella logica del prima-poi, senza mai uscire dalla superficie storica.
Subito, per altro, si chiarisce la non percorribilità di un tale studio. L’obiettivo, ripetiamo, è cogliere (il grado zero della storia della follia(, il momento sorgivo di tale storia, quel geste de coupure, al di là del quale ragione e follia sono ormai estranee e morte l’una all’altra. I fuochi dell’indagine devono dunque convergere verso questo geste, che non può essere però ricostruito muovendo da quel sapere che la ragione, nel suo distanziarsi ed estranearsi dalla follia, ha elaborato su di essa. In termini più precisi, (nessun concetto della psico-patologia( (aucun des concepts de la pycho-pathologie), luogo in cui il sapere della ragione sulla follia ha attinto la sua purezza, potrà guidare l’indagine. Il motivo di quest’impossibilità di diritto è chiaro: il sapere psicologico si costruisce a separazione ormai avvenuta, (nella calma ripristinata( (dans la calme reveneu), è successivo a tale gesto, una delle sue conseguenze. Ne consegue che sarà, al limite, la ricognizione su tale (gesto( costitutivo e fondante della separazione che potrà dire qualcosa sull’essere dello sguardo e del sapere psicologico, e non viceversa: il (gesto di separazione( sta alle spalle della scienza psicologica, costituendo il suo impensato, e il suo impensabile442. Ancora: questo (gesto( rappresenta, per l’uomo moderno occidentale, che vive nel ‘grado attuale’ della storia della follia, una (regione scomoda( (région incommode): gli strumenti di cui quest’uomo si avvale prevedono e garantiscono una chiara e distinta separazione tra la ragione-soggetto da un lato e la follia-oggetto dall’altro, prevedono l’esistenza individuata e distinta dell’una e dell’altra. Al contrario, la ‘scomodità’ di questa regione consiste nel fatto che (qui, follia e non-follia, ragione e non-ragione sono confusamente implicate: sono inseparabili poiché non esistono ancora, ed esistono l’una per l’altra, l’una in rapporto all’altra, nello scambio che le separa(443.
È nelle viscere del mondo moderno che si consuma tale separazione. Scompare qui ogni comunicazione, ogni linguaggio comune che assicuri lo scambio ragione-follia. L’unica parola è quella della ragione che va organizzando il suo monologo nei riguardi di una follia ormai ridotta a silenzio. Al termine del XVIII secolo questo è ormai un dato acquisito, compiuto, promosso a norma, proprio attraverso la semplificazione della follia a malattia mentale: il linguaggio con cui avveniva il rapporto d’incessante scambio ragione-follia è ormai del tutto sprofondato nell’oblio. Il sapere psicologico, che si è costruito e ha potuto costruirsi solo a separazione avvenuta, non può offrire alcun aiuto allo sforzo di raggiungere la (regione scomoda(: esso è già monologo della ragione (ormai isolata e al riparo da ogni possibile parentela e contagio con l’insensato) sulla follia ridotta a silenzio. Ora, l’obiettivo principe dell’Histoire, il (cercare di raggiungere nella storia questo grado zero della storia della follia(, non si può dunque sostanziare nel ripercorrere ‘storicamente’, di documento in documento, la storia di questo linguaggio psicologico, nel ripercorrere a ritroso, alla ricerca delle origini, il lessico e la sintassi normativa di questo monologo. L’obiettivo non può che consistere nel (fare […] l’archeologia di questo silenzio( (faire l’archéologie de ce silence)444. Si viene così a profilare uno studio ‘archeologico’ che, come Foucault chiarirà più avanti, presuppone una concezione della storia e dello stesso divenire storico ben più complessa di quella intesa tradizionalmente sulla base delle coordinate di passato, presente e futuro.
La fisionomia di questo (gesto( risulta per Foucault visibile sopratutto nei centocinquant’anni che hanno preceduto e introdotto la psichiatria positiva: è l’età classica, da Willis a Pinel, dalla metà circa del XVII secolo fino alle soglie del XIX, momento in cui la separazione è ormai definitivamente compiuta, acquisita445.
Nella Préface nel corso di poche righe viene ricostruito l’evolversi del rapporto ragione-follia a partire dal mondo greco. (Il logos greco(, dice Foucault, (non conosce il contrario( (n’avait pas de contraire), vale a dire: il Logos, la ragione dei greci, non costruiva la propria identità attraverso la negazione dell’alterità. Il rapporto che il Logos intratteneva con l’Ûbrij (non era solo di condanna( (n’était pas seulement de condamnation), di esteriorità. Ancora in età medioevale il (gesto di separazione( non era interamente consumato: la ragione occidentale intratteneva ancora un certo rapporto, un rapporto dialogante con l’universo dell’insensato. Sussisteva ancora una sorta di linguaggio comune, di scambio tra l’una e l’altro. Nel panorama offerto dal mondo moderno, tutt’uno col ‘grado attuale’ della storia della follia, di tale linguaggio comune e di tale scambio non v’è più traccia: l’espulsione cartesiana della follia dalla traiettoria del dubbio è segnale di una coupure ormai avvenuta. Non a caso, alle soglie dell’età classica.
Ciò che quest’epoca inabissa nell’oblio è la (connessione( (affrontement)446 ragione-follia, un rapporto nel quale l’una non esisteva indipendentemente dall’altra, non agiva e non parlava se non in relazione all’altra. E tuttavia quest’inabissamento non può essere letto alla stregua di un annientamento. (Al di sotto del linguaggio della ragione( (au dessous du langage de la raison), quella ragione che sorge in età classica distanziandosi dal luogo dell’originaria con-fusione con l’insensato, il rapporto ragione-sragione permane, come (una delle dimensioni della sua originalità( (une des dimensions de son originalité), come suo sfondo costitutivo. Il raggiungimento del (grado zero( si precisa così come tentativo, archeologico, di rinvenire la fisionomia, la vita di questa (connessione(, sotterranea e fondante rispetto al linguaggio, al monologo della ragione. Questo affrontement, questo (grado zero(, insiste verticalmente in profondità, rispetto allo scorrere orizzontale del divenire storico della ragione occidentale. Lo studio archeologico s’interessa a tale verticalità: non si propone di seguire la ragione (nel suo divenire orizzontale( (dans son devenir horizontal), ma piuttosto di (rintracciare nel tempo questa costante verticalità( (retracer dans le temps cette verticalité constante). La (regione scomoda( su cui indaga, il suo luogo, è dunque quello che si estende verticalmente in profondità al di sotto della superficie del divenire storico. È questa la région incommode di cui Foucault parlava all’inizio,

(che non è né la storia della conoscenza, né semplicemente la storia, che non è sorretta né dalla teleologia della verità, né dalla concatenazione razionale delle cause, le quali non hanno senso e valore se non al di là della separazione(447.

È questa la (regione( in cui avviene il (gesto della separazione(, al seguito del quale soltanto sorge la storia e la ragione emerge nella sua specifica identità, con i suoi specifici strumenti. In questa (regione( non è in gioco il problema dell’(identità di una cultura( (identité d’une culture), problema che ha senso solo alla superficie del divenire storico: qui hanno luogo i gesti della separazione, quell’imposizione di limiti attraverso i quali soltanto si costruisce l’identità, la quale poi, confinata alla superficie del divenire storico, si vive e si presenta come originaria, relegando nelle profondità verticali dell’oblio la tragedia che l’ha generata. (Si potrebbe fare una storia dei limiti: di quei gesti oscuri, necessariamente dimenticati non appena compiuti, con i quali una cultura respinge qualcosa che sarà per lei l’Esteriore(448. Proprio respingendo, espellendo l’Esteriore, con un gesto già da subito votato all’oblio, una cultura definisce se stessa, costruisce la propria identità, compie (le sue scelte essenziali( (choix essentiels), determina la (nascita della sua stessa storia( (la naissance même de son histoire). L’attenzione archeologica è volta interamente a sondare questi luoghi sorgivi della storicità di una cultura, a (interrogare una cultura sulle sue esperienze-limite( (expériences-limites)449.
Nel divenire storico la follia, colta al di qua di ogni possibile cattura da parte del sapere, si presenta come (assenza d’opera( (absence d’oeuvre), lasciando sulla superficie piena della storia solo delle esili, fuggitive tracce, (qualche increspatura che inquieta poco e che non altera la grande calma razionale della storia(450. In tal senso l’agire della follia, sul piano – pieno – del divenire storico, realizza una non-opera, un’opera assente, una sorta di crepa, di vuoto che è sì presente nella storia (e Foucault cita a titolo di esempio le migliaia di pagine alle quali Thorin, (demente furioso(, sul finire del XVII secolo consegnò la sua follia), ma al contempo assolutamente estranea ad essa, incapace di dialogare con le identità piene che si muovono su e nel divenire storico, incapace di agire sul loro presente, d’influenzarne il futuro, di costituire la memoria del loro passato. Presenze morte e mute nella storia, si potrebbe dire; (qualcosa nel divenire che è irreparabilmente meno della storia(451. Ed è proprio a questo moins che l’attenzione archeologica deve volgere le sue interrogazioni e le sue fatiche, in primo luogo liberandolo da tutta quella crosta di connotazioni negative che il sapere della ragione ha depositato su di esso, già a partire dal (gesto( originario della separazione, crosta che ostacola l’accesso alla discesa verso quelle ‘profondità verticali’ nelle quali la follia operava di concerto con la ragione. Lo sguardo archeologico, prima ancora di discendere alla volta delle ‘profondità verticali’, denuda una verità, ossia (che il tempo storico( nel suo stesso atto sorgivo e costitutivo (impone silenzio a qualcosa che in seguito non possiamo più apprendere se non sotto le forme del vuoto, del vano, del nulla(452, le uniche forme in cui l’operare della follia riesce ad esprimersi alla superficie del tempo storico. Nelle ‘profondità verticali’ che si estendono al di sotto di questa superficie, quale suo obliato sfondo, si situa il luogo di origine della storia, e del linguaggio della ragione: (a chi tende l’orecchio(, ovvero all’attenzione dell’archeologo che vuole penetrare il segreto di questo crepa, di questi vuoti lasciati dalla follia sulla superficie – piena – della storia, si apre uno scenario inusitato, si ode (il mormorio ostinato di un linguaggio che dovrebbe parlare da solo(453. È un linguaggio diverso, altro, rispetto a quello storico, un linguaggio che non conosce e non produce identità, ma confusione; che ignora la distanza tra soggetto e oggetto, che agisce in un luogo in cui soggetto e oggetto non sono ancora; che è privo, anteriore, non ancora animato da un qualsivoglia significato. È il linguaggio in cui avviene la circolazione continua tra ragione e follia. È questa stessa circolazione. Su questo sfondo potrà nascere il linguaggio della storia, la definizione di ciò che è sensato e di ciò che non lo è, e da qui la ragione andrà progressivamente distanziandosi dalla primitiva confusione con la follia, conquistando (al prezzo di un continuo sforzo di identificazione e separazione di e dall’Estraneo) la sua specifica sintassi, i suoi punti fermi, in una parola: la sua identità.
Al di qua delle illusioni di assolutezza e originalità di cui la ragione nutre se stessa nel suo vivere storico, e dunque anche nel suo vivere filosofico e scientifico, lo sguardo archeologico mette a nudo il (fatto generale che non può esserci nella nostra cultura una ragione senza follia(454, dal momento che essa costruisce la sua identità nello sforzo continuo di distanziarsi da essa, o meglio: dal luogo, fontale, di confusione ragione-follia. Perchè, certo, al di sotto della ragione storica non vi è semplicemente la follia, isolata, sola, autonoma, che entra in rapporto con una ragione anch’essa dotata di relativa autonomia. Nel luogo da cui proviene la dialettica storica, e questo Foucault lo aveva già chiarito all’inizio, (follia e non follia, ragione e non ragione sono confusamente implicate: sono inseparabili poiché non esistono ancora, ed esistono l’una per l’altra, l’una in rapporto all’altra(. Di fatto e di diritto, una ragione e una follia come entità separate, sussistenti di per sé, indipendentemente da un rapporto che le può vedere insieme, è cosa che è dato vedere soltanto alla superficie della dialettica storica, non nelle sue ‘profondità verticali’.
La discesa a questo luogo originario è irta di difficoltà. In primo luogo, dal momento che l’archeologo vive alla superficie del tempo storico ed è quindi irretito nelle meccaniche e nelle leggi del suo divenire, l’unico luogo in cui può cominciare la discesa (verso le ‘profondità verticali’) non può essere che quello segnato dalle crepe e dai vuoti lasciati dal non-operare della follia, ma questi, ricorda Foucault, non sono legati, ambientati significativamente al tessuto storico, sono (parole insensate che niente lega al tempo( (paroles insensées que rien n’amarre au temps). Non è possibile ricondurle a una qualche struttura che le renda sensate, leggibili. La seconda difficoltà, connessa alla precedente e come quella insuperabile, è racchiusa nel semplice fatto che queste ‘opere assenti’ accedono all’esistenza (nel tempo) e quindi vengono animate da un qualche significato, e insomma si aprono significativamente all’interpretante solo (nel gesto della separazione che già li denuncia e li domina(455. In tal senso, ad esempio, la conoscenza scientifica attribuisce all’opera ‘assente’, e nello stesso momento in cui si assicura la distanza da essa, lo statuto e il significato di accidente patologico. Le due difficoltà segnalate suggeriscono invariabilmente che la ‘purezza primitiva’ risulta in ultima istanza inaccessibile, in quanto la percezione che cerca di coglierla e di definirla appartiene già a un mondo che si è costruito rinchiudendola all’esterno. Il (grado zero( sembra dunque del tutto inaccessibile, e riflettendo sulla diversa natura dei linguaggi che animano il (grado zero( da un lato e il ‘grado attuale’ dall’altro, ci si convince facilmente che una tale inaccessibilità dev’essere riconosciuta di diritto456.
A una storia della follia, sollecitata da un’intenzione e uno sguardo archeologico, non resta che procedere a

(uno studio strutturale dell’insieme storico – nozioni, istituzioni, misure giuridiche e poliziesche, concetti scientifici – che tiene prigioniera una follia il cui stato selvaggio non può mai essere ricuperato in se stesso(457.

E dal momento che tale luogo originario risulta di diritto inaccessibile, questo studio archeologico-strutturale deve giungere ai confini della storia, là dove accade il (gesto della separazione(, non ancora sfondo originario e non ancora storia, in bilico tra l’una e l’altra.
Non sorprende che in chiusura della Préface si insista nuovamente sul problema del linguaggio, dell’elocuzione di cui deve servirsi lo storico-archeologo della follia. Un linguaggio che, certo, non può essere più quello originario, ma che tuttavia deve, nella misura del possibile, evitare di modellarsi interamente su quello attuale, scientifico e morale. Il linguaggio dell’archeologia, verrebbe da dire, sta nel mezzo, tra l’uno e l’altro. (Un linguaggio abbastanza neutro( (un langage assez neutre), ovvero (abbastanza libero( (assez libre) dalla tirannia del vocabolario scientifico e dalle norme sociali e morali, così da accostarsi quanto più possibile al linguaggio primitivo e ignorare (quanto più possibile) la distanza per mezzo della quale l’uomo moderno si tutela dal pericoloso abbraccio con la follia458.

Il 4 marzo 1963, a quasi due anni dalla prima pubblicazione dell’Histoire, Derrida di fronte al Collège philosophique interveniva ufficialmente prendendo posizione nei confronti di alcuni nodi di fondo del lavoro foucaultiano. Ora, ciò che nella sede di un impegno teoretico occorrerebbe fare non è soltanto mettere in luce e definire puntualmente i momenti di distanza e di attrito tra le posizioni espresse in Cogito et histoire de la folie e le intuizioni foucaultiane, quanto piuttosto sforzarsi d’intendere e leggere la replica derridiana quale ulteriore proseguimento e approfondimento della strumentazione teorica che definisce le condizioni di possibilità di un pensiero sulla follia. Non si tratta quindi di porre le due posizioni l’una di fronte all’altra, sottolineando la distanza che le separa. Il tentativo, che quest’indagine potrà solo iniziare, è quello di leggerle nella loro comunicazione dialogante attorno a un unico tema: la possibilità, oggi, d’intendere e parlare la follia. Ponendosi su questa strada non si fa che accogliere nella sua totalità quel ripensamento ulteriore che Foucault consegnava alla Préface del 1972: il significato dell’Histoire, ovvero la ricerca delle condizioni di possibilità di un pensiero e di un linguaggio sulla follia, è destinato ad allargarsi nella vastità del dibattito che essa stessa produce incontrando il lettore. Insomma, anche le repliche derridiane sono espressioni e momenti di quel grande viaggio che l’Histoire inaugura: riduttivo, fuorviante, errato rinchiudere queste ‘repliche’ nei recinti psicologici della contesa. Lo stesso Derrida non sarebbe d’accordo. Prima ancora di entrare nel vivo del suo intervento, egli avvisava il suo uditorio: (il dialogo rischia di essere interpretato a torto come una contestazione(459.
Non è dato sapere se la riflessione derridiana sia stata attivata dalla volontà di ripercorrere la pagina cartesiana, per verificare la lettura che ne aveva fatto Foucault, e poi da qui si sia mossa a considerare (alcuni presupposti filosofici e metodologici( dell’Histoire o, diversamente, la messa in luce di alcune difficoltà rinvenute nella strumentazione teorica foucaultiana abbia guidato in un secondo momento l’intento di rileggere le Meditationes. I due livelli sono talmente intrecciati, a tal punto rinvianti l’uno all’altro, essendo ciascuno il sostegno dell’altro, che non pare possibile aggiustarli nella logica della successione: meglio forse intenderli nella logica della simultaneità, della circolazione continua460.
Da segnalare anche il fatto che i nodi (filosofici e metodologici( che vengono qui discussi sono quelli elaborati e presentati da Foucault nella Préface del 1961.

La grande sfida che l’Histoire lancia al suo tempo è quella di (scrivere una storia della follia in se stessa(. Derrida, ben lungi dal disperdersi nel tentativo di ripercorrere in che modo Foucault abbia, nei fatti, cercato di raggiungere questo obiettivo, si sforza di dislocare i suoi interrogativi su un luogo che si estende al di qua di ogni possibile ricognizione storica. È davvero possibile (una storia della follia in se stessa(? In primo piano dunque le questioni di fondo, di diritto. Anzitutto la questione delle condizioni di possibilità di una tale storia, di un tale discorso. Elaborare (una storia della follia in se stessa( significa, prima di ogni altra cosa, restituirle (la parola( (parole), renderla (soggetto parlante(461. Si pone dunque, a fondamento, un problema di linguaggio, di sapere: la loquacitas di questa follia-soggetto non può accedere al livello del senso modellandosi sul linguaggio di quella ragione che l’ha esiliata, sostanziandosi di quel sapere, psichiatrico, che la confina nelle carceri della malattia mentale, accogliendo nel proprio vocabolario quei (concetti che sono stati gli strumenti storici di una cattura della follia(462. Questo non sarebbe il ‘parlare della follia’, intendendo il genitivo, come vuole Foucault, tanto in senso oggettivo, tanto in quello soggettivo. In questo linguaggio e in questo sapere la follia è solo e soltanto oggetto, vuoto luogo di esilio al di là delle mura della ragione, del tutto incapace di parola propria. (La volontà di evitare questa trappola è costante in Foucault(463. In questa fuga dal linguaggio proprio della ragione classica (e post-classica), fuga che apre alla ricerca di nuove forme di elocuzione, è senz’altro presente il grande pregio e sforzo dell’Histoire, ma rappresenta ad un tempo (quel che vi è di più folle nel suo progetto( (de plus fou dans son projet)464.
Una prima strategia posta in atto da Foucault per aggirare l’insidia cerca di risolversi in un rifiuto integrale di questo linguaggio e di questo sapere. Il linguaggio della ragione cancella ogni possibilità di dialogo con il mondo dell’insensato e, declinandosi nel sapere psichiatrico, diviene (monologo della ragione sopra la follia(465. (Io(, scrive Derrida citando Foucault, (non ho voluto fare la storia di questo linguaggio; piuttosto l’archeologia di questo silenzio(. In tal modo, il progetto iniziale, la grande sfida lanciata dall’Histoire, écrire une histoire de la folie elle-même, è in uno con lo studio archeologico di questo silenzio.
Fino a questo momento Derrida non ha fatto che ripercorrere a grandi linee la teorizzazione foucaultiana. Ora, raggiunta una più precisa definizione degli obiettivi dell’Histoire, prende inizio la problematizzazione. Lo studio archeologico, per quanto si muova sulla superficie di un linguaggio (abbastanza neutro(, (abbastanza libero(466, nella misura in cui comunica qualcosa di significativo, è e non può non essere (un linguaggio organizzato, un progetto, un ordine, una frase, una sintassi, un’(opera((467. In tal senso l’archeologia del silenzio sarebbe la traduzione-tradimento dell’absence d’oeuvre nell’oeuvre, insomma, la (ripetizione( (répétition) di quell’atto d’esilio, di quella separazione consumata da cui la stessa archeologia dovrebbe distanziarsi. E a tutto questo poi si aggiunge il fatto che la documentazione, i (segni( (signes) dice Derrida, da cui l’archeologia muove alla volta di tale silenzio, derivano tutti dalla (zona giuridica dell’interdizione( (zone juridique de l’interdiction). Il problema sollevato, e non visto a sufficienza da Foucault, riguarda la (sorgente( (source) e lo (statuto( (statut) di tale archeologia, ovvero dello sguardo e del linguaggio che si apre alle zone del silenzio. Per Derrida la questione è chiara: (non è possibile svincolarsi totalmente dalla totalità del linguaggio storico che avrebbe prodotto l’esilio della follia, liberarsene per scrivere l’archeologia del silenzio(468. Rinchiudere in parentesi il linguaggio e il sapere della psichiatria non equivale ad affrancarsi da quell’ordine razionale che tiene la follia in cattività e aprirsi all’innocenza di un linguaggio altro, dal momento che ogni nostro linguaggio è partecipe e colpevole dell’(avventura della ragione occidentale( (aventure de la raison occidentale). Se è vero che tale Ordine ha colpe storiche, è altrettanto vero che l’inquisizione, il processo e la condanna di tale Ordine non può che avvenire ancora all’interno dell’Ordine stesso: (l’ordine è allora denunciato nell’ordine(469. Il punto fermo, invalicabile, sta dunque nella sottolineata impossibilità di recuperare un’innocenza, un linguaggio e un sapere innocente, precedente a tale Ordine. La Ragione, al di qua della quale si vorrebbe conquistare quella ‘sufficiente’ innocenza per arrivare a parlare il silenzio della follia, rappresenta un recinto invalicabile, proprio perché essa non è una (struttura storica determinata( (structure historique déterminée). Nulla vi è al di fuori di essa con cui si possa protestare o muovere contro di essa. Organizzare una rivoluzione contro la ragione classica (struttura storica determinata della Ragione-in-generale) non è possibile che all’interno della Ragione-in-generale. Tenendo ferma l’unicità onnicomprensiva di questa Ragione si comprende come ogni atto di protesta e di ribellione, ogni tentativo di allontanarsi dalla ragione (struttura storica determinata) non possa compiersi che all’interno della Ragione stessa470. Ciò che Foucault manca di riconoscere è che la (risorsa( e lo (statuto( dell’archeologia riposano, senza possibilità alcuna di svincolarsi, all’interno della Ragione-in-generale:

(Indubbiamente non si può scrivere una storia, né un’archeologia contro la ragione perché, malgrado le apparenze, il concetto di storia è sempre stato un concetto razionale. È la significazione (storia( o (archia( che forse sarebbe stato necessario interrogare fin dal principio(471.

Foucault, certo, riconosce questa difficoltà: la (pretesa purista( (prétention puriste) espressa nell’archeologia del silenzio viene corretta nelle sue più estreme ambizioni, là dove si afferma che la purezza primitiva è inattingibile, che (la percezione che cerca di afferrarli (i silenzi e i dolori della follia) allo stato selvaggio appartiene necessariamente a un mondo che li ha già catturati(472. L’Histoire si limita a segnalare la difficoltà, senza tuttavia formularne in modo esplicito la soluzione. Se Foucault, insiste Derrida, riesce a far parlare i silenzi e i dolori della follia in se stessa, questo avviene e può avvenire unicamente nel pathos della sua scrittura473. Ciò che occorre investigare, prima ancora di rincorrere una qualche soluzione a tali difficoltà, è la (risorsa(, lo (statuto( di tali difficoltà. Chi, da quale luogo, da quale linguaggio viene formulata tale difficoltà? Per chi tale difficoltà ha senso? Questo ‘chi’ e questo linguaggio non può certo situarsi né nel luogo (reso) silente e selvaggio della follia, né nell’universo ordinato e poliziesco della ragione classica. La formulazione di queste difficoltà e l’esigenza connessa di un linguaggio ‘senza risorse’ e ‘senza sostegno’ innesta, rende necessaria una supposizione, sulla quale Derrida, nel suo intervento del 1991 ((Essere giusti con Freud() cercherà di percorrere a fondo. Già nel 1963 la formulazione del problema era comunque chiara:

(È necessario supporre […] che sia cominciata una certa liberazione della follia, che la psichiatria si sia, anche di pochissimo, aperta, che il concetto di follia come insensatezza se mai ha avuto una sua unità, si sia disarticolato. E che nell’apertura di questa disarticolazione un simile progetto ha potuto trovare la sua origine e il suo passaggio storico(474.

Per quanto possa risultare corretta e fondata la deduzione derridiana, è comunque altrettanto chiaro il motivo per cui Foucault non sarebbe in alcun modo disposto ad accogliere e ad estendere questa ‘supposizione’, nella quale addirittura la fatica dell’Histoire, la sua particolare tensione a cogliere l’(opera assente( avrebbe a suo fondamento, quale luogo sorgivo del suo stesso linguaggio, il più recente linguaggio e sapere psichiatrico. Non sorprende dunque la svista di Foucault a tale riguardo475.
Ad ogni modo, prosegue Derrida, constatata l’impossibilità di accedere all’(inaccessibile purezza primitiva( il progetto archeologico foucaultiano subisce una significativa torsione, innesta un (progetto differente( (un projet différent), che pare addirittura contraddire quello primitivo dell’archeologia del silenzio. Quel ‘silenzio’ di cui l’Histoire sollecita il recupero archeologico non è, come del resto spiega bene Foucault, qualcosa di originario. All’origine, al di sotto delle ‘profondità verticali’ che si dipartono dalla superficie del divenire storico vi è piuttosto il luogo di un dialogo incessante tra ragione e non-ragione, tra follia e non-follia, (un mormorio ostinato( che non può essere recuparato nella sua purezza. Il silenzio, ovvero la traccia lasciata dalla follia nel divenire storico, è qualcosa di successivo, risultato di una (lacerazione( (déchirure), di una (cesura( (cesure), di una (separazione( (séparation)476 o, come dice Foucault, di una (decisione( (décision) nella quale e per la quale il dialogo ragione-follia si è interrotto. Il nuovo progetto è appunto quello di risalire attraverso lo studio strutturale dell’insieme storico a tale momento, in cui ragione e follia non sono più con-fuse, ma non ancora del tutto separate. Momento di Décision che Derrida legge nei termini dell’Entzweiung hegeliana477. L’obiettivo, ad ogni modo, diviene quello di rinvenire e risalire al luogo in cui tale Décision, che collega e separa ragione e follia, è potuta avvenire. Foucault affermava che (ragione e follia nell’età classica hanno avuto una radice comune(478, ancora chiaramente visibile in età medioevale. E tuttavia lasciava del tutto insondato il problema che una tale radice comune, un tale fondamento unitario, è ben più antico del periodo medioevale. L’autentico terreno storico in cui affondano le radici della Décision è materia che l’autore dell’Histoire non tratta, e ciò per Derrida è (imbarazzante( (gênant).
È noto come Foucault, nella Préface del 1961, nel tentativo di chiarire come la (struttura di esclusione(, la Décision, sia visibile sopratutto nel periodo classico, presenti in estrema sintesi una parabola storica che muove dai greci per concludersi nel mondo moderno. (Il logos greco non conosceva il contrario(, vale a dire, commenta Derrida, che la ragione greca era ancora in rapporto con quel logos (elementare( (élémentaire), (primordiale e indiviso( (primordial et indivis) nel quale solo più tardi si sarebbe prodotta la Décision. Eppure, in queste stesse righe Foucault parla anche di una (dialettica rassicurante( (dialectique rassurante) di Socrate. E qui emerge il primo motivo di (imbarazzo(. La sicurezza legata alla dialettica socratica non può che derivare dall’aver operato l’espulsione e l’oggettivazione dell’altro-da sé, dell’altro-dalla-ragione, momenti e operazioni attraverso i quali avrebbe prodotto la propria serenità, la propria (certezza pre-cartesiana( (certitude pré-cartésienne), difendendosi dal contagio dell’altro-da-sé, rinchiudendosi al sicuro nella propria ragionevole prudenza. Quindi già il momento socratico ci parla, nella sua (dialettica rassicurante(, di una Décision avvenuta e, per le stesse ragioni, il momento classico non può pretendere ad alcuna singolarità e originalità, poiché non è qui che per la prima volta (la ragione si sarebbe rassicurata escludendo il suo altro, vale a dire costituendo il suo contrario come un oggetto per difendersene e per disfarsene. Per imprigionarlo(479. In altri termini, se la strategia del dissenso risulta già operante in Socrate, inevitabilmente si pone l’esigenza, prima ancora di esaminare la ‘crisi classica’, di portare l’attenzione sulla posizione del folle nel mondo socratico e post-socratico.
Inoltre, e qui si pone in luce un secondo motivo derridiano di (imbarazzo(, Foucault afferma che il (gesto della separazione( è tutt’uno con la possibilità stessa della storia, è il suo atto di nascita480. In altre parole, quel gesto strutturato che esclude e separa è da ritenersi (struttura fondamentale della storicità(. Sulla base di questo, e tenendo conto delle ragioni che sostanziavano l’imbarazzo precedente, affermare il (privilegio assoluto( (privilège absolu), l’(esemplarità archetipa( (exemplarité archétypique) della crisi classica, significa nello stesso tempo affermare la natura pre-storica della vita e della cultura precedente: un assurdo. Porre in risalto la (singolarità( (singularité) dell’età classica, indubbia e profonda, deve equivalere alla sottolineatura dei modi, dei tempi e delle ragioni per i quali la struttura di esclusione in essa operante si distingue storicamente da ogni altra. Ancora, escluso che la crisi classica possa essere intesa con valore archetipico, occorre porre il problema della sua (esemplarità( (exemplarité) e chiedersi se essa offra un esempio davvero privilegiato, capace di rivelare il segreto del (gesto di separazione(.
Problemi ancora insoluti.

3. L’audacia iperbolica del Cogito

Se l’obiettivo, l’esigenza confessata, la colpa che anima la presente lettura del dibattito intercorso tra Foucault e Derrida intorno alla follia, non è rappresentata dalla volontà di porre ancora una volta l’uno contra l’altro – sottolineando gli errori e le sviste dell’uno sulla base delle valutazioni e della vista dell’altro, approdando magari ad un bilancio che distribuisca percentuali di torto e di ragione –, emerge allora uno scenario nuovo, complesso: le posizioni, gli imbarazzi espressi da Derrida non mettono a tacere, quasi si trattasse di un’operazione algebrica di semplificazione, i nodi problematici sollevati dall’archeologia del silenzio. Li amplificano piuttosto, li aprono ad una loro più autentica e profonda complessità, con un effetto moltiplicante, non sottraente. Così, la negazione del privilegio assoluto e archetipico della crisi classica non pone in discussione l’idea che alle radici della storicità vi sia un (gesto di separazione(, non pone in discussione neppure l’esistenza di quel particolare gesto che sta alle radici del mondo classico, rappresentando piuttosto l’invito a considerarlo su uno sfondo e uno scenario più complesso rispetto a quello posto in essere nel testo foucaultiano. In questo senso l’intervento derridiano non contiene una pura e semplice negazione della fatica dell’Histoire, ma la sollecitazione ad un suo ulteriore approfondimento.
Anche le pagine nelle quali Derrida propone una lettura del testo cartesiano del tutto diversa da quella operata pochi anni prima da Foucault non devono essere intese tanto secondo la logica del superamento-cancellazione, quanto piuttosto secondo quella dell’affiancamento, della problematizzazione ulteriore. Certo, non è possibile salvare, assieme, entrambe le letture e non v’è dubbio che con il suo intervento Derrida abbia voluto porre in luce l’infondatezza, sul piano del metodo e dei risultati, della particolare lettura foucaultiana. Questo nessuno vuole negarlo. Rimane vero tuttavia che uno dei dati ultimi cui approda la riflessione derridiana sottolinea la decisa pertinenza del testo cartesiano a una discussione sulla follia, e a una discussione su quel (gesto di separazione( con cui la ragione si affranca dalla follia e si apre alla storia, al senso. È proprio la sottolineatura di questa ‘pertinenza’ che lo rende interessante a quest’indagine, e non tanto la dimostrazione dell’infondatezza della lettura cartesiana in movimento nell’Histoire481.

Dopo le pagine dedicate al particolare statuto di cui il folle ancora godeva nell’universo precedente a quello classico, (il passo dedicato a Descartes apre decisamente il capitolo su Il grande imprigionamento. Apre quindi il libro stesso(482. La posizione cartesiana, nei significati che le riconosce Foucault, è altamente rappresentativa di quella che sarà l’esperienza classica della follia: l’(imprigionamento filosofico( (renfermement philosophique) che ha luogo nelle Meditationes è coerente e solidale con la pratica dell’internamento, che di lì a poco verrà posta in essere su larga scala e su tutto il suolo europeo. Tenendo ferma quest’interpretazione, che è quella di Foucault, e il retroterra teorico da cui sorge, che è quello segnato dalla Préface del 1961, non pare abbia molto senso chiedersi, come invece insiste Derrida, se si tratti di un effetto, di un (sintomo( (symptôme) o di una causa. All’interno dell’impianto teorico foucaultiano, nel quale Derrida pone quest’interrogazione, l’atto teoretico e metafisico di renfermement operato nelle Meditationes è tutt’uno con quel (gesto di separazione( che è alle radici della storia, ma che non è ancora storia. Nella sua natura di renfermement, il gesto cartesiano insiste al di sotto della superficie del divenire storico, è ancora al di qua di esso, in quella région incommode

(che non è né la storia della conoscenza, né semplicemente la storia, che non è sorretta né dalla teleologia della verità, né dalla concatenazione razionale delle cause, le quali non hanno senso e valore se non al di là della separazione(483.

I rapporti che questo geste de coupure intrattiene con la struttura storica classica non possono essere investigati secondo un’ottica eziologica, proprio perché è questo gesto che rende possibile, con la (nascita della storia(, il fatto stesso che l’ottica eziologica possa avere un senso. È tra le condizioni di fondo dell’emergere dell’eziologia e, in quanto tale, quest’ultima non risulta abilitata alla sua indagine. Meglio forse intendere il gesto cartesiano nei termini di un rapporto di solidarietà con l’insieme storico nel quale si trova ad essere, con il (dramma totale( (drame total) che di lì a poco si compirà, un legame solidale il cui statuto, come sottolinea Derrida, dev’essere chiarito484. Comunque si voglia intendere la questione è certo che ad emergere in primo piano è il problema della significazione storica della pagina cartesiana. Foucault fissa e dà per scontato un ben determinato (rapporto semantico( (rapport sémantique) tra ciò che Descartes dice (o che crede abbia detto) e una totalità, una struttura storica, quella classica, la quale può essere appunto compresa nel suo progetto e nelle sue istanze di fondo proprio attraverso le parole cartesiane. Derrida, proponendosi di verificare la giustezza di quest’interpretazione, ovvero del (rapporto semantico( individuato nell’Histoire, porrà due (interrogazioni pregiudiziali( (questions préjudicielles). In primo luogo non è possibile, non è corretto precipitarsi a cogliere il (senso storico latente( (sens historique latent) della scrittura cartesiana, ovvero la sua relazione e la sua appartenenza a una (struttura totale( storica, senza preliminarmente aver sondato sino in fondo e con il massimo rigore possibile la scrittura stessa, al suo stesso interno, nelle sue intenzioni patenti, ovvero (il senso patente del suo discorso filosofico(485. Una volta accertati il senso patente e le intenzioni dichiarate, si tratterà, prosegue Derrida, di verificare se la pagina cartesiana abbia davvero (la significazione storica( (signification historique) individuata da Foucault e se, ancora, la sua significazione sia (tutta e interamente storica( (pleinement et de part en part historique), se il suo significato si possa rinchiudere ed esaurire totalmente nel suo rapporto con la struttura storica486.

Per Foucault il senso e l’importanza della presenza cartesiana in una Storia della follia nell’età classica si chiarisce nell’aver operato ed espresso l’espulsione della possibilità della follia dal circuito del pensiero, anzitutto di quello filosofico. La prova testuale sarebbe ritrovata nel diverso trattamento riservato da Descartes al sogno e a tutte le forme di errore sensibile da un lato e alla follia dall’altro. L’errore di origine sensibile incontra dei limiti, non si estende universalmente: i sensi ci possono ingannare solo riguardo alle cose (molto minute( e (molto lontane(. L’immaginazione e il sogno si avvalgono di elementi semplici e universali (la natura corporea in generale, l’estensione, la quantità, il numero…), i quali entrano nelle composizioni immaginative e oniriche, elementi del tutto semplici su cui il dubbio non sarebbe in alcun modo lecito. Queste verità di origine non-sensibile, che costituiscono l’oggetto delle matematiche e della geometria, sono del tutto refrattarie e impermeabili al dubbio. In questo modo Foucault coglie (nell’analisi […] del sogno e della sensibilità un nucleo, un elemento di prossimità e semplicità irriducibile al dubbio(487. Del tutto diversamente invece la follia viene esclusa d’autorità: non viene approfondita sino a trovare anche in essa, come nel sogno e nell’immaginazione, un nucleo irriducibile di verità. Un tale approfondimento non viene neppure tentato. La follia, non appena emerge nel panorama della meditazione, viene immediatamente esclusa, espulsa. Foucault nell’Histoire sottolineava con forza questa disparità di trattamento:

(Nell’economia del dubbio c’è uno squilibrio fondamentale tra follia da una parte, sogno ed errore dall’altra. La loro situazione è diversa in rapporto alla verità e a colui che la cerca; sogni e illusioni sono superati nella struttura stessa della verità; ma la follia è esclusa dal soggetto che dubita. Come ben presto sarà escluso che egli non pensi e che non esista. Una certa decisione è stata presa, dal tempo degli Essais(488.

La strategia sottesa a questa dissociazione, a questa disparità di trattamento, solo pochi decenni prima, nel mondo di Montaigne, si trovava nell’ordine dell’impensabile. Per Foucault ciò significa che qualcosa è avvenuto: è l’(avvento di una ratio( (avénement d’une ratio), un segno che (denuncia l’evento classico( (trahit l’événement classique). Da qui in poi l’Histoire procederà all’esame della struttura storica, sociale e politica di cui il geste de coupure cartesiano è soltanto uno dei segni.

Nel leggere la Meditatio Prima Derrida insiste sulla distinzione tra dubbio naturale, ovvero quello fondato su ragioni naturali di dubbio e che investe l’universo immaginativo, onirico e folle, e dubbio metafisico, che prende inizio con l’ipotesi del Genio Maligno. Nel corso del dubbio naturale, spiega Derrida, nell’ambito del quale prende corpo l’evocazione e la presenza della follia, la meditatio non arriva a scartare (in nessun momento la possibilità dell’errore totale per qualsivoglia conoscenza che abbia la sua origine nei sensi e nella composizione immaginativa(489. L’ipotesi del sogno costituisce il luogo privilegiato in cui sondare le pretese alla verità e alla certezza delle conoscenze sensibili e immaginative: è la (radicalizzazione( (radicalisation), l’(esagerazione iperbolica( (exagération hyperbolique) dell’ipotesi, affermata in precedenza, secondo cui i sensi potrebbero qualche volta ingannarmi. In tal modo l’esame del caso del sogno è in uno con quello dell’errore sensibile in generale. Il rinvenire nel sogno una (certezza invulnerabile( (certitude invulnérable) equivale ad affermare nella conoscenza sensibile e immaginativa la presenza di un qualcosa irriducibile ad ogni pressione dubitante. Ora, le uniche certezze e verità sono rappresentate dalle ‘cose semplici e intelligibili’, ovvero da elementi di origine (non-sensibile( (non-sensible) e (non-immaginativa( (non-imaginative). Si legga bene, sembra insistere Derrida: questo nucleo irriducibile di certezza non viene guadagnato rimanendo all’interno dell’universo sensibile e immaginativo, (attraverso una continua riduzione che riveli alla fine la resistenza di un nucleo di certezza sensibile o immaginativa(. Ciò che avviene è piuttosto (il passaggio a un altro ordine(, quello dell’intelligibile, (una discontinuità(, una (rottura radicale( (rupture radicale) con il mondo dei sensi490. Così, al termine della fase del dubbio naturale il risultato è che nessuna idea o conoscenza d’origine sensibile è al riparo dal dubbio, esattamente come la follia, che non è che un caso tra gli altri, e neppure particolarmente rivelatore, dell’illusione sensibile.
È sopratutto tenendo conto dell’intero movimento pedagogico e retorico posto in essere dalla Meditatio Prima che Derrida nega che l’ipotesi della follia sia fatta oggetto di un’esclusione particolare e, in tal senso, beneficiata di uno statuto privilegiato rispetto ai sensi e all’immaginazione. Una volta affermato che tutte le conoscenze di origine sensibile possono essere false, Descartes finge di accogliere quella che sarebbe l’immediata (obiezione( (objection) e lo spontaneo (stupore( (étonnement) del non-filosofo, spaventato dinnanzi all’angosciante scenario che si viene in tal modo a produrre. (No(, direbbe il lettore non-philosophe, (non tutte le conoscenze sensibili, altrimenti voi sareste folle e sarebbe irragionevole regolarsi sui folli, proporci un discorso da folle(491. Descartes accoglie, finge di accogliere, il senso di quest’obiezione: fa immediatamente tacere l’ipotesi della follia e introduce quella senz’altro più (naturale( (naturelle), (corrente( (commune), (universale( (universelle) del sonno e del sogno, la quale ben lungi dall’attuare un’espulsione effettiva dell’ipotesi della stravaganza dal circuito meditativo, ne costituisce piuttosto l’(esasperazione iperbolica( (exaspération hyperbolique). È un fatto che gli uomini, di notte, durante il sogno si trovino a subire (tutte quelle medesime cose, o talvolta quelle ancora meno verosimili, che codesti dissennati subiscono nelle loro veglie(492. Insomma: chi sogna risulta essere (più folle del folle( (plus fou que le fou). Nel cammino della meditatio la stravaganza non può costituire un esempio efficace, un’ipotesi fertile, in quanto (contingente e parziale( (contingente et partielle): essa investe solo alcune regioni della percezione sensibile, non produce mai un’influenza globale, non esercita mai una tirannia totale sulla sensibilità e per di più innesca la (resistenza( (résistance) del non-filosofo, incapace di seguire il filosofo autentico sulla strada di questa spaventevole eventualità493.
È senz’altro possibile accogliere quanto rileva qui Derrida, che l’ipotesi del sogno s’innesti secondo una logica di continuità e di (esasperazione iperbolica( su quella della follia, proseguendola; si possono accogliere tutti i giusti rilievi sulla struttura pedagogica e retorica che sostanzia il movimento meditativo; si può infine accogliere il risultato fondamentale della lettura derridiana, che la follia non viene affatto esclusa e che quindi non si verifica in nessun momento quella (disparità di trattamento( di cui parlava Foucault. Eppure, di fronte alla lettura derridiana dei motivi d’imbarazzo non mancano. Si cominci a riflettere sul fatto che un’esclusione della follia è comunque presente. Derrida la rende subito innocua leggendola sullo sfondo del movimento pedagogico e retorico: è solo una finzione, non è la parola di Descartes, è soltanto la posizione del non-philosophe, a cui la scrittura meditante, per un attimo soltanto, dà voce e credito. Ma è solo un trucco, un illusionismo retorico, in quanto lo scenario evocato dall’ipotesi della stravaganza viene di fatto ripreso e amplificato a totalità nell’ipotesi del sogno. A escludere la follia dalle possibilità di un pensiero filosofico è dunque il non-filosofo. Bene! A questo punto è possibile aprire sul testo derridiano almeno due ordini di difficoltà.
a) In primo luogo occorre accostare questa figura del non-filosofo a quanto lo stesso Descartes afferma nella Praefactio ad lectorem che precede le Meditationes. Qui si insiste, e più volte, sul fatto che la lettura di ciò che segue non è adatta a tutti e proprio per questo, al fine di scoraggiare un più ampio accesso di pubblico, si è deciso di redarre il testo in lingua latina. In queste pagine della Praefactio è costante ed esplicita la volontà di scoraggiare i debiliora ingenia ad affrontare la difficile e pericolosa navigazione all’interno delle Meditationes. Nelle battute iniziali della Meditatio Prima Descartes preciserà ancora le condizioni preliminari con le quali soltanto si può accedere con profitto alla lunga navigazione, condizioni che escludono e impediscono ogni possibilità d’imbarco per i debiliora ingenia494. Ritornando ora alla lettura che produce Derrida, nel cuore stesso della Meditatio Prima comparirebbe – segnalato dalla stessa struttura retorica dello scritto – la figura di questo lettore non-filosofo, lettore inadeguato, a cui mancherebbe il coraggio di seguire il filosofo autentico nelle sue ardite speculazioni. E qui emergono le difficoltà. Da dove sbuca questo lettore non-filosofo? Non avrebbe dovuto fermarsi alla porta del palazzo delle Meditationes? E posto che sia riuscito ad entrare, è stato davvero ingannato-educato dalla retorica cartesiana? Non si è forse reso conto che l’ipotesi del sogno non faceva che esasperare quella, già temuta, della follia? Perché Descartes, dopo averlo invitato al gioco, e in un momento così delicato, poi non si occupa più di lui? A tutti questi interrogativi, che lasciamo insoluti, associamo un’ulteriore difficoltà, sollecitata dallo stesso ‘metodo’ derridiano: qual’è la (sorgente( e lo (statuto( della paura e del linguaggio del non-filosofo?
b) A soluzione delle difficoltà precedenti possiamo ammettere che il non-filosofo visto da Derrida sia più semplicemente il filosofo comune, contemporaneo, in breve: la voce della diffusa cultura filosofica cui Descartes si rivolge. L’obiezione del non-filosofo diviene così la riserva espressa da un senso comune filosofico. Se questa lettura e questo gioco di sostituzioni hanno una qualche legittimità, ecco emergere un fatto insolito: non la Meditatio Prima come riteneva Foucault, non il non-ancora-filosofo come vuole Derrida, sarebbero i campioni di un gesto che esclude la follia dalle possibilità del pensiero. Questo geste de coupure sarebbe portato avanti dallo stesso Logos filosofico, e la meditatio cartesiana già nel suo movimento pedagogico e retorico rappresenterebbe il tentativo di aggirare la paura e la necessità di questo stesso Logos. E come si avrà modo di vedere, questa particolare lettura si accorda perfettamente ai risultati ultimi cui approda la riflessione derridiana sul Cogito.

Restando all’interno della fase naturale del dubbio l’interpretazione foucaultiana potrebbe essere comunque ancora salvata. Infatti qui la follia si presenta come (errore dei sensi e del corpo( (une faute des sens et du corps), come esempio e caso dell’errore sensibile. In tal senso, potrebbe far notare Foucault, la follia subisce un’esclusione, in quanto essa appartiene solo e soltanto al corpo: la sua inclusione nell’ambito della res extensa è in uno con la sua esclusione dalla res cogitans. (La distinzione reale delle sostanze espelle la follia nelle tenebre esterne al Cogito. […] Essa è l’altro dal Cogito(. Insomma, (non posso essere folle quando penso e quando ho delle idee chiare e distinte(495. Inoltre, nella misura in cui la follia non solo subisce questa reclusione all’esterno del Cogito, ma si precisa ulteriormente come (errore del corpo( (erreur du corps), nella stessa misura perde ogni (originalità( (originalité), riducendosi a un puro deficit epistemologico, definendosi unicamente in relazione alla distanza che la separa dalla verità e dalla certezza.
Tuttavia anche queste ipotetiche repliche foucaultiane496 dimostrano tutta la loro fragilità non appena si affronta la fase (propriamente filosofica, metafisica e critica( (proprement philosophique, métaphysique et critique) del dubbio, vale a dire la fase aperta dall’ipotesi del Genio Maligno. Qui, di fatto, si convoca l’eventualità di una (follia totale( (folie totale), una sorta d’impazzimento che non coinvolge più soltanto il corpo, all’esterno delle (frontiere( (frontières) della res cogitans, ma che invade e s’insedia nel luogo stesso del (pensiero puro, nei suoi oggetti puramente intelligibili, nel campo delle idee chiare e distinte, nel regno delle verità matematiche che sfuggivano al dubbio naturale(497. Ciò che prima era stato espulso sotto il nome di follia viene ora reintrodotto a pieno titolo all’interno stesso del pensiero. L’ipotesi del Malin Génie pone ed esprime (possibilità di diritto( (possibilitès de droit), afferma che nulla, di diritto, si oppone a quel sovvertimento che in precedenza era stato chiamato ‘follia’. Nei fatti tuttavia la questione si risolve in tutt’altro modo, in quanto nella pratica del discorso e della comunicazione filosofici questo sovvertimento rappresenta un luogo impossibile, non-percorribile. E dietro questa constatazione di fatto si nasconde ciò che Derrida definisce la (necessità d’essenza universale( (nécessité d’essence universale) caratteristica del linguaggio filosofico e del linguaggio in generale, il quale, se vuole avere un senso intelligibile, deve prendere le distanze (di fatto e simultaneamente di diritto( (en fait et simultanément en droit) dalla follia. Il riconoscimento che il linguaggio, nella misura in cui non vuole abdicare alla sua stessa natura di linguaggio e rinunciare al senso, debba avere in sé la (normalità( (normalité) – e questo al di là dello stato di salute o di follia di colui che parla –, non è affatto una necessità, una (debolezza( (défaillance) storica, che riguarda e circoscrive un determinato linguaggio storico e non un altro. Una tale (necessità d’essenza( non può e non deve essere confusa con la ricerca di certitude propria del pensiero cartesiano. Essa, precisa Derrida, appartiene (all’essenza e al progetto stesso di ogni linguaggio in generale; e anche di quelli in apparenza più folli(498, non è estranea neppure a quel linguaggio che vorrebbe misurarsi da più vicino possibile con l’insensato: nel linguaggio si consuma, per essenza, di diritto, una (rottura( (rupture) con la follia.
L’intero movimento dubitante si conclude com’è noto nel Cogito e nella conseguente, finalmente raggiunta, certezza di esistere, una certezza ormai definitivamente al riparo da ogni possibile dubbio. I rapporti che il Cogito intrattiene con la follia debbono essere attentamente esaminati. In una prima considerazione superficiale si potrebbe desumere, dal fatto stesso che la nuova certezza raggiunta pone a tacere la portata dubitante di ogni stravaganza, che il Cogito sfugga alla follia, sia del tutto esterno ad essa, si tenga (fuori dalla sua presa( (hors de sa prise)499. Ciò che accade piuttosto è, come bene sintetizza Derrida, che (l’atto del Cogito vale anche se io sono folle, anche se il mio pensiero è folle in tutto e per tutto(500. Nella sua propria istanza, il Cogito, e l’esitenza stessa, si pongono al di qua dell’alternativa determinata e storica tra ragione e follia, al di qua dell’emergere di una ragione e una follia determinate e storiche. In tal senso, la certezza finalmente raggiunta, esito positivo del movimento meditante, non comporta affatto (come invece ritiene Foucault) un’operazione di (aggiramento( (contournement) o di (esclusione( (exclusion): essa è garantita dentro la follia stessa501. Ciò che Derrida chiama (audacia iperbolica( (audace hyperbolique) del Cogito consiste proprio nel suo indicare un (punto originario( (point originaire), un (punto-zero( (point-zéro), che è la radice comune di senso e non-senso, di ragione e follia, un luogo originario in cui ragione e follia non sono ancora determinate, storiche, l’una in opposizione e in alternativa all’altra. E in quest’audace hyperbolique il Cogito non risulta riconducibile in alcun modo a una totalità storica determinata, in quanto progetto che eccede ogni totalità determinata, e ogni possibile determinazione502.
Del resto questa (erranza iperbolica e folle( (errance hyperbolique et folle) non dura, e non può durare, che un istante, l’istante dell’intuizione. Perché se è vero che anche per l’uomo più folle il Cogito è valido e costituisce un’invalicabile certezza, è ugualmente vero che (occorre non essere folle nei fatti per rifletterlo, ritenerlo, comunicarlo e comunicarne il senso(503. È solo e soltanto in questo momento, quello nel quale il Cogito ha la necessità di emergere a linguaggio e quindi di temporalizzarsi, che l’erranza e l’audacia iperbolica hanno termine, che l’(imprigionamento( (renfermement) della follia all’esterno della ragione storico-determinata ha inizio. È da qui, e solo a partire da questo momento, che avviene il geste de coupure e che il discorso cartesiano si lascia circoscrivere interamente in una signification historique.

4. Pensare la follia a parte subjecti

L’intervento derridiano del 1991, già nel titolo, (Être juste avec Freud. L’Histoire de la folie a l’âge de la psychanalyse, realizza un sensibile spostamento del centro di gravità dell’interesse, non più imperniato su Descartes, ma su Freud e la psicoanalisi. Più che di un reale spostamento, nel senso di un annullamento e una messa in discussione delle riflessioni precedenti sul Cogito, si tratta piuttosto di un completamento, di un approfondimento ulteriore. Al posto di Descartes subentra l’attenzione a Freud, ma, di fatto, sempre per porre la medesima domanda, per avanzare e sottolineare l’identico problema, già delineato trent’anni prima nelle pagine di Cogito et histoire de la folie, problema che investiva le condizioni di possibilità di una Storia della follia in se stessa, la possibilità insomma di esercitare, oggi, un pensiero sulla follia504. Significativamente viene ricordato un passo dell’intervento del 1963, nel quale ci si chiedeva che cosa mai sostenesse, quale fosse la (risorsa(, lo (statuto( di quel linguaggio-senza-risorsa proprio dell’archeologia del silenzio e si segnalava nello stesso tempo un possibile sviluppo di questa ricerca in un mutamento, in un (apertura( della stessa psichiatria505. È appunto quest’interrogativo, circa il ciò che ha reso possibile l’evento di un simile discorso (quello archeologico sul silenzio), a costituire il centro nevralgico del recente scritto derridiano. Il problema risiede dunque non tanto nel comprendere e identificare l’oggetto di cui una Storia della follia dovrebbe occuparsi, quanto piuttosto nell’operare una ricognizione sul luogo, (sul sito( dice Derrida, (che dà luogo oggi, rendendola così possibile, a una storia della follia506. Quest’indicazione programmatica, già chiara e consapevole anche se non ancora sufficientemente seguita ed esplicitata nel 1963, viene ripresa e sviscerata in questo scritto del 1991, elevata al rango di obiettivo di fondo dello stesso scritto, sinteticamente annunciata sin dal sottotitolo, L’Histoire de la folie a l’âge de la psychanalyse. Si legga bene, insiste Derrida: l’età della psicoanalisi non rappresenta l’equivalente, con indice temporale mutato, di ciò che nell’Histoire è l’âge classique. Non costituisce l’oggetto del discorso sulla follia, ne è il soggetto; non è l’età descritta, è quella che descrive, che rende possibile la descrizione. Ciò che interessa sono allora (il tempo e le condizioni storiche in cui il libro si radica o da cui prende inizio e meno il tempo e le condizioni storiche che racconta e che tenta in qualche modo di oggettivare(507. Ricorrendo alle ‘dubbie’ categorie di soggetto e oggetto si potrebbe sintetizzare con Derrida il nuovo obiettivo suggerendo l’idea che si tratta di un tentativo – un programma in realtà – di riflettere sulla storia della follia (a parte subjecti(, studiando il luogo, il (sito( da cui e in cui sorge, e non tanto l’oggetto e il tempo che va descrivendo. Esattamente come nel 1963, il problema di fondo investe le condizioni di possibilità di un pensiero sulla follia508.
Vale la pena di operare una precisazione circa il modo in cui dovrebbe essere qui, in quest’indagine, inteso l’intervento derridiano. Rimane vero, come verità materiale di fondo, che Derrida ragiona e scrive a proposito dei testi di Foucault. Quando parla di storia della follia il suo riferimento primo e materiale è rappresentato dall’Histoire – e del resto non si dimentichi che l’intervento derridiano si ambienta nel contesto di un convegno di studio dedicato alla memoria di Foucault. Tuttavia la posta in gioco ha un respiro indubbiamente più ampio, investendo la possibilità che noi oggi abbiamo di pensare la follia509. Senza tradire lo spirito dello scritto derridiano si potrebbe così rileggere con opportune correzioni quelle interrogazioni di fondo con cui Derrida apre al cuore del suo intervento.

(Ora dalla parte dove si scrive c’è un certo stato della psichiatria, naturalmente – e la psicoanalisi. Il progetto di Foucault sarebbe stato possibile senza la psicoanalisi di cui è contemporaneo e di cui parla poco e sopratutto in modo così equivoco e ambivalente nel libro?(.510

(Dalla parte dove si scrive(, nella quale si trova non solo Foucault, ma chiunque oggi sia nei pressi di un pensiero o di una scrittura sulla follia. Questa (parte( indica un luogo totale, è il tempo in cui viviamo, la Ragione in cui siamo, il linguaggio che parliamo (o che parla in noi): non riguarda solo l’autore dell’Histoire, ma l’uomo contemporaneo in genere. In tal senso (il progetto di Foucault( è in un certo modo anche il nostro, una delle possibilità di movimento e di espressione del luogo-linguaggio-sapere in cui viviamo, e che ci fa vivere. Non riferendolo più semplicemente a Foucault, quel (parlar poco( potrebbe essere anche inteso alla lettera: non solo chi intende, come l’autore dell’Histoire, distanziarsi programmaticamente dal linguaggio e dal sapere psichiatrico e psicoanalitico, si trova di fatto e di diritto a parlare e a scrivere tra le pieghe di questo linguaggio e di questo sapere. Questo luogo-linguaggio coinvolge e fa sorgere ogni pensiero e scrittura sulla follia, senza eccezione, al di là della consapevolezza o meno del pensante e dello scrivente. Quando Derrida si chiede quale sia il debito che l’Histoire (e il suo discours, si potrebbe aggiungere) ha contratto e continua a contrarre con la psicoanalisi, la stessa identica domanda è rivolta anche a noi: qual’è il nostro debito, che cosa l’uomo contemporaneo, l’homo post-Freud deve al fondatore della psicoanalisi nel momento in cui riflette teoreticamente sulla follia? Seguendo il filo del ragionamento derridiano si potrà certo continuare a tener fermo l’esempio degli scritti foucaultiani, misurando il come e il perché del loro particolare rapporto con la psicoanalisi: nello stesso tempo tuttavia si dovrà anche tenere ugualmente fermo che gli exempla foucaultiani sono una sorta di paradigma, di sintesi, di modello delle possibili riflessioni che l’uomo contemporaneo, noi quindi, può porre in essere sulla follia, sempre all’interno del luogo aperto da Freud.
Il fatto che nell’Histoire i riferimenti a Freud siano scarsi e di brevissima durata da un certo punto di vista non sorprende: oggetto della fatica foucaultiana è l’âge classique e il fondatore della psicoanalisi viene a situarsi ai bordi estremi della sua cronologia, sul suo (bordo( (bord, bordure), su un luogo quanto mai problematico per uno storico511. L’ambivalenza e l’inquietudine tuttavia con cui Foucault interpreta e ambienta il momento freudiano non risale unicamente e semplicemente a questi problemi di cronologia, e nemmeno si tratta di un’ambivalenza e un’inquietudine relative soltanto all’interprete: questa (ambiguità(, spiega Derrida, sta già (dalla parte della psicoanalisi, dalla parte dell’evento di quest’invenzione chiamata psicoanalisi(512. Nella sua particolare posizione cronologica Freud riveste nell’Histoire i panni della (figura ambigua dell’usciere( (figure ambiguë d’un huissier). Chiude l’epoca della psicologia positivista e introduce una nuova epoca, la nostra. (Monta di guardia e introduce. Alternativamente o simultaneamente, chiude un’epoca e ne apre un’altra(513. Rappresenta, per usare la felice immagine derridiana, una sorta di cerniera (charnière)514, di linea di divisione tra l’epoca segnata dall’eredità classica e la nostra, nella quale sembrano emergere spiragli di possibilità circa un pensiero-dialogo sulla follia. Freud rappresenta per Foucault proprio questo movimento, continuo e incessante, di alternanza tra chiusura e apertura, è il fort/da di un pendolo che alternativamente (rifiuta o accetta, esclude o include, squalifica o legittima, reprime o libera(515. Un’oscillazione, come bene legge Rovatti, che non può essere arrestato, che non si lascia risolvere e fissare in una (buona forma(, in quanto ogni volta, ad ogni oscillazione, (lascia o introduce un’ulteriorità, un supplemento(516. Un’oscillazione, si potrebbe aggiungere, che è per sua natura, invincibilmente, inquieta, proprio perché non riducibile ad oggetto, non riducibile insomma al luogo che Foucault guarda e attraversa: essa è il luogo dal quale Foucault (e noi con lui) guarda e da cui prende le mosse.
Nel concludere la seconda parte dell’Histoire, nel capitolo intitolato Medici e malati, il momento freudiano si precisa, di contro alla psicologia positivista, come luogo dal quale è finalmente possibile restaurare il dialogo interrotto con la sragione. La psicologia, osservava qui Foucault delineando un pensiero che sarà ripreso anche nelle battute finale di Malattia mentale e psicologia, nasce non come espressione, come dialogo, come (verità della follia( (vérité de la folie). La sua origine presuppone che la follia sia stata separata (dalla sua verità che consisteva nella sragione(; dal momento di questa décision la sragione verrà ridotta a (fenomeno alla deriva( (phénomène à la dérive), (insignificante( (insignifiant), senza senso per (incapace di dialogare con) quella ragione che matura nella scienza e nella pratica psicologica517. È nell’età classica che il geste si compie e in tal senso la storia della psicologia non appartiene a quest’età: la psicologia nascerà in seguito, sulla sua eredità naturalmente. Significativamente, e contro ogni attesa da parte del lettore, Foucault precisa tuttavia che (nella psicoanalisi non si tratta della psicologia(518. Occorre resistere, sembra insistere l’Histoire, alla tentazione e al pregiudizio di considerare la psicoanalisi alla stregua di una psicologia: in questo senso (bisogna essere giusti con Freud(519. Freud rompe la lunga tradizione della psicologia positivista, apre a un altro luogo, non aggiunge altre cure a quelle già definite dalla psicologia: riprende piuttosto qualcosa che era stato scartato dalla tradizione positivista, ovvero (la follia a livello del suo linguaggio( (au niveau de son langage), ridando così dignità significante a ciò che il positivismo aveva ridotto a silenzio: (egli restituiva, nel pensiero medico, la possibilità di un dialogo con la sragione(520. La psicoanalisi non si porrebbe in tal modo su un asse di continuità che la leghi alla tradizione psicologica, al contrario essa riprende a dar voce (dialoga) con quella (esperienza della sragione che la psicologia del mondo moderno ha avuto il compito di mascherare(521. Parlando di Freud, Foucault insiste sulla parola ritorno; l’avvento della psicoanalisi segna un ritorno, al di qua dell’età classica, che si realizza nel ristabilimento di un dialogo con la sragione e quindi nel toglimento autentico dell’interdizione cartesiana. (Essere giusti con Freud( significherà così riconoscere al momento freudiano il diritto di cittadinanza al luogo che rende possibile un dialogo con la follia, un ascolto del suo silenzio, la possibilità stessa di una Storia della follia. E in questo senso non sorprende trovare il nome di Freud (nella galleria di tutti coloro che, da un capo all’altro del libro, annunciano, come araldi positivi, la possibilità stessa del libro(522. Si sta parlando, com’è noto, di Nietzsche, di Artaud, di Van Gogh, di Nerval, di Hölderlin. Nello stesso luogo dell’Histoire in cui i nomi di Nietzsche e di Freud, in copula indissolubile, sono chiamati ad aprire la nuova epoca, la nostra, quella in cui finalmente si riprende il dialogo interrotto con la sragione e le sue minacce, Foucault fa una singolare allusione al Genio Maligno cartesiano, associandolo decisamente al momento freudiano. Il Cogito è l’inizio assoluto, l’esclusione da lui posta in atto nei confronti della sragione segna il principio stesso del pensiero classico, ma questo pensiero sorge su un fondo, quale quello rappresentato dall’ipotesi diabolica del Genio Maligno, che costituisce invincibilmente (la minaccia eterna(, l’(ombra dell’ossessione( che respira originariamente alle spalle del Cogito. Il dubbio iperbolico rappresentato dal Genio Maligno non si limita a porre in discussione questo o quel particolare evento od oggetto determinato:

(minaccia la logica della distinzione tra il questo e il quello, la logica stessa dell’esclusione o della forclusione, come la storia fondata su questa logica e le sue alternative. Ciò che è escluso non è evidentemente mai semplicemente escluso, dal Cogito o da qualsiasi cosa, senza che faccia ritorno: ecco cosa una certa psicoanalisi ci ha anche aiutato a capire(523.

Con tutto questo Freud, e con lui Nietzsche, Artaud e gli altri araldi positivi, tornano a far parlare la voce demoniaca del Genio Maligno, le sue minacce eterne, riportano la discussione sul fondo ossessivo che il Cogito, e con lui l’età classica e la psicologia positivista, hanno sì celato, ma non annientato. E tutto questo viene riconosciuto già da Foucault.
Il bilanciere del fort/da è tuttavia inarrestabile. Sempre restando nell’Histoire, a luoghi che accolgono e situano in un medesimo ambito Nietzsche e Freud, se ne aggiungono altri in cui il confronto tra i due è illuminato dalla logica della dissociazione. La situazione analitica, in cui si risolve il rapporto che la psicoanalisi intrattiene col folle, sotto la superficiale apparenza di una liberazione, non sarebbe altro che una ricostruzione per l’essenziale delle antiche strutture d’internamento manicomiale e, proprio per questo, si pone in linea di continuità con quella tradizione che ha soffocato la voce della sragione e patologizzato la follia. In tal senso, dice Derrida leggendo nell’Histoire, (tutta la psichiatria del XIX secolo converge davvero verso Freud(524. Questa persistenza del ‘mito di Pinel’ si viene a concentrare e a rendersi perfettamente visibile nella figura del medico-analista, campione moderno di quell’imprigionamento morale che distingueva nell’essenziale il sapere e l’operare psichiatrico delle origini. Pinel aveva già riconosciuto che il medico, nel suo agire terapeutico, deve incarnare le (figure immemoriali del Padre e del Giudice, della famiglia e della Legge(, le figure (dell’Ordine, dell’Autorità e della Punizione(525. È in questo modo, taumaturgico, che i malati-folli risalivano la china della guarigione. Non diversamente anche l’homo medicus freudiano espleta la sua attività e raggiunge gli obiettivi propri a tale attività non tanto in nome del sapere e della scienza, quanto nel nome dell’Ordine, della Morale, del Diritto. Il medico diventa taumaturgo, conclude Foucault, guarisce, esattamente come Pinel all’interno delle mura manicomiali, non tanto sulla base di un sapere autentico sulla follia, ma servendosi piuttosto della mistificazione di un sapere (rito di mistificazione che accade nella situazione analitica), ponendo in atto un’imprigionamento morale la cui techne risale a Pinel. In tal senso, come emerge dall’Histoire: (la psicoanalisi non si libererà mai dall’eredità psichiatrica(526.
L’elemento veramente notevole e sorprendente nel tentativo foucaultiano di rinvenire le radici della psicoanalisi nella psichiatria di Pinel, sta nel fatto che nel descrivere la natura della taumaturgia medico-psicoanalitica egli chiami nel gioco nuovamente il demonico e il satanico, in una parola il Genio Maligno, il quale stavolta non viene a collocarsi (dalla parte della sragione( (du côte de la déraison), del (disordine assoluto( (désordre absolu), della follia, ma bensì da quella dell’Ordine, della Legge, della Ragione. (Un medico(, diceva Foucault, (assieme divino e satanico, fuori scala umana in ogni caso(527. E quest’onnipotenza fittizia, che consiste tutta nel saper far supporre il sapere e nel saper far credere a un preteso segreto (segreto di conoscienza), questo (sapere-) potere che il medico psicoanalista vede concentrare su di sé, un potere (fuori scala umana(, lo avvicina pericolosamente, fino all’identificazione, ai tratti del Genio Maligno e, con questo, lo rende simile alla figura della sragione, minaccia ossessiva, eterna e fondamentale dopo il colpo di mano del Cogito528.
A differenza di Nietzsche, Freud e la psicoanalisi non costituiscono più lo spazio, il luogo dal quale può scriversi una Storia della follia in se stessa. A conclusione della sua lunga fatica Foucault pare implacabile:

(la psicoanalisi non può e non potrà ascoltare le voci della sragione né decifrare per se stessi i segni dell’insensato. La psicoanalisi può risolvere qualcuna delle forme di follia, ma resta estranea al lavoro sovrano della sragione. Essa non può né liberare né trascrivere né, a maggior ragione, spiegare ciò che vi è di essenziale in questo lavorio(529.

Se ci sforzassimo di porre ordine all’interno dei giudizi e delle assegnazioni topografiche ambivalenti che accompagnano la presenza freudiana nell’Histoire, ci troveremmo ad avere di fronte il movimento di una continua instancabile oscillazione tra due momenti che paiono assolutamente contraddittori l’uno dell’altro. Il luogo segnato dalla psicoanalisi, a seconda del momento di oscillazione considerato, è e non è il luogo dal quale una Storia della follia in se stessa diviene pensabile e dicibile. E la contraddizione, l’invisibile e sempre in movimento linea di divisione che separa i momenti dell’oscillazione, è interna al pensiero freudiano. Anzi, più che di un’unica e semplice linea di divisione, si dovrebbe parlare di una pluralità di oscillazioni, che rendono il luogo della psicoanalisi ancora più inquieto, turbolento. Per fermarsi a un solo esempio, in Malattia mentale e psicologia, Foucault individuava un’ulteriore linea di divisione: quella che separa-unisce un Freud ancora debitore nei confronti della tradizione della psicologia evoluzionista – ne farebbero fede i Tre saggi sulla teoria sessuale, nella descrizione delle forme evolutive delle nevrosi – e un Freud che apre invece il suo discorso a una psicologia della storia individuale530.
L’obiettivo di operare una ricognizione sul luogo della psicoanalisi, luogo da cui si può pensare la follia, è tutt’uno con il rinvenimento di queste sfuggenti linee di divisione, col disegnare la traiettoria delle oscillazioni prodotte, con il far parlare gli scarti di senso che immancabilmente producono, con il mostrare il modo in cui il linguaggio e il sapere psicoanalitico gestisce questi stessi scarti. Compito arduo e lungo, non certo percorribile in questa sede: ciò che è in gioco è la riflessione sulla nostra stessa contemporaneità.

CONCLUSIONE

Il luogo di pensiero segnato dalla psicoanalisi è dunque il luogo di un’oscillazione, luogo di bilico, luogo che apre e chiude alternativamente il dialogo con l’insensato. Questo, secondo la ricognizione derridiana è il campo nel quale, di diritto, prende forma il nostro pensiero sulla follia. In tal modo vengono a trovare, se non una soluzione, almeno una giustificazione e una chiarificazione tutte quelle difficoltà e quegli imbarazzi che incontra lo studioso di follia nel trattare l’argomento del suo interesse: Freud porta nei pressi della follia e del suo linguaggio, si pone in ascolto delle voci della sragione, ritorna a un dialogo con essa interrotto da secoli, e tuttavia ristabilisce ancora una volta, e nonostante il promettente ritorno, l’incapacità della ragione scientifica ad accedere a tale luogo, meglio ancora, a far sì che questo luogo, luogo di una follia non ancora catturata ed esiliata nella Gegenständlichkeit, parli da solo. In breve, indica l’accesso a un luogo nel quale non riesce ad accedere.
È questo il fondo del problema, che è tutt’uno con il chiarimento delle oscillazioni in cui vive il linguaggio e il sapere della psicoanalisi. Alla ricerca di tali oscillazioni, possiamo senz’altro cominciare col riconoscere assieme a D’Alessandro, che (Freud, al pari di Marx, dimora nel tópos della (morte di Dio(, con tutte le conseguenze teoretiche insite nell’annuncio profetico nietzscheano(531. Le categorie classiche del pensiero metafisico, quel pensiero per intenderci che ha operato e opera (e non può non operare) l’imprigionamento-esclusione della follia, paiono poste fuori gioco. L’oggetto della nuova scienza freudiana, l’inconscio, solo per comodità o pigrizia didascalica può essere definito come oggetto: in realtà, offrendosi costitutivamente come assenza e mancanza, è la negazione dell’idea stessa del Gegen-stand. Le leggi e le meccaniche agenti nell’inconscio aprono verso i territori di una logica altra, altra rispetto a quella del logos scientifico, del principio di ragione in tutte le sue forme per dirla con Schopenhauer: una logica, quale quella che sostanzia il lavoro onirico, in cui i principi di fondo sui quali si alimenta la logica classica vengono a perdere ogni valore. Anzi, risultano introvabili. Le categorie della successione, della causalità, lo stesso principio di non contraddizione, non riescono a trovare posto nella sintassi propria del linguaggio onirico. La stessa categoria di soggetto, di Io, risulta irrimediabilmente compromessa, non più centrale e costitutiva nella comprensione dell’esperienza umana: (l’Io non è padrone in casa propria(. Tutti questi motivi farebbero della psicanalisi freudiana il luogo per eccellenza da cui una Storia della follia in se stessa potrebbe essere scritta, proprio in quanto viene ad offrire una strumentazione teorica adeguata e coerente all’oggetto-follia, del quale non si cerca più semplicemente una pacifica e pacificante triangolazione concettuale: lo si vuole far parlare piuttosto, considerarlo al di qua del suo esilio, considerarlo nel suo stesso linguaggio.
È ugualmente noto come Freud non fece pervenire le sue rivoluzionarie scoperte alle loro conseguenze ultime e radicali. (Pur avendo constatato che il linguaggio tipico dell’inconscio è altro rispetto al lógos(532, di fatto la ricerca ulteriore, la ricerca metapsicologica, più propriamente filosofica e speculativa, risulta affidata alla strumentazione teorica propria alla metafisica classica. Esempio limite a riguardo è costituito da quella teoria del ‘determinismo psichico’, prospettata in modo puntuale in Psicopatologia della vita quotidiana, nella quale campeggia con funzione centrale e illuminante proprio quel principio di causalità dal quale invece si sarebbe dovuto prendere e mantenere le distanze.
Sulla base di una più attenta documentazione è probabile che i movimenti di oscillazione si possano moltiplicare ulteriormente. Ad ogni modo si intravedono alcune interrogazioni di fondo sulla natura stessa di queste oscillazioni: a) sono esse storiche?, vale a dire, sono proprie di una data epoca storica?, esisterebbero anche in condizioni storiche diverse?; b)esprimono forse un’impossibilità di diritto?, l’impossibilità da parte del linguaggio di insistere su un luogo in cui le gategorie della metafisica e della logica classica sono assenti?; c) cosa significa nell’atto di scrittura, nel movimento vivo del pensiero, essere nel (non) luogo di un’oscillazione?
Inoltre, assieme a tali questioni di fondo, più propriamente filosofiche, risulta anche indispensabile tener desto nello stesso tempo il più vivo interesse fenomenologico sul mondo dell’insensato. Occorre disporsi all’ascolto delle voci che vengono dal mondo della letteratura, della storia, della scienza, tutti mondi che da un lato costituiscono il campo in cui si parla e si scrive e si pensa intorno alla follia, dall’altro sono la dimora stessa in cui la follia, esiliata o libera che sia, più o meno mascherata, di fatto abita.
Opus infinitum, navigazione inarrestabile, rispetto alla quale la presente ricerca ha voluto rappresentare unicamente l’inizio del momento d’imbarco.

1 Lalande A., Vocabulaire technique et critique de la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris, 1947, p. 348.
2 Abbagnano N., Dizionario di filosofia, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1977, pp. 652-653.
3 Riguardo alla natura di tali scarti di senso s’intende qui riprendere quanto afferma sinteticamente Paolo D’Alessandro in Il gioco inconscio della storia, Franco Angeli, Milano, 1988, p. 233.
4 Derrida rimproverava a Foucault proprio il fatto di aver incentrato le sue fatiche sul termine follia, su un concetto che (è un falso concetto, un concetto disintegrato( (cfr. Cogito e storia della follia, trad. it. di G. Pozzi, in La scrittura e la differenza, introd. di G. Vattimo, Einaudi, Torino, 1990, pp. 51-52).
5 Sciacchitano A., Essere giusti con la follia, in Pensare la follia, (aut aut(, 285-286, maggio-agosto 1998 (interventi e contributi di F. Alcandre, A. Artaud, M. Blanchot, C. Brochard, A. Calligaris, L. Chiesa, M. Colucci, P. Di Vittorio, A. Merini, M. Recalcati, F. Rotelli, P.A. Rovatti, A. Sciacchitano), p. 21.
6 Dalle competenze e dagli obiettivi della presente indagine esula del tutto la volontà di chiarire il ‘che cosa’ abbiano detto o voluto dire gli autori dei testi scritturali che verranno presi in esame. L’interesse è focalizzato interamente nel portare a visibilità quale coscienza della follia sia in grado di emergere dalle maglie del tessuto linguistico latino della Vulgata, uno dei luoghi -linguistici- fontali che l’Europa rinascimentale, classica e moderna trovava immediatamente dietro le proprie spalle quando rifletteva sull’insensato. L’importanza storica di questo tessuto linguistico, la portata della sua penetrazione nella cultura europea, è un punto fermo, un dato indiscutibile: almeno a partire dall’approvazione del testo ufficiale, ‘autentico’, nel 1592, la Vulgata fu di fatto la Bibbia di tutta l’Europa. Operare una ricognizione su tessuti linguistici più moderni, visualizzare il modo in cui la follia viene pensata all’interno di traduzioni più recenti (e senz’altro anche più corrette rispetto a quella di ascendenza geroniminiana) sarebbe equivalso a tradire la volontà iniziale, quella di risalire a un luogo linguistico fontale. Per questo motivo si è scelto di porre il testo latino in assoluta evidenza, avendo cura per altro di affiancare sempre una recente e autorevole traduzione italiana in nota.
7 Prov. 9,13-18. Questa e le seguenti citazioni in lingua latina sono tratte da Biblia Sacra iuxta Vulgata Clementinam, nova editio logicis partitionibus aliisque subsidiis ornata a P. Calunga Alberto e P. Turrado Laurentio, La editorial Catòlica, Matriti, 1946.
Trad. it.: (La follia è turbolenta, una sempliciona che non sa nulla. Se ne sta seduta alla porta di casa, su un trono nell’alto della città, per invitare i passanti, che vanno dritti per la loro strada: (Chi è inesperto venga qui!(. Al privo di senno dice: (Le acque furtive sono dolci, il pane mangiato di nascosto è saporito(. Ed egli non si accorge che là ci sono le Ombre e che i suoi invitati finiscono nel profondo dello Sheol( (Prov. 9,13-18). Salvo diversa indicazione, questa e le seguenti traduzioni dai passi biblici sono sempre tratte da La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali e commentata, a cura di Galbiati E., Penna A., Rossano P., 3 voll., III ed., Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1973.
8 Cfr. La Sacra Bibbia, traduzione dai testi originali, Paoline, Roma, 1968; La Bibbia concordata, intr. trad. e note della Società biblica italiana, 2 vol., Mondadori, Milano, 1968.
9 Eccli.16,17.
10 Eccli. 16,23, corsivo mio. Trad. it.: (Tali cose pensa chi ha il cuore perverso; lo stolto e sviato pensa cose insulse( (Eccli. 16,23). Parere identico all’autore dell’Ecclesiastico ha espresso in tempi più recenti Penna: (avremo (in Eccli. 16) l’espressione di un animo scettico, che ritiene lontano il momento della retribuzione o, come si deduce da quanto precede, addirittura inesistente. È il modo di ragionare degli stolti( (La Sacra Bibbia, cit., p. 378 nota, inciso e corsivo mio).
11 Prov. 9,18.
12 (Viae inferi domus eius, penetrantes in interiora mortis( (Prov. 7,27). Trad. it.: (La sua casa è la strada per lo Sheol; conduce alle camere della morte( (Prov. 7,27). La casa di cui si parla è quella della donna adultera: il suo ritratto presenta evidenti elementi di continuità con quello della mulier stulta, venendo ad accentuare la figura del vizio, della condotta impura. Anche lei svia, anche i suoi sentieri smarriscono e guidano verso gl’inferi.
13 Si consideri in parallelo, nel passo della ‘donna adultera’: (Et video parvulos, considero vecordem( (Prov. 7,7).
14 Parvulus letteralmente significa ‘piccoletto’, ‘piccolino’. Meglio certo intenderlo in senso traslato.
15 Nel latino classico vecordia rimanda, pur nella sua complessità a un quadro comunque desolante: mancanza di senno, demenza, pazzia, furore, furia, rabbia, rabbia confinante con la demenza, insensatezza. Rimane ovviamente sempre aperto il problema di quanto il traduttore moderno sia debitore nella sua attività di traduzione del termine dei quadri nosografici più recenti.
16 (supra fatuum plora, deficit enim sensus( (Eccli. 22,10). Trad. it.: (Piangi per uno stolto perchè ha perduto il senno( (Eccli. 22,11).
17 Eccli. 22,7-9, corsivo mio. Trad. it.: (Incolla cocci chi ammaestra uno stolto; sveglia un dormiglione dal suo sonno profondo. Ragiona con un insonnolito chi ragiona con lo stolto; alla fine questi dirà: (Che c’è?(( (Eccli. 22,9-10).
18 Interessante a questo proposito, in quanto prosegue la metafora del vaso: (Cor fatui, quasi vas confractum, et omnem sapientiam non tenebit( (Eccli. 21,17, corsivo mio). Trad. it.: (Il cuore dello stolto è come un vaso rotto; non può contenere la scienza( (Eccli. 21,14).
19 (Dixit insipiens in corde suo: non est Deus( (Sal. 13,1, Biblia Sacra, corsivo mio). Trad. it.: (Lo stolto dice in cuor suo: (Non c’è Dio!(( (Sal. 14,1, La Sacra Bibbia.). Ancora, in altro luogo, a chiarire il motivo che lo stolto non è in grado di comprendere l’immortalità dell’anima: (Visi sunt oculis insipientium mori( (Sap. 3,2, corsivo mio). Trad. it.: (Agli occhi degli stolti parve che morissero( (Sap. 3,2).
20 A ricordare che la vita dello stolto è peggiore della morte: (Luctus mortui septem dies: fatui autem et impii, omnes dies vitae illorum( (Eccli. 22,13, corsivo mio). Trad. it.: (Il lutto per un morto dura sette giorni; ma per uno stolto ed empio dura tutti i giorni della sua vita( (Eccli. 22,12). Si ricordi poi il discorso che la mulier stulta indirizza ai vecordes, cercando di attrarli nel suo cerchio, offrendo loro la prospettiva di godere di aquae furtivae (piaceri licenziosi), di panis absconditus (trafugato, rubato). Cfr. Prov. 9,17.
21 Cfr. Prov. 9,18. Le citazioni a sostegno sono senz’altro numerose, abbastanza comunque da autorizzare la teoria di un legame tra l’universo della stultitia (fatuitas, inanitas,…) e quello della morte e degli inferi. Cfr. anche Eccli. 22,13; Mc.5, passim.
22 (Multos enim vulneratos deiecit, et fortissimi quique interfecti sunt ab ea( (Prov. 7,26). Trad. it.: (Poichè essa ne ha feriti molti a morte, ed erano vigorosi i suoi uccisi( (Prov. 7,26).
23 I Cor. 2,14, corsivo mio. Trad. it.: (L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; sono follia per lui, e non è capace d’intenderle, perchè se ne giudica solo per mezzo dello Spirito( (I Cor. 2,14).
24 (Christum crucifixum, Judaeis quidem scandalum, Gentibus autem stultitiam( (I Cor. 1,23). Trad. it.: (Cristo crocefisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani( (I Cor. 1,23).
25 (Nonne stultam fecit Deus sapientiam huius mundi?( (I Cor. 1,20). Trad. it.: (Non ha forse Dio reso stolta la sapienza di questo mondo?( (I Cor. 1,20).
26 Mt. 6, 26-29.
27 Un ulteriore stimolo a prendere in esame la figura dell’indemoniato di Gerasa può venire da A. Sciacchitano nell’articolo Essere giusti con la follia, contenuto nel fascicolo monografico Pensare la follia, (Aut Aut(, 285-286, maggio-agosto 1998, pp. 15-57. Raccogliendo le analisi di Starobinski (J. Starobinscki, Tre furori, Garzanti, Milano, 1991), Sciacchitano individua in sintesi i motivi che del brano evangelico possono risultare pertinenti ad una fenomenologia della follia: (La tesi interessante è che Gesù incontra il plurale (‘Il mio nome è Legione’) insieme alla furia autoaggressiva sull’altra sponda del lago, superato il limite (peras) della propria terra. Come dire che la follia sta al di là della civiltà( (Essere giusti con la follia, cit., p. 22, nota).
28 (Et exeunti ei de navi statim occurrit de monumentis homo in spiritu immundo.( (Mc. 5,2). Trad. it. nel testo da Vangelo secondo S. Marco, Volgata latina, testo originale, trad. it. a cura di Uricchio F. e Stano G., Marietti ed., Torino-Roma, 1966. L’episodio è presente anche in Vangelo di Matteo (8,28-34) e di Luca (8,26-39) ma indubbiamente la versione marciana risulta essere la più completa e la più circostanziata. Il Taylor ritiene che “la semplicità della forma e l’assenza di qualsiasi preoccupazione apologetica [...] sono una garanzia della realtà dei fatti, mentre la molteplicità dei particolari, che rispecchia situazioni della vita, tradisce la presenza del teste oculare, di Pietro, che senza dubbio dovette riportarne una profonda impressione, per fornire poi all’Evangelista una descrizione così piena di vita.” Razionalisti come il Bultmann ritengono invece la vicenda narrata “tipicamente leggendaria, sia per le circostanze dell’incontro, sia per il modo dell’esorcismo, come pure per la perdita degli animali e per altri motivi.” (Cfr. Vangelo secondo S. Marco, cit., p.296, nota). La questione per la presente indagine non è di poco conto, tanto più che la narrazione di Matteo parla di due indemoniati, cosa questa che, qualora fosse accertata, testimonierebbe dell’esistenza di una sorta di terra d’asilo e d’esilio, una zona di confino lontana dal suolo civile, destinata ad accogliere e a rinchiudere nel suo cerchio selvaggio uomini dai costumi bestiali.
29 (qui domicilium habebat in monumentis, et neque catenis iam quisquam poterat eum ligare, quoniam saepe compedibus et catenis vinctus dirupisset catenas et compedes comminuisset, et nemo poterat eum domare, et semper die ac nocte in monumentis et in montibus erat, clamans et concidens se lapidibus( (Mc. 5,3-5, corsivo mio).
30 Come cercherò di chiarire poco più oltre, se il destinatario dell’urlo risulta latitante, lo stesso dovrà dirsi anche per il mittente: come i passi del folle calcano strade non umane, così il suo linguaggio è esterno ad ogni comunicazione.
31 (Et interrogabat eum: Quod tibi nomen est? Et dicit ei: Legio mihi nomen est, quia multi sumus. Et deprecabatur eum multum, ne se expelleret extra regionem( (Mc. 5,9-10).
32 ( Et deprecabatur eum multum, ne se expelleret extra regionem. [...] (Mitte nos in porcos, ut in eos introeamus(( (Mc. 5,10-12).
33 (Ma Iahvé discese a vedere la città e la torre che stavano costruendo i figli dell’uomo. E Iahvé disse: (Ecco, essi sono un sol popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera, ed ora tutto ciò che avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Orsù, discendiamo e confondiamo ivi stesso la loro lingua, di guisa che essi non comprendano più la lingua l’uno dell’altro(( (Gen. 11,5-7, La Sacra Bibbia, cit.). Iddio castiga l’orgoglio umano, dimentico dei disegni divini, e insieme costringe i popoli a separarsi per popolare la terra. Il miracolo delle lingue, il giorno della Pentecoste, arriverà poi a restaurare l’unità, non per volontà umana ma divina. La meccanica che sorregge l’intervento divino pare qui sufficientemente chiara: la lingua serve ad esprimere le idee, il disaccordo e la confusione delle lingue sono congegni atti a far sì che gli uomini non s’intendano più. Ciò che prima era vita e civiltà, guidata da un’unica identità linguistica, diviene ora confusione invivibile, mortale, che impone un’immediata dispersione a quello che prima era un unico popolo. Come si vede, la deflagrazione dell’identità è tutt’uno con la confusione delle lingue. Del resto Babel significa appunto ‘confusione’.
34 (L’interesse dottrinale principale e diretto, come in altre narrazioni simili, sembra essere quello di presentare Gesù quale dominatore dei demoni anche più temibili e numerosi( (Vangelo secondo S. Marco, cit., p. 296, nota).
35 (Be Kent unmannerly when Lear is mad. [...] To plainness honour’s bound when majesty falls to folly( (Shakespeare W., Re Lear, atto I, scena I, corsivo mio, in Teatro completo di William Shakespeare, trad. it. e cura di G. Melchiori, testo a fronte, vol. IV, Mondadori, Milano, 1980).
36 (Reserve thy state; and, in thy best consideration, check this hideous rashness( (ibidem, atto I, scena I).
37 (Kill thy physician, and the fee bestow upon the foul disease( (ibidem, atto I, scena I, inciso mio).
38 (Most royal majesty(; (I profess myself an enemy to all other joys which the most precious square of sense possesses, and find I am alone felicitate in your dear highness’ love( (ibidem, atto I, scena I). Qui è Regan che assicura il padre della sua devozione. (Arte loquace e untuosa( chiarirà molto bene Cordelia più oltre, sempre nella prima scena del primo atto.
39 (That glib and oily art to speak and purpose not( (ibidem, atto I, scena I, traduzione mia). Il Melchiori nella sua traduzione propone: (L’arte disinvolta e untuosa di dire senza intenzione di fare(. Non mi pare tuttavia che l’aggettivo ‘disinvolta’ renda pienamente giustizia al termine inglese glib. Se oily identifica con chiarezza i gesti, i movimenti e insieme le finalità cui è rivolta quest’arte, il termine glib viene a completare il senso dell’espressione sottolineando appunto la scioltezza, la scorrevolezza e la vuota copiosità di linguaggio di cui si nutre la fangosa e ‘folle’ strategia di Goneril e Regan.
40 (Whiles I may ‘scape, I will preserve myself; and am bethought to take the basestand most poorest shape that ever penury, in contempt of man, brought near to beast; my face I’ll grime with filth, blanket my loins, elf all my hairs in knots, and with presented nakedness outface the winds and persecutions of the sky. The country gives me proof and precedent of Bedlam beggars, who, with roaring voices, strike in their numb’d and mortified bare arms pins, wooden priks, nails, sprigs of rosemary; and with this horrible object, from low farms, poor pelting villages, sheep-cotes, and mills, sometime with lunatic bans, sometime with prayers, enforce their charity. Poor Turlygod! poor Tom! That’s something yet: Edgar I nothing am( (ibidem, atto II, scena III, corsivo mio).
41 Com’è noto, gli estremi di composizione della tragedia vengono dalla critica indicati nel 1605-1606. La data della prima rappresentazione accertata è il 26 dicembre 1606. Del resto la tonalità e anche la necessità realistica del passo è troppo evidente per mettere in dubbio il fatto che questi folli realmente popolassero le strade dell’epoca.
42 Tom o’ Bedlam = Tom of Bethlehem. Così venivano chiamati i mendicanti provenienti dal manicomio di Londra, appunto Bethlehem.
43 In età classica il folle subirà nella sostanza il medesimo trattamento del mendìco, i loro volti tenderanno a sovrapporsi, entrambi smorfie della grande galassia della sragione (cfr. Foucault M., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1981, in particolare pp. 67-222).
44 (He has some reason, else he could not beg( (Shakespeare W., Re Lear, cit., atto IV, scena I).
45 Foucault traccia una breve storia del lunatismo, ponendola all’interno della discussione sulle cause remote della follia. (Tema costante e mai contestato nel XVI secolo; frequente ancora nel corso del XVII secolo, sparisce a poco a poco [...]. Sotto la sua forma tradizionale, esso designava un influsso immediato – coincidenza nel tempo e incrocio nello spazio – il cui modo d’azione era interamente situato nel potere degli astri. In Daquin (1792) l’influsso della luna si dispiega secondo tutta una serie di mediazioni che si gerarchizzano e si avviluppano intorno all’uomo stesso. [...] La luna, il cui corso perturba così profondamente l’atmosfera, agirà con violenza sulle persone la cui fibra nervosa è particolarmente delicata(. Il lunatismo riemergerà nel dibattito eziologico attorno alla follia nel XVIII secolo, sotto altri indici per altro, (in tutt’altro stile( (Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 59-60, corsivo mio).
46 (Away! The foul fiend follows me! Though the sharp hawthorn blow the winds. Humh! go to thy bed and warm thee( (Shakespeare W., Re Lear, cit., atto III, scena IV).
47 (Five fiends have been in poor Tom at once; as Obidicut, of lust; Hoberdidance, prince of dumbness; Mahu, of stealing; Modo, of murder; Flibbertigibbet, of mopping and mowing( (ibidem, atto IV, scena I).
48 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 59.
49 Si tratta unicamente di uno spiraglio. Lear giungerà al riconoscimento della propria follia non tanto sotto la guida delle parole del Fool (che ha come il compito di creare di fronte all’occhio del re lo specchio irriverente della realtà, irriverente in quanto privo di sfumature, sincero, sincero e basta), quanto piuttosto trascinato dai fatti, dall’evidenza del tradimento.
50 Anche in tal senso, come osserva Foucault, (nell’opera di Shakespeare troviamo le follie che s’imparentano con la morte e con l’assassinio( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 59). Nel testo francese: (Dans l’oeuvre de Schakespeare, les folies qui s’apparentent à la mort et au meurtre( (Foucault M., Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris, 1972, p. 59).
51 (This is most strange, that she, whom even but now was your best object, the argument of your praise, balm of your age, the best, the dearest, should in this trice of time commit a thing so monstruos, to dismantle so many folds of favour. Sure, her offence must be of such unnatural degree that monsters it, or your fore-vouch’d affection fall into taint; wich to believe of her, must be a faith that reason without miracle should never plant in me( (Shakespeare W., Re Lear, cit., atto I, scena I, corsivo mio).
52 Cfr. Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 59.
53 Ibidem, p. 26. Il testo francese recita: (La dénonciation de la folie devient la forme générale de la critique. […] Il n’est plus simplement, dans les marges, la silhouette ridicule et familère: il prende place au centre du théâtre, comme le détenteur de la vérité […]. Si la folie entraîne chacun dans un aveuglement où il se perd, le fou, au contraire, rappelle à chacun sa vérité (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., pp. 28-29).
54 Il problema della morte e delle sue relazioni con l’universo dell’insensatezza assumono un’importanza centrale all’interno di tutta la vasta ricognizione foucaultiana sulla follia. Nel capitolo che apre la Storia della follia la discussione su questo problema svolge, a mio avviso, il ruolo di struttura portante (cfr. Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 13-66, passim, in particolare pp. 29-31). Riguardo all’interesse foucaultiano per il tema della morte, e al suo intrecciarsi a quello della follia, ha scritto recentemente pagine interessanti anche James Miller (La passione di Foucault, trad. it. di Campominosi E., Longanesi, Milano, 1993, passim).
55 Il riferimento è al testo di Guyot Marchand pubblicato nel 1485, esempio limite dal punto di vista cronologico del persistere dell’immaginario tardo-medioevale della morte. A questo riguardo Foucault parla di (tutta questa serie d’immagini sghignazzanti della morte( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 29).
56 Ibidem, p. 30, nota. Com’è noto, la Storia della follia comincia proprio col richiamare alla memoria del lettore l’esperienza e le strutture d’internamento e isolamento in cui si concretizzarono per la storia europea i fantasmi medioevali della peste. Questa esperienza e queste strutture rappresenterebbero un’importante e illuminante anticipazione dei modi in cui più tardi si gestì il fenomeno follia.
57 Ibidem, pp. 29-30. Nel testo francese: (en lui donnant une forme quotidienne et maîtrisée, en le renouvelant à chaque instant dans le spectacle de la vie, en le disséminant dans les vices, les travers et les ridicules de chacun(; (il rit par avance du rire de la mort; et l’insensé, en présaegeant le macabre, l’à désarmé( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., pp. 30-31).
58 Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 33-34, corsivo mio. Nel testo francese: (Le sense ne se lit plus dans une perception immédiate, la figure cesse de parler d’elle-même; entre le savoir qui l’anime, et la forme dans laquelle elle se transpose, un vide se creuse. […] Tant de significations diverses s’insèrent sous la surface de l’image, qu’elle ne présente plus qu’une face énigmatique. Et son pouvoir n’est plus d’enseignement mais de fascination( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., pp. 34-35). Ponendo in primo piano l’importanza che le metamorfosi del simbolismo gotico assumono nell’emersione di una coscienza tragico-cosmica della follia, quest’indagine non fa che seguire il filo della riflessione foucaultiana.
59 Il termine fascinum (incantesimo, malìa) rimanda all’esercizio di un potere oscuro ed esoterico che coinvolge e investe interamente l’oggetto cui si rivolge. Il dire che lo spettacolo della follia ha poteri di ‘fascinazione’ significa ridurre a zero la distanza tra tale spettacolo e lo spettatore. Quest’ultimo, la sua volontà, il suo raziocinio, il suo stesso corpo, è completamente irretito e risucchiato nel cerchio sacro dell’incantesimo, diventando tutt’uno con lo spettacolo che sta osservando. Le forme della coscienza critica, i suoi gesti ironici, la sua vocazione moraleggiante, sono zittiti e del tutto assenti: l’incantesimo ha anzitutto il potere di cancellare la separazione e la distanza soggetto/oggetto, struttura di fondamento di ciò che qui si intende per ‘coscienza critica’.
60 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 37. A differenza di quanto si poteva leggere nell’iconografia del XIV sec., nella quale (l’ordine di Dio e la sua imminente vittoria sono sempre visibili, succede una visione del mondo in cui ogni saggezza è annientata. È il grande sabba della natura: le montagne sprofondano e diventano pianure, la terra vomita i morti, e le ossa affiorano sulle tombe; le stelle cadono, la terra prende fuoco, ogni vita si dissecca e perisce. La fine non ha valore di passaggio o di promessa; è l’avvento di una notte in cui si consuma la vecchia ragione del mondo. Basta guardare in Durer i cavalieri dell’Apocalisse, anche quelli che sono stati mandati da Dio; non sono angeli del Trionfo e della riconciliazione, non gli araldi della giustizia serena, ma i guerrieri sfrenati della folle vendetta. Il mondo sprofonda nel Furore universale. La vittoria non appartiene né a Dio né al Diavolo, ma alla Follia( (ibidem, p. 37).
61 Ibidem, p. 42. Nel testo francese: (Alors que Bosch, Brueghel et Dürer étaient des spectateurs terriblement terrestres, et impliqués dans cette folie qu’ils voyaient sourdre tout autour d’eux, Érasme la perçoit d’assez loin pour être hors de danger( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., pp. 43).
62 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 40. Nel testo francese: (au lieu de s’adresser au grand Livre de l’expérience, elle se perd dans la poussière des livres et dans les discussions oiseuses; la science verse dans la folie par l’excès même des fausses sciences( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 41).
63 (La (Filautia( è la prima figura che la Follia trascina nella danza; [...] l’attaccamento a se stesso è il primo segno di follia, ma proprio perchè l’uomo è attaccato a se stesso accetta come verità l’errore, come realtà la menzogna, come bellezza e giustizia la violenza e la bruttezza: (Costui, più brutto di una scimmia, si vede bello come Nereo; quell’altro si crede un Euclide perché traccia tre linee con il compasso(( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 41).
64 Sono queste, in estrema sintesi e secondo le dichiarazioni programmatiche del suo stesso autore, le linee guida della foucaultiana Storia della follia: la convinzione ferma che l’esperienza classica, e moderna, della follia, aperta emblematicamente dalla totale messa fuori gioco dell’insensato e della sragione dal cammino cartesiano del dubbio, non abbia cancellato interamente la forza vitale, rivelatrice, tragica della follia, ma abbia piuttosto operato una sua semplice messa in ombra (cfr. ibidem, pp. 46-47).
65 Ibidem, p. 43. Nel testo francese: (Tel peut être, hâtivement reconstitué, le schéma de l’opposition entre une expérience cosmique de la folie dans la proximité des ces formes fascinantes, et une expérience critique de cette même folie, dans la distance infranchissable de l’ironie. Sans doute, dans sa vie réelle, cette opposition ne fut ni aussi tranchée, ni aussi apparente. Longtemps encore, les fils furent entrecroisés, et les échanges incessants( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 44). Foucault porta a tal proposito numerosi esempi: (Verso la fine del poema di Brandt, un intero capitolo è dedicato al tema apocalittico dell’Anticristo: un’immensa tempesta trascina la nave dei folli in una corsa insensata che si identifica con la catastrofe dei mondi. Inversamente, molte figure della retorica morale sono illustrate in modo assai diretto tra le immagini cosmiche della follia; non dimentichiamo il famoso medico di Bosch, ancora più folle di colui che egli vuole guarire: poiché tutta la sua falsa scienza non ha fatto molto di più che deporre su di lui i peggiori stracci di una follia che tutti possono vedere tranne lui stesso. Per i suoi contemporanei e per le generazioni che seguiranno, le opere di Bosch portano una lezione di morale: tutte queste figure che nascono dal mondo non denunciano forse e altrettanto bene i mostri del cuore?( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 43-44).
66 Nella sua breve introduzione all’Elogio Carlo Carena sintetizza efficacemente il quesito di fondo che ha interessato fin da subito i critici e i lettori dello scritto erasmiano. Sir Thomas Chaloner, il grande traduttore cinquecentesco del Moriae encomium, coglieva già molto bene il nodo, chiedendosi se ci trovassimo di fronte a una cosa da ridere o a una cosa seria, se fosse un semplice divertimento o un sermone. In breve, come riassume Carena: (Erasmo pensa ciò che dice e dice ciò che pensa attraverso lo schermo sicuro di una dea antonomasticamente delirante, ovvero ne immagina schiettamente il delirio per gustare il rovesciamento del mondo come in una commedia surreale? [...] si predica l’abbandono all’irrazionalità o la guida dello spirito illuminato? e la diagnosi della società, poiché l’Elogio contiene anche uno spaccato sociologico, è negativa perché i folli sono troppi o perché non lo è tutta del tutto, come una Nave dei Folli?(. Il Croce (in Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia e dialoghi, Bari, 1914) fu il lettore più scettico: ai suoi occhi l’Elogio altro non era che una sorta di ‘bizzarria accademica’, un ‘paradosso’, mai sostenuto da un ‘vigoroso pensiero’, per quanto infarcito di vari e sottili argomenti. Anche Surtz (The Praise of Pleasure, Cambridge, 1957), vedeva (nell’Elogio uno scherzo letterario, un testo scritto per divertimento ed esercitazione retorica come si usava fin dall’antichità scrivere in lode di una mosca o della calvizie, secondo quanto Erasmo stesso ricorda nella Dedica: per cui non si deve attribuire ad esso alcun intendimento serio(. Cantimori, nella sua introduzione all’Elogio (in Erasmo da Rotterdam, Elogio della Pazzia, Torino,1943), riconosceva anch’egli un intenzione e un carattere ironico all’opuscolo, ma tuttavia, di contro al Croce, ne faceva (una cosa meditata, un appello di carattere religioso e una critica voluta del mondo universitario ed ecclesiastico(. Sempre su questa linea, ma con maggior vigore, si è espresso più recentemente Michael Screech (Ecstasy and the (Praise of Folly(, London, 1980): (l’Elogio non è un puro jeu d’esprit bensì l’opera di un uomo maturo ad una svolta decisiva della sua vita, l’espressione di alcuni dei suoi pensieri più preziosi, più cari e più alti( (cfr. Carena C., Introduzione, in Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, introd., trad. it. con testo a fronte, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino, 1997, pp. VII-X). Tenenti nel suo saggio del 1957 riteneva Erasmo uno dei primi moralisti laici dopo secoli di morale cristiana. Il suo indirizzo indubbiamente non fu anticristiano, ma certamente laico e terreno. Infatti, quella che fino ad allora era considerata la principale tra le follie, la noncuranza delle pene infernali e delle gioie celesti, quasi non trova posto (cfr. Tenenti A., Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Francia e Italia, Einaudi, Torino, 1957, in part. pp. 237-239).
67 (Mihi vero neque Chaos neque Orcus neque Saturnus neque Iapetus aut alius id genus obsoletorum ac putrium deorum quispiam pater fuit. Sed ploàtoj, ipse unus, vel invitis Hesiodo et Homero atque ipso adeo Iove, pat¾r ¢ndrîn te qeîn te. Cuius unius nutu, ut olim, ita nunc quoque sacra prophanaque omnia sursum ac deorsum miscentur. Cuius arbitrio bella, paces, imperia, consilia, iudicia, comitia, connubia, pacta, foedera, leges, artes, ludicra, seria, iam spiritus me deficit: breviter, publica privataque omnia mortalium negocia administrantur. Citra cuius opem totus ille poeticorum numinum populus, dicam audacius, ipsi quoque dii selecti, aut omnino non essent aut certe o„kÒsitoi sane quam frigide victitarent. Quem quisquis iratum habuerit, huic ne Pallas quidem satis auxilii tulerit; contra, quisquis propiciu, is vel summo Iovi cum suo fulmine mandare laqueum possit( (ibidem, pp. 24-27, corsivo mio).
68 L’inizio del dodicesimo capitolo raccoglie in sintesi il duplice credito che la follia può vantare nei confronti della vita: (At sane parum sit mihi vitae seminarium ac fontem deberi, nisi quicquid in omni vita commodi est, id quoque totum ostendero mei muneris esse. Quid autem vita haec, num omnino vita videtur appellanda, si voluptatem detraxeris?(. Trad. it: (Ma sarebbe certamente poca cosa il debito dell’origine e della fonte della vita, se non dimostrassi che anche quanto vi è in essa di bello è sempre un dono mio. Che sarebbe di questa vita, e si potrebbe addirittura chiamarla tale, tolto che le sia il piacere?( (ibidem, pp. 36-37).
69 (Equidem sciebam neminem vestrum ita sapere, vel desipere magis, imo sapere potius, ut in hac esset sententia( (ibidem, pp. 36-37).
70 In questo senso Nicola Petruzzellis a proposito del passo citato osservava: (Saggio, dal punto di vista della Follia, è proprio il folle. Qui, l’ambiguità del discorso raggiunge il colmo, non senza lasciare uno spiraglio, attraverso cui è possibile concludere che l’applauso che accoglie l’esaltazione del Piacere è dovuto al fatto che gli spettatori plaudenti sono proprio i seguaci della Follia( (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, intr. e trad. it. di N. Petruzzellis, Mursia, Milano, 1986, p. 38 nota).
71 È con quest’espressione ossimorica, probabilmente tratta da Luciano (Alessandro 40) che Erasmo al termine del quinto capitolo sistematizza le pretese di coloro che si dicono saggi. Il Carena propone di tradurre moròsophos con l’espressione ‘saggi di follia’ (cfr. Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Einaudi, cit., p. 22 e nota).
72 (iram quae praecordiorum arcem obtinet atque adeo ipsum vitae fontem, cor, et concupiscentiam, quae ad imam usque pubem latissime imperium occupat( (ibidem, pp. 52-53).
73 (Verum affectus isti non solum paedagogorum vice funguntur ad sapientiae portum properantibus, verumetiam in omni virtutis functione ceu calcaria stimulique quidam adesse solent, velut ad bene agendum exhortatores( (ibidem, pp. 86-87).
74 (Verum cum id facit, iam ne hominem quidem relinquit, sed novum potius deum quendam dhmiourge‹, qui nusquam nec extitit unquam, nec extabit; imo, ut apertius dicam, marmoreum hominis simulacrum constituit, stupidum et ab omni prorsus humano sensu alienum( (ibidem, pp. 86-87). Altra prova del fatto che il nuovo ordine di valori prodotto dalla Stulticia non comporta un semplice e ironico ribaltamento del sistema dei valori tradizionali. Dal suo elevato punto di vista la saggezza stoica non è follia (tale sarebbe l’effetto di un ribaltamento), è semplicemente non-essere, fondata sul nulla e diretta verso il nulla. Nel sistema di valori che emergeva dalla tradizione vetero-testamentaria la Sapientia occupava posizioni di assoluto ed esclusivo privilegio, costituendo il punto centrale e originario di riferimento rispetto al quale valutare tutto ciò che le era esterno, successivo: in questo modo, il mondo intero nel non seguire la legge di Dio non poteva che essere folle. Paolo di Tarso nel predicare la ‘follia della croce’ non faceva che ribadire lo stesso concetto, ponendosi questa volta nel punto di vista di un osservatorio mondano, per il quale la predicazione apostolica non poteva che risultare ‘folle’. Ora, nel discorso che la Follia tiene su se stessa, il sapere non è più termine primo e primigenio: al pari del desipere è figlio della Stulticia (e il fatto che non intenda riconoscerlo è cosa di nessun conto). È appunto questa situazione a mettere in moto quell’ambiguità che Petruzzellis fa discendere unicamente dalla volontà ironica di Erasmo, volontà che per altro quest’indagine non intende affatto negare.
75 Inversamente, gli uomini più sani e felici della terra sono gli stolti, i folli, i vanitosi: non temono la morte, non hanno paura di fantasmi o spiriti, ignorano la vergogna, l’invidia, l’amore, e per la loro mancanza d’intelletto non sono ritenuti neppure capaci di peccare (cfr. ibidem, pp. 104-105).
76 (At hic rursus obganniunt mihi oƒ ™k tÁj sto©j b£tracoi. Nihil, inquiunt, miserius insania. Sed insignis Stulticia vel insaniae proxima est vel ipsa potius insania. Quid enim aliud est insanire quam errare animo? Sed isti tota errant via. Age, hunc quoque syllogismum dissipemus, Musis bene fortunantibus( (ibidem, pp. 110-111). È indubbiamente una ben strana operazione lo smontare la meccanica rigorosa di un sillogismo servendosi unicamente delle favole dei poeti, una stranezza che fa ridere, ma è così che vuole la Follia. Del resto, come nota opportunamente il Carena, sarebbe fuori luogo attendersi dalla Stulticia un rispetto nei confronti della terminologia tecnica dei pretesi sapienti. Allo stesso modo, poco prima, essa aveva alluso agli entinemi usati dagli stoici e, del tutto burlescamente, aveva preferito a loro la banalità di esempi tratti dal quotidiano. Certo è comunque che la Follia non riconosce alcuna serietà a tutta quella strumentazione filosofica e retorica che discende dagli Analitici e dalla Retorica di Aristotele, da Cicerone, Quintiliano e Boezio: (la Follia cerca dunque per satira o parodia qualche termine a vanvera, oppure allude genericamente alle sottigliezze di ragionamento degli Stoici( (ibidem, p. 105 nota).
77 Laddove infatti il termine stultitia allude genericamente ad una condizione d’ingenuità, d’imprudenza, di sciocchezza, di fatuità, non rinviando specificamente ad alcun orizzonte patologico, il termine insania (in-sanitas) ci parla in prima istanza di un’assenza di salus, venendo così a significare ‘malato di mente’, ‘dissennato’, ‘demente’, ‘pazzo’, insomma: lo stato patologico di chi è tiranneggiato da una violenta passione, travolto da un delirio eccessivo e furioso. Così, se la condizione dello stultus può al limite risultare invidiabile, la stessa cosa non può certo dirsi per l’insania propriamente detta.
78 (Verum est duplex insaniae genus: alterum quod ab inferis dirae ultrices submittunt, quoties immissis anguibus vel ardorem belli vel inexplebilem auri sitim vel dedecorosum ac nefarium amorem vel parricidium, incestum, sacrilegium aut aliam id genus pestem aliquam in pectora mortalium invehunt, sive cum nocentem et conscium animum furiis ac terriculorum facibus agunt. Est alterum huic longe dissimile, quod videlicet a me proficiscitur, omnium maxime exoptandum( (ibidem, pp. 112-113).
79 (Neque enim si cui lippienti mulus asinus esse videatur aut si quis indoctum carmen veluti doctissimum admiretur, is continuo videbitur insanire. Verum si quis non sensu tantum, sed animi iudicio fallatur idque praeter usitatum morem ac perpetuo, is demum insaniae censebitur affinis esse, veluti [...] si quis pauperculus infimo loco natus Croesum Lydorum regem esse se credat( (ibidem, pp. 114-115).
80 (Qui cucurbitam cum videt, mulierem esse credit, huic insano nomen ponunt, propterea quod perpaucis id usu veniat. Verum ubi quis uxorem suam, quam cum multis habet communem, plusquam Penelopen esse deierat sibique maiorem in modum plaudit, feliciter errans, hunc nullus insanum appellat, propterea quod passim maritis hoc accidere videant( (ibidem, p. 114-115, corsivo mio). Se il primo esempio è semplicemente divertente, il secondo è senz’altro pungente, velenoso, da autentico ‘buffone di corte’, come il Fool del Re Lear, da cui ci si aspetta la verità, la verità nuda e cruda, la verità e basta. Tenenti, riflettendo a proposito del criterio erasmiano del ridicolo, precisava alcuni punti: (ridicolo è ciò che si scosta dalla norma generale, sia che questa sia realmente seguita o che rimanga allo stato ideale. È così che, per lui, i veri cristiani sono folli rispetto alla massa degli altri ed a loro volta questi ultimi sono folli rispetto al buon senso dell’uomo ragionevole. Due punti risultano in tal modo acquisiti: la follia è nella sua essenza universale ma relativa ed in secondo luogo non esiste più nella società del suo tempo una base reale per spartire i pazzi dai savi( (Tenenti A., Il senso della morte..., cit., p. 237, corsivo mio)
81 Discutendo a proposito dell’umorismo erasmiano il Carena osserva opportunamente come dietro tanto spiegamento di spirito circoli (una profonda amarezza, la convinzione che la vita sia invivibile se non ignorando ed evadendo; e che l’umanità sia un’accozzaglia di egoisti e di fatui, di incoscienti o di scaltri. Comunque, senza follia non si vive, e , in quanto si vive si deve essere folli( (Carena C., Introduzione, in Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Einaudi, cit., p. XIV, corsivo mio).
82 Così arriva a riassumere efficacemente il Carena il lungo discorso che la Stulticia ha tenuto su se stessa (cfr. ibidem, p. XVI).
83 (videtur omnino Christiana religio quandam habere cum aliqua stulticia cognationem minimeque cum sapientia convenire. [...] Breviter ad omnem sensum communem prorsus obstupuisse videntur, perinde quasi alibi vivat animus, non in suo corpore. Quod quidem quid aliud est quam insanire?( (ibidem, pp. 248-249). Numerosi commentatori, tra i quali il Screech (Ecstasy and the (Praise of Folly, cit.) vedono proprio in questo passo la prova ultima che l’Elogio sia un libro iniziatico. Il cristianesimo traccierebbe le linee di una (follia suprema, così difficile da ottenere e da praticare eppure prescritta da Dio in persona(, un’estrema vertigine di follia che (travolge e sublima l’altra(. Il Carena sottolinea all’attenzione del suo lettore le profonde linee di convergenza, anche stilistiche e lessicali, che avvicinano il capitolo finale dell’Elogio al decimo capitolo del nono libro delle Confessioni agostiniane che presenta (l’ascesa mistica e l’ebbrezza celeste completamente fuori dal dominio dei sensi e della ragione( (ibidem, p. XII).
84 Mi pare interessante notare l’insistenza con la quale Erasmo, nella lettera dedicatoria che accompagna l’Elogio della follia, precisa questo punto: (È una libertà concessa da sempre al talento quella di pungere impunemente la condotta umana degli uomini nella vita, purché la licenza non trascenda in bile. [...] Ma bollare il comportamento degli uomini senza colpire assolutamente nessuno per nome, questa chiedo, vi sembra mordacità o non è piuttosto istruzione, ammonimento? D’altra parte, ditemi, per quanti versi non critico me stesso? Inoltre chi non tralascia nessuna categoria di uomini dimostra di essere adirato contro nessuno di loro, e contro tutti i vizi( (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Einaudi, cit., p 13). Tenenti diversamente rinviene, al di là delle dichiarazioni programmatiche dislocate nella lettera dedicatoria a Tommaso Moro, l’esistenza di attacchi quasi diretti ad personam: dietro l’invettiva contro i papi guerrieri si può individuare un preciso bersaglio, Giulio II (cfr. Tenenti A., Il senso della morte..., cit., p. 235).
85 Cfr. Foucault, Storia della follia…, cit., pp. 47-48. Nel testo francese: (folie et raison entrent dans une relation perpétuellement réversible qui fait que toute folie a sa raison qui la juge et la maîtrise, toute raison sa folie en laquelle elle trouve sa vérité dérisoire( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., pp. 48-49).
86 Chiaro esempio di una riemersione di temi consueti alla mistica sono per Foucault alcune pagine dell’Institution chrétienne di Calvino: ((Se noi cominciamo a elevare i nostri pensieri in Dio […] ciò che ci sembrava meraviglioso per saggezza non saprà che di follia, e ciò che aveva una bella apparenza di virtù mostrerà d’essere solo debolezza( (Institution chrétienne, l. I, cap. I). Salire con lo spirito sino a Dio e sondare l’abisso insensato in cui siamo sprofondati non sono che una sola e stessa cosa; nell’esperienza di Calvino la follia è la misura caratteristica dell’uomo quando lo si paragona alla ragione smisurata di Dio( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 48, inciso mio). Di questi accenti, circolanti attorno al tema della ‘follia della croce’, è carica la Prima Lettera ai Corinti (cfr. più sopra p. 18-19).
87 Così Foucault sintetizza la meccanica sotterranea che animerebbe il pensiero di una follia quale forma relativa della ragione (ibidem, p. 48). Nel testo francese si parla di una dialectique serrée de la réciprocité (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 49).
88 Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 51-52. Nel testo francese: (La n’est pas une puissance sourde, qui fait éclater le monde, et révèle de fantastiques prestiges; elle ne révèle pas, au crépuscule des temps, les violences de la bestialité, ou la grande lutte du Savoir et de l’Interdiction. Elle est prise dans le cYcle indéfini qui l’attache à la raison […]. La folie n’a plus d’existence absolue dans la nuit du monde: elle n’existe que par une relativité à la raison( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 52).
89 È uno tra i Pensieri forse più famosi di Pascal, il n. 414 (Cfr. Pascal B., I Pensieri, trad. it., intr. e note di P. Serini, saggio introduttivo di C. Bo, Mondadori, Milano, 1980).
90 Il riferimento ad un’insania quae non vergit ad voluptatem è contenuto nel trentottesimo capitolo dell’Elogio (cfr. più sopra p. 47-50).
91 Il primo motivo di ‘colpevolezza’ è l’occhio stesso di quest’indagine e in quanto tale, ovviamente, sempre attivo. Da questo punto di vista quanto si dice qui riguardo alla lettura del testo erasmiano vale anche per tutte le altre letture che la presente indagine ha incontrato o si appresta ad incontrare. Per i problemi concernenti la lettura dell’Elogio si legga più sopra p. 42 nota 61.
92 In altre parole, la lettura che quest’indagine ha proposto è interamente situata all’interno dello scritto erasmiano, intendendo studiare il reticolato di relazioni che si muovono all’interno del testo, non curandosi specificamente delle relazioni che collegano il testo all’intera produzione erasmiana. Proprio ciò che ho segnalato sopra come primo motivo di ‘colpevolezza’ rende difficile il movimento verso quest’ultima direzione.
93 (Icy, nous allons confermément et tout d’un trein, mon livre et moy. Ailleurs, on peut recommander et accuser l’ouvrage à part de l’ouvrier; icy, non: qui touche l’un, touche l’autre. Celuy qui en jugera sana le connoistre, se fera plus de tort qu’à moy; celuy qui l’aura conneu, m’a du tout satisfaict( (Michel de Montaigne, Essais, texte établi et annoté par A. Thibaudet, Gallimard, Paris, 1953, p. 901). La traduzione italiana nel testo è di F. Garavini, contenuta in Michel de Montaigne, Saggi, saggio introduttivo di S. Solmi, Adelphi, Milano, 1966, p. 1069).
94 Cfr. Solmi S., La salute di Montaigne, contenuto in Montaigne, Saggi, cit., p.XIII. Con altri accenti Dal Pra precisava come gli Essais ci presentino un primo abbozzo di un’analisi sistematica della natura umana, non attraverso i criteri della metafisica aristotelico scolastica o della cosmologia platonica, ma attraverso l’osservazione dell’esperienza integrata dalla trattatistica morale della tradizione classica (cfr. Dal Pra M., Sommario di storia della filosofia, vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1979, pp. 58-60). Abbagnano precisava come (questa stessa personalità comincia ad essere il vero centro della meditazione di Montaigne, la quale assume il carattere di una (dipintura dell’io((. In questa meditazione interiore, in questo sguardo rivolto continuamente a se stesso, la sua opera non ci presenta una filosofia intesa quale complesso sistematico di dottrine: ci troviamo di fronte a (un vero e autentico filosofare nel senso moderno del termine: Cartesio e Pascal sono suoi diretti discendenti(. Non diversamente dal Solmi anch’egli precisa come sia arduo, a fronte di questo atteggiamento di fondo, delineare una chiara triangolazione storica del suo pensare. (In realtà egli è passato da un orientamento stoico ad un orientamento scettico, per trovare il suo equilibrio in una posizione socratica; ma solo quest’ultima costituisce la sostanza della sua persona e del suo pensiero(. In tal modo una sia pur minima posizione storica risulta disegnata: stoicismo e scetticismo, non certo intese in quanto dottrine, nel loro corpus sistematico, furono esperienze maturando attraverso le quali egli giunse all’(equilibrio che gli è proprio(. Il riconoscimento dello stato di dipendenza in cui l’uomo già sempre si trova rispetto alle cose fu la lunga eredità dello stoicismo. L’esperienza dello scetticismo fungeva quasi da contrappeso, sollecitando la ricerca di un mezzo per liberarsi, nella misura del possibile, da questa dipendenza e (riportare le cose al loro giusto valore(. Contemporaneamente essa veniva ad assolvere un’altra importante funzione, tutt’una con l’istanza socratica: guarire gli uomini dalla presunzione (che è la loro malattia naturale e originaria e portarli ad un’accettazione lucida e serena della loro condizione. (cfr. La filosofia del Rinascimento, la filosofia moderna nei secoli XVII e XVIII, in Storia della filosofia, II vol., fondata e diretta da N. Abbagnano, UTET, Torino, 1979, pp. 28-32).
95 Abbagnano precisava come questo tratto di fondo del filosofare, e dello scrivere, montaigneano, questa volontà di cogliere insieme singolarità e individualità della condizione umana (è il frutto più maturo dell’umanesimo e segna l’inizio della filosofia moderna. Cartesio nel Discorso sul metodo procederà nello stesso modo per giungere al principio fondamentale del sapere scientifico: farà la storia dei suoi studi, dei suoi dubbi, della sua ricerca( (ibidem, p. 31). Si tenga comunque presente che nel leggere in questo modo la scrittura di Montaigne altro non si fa che seguire linee interpretative già suggerite dallo stesso Montaigne: (Gli autori si presentano al popolo con qualche segno particolare ed esteriore; io per primo, col mio essere universale, come Michel de Montaigne, non come grammatico o poeta o giureconsulto( (Montaigne, Saggi, cit., p. 1068), e ancora, (ogni uomo porta in se la forma intera dell’umana condizione( (ibidem, p. 1068). Nel testo francese: (Les autheurs se communiquent au peuple par quelque marque particuliere et estrangere; moy le premier par mon estre universel, comme Michel de Montaigne, non comme grammarien ou poëte ou jurisconsulte(, (chaque homme porte la forme entiere de l’humaine condition( (Montaigne, Essais, cit., p. 900).
96 Cfr. Montaigne, Saggi, cit, p. 1067. Queste parole aprono il secondo capitolo del terzo libro: (Les autres forment l’homme; je le recite et en represente un particulier bien mal formé, et lequel, si j’avoy à façonner de nouveau, je ferois vrayement bien autre qu’il n’est( (Montaigne, Essais, cit., p. 899).
97 Cfr. Montaigne, Saggi, cit., p. 1067. Il testo francese recita: (Le monde n’est qu’une branloire perenne. Toutes choses y branlent sans cesse [...]. La constance mesme n’est autre chose qu’un branle plus languissant( (Montaigne, Essais, cit., p. 899).
98 Cfr. Montaigne, Saggi, p. 1067. Il testo francese recita: (Je ne puis asseurer mon object. Il va trouble et chancelant, d’une yvresse naturelle. Je le prens en ce point, comme il est, en l’instant que je m’amuse à luy. Je ne peints pas l’estre. Je peints le passage: non un passage d’age en autre, ou, comme dict le peuple, de sept en sept ans, mais de jour en jour, de minute en minute. Il faut accomoder mon histoire à l’heure. Je pourray tantost changer, non de fortune seulement, mais aussi d’intention. C’est un contrerolle de divers et muables accidens et d’immaginations irresoluës et, quand il y eschet, contraires( (Montaigne, Essais, cit., p. 899).
99 Cfr. Montaigne, Saggi, cit., p. 1067. Il testo francese recita: (Si mon ame pouvoit prendre pied, je ne m’essaierois pas, je me resoudrois: elle este tousjours en apprentissage et en espreuve( (Montaigne, Essais, cit., p. 900). Affermazioni come queste chiariscono tra l’altro esattamente la scelta del titolo dell’intera opera: (Saggi vuol dire esperienze (non tentativi): Montaigne intende rintracciare le esperienze umane espresse negli scritti degli autori antichi e moderni e metterle a prova in riferimento alle proprie esperienze( (Abbagnano N., La filosofia del Rinascimento..., cit., p. 29).
100 La nota lezione aristotelica che vuole l’uomo quale animale razionale già rappresenta un esempio chiaro di ciò che qui s’intende per ‘definizione formale’. Ora, tutta la lunga discussione che si svolge nell’Apologie volta ad inficiare la pretesa superiorità dell’uomo sull’animale e, più in profondità, sull’evidente impossibilità per l’uomo di sistematizzare il problema del rapporto uomo/animale, mi pare costituisca una risposta straordinariamaente efficace e articolata alle esagerate pretese che la filosofia aristotelica nutre riguardo le possibilità di comprendere la natura umana (cfr. Montaigne, Saggi, cit., pp. 584-615, passim).
101 Foucault arriva ad usare quest’espressione in riferimento alle navi di folli che avrebbero ossessionato l’immaginario di tutto il primo Rinascimento, fossero esse reali navi di pellegrinaggio forzato o navi altamente simboliche di insensati alla ricerca della loro ragione. In ogni caso, (è per l’altro mondo che parte il folle a bordo della sua folle navicella; è dall’altro mondo che arriva quando sbarca. Questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto Passaggio. [...] L’acqua e la navigazione hanno davvero questo significato. Prigioniero della nave da cui non si evade, il folle viene affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, [...] egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all’infinito crocevia. È il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha verità nè patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli( (Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 24-25, corsivo mio). La Stultifera navis con tutto il suo carico d’insensatezza pare davvero sintetizzare con grande efficacia plastica l’idea montaigneana dell’uomo in continuo e inarrestabile divenire: in tal senso tra natura umana e follia si verrebbe ad evidenziare un certo legame di parentela. La lettura del testo francese non fa che confermare tutto ciò anche lessicalmente: (C’est vers l’autre monde que part le fou sur sa folle nacelle; c’est de l’autre monde qu’il vient quand il débarque. Cette navigation du fou, c’est à la fois le partage rigoreux, et l’absolu Passage. [...] L’eau et la navigation ont bien ce rôle. Enfermé dans le navire, d’où on n’échappe pas, le fou est confié à la rivière aux mille bras, à la mer aux mille chemins, [...] il est prisonnier au milieu de la plus libre, de la plus ouverte des routes: solidement enchaîné à l’infini carrefour. Il est le Passager par excellence, c’est-à-dire le prisonnier du passage. Et la terre sur laquelle il abordera, on ne la connaît pas, tout comme on ne sait pas, quand il prend pied, de quelle terre il vient. Il n’à sa vérité et sa patrie que dans cette étendue inféconde entre deux terres qui ne pouvent lui appartenir( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 26, corsivo mio). Come il folle rinascimentale non può stabilmente prendre pied, allo stesso modo non può farlo l’uomo di Montaigne, navigando incessantemente tra le acque mutevoli dell’esperienza, estraneo a qualunque verità ultima, a qualunque patria definitiva: per entrambi non esiste altro approdo che il Passaggio stesso.
102 Il riferimento è a un’opera di fondamento nella letteratura critica su Montaigne: Strowski F., Montaigne, 2éme edition, Paris, Alcan, 1931.
103 In tal senso, prosegue il Solmi, si comprende il ruolo e il merito della religione cattolica che, con le sue verità rivelate, può esimerci dalla metafisica. Così, la critica della ragione umana, la dimostrazione della fragilità e vanità della natura umana e della sua assoluta incapacità di vera scienza, rimane volutamente priva di conclusioni logiche. Ed è un’astensione di effetto tutto pratico quella di Montaigne, del non voler portare alle estreme conseguenze il suo pensiero.Tutta la sua esperienza morale e di scrittura, tende a (una totale liberazione dell’individuo: liberazione dal terrore della morte, liberazione dai dubbi metafisici(, dalle preoccupazioni dell’avvenire, insomma, da tutti quegli ideali che rendono difficile la vita, per proporre l’ideale più semplice ed elementare possibile: (quello di uno sciolto, esatto aderire dell’individuo al naturale movimento e ritmo della vita stessa. Un ideale che potrebbe chiamarsi, con parola intesa in senso lato, la salute( (Solmi S., La salute di Montaigne, cit., pp. XVIII-XXIX, passim).
104 Montaigne, Saggi, cit., p.650. Il testo francese recita: (un mal naturel et originel en l’homme, [...] la premiere ruine du genre humain; c’est la voye par où il s’est precipité à la damnation eternelle( (Montaigne, Essais, cit., p.553).
105 Montaigne, Saggi, cit., p.653. Il testo francese recita: (Nostre foy ce n’est pas nostre acquest, c’est un pur present de la liberalité d’autruy. Ce n’est pas par discours ou par nostre entendement que nous avons receu nostre religion, c’est par authorité et par commandement estranger. La foiblesse de nostre jugement nous ayde plus que la force, et nostre aveuglement plus que nostre clervoyance. C’est par l’entremise de nostre ignorance plus que de nostre science que nous sommes sçavans de ce divin sçavoir( (Montaigne, Essais, cit., p. 555).
106 Si usa qui questo termine nel senso tecnico che gli attribuisce il Solmi in più luoghi del suo saggio (cfr. La salute di Montaigne, cit., passim).
107 Cfr. ibidem, p. XXI.
108 Montaigne, Saggi, cit., p.674. Il testo francese recita: (eschauffent l’ame des peuples, d’une passion religieuse, de tres-utile effect( (Montaigne, Essais, cit., p. 573).
109 Montaigne, Saggi, cit., p. 678. Il testo francese recita: (une merveilleuse yvresse de l’entendement humain( (Montaigne, Essais, p. 576). Può risultare di un certo interesse approfondire questo riferimento all’ubriachezza con quanto si dice nel secondo capitolo del secondo libro, pagine dedicate appunto alla discussione su questo vizio. Montaigne misura anche a questo riguardo la sua distanza dall’antichità (che non ha molto condannato questo vizio(. Il suo giudizio è invece severo: (L’ubriachezza mi sembra, fra gli altri, un vizio grossolano e brutale. [...] Ci sono vizi che hanno un non so che di generoso, [...]. Ve ne sono in cui entra la scienza, la diligenza, il valore, la prudenza, l’abilità e l’acutezza; questo è tutto corporale e terreno(. Oltre a ciò, sullo sfondo dell’yvrongnerie sembra disegnarsi un quadro perfettamente adattabile alla stessa follia, quadro che fa dell’ubriachezza una sorta di doppione artificiale dell’insensato: (Lo spirito ha altrove una parte maggiore. [...] Gli altri vizi alterano la mente; questo la sconvolge. [...] Lo stato peggiore di un uomo è quando perde la conoscenza e il dominio di sé( (Montaigne, Saggi, cit., pp.437-438). Il testo francese recita: (Or l’yvrongnerie, entre les autres, me semble un vice grossier et brutal. L’esprit a plus de part ailleurs; et il y a des vices qui ont je ne sçay quoy de genereux, s’il le faut ainsi dire. Il y en a où la science se mesle, la diligence, la vaillance, la prudence, l’adresse et la finesse; cettuy-cy est tout corporel et terrestre. [...] Les autres vices alterent l’entendement: cettuy-cy le renverse. [...] Le pire estat de l’homme, c’est quand il pert la connoissance et gouvernement de soy( (Montaigne, Essais, cit., pp. 375-376, corsivo mio).
110 Montaigne, Saggi, cit., p. 702. Il testo francese recita: (Regardés le registre que la philosophie a tenu deux mille ans et plus des affaires celestes: les dieux n’ont agi, n’ont parlé que pour l’homme; elle ne leur attribue autre consultation et autre vacation: les voylà contre nous en guerre, [...] les voicy partisans de noz trubles( (Montaigne, Essais, cit., p. 596).
111 Cfr. Montaigne, Saggi, cit., p. 705.
112 Cfr. Abbagnano N., La filosofia del Rinascimento, cit., p.30.
113 Cfr. Montaigne, Saggi, cit., p. 707. Il testo francese recita: (Ce sont tous songes et fanatiques folies( (Montaigne, Essais, cit., p. 600).
114 Montaigne, Saggi, cit., p. 714, inciso mio. Il testo francese recita: (L’impression de la certitude est un certain tesmoignage de folie et d’incertitude extreme; et n’est point de plus folles gens, ni moins philosophes que le philodoxes de Platon( (Montaigne, Essais, cit., p. 606). I filodossi, stando alla definizione che ne dà Platone nei libri della Repubblica sono persone ostinate nelle loro opinioni.
115 Montaigne, Saggi¸cit., p. 714, inciso mio. Il testo francese recita: (Mais c’est d’eux (i racconti antichi) que nous tenons cette fantasie, que la raison humaine est contrerolleuse generalle de tout ce qui est au dehors et au dedans de la voute celeste, qui embrasse tout, qui peut tout, par le moyen de laquelle tout se sçait et connoit( (Montaigne, Essais, cit., p. 606, inciso mio). Alle (asinerie( della saggezza umana si contrappongono (le opinioni sane e moderate( (Montaigne, Saggi, cit., p. 720). Ad ogni modo, per punire la nostra superbia e dimostrarci la nostra miseria, Dio provocò il turbamento e la confusione dell’antica Torre di Babele. (Tutto quello che intraprendiamo senza il suo aiuto, tutto quello che vediamo senza la lampada della sua grazia, non è che vanità e follia; l’essenza stessa della verità , che è uniforme e costante, quando la fortuna ce ne dà il possesso, la corrompiamo e l’imbastardiamo con la nostra debolezza. [...] La diversità degli idiomi e delle lingue per mezzo della quale sconvolse quell’opera, che altro è se non quell’infinito e perpetuo alterco e contrasto di opinioni e ragioni che accompagna e turba il vano edificio della scienza umana? E lo turba utilmente. Chi ci terrebbe a freno, se avessimo un solo granello di conoscenza? (ibidem, pp. 732-733). Questo riferimento montaigneano al noto episodio del Genesi pare confermare l’importanza che tale mito può rivestire in un’esplorazione del territorio della follia (cfr. più sopra p. 22 nota 28).
116Montaigne, Saggi, cit., p. 749. Il testo francese recita: (J’appelle tousjours raison cette apparence de discours que chacun forge en soy: cette raison, de la condition de laquelle il y en peut avoir cent contraires autour d’un mesme subject, c’est un instrument de plomb et de cire, alongeable, ployable et accomodable à tous biais et à toutes mesures; il ne reste que la suffisance de le sçavoir contourner( (Montaigne, Essais, cit., p.635, corsivo mio). Ed è all’interno di questa suffisance che si ritagliano le ‘opinioni sane e moderate’.
117 Cfr. Starobinski J., Montaigne, il paradosso dell’apparenza, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 8-22.
118 Questo risultato la presente indagine l’ha voluto leggere nella tradizione sacra, e nei testi sapienziali in particolare, nei quali la mulier stulta veniva a situarsi nello spazio esterno, ben definito, della Sapientia, come il suo ‘semplicemente altro’ (cfr. più sopra pp. 11-18).
119 Montaigne, Saggi, cit., p. 495, corsivo mio. Il testo francese recita: (C’est une humeur melancolique, et une humeur par consequent tres ennemie de ma complexion naturelle, produite par le chagrin de la solitude en laquelle il y a quelques années que je m’estoy jetté, qui m’a mis premierement en teste cette resverie de me mesler d’escrire. Et puis, me trovant entierement despourveu et vuide de toute autre matiere, je me suis presenté moy-mesmes à moy, pour argument et pour subject( (Montaigne, Essais, cit., p. 422, corsivo mio).
120 Quest’analisi viene svolta e proseguita in ampiezza e profondità dallo Starobinski (cfr. Starobinski J., Montaigne..., cit., pp. 35-43)
121 Starobinski scava con esperta eleganza d’analisi il problema. Montaigne cerca la solitudine, strappando se stesso ai disagi della vita activa, stanco del servitium del Parlamento, credendo che una vita solitaria sia, già e solo in questo, una vita libera. Al di là di ogni attesa, ( la solitudine provoca la tristezza e la melanconia. La speranza della libertà si dissolve: bisogna subire la legge dell’umore tetro, sentirsi invasi dalla fantasia, che è alienazione nel senso patologico del termine. Un altro asservimento ha inizio...( (cfr. ibidem, p. 40).
122 Montaigne, Saggi, cit., p. 584. Il testo francese recita: (La presomption est nostre maladie naturelle et originelle. La plus calamiteuse et fraile de toutes les creatures, c’est l’homme, et quant et quant la plus orgueilleuse. Elle se sent et se void logée icy, parmy la bourbe et le fient du monde, attachée et clouée à la pire, plus morte et croupie partie de l'u’ivers, au dernier estage du logis et le plus esloigné de la voute celeste, avec les animaux de la pire condition des trois; et se va plantant par immagination au dessus du cercle de la Lune et remenant le ciel soubs ses pieds. C’est par la vanité de cette mesme immagination qu’il s’egale à Dieu, qu’il s’attribue les conditions divines, qu’il se trie soy mesme et separe de la presse des autres creatures( (Montaigne, Essais, cit., pp. 498-499).
123 Cfr. Foucault, Storia della follia…, cit., pp. 51-53. Nel testo francese: (Car s’il y a raison, c’est justement dans l’acceptation de ce cercle continu de la sagesse et de la folie, c’est dans la claire conscience de leur réciprocité et de leur impossible partage( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 53).
124 Nelle poche righe che Montaigne dedica nei Saggi al ricordo della sua visita al Tasso, Foucault trova sintetizzato l’atteggiamento montaigneano nei riguardi della follia e dei suoi rapporti con la ragione (cfr. Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 55). Il momento più significativo che Montaigne dedica al Tasso, a (un uomo fra i più penetranti, ingegnosi e conformi allo spirito di quell’antica e pura poesia che vi sia stato da lungo tempo tra i poeti italiani(, è costituito da un passo dell’Apologie (cfr. Montaigne, Saggi, cit., 641-642).
125 In questo manifesto ideologico d’Alembert traccia in estrema sintesi il senso e le ambizioni della monumentale impresa, raccogliendo ad un tempo l’esigenza cartesiana di un’unità del sapere e la prospettiva enciclopedica baconiana: (l’opera che iniziamo ha due scopi: in quanto (enciclopedia(, deve esporre nel modo più esatto possibile l’ordine e la connessione delle conoscenze umane; in quanto (dizionario ragionato delle scienze, arti e mestieri(, deve spiegare i princìpi generali su cui si fonda ogni scienza e arte, liberale o meccanica(. La struttura e l’ambizione enciclopedica si rivela poi di estrema utilità per il philosophe: questo (ordine enciclopedico delle nostre conoscenze [...] consiste nel raccoglierle entro il minimo spazio possibile e nel collocare il filosofo, per così dire, al di sopra di questo vasto labirinto, in un punto di osservazione assai elevato, donde egli possa abbracciare tutte insieme le principali arti e scienze; osservare con una sola occhiata gli oggetti delle sue meditazioni e le operazioni che su di esse può svolgere. [...] È una specie di mappamondo che deve mostrare i principali paesi, la loro posizione e mutua dipendenza, la strada in linea retta che li unisce; strada spesso interrotta da mille ostacoli( (cfr.Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, antologia di testi scelti, tradotti e annotati da P. Casini, Laterza, Bari, 1968, pp. 4-39). Non v’è dubbio che riguardo all’esposizione delle conoscenze relative al problema della follia questi principi sistematici siano stati ampiamente accolti. Gli articoli che nel corso di quest’indagine verranno presi in esame vanno letti come fossero un tutt’uno, articolati al loro interno e con linee di fuga che li riallacciano all’albero, al mappamondo.
Sulle questioni relative al Discours e al système des connaissance humaines, cfr. anche ibidem, pp.XIX-XXI e Proust J., L’Encyclopédie. Storia, scienza, ideologia, trad. it. di M.G. Piani, Cappelli, Bologna, 1978, pp. 73-122. Sempre Casini, riflettendo sugli Aspetti dell’Encyclopédie, ha cura di precisare come il ‘sistema delle conoscenze umane’ incarnato negli articoli non abbia affatto un senso e una dimensione puramente dottrinale, nozionistica. Fu anche e insieme un’opera di lotta politica, di rinnovamento sociale e morale: (è un criterio d’interpretazione errato confrontare l’Encyclopédie con la cultura del secolo per valutarne il contenuto dottrinale: fu uno strumento di lotta, e come tale va giudicata(. Quest’appunto è per noi di estremo interesse in quanto ci porta a cogliere e a leggere nella giusta luce storica l’intonazione ironica dell’articolo del De Jaucourt (cfr. Casini P., Diderot (philosophe(, Laterza, Bari, 1962, pp. 209-211 e pp. 225-234).
126 Tra gli amici di Diderot numerose furono le personalità chiamate a collaborare alla grande impresa: Eidous e Toussaint, con i quali aveva tradotto il dizionario di medicina di James, Rousseau, Bonnet e Laurent (‘operai della seta’), Barrat (‘operaio di calzettificio’), Buisson (‘fabbricante a Lione’) e altri innumerevoli ‘operai e amatori delle arti’, il tedesco D’Holbach, che si occupò di metallurgia e mineralogia, La Salette, che fornì memorie sulla fabbricazione dei guanti, e infine il cavaliere De Jaucourt, un medico e un filosofo allora totalmente sconosciuto. Autorevolmente il Proust ricorda che (molto probabilmente egli ha potuto ben presto alleggerire Diderot del pensiero opprimente di dover fare aggiunte in tutti i campi agli articoli manchevoli(. A partire dal terzo tomo la sua sigla personale divenne D.J., e con tale sigla è appunto firmato l’articolo che quest’analisi va commentando. Per tutte queste questioni cfr. Proust J., Encyclopédie, cit., pp.54-72.
127 Per gli articoli dell’Encyclopédie si è seguito Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des science, des artes et des métiers, par une société de gens de lettres. Mise en ordre et publié par M. Diderot; et quant à la partie mathématique, par M. d’Alembert, nouvelle edition, Pellez, Geneve, 1778. Le parziali traduzioni degli articoli presenti nel testo sono mie. L’articolo fol, siglato D.J., si trova nel vol. 14, pp. 827a-828b.
128 Nelle battute finali dell’articolo De Jaucourt ricorda la figura di l’Angely. (L’ultimo fou di corte di cui si sia parlato nella nostra storia è il famoso l’Angely, che M. le Prince portò dai Paesi Bassi e del quale si compiacque di far dono a Luigi XIV. [...] e dopo, questa specie di folli non è più comparsa(. Il testo francese recita: (Le dernier fou de cour dont il soit parlé dans notre histoire, est le fameux l’Angely, que M. le Prince amena des Pays-Bas, et qu’il se sit un plaisir de donner à Louis XIV. [...] et depuis, cette espece des fous n’y a plus paru(.
129 La vita, i linguaggi, i gesti, tutta quell’arte consumata di grande attore che caratterizzano la figura del Nipote di Rameau, potrebbero benissimo trovare posto in queste pagine del De Jaucourt. Diderot, nel colpire questo personaggio e nel colpire insieme tutto quel mondo che lo produce, lo sostiene e ha bisogno di lui, non fa che proseguire, su un ben diverso registro artistico, l’ispirazione di fondo di questo articolo. Lo stesso Foucault riconosce esplicitamente nel personaggio del nipote di Rameau una sopravvivenza della figura del folle medioevale (cfr. Foucault M., Storia della follia..., cit., pp. 381-382).
130 (Les divertir par leurs bons mots, leurs gestes, leurs plaisanteries, ou leurs impertinences(.
131 Al di là dell’impianto tragico, confidenza, amicizia, intimità, caratterizzavano anche i rapporti tra Re Lear e il suo Fool (cfr. più sopra pp. 26).
132 (Qui leur servissent de jouet et d’amusement. [...] Les grandes maisons se procuroient un fol qu’on habilloit ridiculement, afin que l’héritier présomptif eût occasion de se divertir de ses discours ou de ses bevues(.
133 Del resto non ritengo sia possibile imputare a De Jaucourt questa mancanza. È lo stesso impianto teorico dell’articolo a rendere assolutamente estranea e superflua questa, per noi, così importante precisazione. De Jaucourt, è vero, non si preoccupa di sottolineare la mancanza di autenticità, l’artificio che sta dietro a questa follia. Del resto, già l’intonazione ironica, e polemica, affiorante in più luoghi, mette a sufficienza sull’avviso il lettore. Inoltre qui entra in gioco anche il contesto nel quale l’articolo si trova ad essere, fungendo da preludio, erudito e leggero nello stesso tempo, alla trattazione della follia vera e propria, trattazione di ben altra levatura e impegno teorico, che prenderà corpo nelle pagine immediatamente successive.
134 (Le fou de François I, nommé Triboulet, disoit que Charles-Quint étoit plus fou que lui de passer par France pour aller aux Pays-Bas; mais, lui di François I, Si je le laisse passer! En ce cas, dit Triboulet, j’effacerai son nom de mes tablettes, et j’y mettrai le votre(.
135 È questa insana dialettica che l’autore dell’articolo intende colpire.
136 (L’Angely étoit un fou plein d’esprit, qui trouva le secret de plaire aux uns, de se faire craindre des autres, et d’ammasser par cette adresse une somme de vingt-cinq mille écus de ce temps-là(.
137 Nelle battute finali dell’articolo De Jaucourt precisa, non senza compiaciuta ironia, che furono proprio le sue railleries piquantes a renderlo infine sgradito al monarca e a farlo cacciare dalla corte. Evidentemente l’Angely aveva oltrepassato i limiti, confuso i confini tra irriverenza e prudenza.
138 Cfr. Encyclopédie ou Dictionnaire..., cit., voll. 14, pp. 828a-830a. Si tratta di un articolo diviso in due grandi sezioni, quella morale e quella medica. Nessun segno né sigla consente di risalire all’autore. Per altro l’Avvertissement posto in chiusura del Discours préliminaire informa il lettore che (tutti coloro che hanno lavorato a questa Enciclopedia devono rispondere degli articoli che hanno rivisto o composto. [...] Quasi tutti gli articoli che non hanno lettere alla fine, o che hanno un asterisco all’inizio, sono di M. Diderot: i primi sono quelli che gli appartengono in quanto uno degli autori dell’Encyclopédie; i secondi sono quelli che egli ha completato come editore(. Il testo francese recita: (Tous ceux qui ont travaillé à cette Encyclopédie devant répondre des articles qu’ils ont revus ou composés. [...] Presque tous les articles qui n’ont point de lettres à la fin, ou qui ont une étoile au commencement, sont de M. Diderot: les premiers sont ceux qui lui appartiennent comme étant un des Auteurs de l’Encyclopédie; les seconds sont ceux qu’il a supplées comme Editeur( (ibidem, voll. 1, p. LXXVII). Stando a questa nota aggiunta dagli editori ginevrini il testo dell’articolo dovrebbe essere della mano di Diderot. Proust avverte però come la questione non sia affatto così automatica come l’Avvertissement vorrebbe far credere: (questo anonimato non deve più essere considerato, oggi, una presunzione di paternità; esso può nascondere D’Holbach, Saint-Lambert, lo stesso Buffon, oltre naturalmente il principale editore( (cfr. Proust J., Encyclopédie…, cit., pp. 54-59).
139 Le pagine dell’Encyclopédie, in cui la follia viene studiata dal punto di vista della scienza medica, verranno assunte quale oggetto di riflessione in un momento successivo di quest’indagine.
140 (S’écarter de la raison, sans le savoir, parce qu’on est privé d’idées, c’est être imbécille(.
141 (S’écarter de la raison le sachant, mais à regret, parce qu’on est esclave d’une passion violente, c’est être foible(.
142 (Mais s’en écarter avec confiance, et dans la ferme persuasion qu’on la fuit, voilà, ce me semble, ce qu’on appelle être fou(.
143 Il caso Rivière, illustrato da Foucault e dai suoi collaboratori, con tutta la sua complessità mostra con chiarezza come il problema sia di ben maggiore ampiezza. Resta indubbio che, sullo sfondo di tutta la teoria sopra enunciata, Pierre Rivière sia da considerare folle: ha ucciso con larga premeditazione la madre, la sorella e il fratello, e ciò nonostante conserva ancora quella ‘tranquilla sicurezza’ che gli consente di elaborare un lungo memoriale, ad illustrazione e difesa della sua avventura omicida. Eppure Rivière non mi pare ignori le regole della morale: il primo movente, inventato ad arte, che egli dichiara nel corso dei primi interrogatori, è di essere stato ispirato da Dio. Sembra sapere che l’unico modo per dare una parvenza di razionalità alla sua follia omicida è quello di collegarla alla struttura di una morale d’ordine superiore (quasi che anch’egli avesse letto l’Encyclopédie). È quindi consapevole di aver calpestato le regole della morale umana. Del resto, una certa consapevolezza della trasgressione si trova già inscritta materialmente nella sua fuga: egli sa bene di aver commesso un’azione estrema, che l’intera umanità giudica folle e criminale. La sua ‘tranquilla sicurezza’, almeno da quanto si può desumere dalle pagine del memoriale, non è dettata da una mancata consapevolezza, da un’incapacità di discernere il ‘vero morale’, quanto piuttosto dalla coscienza di aver obbedito agli imperativi di una morale privata, assolutamente presente alla sua coscienza, e per lui sommamente sensata. La sua tragedia non si muove all’interno del conflitto indicato dagli Enciclopedisti, tra ‘vero morale’ e sua mancata conoscienza. Il conflitto che la sua vicenda propone è quello tra il ‘vero morale’-pubblico e il ‘vero morale’-privato, ambedue ben presenti e chiari nella sua mente. Per tutta la questione cfr. Foucault M. (a cura di), Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello...Un caso di parricidio nel XIX secolo, trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino (1976), 3° ed., 1978.
144 (Ces malheureux qu’on enferme(. In questi articoli sulla follia sono davvero molto rari i riferimenti alle maisons de force e, nei pochi luoghi dove si fa menzione della pratica dell’internamento e si accenna a quegli sventurati che ne sono soggetti, non è dato rinvenire il benché minimo accenno polemico. Voltaire, nella voce folie del suo Dizionario, è più puntuale. Dopo aver definito la follia come (quella malattia degli organi del cervello che impedisce ad un uomo di pensare e agire come gli altri(, precisa l’inevitabile destino di questi folli: (se costui non può amministrare i suoi beni, lo si interdice; se non riesce ad avere idee consone alla società, lo si esclude; se è pericoloso, lo si rinchiude; se è furioso, lo si lega( (Voltaire, Dizionario filosofico, trad. it. di Binazzi M., intr. di Moneti M., Garzanti, Milano, 1981, p. 179). Il testo francese recita: (La folie pendant la veille est une maladie qui empêche un homme nécessairement de penser et d’agir comme les autres. Ne pouvant gérer son bien, on l’enterdit; ne pouvant avoir des idées convenables à la société, on l’en exclut; s’il est dangereux, on l’enferme; s’il est furieux, on le lie( (Voltaire, Dictionnaire philosophique avec les notes des tous les commentateurs, J.N. Barba éditeur, Paris, 1828, tome cinquième, p. 489).
145 A risultati analoghi, al motivo di una rilevabilità statistica della follia, era già giunto Erasmo da Rotterdam (cfr. più sopra pp. 50-51). Può risultare di un certo interesse il fatto che la definizione della malattia mentale nei termini di uno scarto dalla media sia ben lungi dall’essere stata superata dalle scienze psicologiche attuali. Foucault ricordava come Durkheim ritenesse di poter dar conto della relatività del fatto patologico (per mezzo di un approccio insieme evoluzionistico e statistico: in una società verrebbero considerati patologici quei fenomeni che non rientrano nella media e che segnano le tappe oramai superate di una precedente evoluzione, oppure annunciano le fasi ulteriori di uno sviluppo appena abbozzato(. E non si trattava di una posizione isolata. Il punto di vista espresso dalla psicologia americana nella sostanza non fa che riprendere la prospettiva durkheimiana: anche qui la malattia è considerata sotto un aspetto negativo, (negativo, perché la malattia è definita in rapporto a una media, a una norma, a un pattern, e perché in questo si colloca l’intera essenza del patologico( (cfr. Foucault M., Malattia mentale e psicologia, trad. it. e introd. di F. Polidori, Cortina, Milano, 1997, pp. 69-73).
146 (Qu’est-ce que la raison? Ce qu’on appelle ainsi, au moins dans un sens contraire à la folie, n’est autre chose en général que la connaissance du vrai(
147 La struttura teorica in cui nel libro dei Proverbi venivano pensate la Sapientia e la Stultitia, con tutta la strategia metaforica con la quale emergevano linguisticamente, poneva di fronte un quadro del tutto diverso. Lo spazio risultava diviso in due poli assolutamente distinti e senza comunicazione alcuna: il palazzo della Sapientia e quello della Stultitia. La Sapientia era identica alla verità e questa era tutt’uno con la Legge. Nel palazzo della Stultitia, in comunicazione con gl’inferi, risiedeva l’ignoranza del ‘vero’, tutt’uno con la disobbedienza alla Legge, tutt’uno con l’empietà. Il ragionamento dell’Enciclopedista sembra illustrare invece una struttura a tre poli: la ragione e la follia, che si costruiscono e si definiscono reciprocamente, l’una sul rovescio dell’altra; la verità, punto necessariamente esterno, necessario a misurare ciò che è ragione e ciò che è follia. Diversamente dal testo scritturale, qui il ‘vero’ non coincide e non si identifica con la ragione: quest’ultima è la ricerca del ‘vero’, approssimazione infinita e inesauribile verso di esso.
148 Altro problema, di enorme portata e complessità, che quest’indagine almeno per il momento non intende affatto toccare, è la natura di questo spazio unico nel quale si disegna il vincolo dialettico follia/ragione. Ad ogni modo un risultato pare acquisito: l’inutilità, l’erroneità, di definire questo spazio unico, e ciò che vi è all’interno, assumendo un punto di riferimento esterno. Ed è proprio ciò che si appresta a fare l’Enciclopedista. Constatata l’impossibilità di giungere a una definizione ultima tanto della ragione quanto della follia (dal momento che l’una rimanda all’altra, in un rincorrersi infinito), lo stratagemma utilizzato dall’autore è quello di rinvenire un punto fermo esterno, dal quale operare la ‘triangolazione’ dei due termini enigmatici. Come quest’indagine ha chiarito, il reperimento del ‘punto esterno’ (il vero) e la successiva ‘triangolazione’ sono soltanto una conseguenza della sua svista, della sua incapacità di riconoscere le conseguenze ultime del suo stesso ragionare.
149 L’Encyclopédie riserva sempre toni lusinghieri nei confronti di Montaigne, lontano e autorevole nume tutelare dei philosophes. Nell’articolo sullo scetticismo (Pyrrhonienne ou Sceptique) si legge: (Montaigne, l’autore di quei Saggi che saranno letti finché vi saranno uomini che ameranno la verità, la forza, la semplicità. L’opera di Montaigne è la pietra di paragone di un buon intelletto. [...] Le contraddizioni della sua opera sono la fedele immagine delle contraddizioni dell’intelletto umano(. Questa pagina di Diderot riflette una lunga familiarità con gli Essais, un dialogo, una riflessione sulla scrittura montaigneana che muove dagli anni della giovinezza, come testimoniano i Pensées philosophiques (cfr. Enciclopedia o Dizionario..., trad. it di P. Casini, cit., p. 809 e nota).
150 (Que l’auteur de la nature a réservé pour lui seul(.
151 (Vrai sensible( nel testo.
152 (Le vrai physique consiste dans le juste rapport des nos sensations avec les objets physiques, ce qui arrive quand ces objets nous affectent de la même maniere que le reste des hommes(.
153 (Le vrai moral consiste dans la justesse des rapports que nous voyons, soit entre les objets moraux, soit entre ces objets et nous(. Non è da imputare ad una distrazione o ad un colpevole silenzio il fatto che non vengano in alcun modo precisati i confini, la natura di questa ‘morale’. Qui la ‘morale’ è voltairianamente intesa come espressione immediata e naturale della ragione, precedente ai dogmi e alle superstizioni, e in quanto tale identica in tutti gli uomini, di ogni luogo ed epoca. (La morale non sta nella superstizione, non sta nelle cerimonie, non ha nulla in comune con i dogmi. Non si ripeterà mai abbastanza che tutti i dogmi sono diversi, mentre la morale è la medesima in tutti gli uomini che fanno uso della ragione. La morale viene dunque da Dio, come la luce. Le nostre superstizioni non sono che tenebre( (Voltaire, Dizionario..., cit., p. 281). Il testo francese recita: (La morale n’est point dans la superstition, elle n’est point dans les cérémonies, elle n’a rien de commun avec les dogmes. On ne peut trop répéter que tous les dogmes sont différents, et que la morale est la même chez tous les hommes qui font usage de leur raison. La morale vient donc de Dieu comme la lumière: nos superstitions ne sont que ténèbres( (Voltaire, Dictionnaire philosophique…, cit., tome huitième, p. 58).
154 (Sont donc de véritables folies [...] tous les travers de notre esprit, tous les illusions de l’amour propre, et tous nos passions, quand elles sont portées jusqu’à l’aveuglement(. Come si ricorderà, nell’Elogio erasmiano era proprio la Filautia ad aprire il corteo al seguito della Stulticia (cfr. più sopra p. 49).
155 La Stulticia, nell’Elogio erasmiano, aveva già posto in ridicolo i morosofi e le loro pretese semplificanti. Per la tradizione stoica, almeno così sintetizza frettolosamente la Stulticia, saggezza è seguire la ragione, follia abbandonarsi alle passioni (cfr. più sopra pp. 45-49).
156 (Le caractère distinctif de la folie(.
157 Il curatore dell’articolo così sintetizza: (Qu’un homme commette une action criminelle, avec connoissance de cause, c’est un scélérat; qu’il la commette, persuadé qu’elle est juste, c’est un fou(. Si è già avuto occasione di osservare come la questione non sia affatto così semplice: il caso di Pierre Rivière insegna (cfr. più sopra p. 85, nota 138).
158 (Il y a mille gens dans le monde, dont les folies sont vraiment physiques, et beaucoup dans les maisons de force qui n’ont que des folies morales(.
159 Questo passo può sembrare a prima vista mal integrato al contesto cui appartiene, una sorta di glossa aggiunta in un secondo momento. Svolge tuttavia il compito importante di precisare, proprio dopo aver situato la definizione del ‘vero’ nell’ambito di un sentire comune (e con ciò stesso dunque a ridosso del linguaggio ordinario), la distanza che separa la profondità di quest’analisi dall’immediatezza del linguaggio corrente. All’interno di quest’ultimo la follia pare essere la traduzione moderna della Stulticia erasmiana, ma questa, lo si è visto, ben lungi dall’essere ciò che chiamiamo follia, è la formula per eccellenza della salute, sia sociale, sia individuale. Il testo francese recita: (Ce qu’on appelle dans la société dire ou faire des folies, ce n’est pas être fou, car on les donnes pour ce qu’elles sont. C’est peut-être sagesse, si l’on veut faire attention à la foiblesse de notre nature. [...] notre raison est souvent pour nous un fardeau pénible, et [...] pour en soulager notre ame, nous avons besoin de temps-en-temps au moins de l’apparence de la folie(.
160 L’interesse per il lettore odierno sta forse nel leggere in queste affermazioni lo scarso peso che nella medicina di allora avevano le dispute di ascendenza cartesiana sui rapporti anima-corpo. Il testo francese mi pare chiarissimo: (La folie paroît venir quelquefois de l’altération de l’ame qui se communique aux organes du corps, quelquefois du dérangement des organes du corps qui influe sur les opérations de l’ame, c’est ce qu’il est fort difficile de démêler. Quelle qu’en soit la cause, les effects sont les mêmes(.
161 (Tous excès est folie(. Ancora una volta vediamo l’emergere in posizione centrale di un termine che innesca metafore spaziali del tutto analoghe all’écartement. Si pensi al verbo latino exc(do, -cessi, -cessum, (re da cui il sostantivo francese excès deriva. Tra i suoi significati: partire, uscire, allontanarsi (urbe, finibus,...); superare, oltrepassare (terminos, modum,...); ritirarsi (ex acie, ex pugna).
162 Ancora una volta risulta risolutore l’appello al motivo della rilevabilità statistica. Come esempio di un eccesso (virtuoso) pilotato da un principio di dovere sancito dalla maggioranza, si ricorda il caso di Attilio Regolo, che per tener fede alla parola data e in nome dell’onore della romanitas, ritornò a Cartagine, per quanto fosse certo di andare incontro alla morte.
163 L’Enciclopedista così sintetizza: (Vi sono cose in cui la ragione non si trova che nel giusto mezzo, i due estremi sono ugalmente follia; [...] non vi sono altri veri beni sulla terra al di fuori della salute, della libertà, della misura dei desideri, della coscienza onesta. È dunque una follia di prim’ordine il sacrificare volontariamente dei beni così grandi(. Il testo francese recita: (Il y a des choses où la raison ne se trouve que dans un juste milieu, les deux extrêmes sont égalment folie; [...] il n’y a de vrais biens sur la terre que la santé, la liberté, la modération des desirs, la bonne conscience. C’est donc une folie de premier ordre que de sacrifier volontairement de si grands biens(.
164 Non siamo molto distanti dalla divertita descrizione che la Stulticia fa della Commedia Umana nell’Elogio erasmiano, e non solo per la classificazione dei vizi, ma anche per il tono che l’accompagna, distaccato, divertito, canzonatorio, rassegnato. Questo luogo, in chiusura della sezione dedicata alla riflessione morale sulla follia, è forse l’unico dell’intero articolo modulato in un registro ironico.
165 (Que si quelques-uns de ces fous paroissent pour la première fois chez une nation qui n’eût jamais connu que la raison, il est vraisemblable qu’on les feroit enfermer. Mais parmi nous l’habitude de les voir les fait supporter; quelques-unes de leurs folies nous sont nécessaires, d’autres nous sont utiles, presque toutes entrent dans l’ordre de la société, puisque cet ordre n’est autre chose que la combination des folies humaines. Que s’il en est quelques-unes qui y paroissent inutiles où même contraires, elles sont le partage d’un si grand nombre d’individus, qu’il n’est pas possible de les exclure. Mais elles ne changent pas de nature pour cela: chacun reconnôit pour folie celle qui n’est pas la sienne, et souvent la sienne propre, quand il la voit dans un autre( (corsivo mio).
166 Al di là della giustezza o meno dell’analisi foucaultiana del Neveu, essa ha comunque l’indubbio merito di essersi spinta ben oltre i confini tracciati dalle letture classiche, elaborando nuovi fecondi paradigmi di lettura. Sorprende a questo riguardo che Calzolari, il quale scrive nel dopo-Foucault ed è attento alle possibilità di nuove letture aperte dai risultati della più recente riflessione filosofica francese, di fatto ignori Foucault e le sue particolari sottolineature al testo diderotiano, non menzionandolo neppure (cfr. A. Calzolari, Introduzione, in Diderot D., Il nipote di Rameau, Jacques il fatalista, trad. it. di L. Magrini, Garzanti, Milano, 1974, pp. VII-XXXII).
167 Sul Neveu de Rameau in poco più di un secolo si è detto e scritto molto e non si può non essere d’accordo con la maggior parte dei commentatori nel cogliere nella dimensione etico-politica, nella meditazione morale, il nerbo e l’atmosfera di fondo dell’intero dialogo. Casini, che intende soffermarsi e cogliere in maniera specifica il (significato storico e speculativo del dialogo(, colloca la scrittura dell’opera sullo sfondo di quella (profonda crisi sentimentale e intellettuale (seguita al duro colpo subito nel ’59 dall’impresa enciclopedica) che aveva contribuito ad incrinare la sua fede nell’avvento dei lumi. Siffatta lezione di pessimismo e di realismo si riflette pienamente nel cinico linguaggio di Rameau, nella perplessità del suo interlocutore di fronte all’abisso di abiezione che costui svela( (cfr. P. Casini, Diderot..., cit., pp. 334-339). Diversamente, la convinzione implicita che funge da motore silenzioso di questa particolare e parziale lettura del Neveu de Rameau (lettura mai volta a cogliere il ‘significato storico e speculativo’ del Neveu) è che l’arte del folle/buffone/parassita consiste in buona parte in una messa in scena della follia e che proprio per questo presuppone una certa conoscenza e coscienza di essa. L'obbiettivo dichiarato è dunque quello di delineare, o quanto meno di tratteggiare, gli spazi in cui viene pensata (e detta) la follia. Del resto ciò non deve essere pensato in opposizione o alternativa alle letture classiche del Neveu: al fine di rimanere nell’alveo di ben più autorevoli indagini, sarà già sufficiente notare come ogni riflessione sulla follia del Neveu, si concluda sempre in una coda di critica sociale e politica.
168 Cfr. Diderot D., Il nipote..., cit., p. 47. Il testo francese recita: (Il n’y a point de meilleur rôle auprès des grands que celui de fou. Longtemps il y a eu le fou du roi en titre [...]. Moi, je suis le fou de Bertin et de beaucoup d’autres( (Diderot D., Oeuvres, texte établi et annoté par Billy A., Gallimard, Paris, 1951, p. 468).
169 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 16. Il testo francese recita: (A votre place, j’irais retrouver mes gens. Vous leur êtes plus nécessaire que vous ne croyez( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 437). Per altro la coscienza di questo vincolo di necessità reciproca folle/potente è già ben chiara nella mente di Rameau. Più avanti nel dialogo arriverà a precisare (che essi non potevano fare a meno di me, che ero un uomo essenziale( (Diderot D., Il nipote..., cit., p. 50). Il testo francese recita: (C’est qu’on ne pouvait se passer de moi, que j’etais un homme essentiel( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 471).
170 Cfr. Diderot D., Il nipote..., cit., p. 18.
171 cfr. ibidem, p. 46-47. Il testo francese recita: (J’ai lu et je lis et relis sans cesse Théophraste, La Bruyère et Molière. [...] Moi, j’y recueille tout ce qu’il faut faire et tout ce qu’il ne faut pas dire( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 467).
172 Quest’arte raffinata della finzione e della simulazione è strategicamente indirizzata a costruire un rapporto d’intimità col potente. Ed è un’arte estremamente pericolosa per lo stolto che vi legge sincerità, spontaneità, naturalezza, ed è lontano dal rendersi conto che sta assistendo ad un’abile rappresentazione. Più volte Rameau insiste su questo tema: non si può incolpare il fol del destino tragico che sovente attende chi si fida di lui. Così come è ingiusto accusare la tigre di aver divorato la mano del giovane e stupido provinciale che si è fidato dell’apparente mansuetudine dell’animale e ha infilato il braccio tra le sbarre della gabbia, allo stesso modo non si può incolpare il fol di aver causato la rovina del suo signore. Tutto ciò inoltre per Rameau fa parte di un disegno più grande, che inquadra l’agire del fol all’interno di una dimensione cosmica: (E dunque che cosa gli è accaduto? Quel che si meritavano. Sono stati puniti della loro imprudenza, e noi siamo coloro che la provvidenza aveva destinato dall’eternità a fare giustizia dei Monsauges e dei Bertin a venire( (Diderot D., Il nipote..., cit., p. 52-53). Il testo francese recita: (Que leur est-il donc arrivé? Ce qu’ils méritaient. Ils ont été punis de leur imprudence, et c’est nous que la Providence avait destinés à faire justice des Monsauges et des Bertins à venir( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 475). Per tornare alle pagine del De Jaucourt, un preciso parallelo del pericolo che l’intimità col fol comporta si poteva ritrovare nelle difficoltà causate da Daudery all’imperatrice Teodora (cfr. più sopra pp. 79-80).
173 Diderot D., Il nipote..., cit., p.14. Il testo francese recita: (Vous savez que je suis un ignorant, un sot, un fou, un impertinent, un paresseux, ce que nos bourguignons appellent un fieffé truand, un escroc, un gourmand( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 435). Proprio in quanto dotato in misura rara di tutte queste cattive qualità, frutto di arte e di natura, Rameau è apprezzato e non dispera di ritrovare per l’indomani vitto e alloggio. E sono le stesse qualità, precisa Rameau, che decretano la fortuna di uomini di successo, come il Palissot, uno dei più aspri avversari degli enciclopedisti. Attraverso dichiarazioni come queste Diderot disegna la propria critica sociale e politica, che è senza dubbio da considerare, già solo per lo spazio che occupa, primo motore dell’intero dialogo. Riconosciuta la centralità della dimensione etico-politica, della meditazione morale, rimane comunque fermo che il seguire le sue linee e le sue meccaniche esulerebbe dagli obiettivi di quest’indagine.
174 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 10, inciso mio. Il testo francese recita: (qu’il aurait donné de temps en temps la pistole à un pauvre diable de bouffon comme moi qui l’aurait fait rire, qui lui aurait procuré dans l’occasion une jeune fille [...]; que nous aurions fait d’excellents repas chez lui, joué gros jeu, bu d’excellents vins, d’excellentes liqueurs, d’excellents cafés, fait des parties de campagne( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 432).
175 Nel tempo in cui viene immaginato il dialogo Rameau si trova in una situazione economica disastrosa, dopo essere stato cacciato dalla casa dove svolgeva il suo ‘ufficio’ di buffone. Ingaggiando l’ennesimo dialogo con se stesso, ricorda ed elenca i benefici materiali che le sue fatiche gli procuravano e con tono di rimprovero li contrappone alle ristrettezze in cui ora è venuto a trovarsi: (Te ne sei andato mordendoti le dita [...]. Eccoti sul marciapiede, senza un quattrino, e adesso non sai dove sbattere la testa. Eri nutrito a volontà [...]; bene alloggiato [...]; ben coricato( (Diderot D., Il nipote..., cit., p. 15). Il testo francese recita: (Vous vous en êtes allé en vous mordant les doigts [...]. Vous voilà sur le pavé, sans le sol, et ne sachant où donner la tête. Vous étiez nourri à bouche que veux-tu [...]; bien logé [...]; bien couché( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 437). Poco oltre, quasi fosse venuto meno quel gusto dell’iperbolico che lo porta ad estremizzare ogni situazione e descrizione, Rameau tranquillizza il suo interlocutore, ridescrivendo la sua attuale condizione in termini decisamente meno tragici: (In casa di quella gente, ho fatto qualche risparmio. Pensate che non avevo bisogno di niente [...] e che mi concedevano un tanto per i miei minuti piaceri( (Diderot D., Il nipote..., cit., p. 20). Il testo francese recita: (Je me suis fait chez ces gens quelque épargne. Songez que je n’avais besoin de rien [...] et que l’on m’ccordait tant pour mes menus plaisirs( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 441).
176 Calzolari ricorda come accurati studi filologici abbiano dimostrato in abbondanza che (tutti i personaggi e le vicende di cui si parla nel Nipote di Rameau sono reali: [...] una tesi abbastanza diffusa in sede critica è quella che fa di Diderot un realista, precursore del naturalismo ottocentesco(. Lo studioso non si allinea su tali posizioni, insistendo piuttosto sul fatto che Diderot (è un filosofo-scrittore ed un’indagine critica su di lui non può prescindere da un’indagine su quella che il pensiero contemporaneo chiama appunto la sua scrittura(. Le linee di ricerca che Calzolari traccia, anche all’ombra delle intuizioni derridiane, investono piuttosto (la complessa questione dei rapporti tra dialogo, dialettica e filosofia in Diderot( (cfr. Calzolari A., Introduzione, cit., pp. XIII-XV).
177 Riguardo l’analisi del Neveu Casini nel suo lungo saggio su Diderot dichiara di voler seguire le linee già indicate da Hegel nella Fenomenologia, precisando come (l’analisi indiretta del Neveu de Rameau che Hegel ha compiuto nella Fenomenologia dello spirito è il commento più illuminante circa il suo senso critico e filosofico(. È all’interno di tale solco interpretativo che egli precisa come (il dialogo del Moi-Diderot (la (coscienza onesta() con il Lui-Rameau (la (coscienza abietta( o (disgregata() è in pari tempo un monologo interiore del philosophe( (cfr. Casini P., Diderot..., cit., pp. 338-341).
178 Portandoci fuori dalle intenzioni di quest’indagine, sarebbe facile notare come l’ispirazione di fondo che la critica, pressoché unanimemente, riconosce nel Neveu, ovvero le volontà di critica sociale e politica, non possono certo venire illuminate nella loro struttura teorica da questo ragguaglio giornalistico, in quanto è proprio questa volontà, questa coscienza sociale e politica, ad aver permesso che l’incontro con il nipote di Rameau avesse quel senso e determinasse quello stupore, quella meraviglia, e non fu certo quell’incontro a formare quella coscienza, che poi tentò di tradursi nella scrittura del dialogo stesso. Inoltre, come ben riconosce Calzolari, Diderot nella figura di Rameau avrebbe voluto sintetizzare e cogliere il caso estremo cui può giungere un’etica materialistica non fondata su principi a priori: (è possibile una virtù che non sia la deliberata mortificazione degli impulsi naturali che impone la morale repressiva [...]? E ancora: come è possibile conciliare il determinismo universale con la libertà di coscienza [...]?(. Tanto Rameau quanto Jacques (il protagonista di Jacques il fatalista) appaiono nella lettura che propone Calzolari (elevati al rango di modelli euristici, per la loro attitudine ad individuare le possibilità dell’ipotesi di lavoro, la fondazione di un’etica materialistica: [...] (Rameau) è un individuo completamente amorale, incarnazione compiuta della radicale soppressione di ogni principio morale a priori(. Rameau e Jacques non appaiono rinchiudibili e semplificabili nel recinto di semplici psicologie individuali: sono modelli euristici, casi eccezionali, cruciali, (come avrebbe detto Bacone, maestro metodologico di Diderot( (cfr. Calzolari A., Introduzione, cit., pp. XV-XVI). Comunque s’intenda la questione, una cosa è certa: posto anche che l’incontro sia solo e del tutto immaginato, il contenuto, la coerenza, il senso e (non ultimo) la bellezza del dialogo, non retrocedono di un millimetro. Allo stesso modo, lo scoprire sul fondo del dialogo un frammento di vita vissuta non vedo come possa aumentarne il valore. Del resto non mi pare che l’intenzione diderotiana sia qui autobiografica, diaristica: ben altra è la carne sul fuoco. L’ipotesi ‘giornalistica’ qui è stata menzionata solo al fine di escluderla, in quanto ipotesi di lavoro assolutamente avara di risultati.
179 Calzolari non porta all’attenzione del lettore nemmeno l’esistenza di tali intermezzi, di tali pause, insistenti e numerose, che interrompono e frantumano la continuità del dialogo (cfr. ibidem, pp. VII-XXIII). Casini, nello spazio di una ben più ampia analisi del Neveu, legge unilateralmente tali intermezzi come i ‘momenti negativi’ della critica e della meditazione morale che ha luogo nel dialogo. (Le immaginarie esibizioni musicali di questo virtuoso di tutti gli strumenti illustrano in concreto l’estraniarsi dell’individualità naturale nella cultura fittizia. [...] Storicamente, Diderot identifica con la sterile intelligenza di Rameau il vaniloquio malevolo dei begli spiriti e dei gazzettieri contemporanei [...]: Doret, Fréron, Palissot( (Casini P., Diderot..., cit., p. 342). È una visione che, per quanto presenti il merito di far rivivere con intelligenza la lettura hegeliana del Neveu, tuttavia dal punto di vista di quest’indagine non può che risultare parziale. L’atteggiamento di Diderot verso questi ‘entusiasmi’ non è solo e semplicemente negativo, né vi è soltanto unilateralmente raffigurato lo sterile e fatuo vaniloquio dei vari Palissot del partito devoto. La scrittura degli intermezzi agli occhi della presente indagine pare molto più complessa.
180 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 37. Il testo francese recita: (J’ai beau me tourmenter pour atteindre au sublime des Petits-Maisons( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 458).
181 Cfr. Diderot D., Il nipote..., cit., p. 64-66. Il testo francese recita: (Tous les pousse-bois avaient quitté leurs échiquiers et s’étaient rassemblés autour de lui. Les fenêtres du café étaient occupées, en dehors, par les passants qui s’étaient arrêtés au bruit. On faisat des éclats de rire à entr’ouvrir le plafond. Lui n’apercevait rien; il continuait, saisi d’une aliénation d’esprit, d’un enthousiasme si voisin de la folie qu’il est incertain qu’il en revienne, s’il ne faudra pas le jeter dans un fiacre et le mener droit aux Petites-Maisons. [...] Que ne lui vis-je pas faire? Il pleurait, il criait, il souspirait; il regardait ou attendri, ou tranquille, ou furieux. [...] Sa tête était tout à fait perdue( (Diderot D., Oeuvres, cit., pp. 485-486).
182 Sull’organicità del capolavoro diderotiano nessuno, credo, ha mai dubitato seriamente. Già la lettura goethiana, che poneva l’accento sui valori espressivi della satira e individuava nell’elemento musicale uno dei nuclei essenziali del dialogo, aveva notato e sottolineato la connessione organica del tutto, accennando alla dissimulata catena d’acciaio che tiene uniti i vari elementi (cfr. Casini P., Diderot..., cit., pp.350-351).
183 Quest’indagine non potrà che limitarsi a prendere in esame, e solo parzialmente, le pagine dell’Encyclopédie, per quanto non ignori che le letture diderotiane sui testi medici siano state ben più approfondite. Proust accenna alle numerose letture e (alle conversazioni che ha avuto con medici e scienziati. [...] Egli era conosciuto come traduttore del Dizionario di medicina di James molto prima di esserlo come enciclopedista( (cfr. Proust J., L’Encyclopédie..., cit., p. 93-95).
184 È la battuta che apre al lettore lo scenario sulla figura di Rameau, (uno dei più bizzarri personaggi di questo paese cui Dio non ne ha certo fatto mancare( (Diderot D., Il nipote..., cit., p. 3). Il testo francese recita: (un des plus bizarres personnages de ce pays où Dieu n’en a pas laissé manquer( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 425).
185 Diderot D., Il nipote..., cit., pp. 3-4. Il testo francese recita: (c’est un composé de hauteur et de bassesse, de bon sens et du déraison. Il faut que les notions de l’honnête et du déshonnête soient bien étrangement brouillées dans sa tête, car il montre ce que la nature lui a donné de bonnes qualités sans ostentation, et ce qu’il en a reçu de mauvaises sans pudeur. Au reste, il est doué d’une organisation forte, d’une chaleur d’immagination singulière, et d’une vigueur de poumons peu commune( (Diderot D., Oeuvres, cit., pp. 425-426).
186 Le descrizioni ‘oggettive’ che hanno per oggetto Rameau e il suo indecifrabile e bizzarro comportamento sono davvero numerose. Più avanti nel dialogo il Moi sembra riprendere con voluta precisione il tema di una follia che risulta dalla composizione di estremi solitamente distanti, e che di rado, se non nel folle, si trovano congiunti, mescolati. (O pazzo, arcipazzo, esclamai, com’è possibile che nella tua testaccia si trovino tante idee giuste mescolate alla rinfusa con tante stravaganze?( (Diderot D., Il nipote..., cit., p. 25). Il testo francese recita: (O fou, archifou, m’écraiai-je, comment se fait-il que dans ta mauvaise tête il se trouve des idées si justes, pêle-mêle, avec tant d’extravagances?( (Diderot D., Oeuvres, cit., p.446).
187 In questo senso Le Neveu de Rameau si viene ad inserire nel solco di quella lunga tradizione di critica e di satira sociale e politica, raccogliendo fra i suoi antenati anche lavori come l’Elogio erasmiano. Non è difficile infatti rinvenire nel dialogo diderotiano accenti tipicamenti erasmiani, là dove ad esempio Rameau, mentre precisa che l’unica forma autentica di felicità consiste nel seguire i vizi che la natura stessa ha infuso in noi, delinea un ritratto della persona devota, ritratto dalle tinte indubbiamente erasmiane: (infatti, perché vediamo che le persone pie sono il più delle volte così dure, così stizzose, così insocievoli? Perché si sono imposte un compito che non è loro naturale; soffrono, e quando si soffre si fa soffrire gli altri( (Diderot D., Il nipote..., cit., p. 35). Il testo francese recita: (car pourquoi voyons-nous si fréquemment les devots si durs, si fâcheux, si insociables? C’est qu’ils se sont imposé una tâche qui ne leur est pas naturelle; ils souffrent, et quand on souffre on fait souffrir les autres( (Diderot D., Oeuvres, cit., p.456).
188 Cfr. Encyclopédie ou Dictionnaire..., cit., vol. 14, pp. 828a-830b. Per la questione relativa alla paternità di questo articolo si rimanda a quanto già detto più sopra, p. 83 nota 133. Il testo francese recita: (une idée précise, une définition bien distincte(. Le traduzioni italiane di quest’articolo presenti nel testo sono mie.
189 Il testo francese recita: (La folie consiste dans une forte égarement de la raison, dans une dépravation de la faculté pensante, dont l’abolition est ce qu’on appelle démence(. Nelle pagine di riflessione medica la metafora dell’égarement viene a sostituire quasi del tutto quella dell’écartement, d’importanza centrale nell’ambito della riflessione morale. L’area semantica della nuova metafora presenta tuttavia notevoli punti di tangenza con quella dell’écartement: égarer significa fuorviare (nel senso di mettre hors du bon chemin), perdere (e dis-perdere), smarrire, sconvolgere.
190 Il testo francese recita: (L’erreur de l’entendement qui juge mal, durant la veille, des choses sur lesquelles tout le monde pense de la même maniere, est le genre de ces trois maladies(. L’inciso nel testo è mio.
191 Cfr. ibidem, vol. 10, pp. 609a-615b. L’articolo è firmato con la sigla ‘d’, sulla quale la tabella che accompagna l’Avertissement non da indicazione alcuna (cfr. anche più sopra p. 83 nota 133).
192 Il testo francese recita: (le délire n’est autre chose que l’égarement, l’erreur de l’esprit durant la veille, qui juge mal des choses connues de tout le monde(.
193 Il testo francese recita: (un jugement sain et naturel(.
194 Diderot D., Il nipote..., cit., pp. 64-65. Il testo francese recita: (Il entassait et brouillait ensemble trente airs italiens, français, tragiques, comiques, de toutes sortes de caractéres. [...] Il rendait les cors et les bassons, [...] il sifflait les petites flûtes, il recoulait les traversières( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 484-485).
195 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 22. Il testo francese recita: (Mais ce qu’il y avait de bizarre, c’est que de temps en temps, il tâtonnait, se reprenait comme s’il eût manqué, et se dépitait de n’avoir plus la pièce dans les doigts( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 443).
196 Il testo francese recita: (que la cause de ce qu’ils sentent n’est pas hors d’eux-même [...]. L’idée qui en résulte est toujours présente à l’esprit, et ne peut être corrigée par aucun raisonnement(.
197 Il testo francese recita: (Tout ce qui passe en nous, qu’on appelle jugement, depend de l’intime faculté de penser, qui compare ses idées: ainsi un homme qui est dans le délire se persuade que les idées qui lui sont représenées à l’occasion de la cause interne qui les excite, sont vraies, parce qu’elles sont aussi vives et lui paroissent semblables à celles qu’excitoient autrefois en lui les objets externes(.
198 Nel testo francese agréables, désagreables, indifferents.
199 Il testo francese recita: (ni les menaces, ni les dangers, ni la raison, ne pouvent retenir les malades qui en sont attaqués [...]. Il les compare à des bêtes sauvages(. L’inciso nel testo è mio.
200 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 22. Il testo francese recita: (les passions se succédaient sur son visage. On y distinguait la tendresse, la colére, le plaisir, la douleur( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 443).
201 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 13. Il testo francese recita: (tu aurais une bonne maison (et il mesurait l’étendue avec ses bras), un bon lit (et il s’y étendait nonchalamment), de bons vins (qu’il goûtait en faisant claquer sa langue contre son palais)( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 434).
202 Il riferimento è agli articoli dedicati alla mélancholie (Encyclopéedie ou Dictionnaire..., cit., vol. 21, pp. 433a-437a), alla manie (ibidem, vol. 20, pp.981a-985b) e alla phrénésie (ibidem, vol. 25, pp.724a-725a). Solo l’articolo sulla manie porta una firma, quella di M. Menuret; gli altri due non risultano né firmati, né siglati in alcun modo (sulla questione generale della paternità degli articoli cfr. più sopra p. 83 nota 133).
203 Il testo francese recita: (roulant sur un ou deux objets déterminées, sans fievre ni fureur(.
204 Il testo francese recita: (les mélancholiques sont ordinairement tristes, pensifs, rêveurs, inquiets, constans dans l’étude et la meditation, patiens du froid et de la faim(. Il corsivo nel testo è mio.
205 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 65. Il testo francese recita: (lui n’apercevait rien [...] Il faisait une chaleur à périr; et la sueur qui suivait le plis de son front et la longueur de ses joues, se mêlait à la poudre de ses cheveux, ruisselait et sillonait le haut de son habit( (Diderot D., Oeuvres, cit., pp.485-486).
206 Il testo francese recita: (lorsque la manie est déclarée [...] ils ne sont plus sensibles à la faim, à la soif, au besoin de dormir(.
207 Il testo francese recita: (ils changent de propos à chaque instant, parlent à bâtons rompus, oublient ce qu’ils viennent de dire et le répetent sans cesse(.
208 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 67. Il testo francese recita: (la foule qui nous environnait, ou n’entendait rien, ou prenant peu d’intérêt à ce qu’il disait, parce qu’en général l’enfant comme l’homme, et l’homme comme l’enfant, aime mieux s’amuser que s’instruire, s’était retirée( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 488).
209 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 65. Il testo francese recita: (admirais-je? Oui, j’admirais! Étais-je touché de pitié? J’etais touché de pitié; mais une teinte de ridicule était fondue dans ces sentiments et les dénaturait( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 485).
210 L’articolo cui si fa riferimento è intitolato Pyrrhonienne ou Sceptique, voce compilata da Diderot. Ho seguito in questo caso la traduzione di Paolo Casini in Enciclopedia o Dizionario ragionato..., cit., p. 809). Quest’indagine ha già in precedenza rilevato come la follia, nel suo abito melanconico e delirante, abbia giocato un ruolo importante nella genesi storica e psicologica degli Essais (cfr. più sopra pp. 72-74).
211 Ibidem, p. 809.
212 Ibidem, p. 809.
213 Questa distinzione fra un soggetto e un osservatore esterno non necessariamente rimanda a una distinzione tra due persone fisiche: è una questione di ‘punti di vista’, non degli eventuali soggetti che li occupano. Nulla vieta, almeno di diritto, che i resoconti, i relitti di un mio precedente pensiero, di una mia precedente scrittura,vengano ora studiati da me, da un ‘me stesso’ ormai mutato e che non riesce più ad intenderli nelle loro connessioni, nei loro rimandi. Quei vecchi pensieri, un tempo ben chiari e fondati nella mia mente, presentandosi ora all’insegna del disorganico, del frammentario, del caotico, dell’incomprensibile, assumono di fatto il carattere di elementi deliranti. Del resto non è nemmeno necessario che si ipotizzi una certa distanza temporale affinché uno stesso soggetto possa scorrere da un punto di vista all’altro. Quando scrivo, non diversamente da quando sogno, solo in piccola misura vedo l’intelaiatura alla quale i miei pensieri sono sospesi e, nella misura in cui non la vedo, nella stessa misura questi miei pensieri sono ‘frammenti’, voci sconnesse, i cui rimandi profondi io ignoro.
214 Meglio sarebbe dire: la definizione di una ‘parte dell’insieme’ come ‘frammento’.
215 Ed è un vizio di principio insuperabile. Così come non si può essere nel cervello di Rameau (e certamente in questo luogo i suoi deliri non parrebbero più tali), allo stesso modo non possiamo conoscere nella sua interezza la struttura (psicologica, letteraria, linguistica, storica, sociale...) da cui ogni scrittura emerge. Si tratta di una impossibilità che si può indubbiamente correggere, che presenta vari gradi, ma che in ogni caso non è possibile azzerare. Senza porre quesito alcuno sugli altri numerosi livelli e piani in cui abita ogni oggetto-scritto, è già sufficiente chiedersi se sia mai impresa possibile sondare con efficacia e interezza la sola struttura linguistica, già essa poi ‘struttura di strutture’. La risposta, ovviamente, è che non è possibile.
216 Ibidem, p. 809.
217 Ibidem, p. 809.
218 Ibidem, p. 809.
219 Per questa ultima sezione dell’analisi sui testi diderotiani non faccio che seguire, praticamente per intero, la mirabile ed acuta sintesi che Casini ci offre nel suo saggio (cfr. Casini P., Diderot..., cit., pp.262-276). Per altro le linee interpretative tracciate dallo studioso sono state piegate e agganciate al reticolo generale di un’indagine teoretica sulla struttura e gli spazi della follia che è altra cosa rispetto alle ricerche dello studioso italiano, il quale indirizza specificamente la sua attenzione al significato storico, letterario e speculativo dell’intera opera diderotiana (cfr. più sopra p. 99 nota 162).
220 In questa sede, naturalmente, si può solo accennare alle numerose e vaste problematiche sulle quali si discute nell’Entretien. Per riprendere l’elenco che ne offre Casini: (monismo metafisico, sensibilità immanente nella materia, relazione genetica tra l’organico e l’inorganico, origine della vita, rapporto tra vita e autocoscienza(. Nel Rêve viene a confluire, assimilata in una sintesi innovatrice, gran parte della cultura cosmologica e biologica del XVIII secolo: (la genesi del cosmo dal caos, la generazione spontanea e il trasformismo, la corrispondenza del microcosmo e del macrocosmo, le vicissitudini del tutto in movimento( (cfr. ibidem, pp. 266-268). Nel paragrafo immediatamente successivo Casini parlerà con maggiore ampiezza di questi motivi (cfr. ibidem, pp.276-290).
221 Ibidem, p. 269.
222 Ibidem, p. 269.
223 Questa equazione ‘irrazionale = pre-logico = follia’ non si ritrova in Casini. Piuttosto è la ripresa e la sintesi fedele della definizione di ‘follia’ che si rinviene nell’Encyclopédie, secondo la quale la follia è un’allontanamento dalla ragione.
224 Ibidem, p. 269.
225 Ibidem, p. 270.
226 Ibidem, p. 270. Casini riporta lo stralcio di una lettera del 20 ottobre 1760 inviata da Diderot a Sophie Volland, nella quale ritornano con chiarezza i motivi di fondo già esposti nell’articolo sullo scetticismo che Diderot stesso aveva curato per l’Encyclopédie. Il sogno, il delirio e la conversazione in società appaiono equiparabili proprio in quanto frammentari, sconnessi. Si tratta ovviamente, per Diderot, di una sconnessione, di una frammentarietà, del tutto e unicamente apparenti: (come non vi è niente di sconnesso né nella testa di un uomo che sogna, né in quella di un folle, allo stesso modo tutto è connesso nella conversazione; ma qualche volta sarà alquanto difficile ritrovare i legami impercettibili che hanno tenuto insieme così tante idee disparate... La follia, il sogno, la frammentarietà della conversazione consistono nel passare da un oggetto all’altro grazie all’intervento di una qualità comune(. Casini riporta l’originale francese: (comme il n’y a rien de décousu ni dans la tête d’un homme qui rêve, ni dans celle d’un fou, tout se tient aussi dans la conversation; mais il seroit quelquefois bien difficile de retrouver les chaînons imperceptibles qui ont attiré tant d’idées disparates... La folie, le rêve, le décousu de la conversation consistent a passer d’un objet à l’autre par l’entremise d’une qualité commune( (cfr. ibidem, pp. 270-271, la traduzione nel testo è mia).
227 Ibidem, p. 270. Fin dal ’45, sollecitato anche dalla traduzione dello Shaftesbury, Diderot aveva formulato nell’Essai sur le mérite il principio sistematico dell’unità e totalità della natura. (Unità della natura e unità del sapere: sulla via segnata dai pensatori del Rinascimento, programma massimo della ragione umana è ricostruire induttivamente il tessuto universale della realtà, (retrouver le portefeuille du grand Architecte((. Questo ambizioso programma necessitava da un lato di tutto un complesso di tecniche e strumenti gnoseologici in vista di una considerazione analitica del reale; dall’altro lato doveva nutrirsi dell’(uso di un diretto e libero processo intuitivo, mediante il quale l’individuo umano afferra il divenire cosmico di cui è parte( (cfr. ibidem, pp. 99-102).
228 Ibidem, p. 273, inciso mio.
229 La particolare lettura offerta da Foucault della Prima Meditazione sarà destinata ad innescare un lungo dibattito. I fatti sono noti. Nel 1961 Foucault pubblica la sua Histoire de la folie. Derrida gli risponderà due anni più tardi con una critica vasta, minuziosa, ostinata: in Cogito et histoire de la folie (conferenza pronunciata il 4 marzo 1963 al Collège philosophique, pubblicata in (Revue de Métaphysique et de Morale(, 1963, n. 3 e 4, attualmente contenuta in L’écriture et la différence, Editions du Seuil, 1967, pp. 51-97; trad. it. di G. Pozzi, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, introd. di G. Vattimo, Einaudi, Torino, 1990, pp. 39-80) dopo aver presentato alcune interrogazioni di fondo – di fondo, in quanto sollecitano il testo foucaultiano dalle fondamenta –, discute nel dettaglio la lettura che Foucault nel ’61 presentava della Prima Meditazione cartesiana. Invalidata l’interpretazione foucaultiana, propone la propria. Foucault replicherà nel ’72 con Mon corps, ce papier, ce feu (pubblicato come appendice alla seconda edizione della sua Histoire) in cui riprende in esame la pagina cartesiana, con maggior spazio e impegno, e facendo anche a suo modo tesoro della critica derridiana. Derrida interverrà ancora una volta nel ’91, nel corso di un convegno su Foucault [successivamente pubblicato in (Être juste avec Freud(. L’Histoire de la folie à l’âge de la psychanalyse, in Penser la folie. Essais sur Michel Foucault, a cura di E. Roudinesco, Éditions Galilée, Paris, 1992 (interventi e contributi di E. Roudinesco, G. Canguilhem, J. Postel, F. Bing, A. Farge, C. Quétel, A. Pirella, R. Major, J. Derrida), pp. 139-195; trad. it. di G. Scibilia, (Essere giusti con Freud(. Storia della follia nell’età della psicoanalisi, introd. di P.A. Rovatti, Cortina, Milano, 1994].
Nel corso di questa indagine si avrà modo di ritornare ancora, e con ben maggiore ampiezza, sui contenuti di questa discussione. Si tenga presente, a conferma dell’importanza fondamentale di questo dibattito, che anche un tentativo recente di pensare filosoficamente la follia, compiuto da intellettuali italiani nel ’98, continua a fare costante riferimento ad esso, assumendolo quale piattaforma di partenza della propria pratica teorica sulla follia. Mi riferisco al fascicolo monografico Pensare la follia, (Aut Aut(, cit.
230 L’espressione su cui s’insiste nel testo, passaggio, potrebbe indurre a una falsa lettura sulla natura di questo (movimento d’inserzione della follia nel cerchio divorante della Ragione(. Ogni passaggio, è vero, ordina in modo diverso e specifico il rapporto follia-ragione, prendendo e misurando nel contempo le distanze rispetto a ciò che veniva realizzato nel momento, nel passaggio, precedente. Tuttavia il nuovo momento, la nuova struttura d’esperienza che emerge, non giunge a cancellare ciò che sta alle sue spalle. Non credo si possa nemmeno far riferimento, per la comprensione di questo processo, alla terminologia propria alla dialettica hegeliana dell’Aufhebung, per cui ogni momento prende il posto di quello che lo precede, attraverso un movimento di negazione mai assoluto, ma sempre relativo. In questo modo il momento che viene negato, la forma spirituale che viene soppiantata, viene comunque mantenuta, conservata. Applicando il ‘modello dialettico’ alla presente indagine ne emergerebbe un risultato assolutamente inaccettabile, dal momento che la coscienza critico-analitica, punto di estrema sintesi dell’intero processo (secondo un’intelligenza hegeliana), risulterebbe l’inveramento della coscienza cosmico-tragica, il suo divenir-vero. Si può concordare sul fatto che nessuna forma di coscienza possa mai essere del tutto cancellata, ma occorre insistere con la medesima intensità anche sul fatto che essa mantiene sempre e comunque la propria specificità irriducibile. La coscienza cosmico-tragica è stata via via soppiantata, sempre più messa in ombra dall’agire della coscienza critica, ma là dove essa riesce ancora faticosamente a riemergere (si) pone decisamente in un luogo altro rispetto a quello della coscienza critica, utilizzando parimente una strumentazione assolutamente altra. Ancora, in questo luogo altro Foucault colloca la riflessione nietzschiana e la (grande ricerca di Artaud(: (La critica nietzschiana [...] e la grande ricerca che Artaud, dopo Nerval, condusse spietatamente su se stesso, testimoniano sufficientemente che tutte le altre forme di coscienza della follia sopravvivono ancora nel cuore della nostra cultura. Il fatto che esse possano solo assumere una formulazione lirica non prova il loro deperimento, [...] ma piuttosto che, pure relegate nell’ombra, trovano vita nelle forme più libere e originali del linguaggio( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 233, corsivo mio). Il testo francese recita: (La critique nietzschéenne [...] et la grande recherche qu’Artaud, après Nerval, exerça impitoyablement sur lui-même, tèmoignet assez que toutes les autres formes de conscience de la folie vivent encore au coeur de notre culture. Qu’elles ne puissent plus guère recevoir de formulation que lyrique, ne prouve pas qu’elles dépérissent, [...] mais que maintenues dans l’ombre, elles se vivifient dans les formes les plus libres et les plus originaires du langage( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 223, corsivo mio).
Di questi tre passaggi la presente indagine si è già occupata (cfr. più sopra pp. 54-58).
231 Cfr. Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 47-52. Il testo francese recita: (La folie n’a plus d’existence absolue dans la nuit du monde: elle n’existe que par une relativité à la raison( (Foucault M., Histoire..., cit., p. 52).
232 Cfr. Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 52-55.
233 Foucault, dopo aver offerto la citazione pascaliana, precisa come in tale riflessione (è raccolto e ripreso tutto il lungo lavoro che comincia con Erasmo: scoperta di una follia immanente alla ragione; in seguito sdoppiamento: da una parte, una (folle follia( che rifiuta la follia caratteristica della ragione, e che, rifiutandola, la raddoppia: e in questo raddoppiamento cade nella più semplice, nella più chiusa, nella più immediata delle follie; dall’altra parte, una (saggia follia( che accoglie la follia della ragione, l’ascolta, riconosce i suoi diritti di cittadinanza, e si lascia penetrare dalle sue forze vive( (Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 55-56). Il testo francese recita: (Réflexion en laquelle se recueille et se reprend tout le long travail qui commence avec Érasme: découverte d’une folie immanente à la raison; puis à partir de là, dédoublement: d’une part, une (folle folie( qui refuse cette folie propre à la raison, et qui, la rejetant, la redouble, et dans ce redoublement tombe dans la plus simple, la plus close, la plus immédiate des folies; d’autre part une (sage folie( qui accueille la folie de la raison, l’écoute, reconnâit ses droits de cité, et se laisse pénétrer par ses forces vives( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 56).
234 Anche qui il punto di partenza dell’indagine è sempre rappresentato dalla pagina foucaultiana. Dopo aver delineato nelle pagine d’apertura all’Histoire lo scenario rinascimentale animato dalla compresenza di coscienza cosmico-tragica e coscienza critico-ironica, nelle pagine centrali dello stesso lavoro, in particolare nel capitolo introduttivo alla seconda parte, egli discute con maggior ampiezza le varie forme di coscienza critica.
235 È proprio l’assenza di un punto fermo ad innescare il movimento di reversibilità. Succede la stessa cosa a coloro che si allontanano dal porto e che vedono muoversi la terra e non la loro imbarcazione (cfr. Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 227). Il testo francese parla di (présence secrète, stratagème de la folie elle-même( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 216).
236 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 227. Nel testo francese: (critique radicale de soi, et jusqu’à se risquer dans l’absolu d’un combat douteux( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 217).
237 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 227. Nel testo francese: (en se reconnaissant comme raison dans le seul fait d’accepter le risque( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 217).
238 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 227, corsivo mio. Il testo francese recita: (Conscience critique qui feint de pousser la rigueur jusqu’à se faire critique radicale de soi, et jusqu’à se risquer dans l’absolu d’un combat douteux, mais qui s’en préserve secrètement à l’avance, en se reconnaissant comme raison dans le seul fait d’accepter le risque. En un sens l’engagement de la raison est total dans cette opposition simple et réversible à la folie, mais il n’est total qu’à partir d’une secrète possibilité d’un entier dégagement( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 217, corsivo mio).
239 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 228. Nel testo francese si parla de (l’homogénéité du groupe considéré comme porteur des normes de la raison( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 218).
240 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 228. Nel testo francese: (cette conscience pratique de la folie n’en est pas moins dramatique; si elle implique la solidarité du groupe, elle indique également l’urgence d’un partage( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 218).
241 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 228. Nel testo francese: (il ne reste que la tranquille certitude qu’il faut réduire la folie au silence( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 218).
242 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 228. Nel testo francese: (elle se donne à chaque instant comme une réaction immédiate de défense( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 218).
243 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 228, inciso mio. Nel testo francese: (contre l’ordre, contre ce que la raison peut manifester d’elle même dans les lois des choses et des hommes, elle révèle d’étranges puissance( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 218).
244 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 229. Nel testo francese: (ne passant pas par le savoir, elle évite même les inquiétudes du diagnostic( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 219).
245 Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 228-229. Nel testo francese: ((Celui-là est un fou(. [...] Il y a là, devant le regard, quelqu’un qui est irrécusablement fou, quelqu’un qui est évidemment fou( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 219).
246 Foucault è lapidario: (essa non è coscienza della follia che su un fondo di coscienza di non essere follia. [...] Il suo rifiuto di qualificare la follia suppone sempre una certa coscienza qualitativa di se stessa come non-follia( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 229). Il testo francese recita: (Elle n’est conscience de folie que sur le fond de conscience de n’être pas folie. [...] Son refus de qualifier la folie suppose toujours une certaine conscience qualitative de soi-même comme n’étant pas folie( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 219).
247 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 230. Nel testo francese: (la folie n’y est plus que la totalité au moins virtuelle de ses phénomènes( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 220).
248 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 233. Nel testo francese: (la vérité totale et finale de la folie( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 223).
249 È con questa immagine che Foucault viene ad aprire l’Introduzione alla seconda parte della sua Histoire. (La coscienza della follia, almeno nella cultura europea, non è mai stata un fatto massiccio, [...] un insieme omogeneo. Per la coscienza occidentale la follia sorge simultaneamente in vari punti, formando una costellazione( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 225, corsivo mio). Nel testo francese: (la conscience de la folie, au moins dans la culture européenne, n’a jamais été un fait massif, [...] un ensemble homogène. Pour la conscience occidentale, la folie surgit simultanément en des points multiples, formant une constellation( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 215).
250 Qui si vuole intendere il termine episteme nel significato che gli è stato dato da Foucault in Les mots et le choses, quale griglia concettuale, inconscia e anonima, che è alla base, a fondamento, di tutta la molteplicità di saperi che caratterizza una determinata epoca. L’archeologia foucaultiana si sforza di portare ad emersione tali infrastrutture mentali, vale a dire (il campo epistemico(, l’episteme in (per) cui si muovono le conoscenze.
251 Riguardo a tali temi la presente indagine ha già operato un preliminare avviccinamento (cfr. più sopra pp. 36-37).
252 Foucault non parla mai esplicitamente di surdeterminazione, di condensazione e spostamento, termini a cui approda la ricerca freudiana sul linguaggio onirico. Affermare che il segno in e attraverso il quale la follia si manifesta è surdeterminato (o, come afferma Foucault, (sovraccarico di attributi, di indizi, di allusioni() è maniera sintetica di intendere il segno come prodotto da un complesso e profondo processo di condensazione e di spostamento, processo, che nel suo snodarsi e nel suo riempirsi di contenuti, non è mai del tutto ripercorribile consapevolmente, mai del tutto risolvibile in dimensione esplicita (Freud stesso, nel sesto capitolo della Traumdeitung, insiste sul fatto che lo scavo analitico non è in grado di operare una lettura esaustiva del contenuto del sogno, per la semplice ragione che la (quota di condensazione( non risulta determinabile). Il testo foucaultiano stesso, senza rinviare alla terminologia freudiana, avalla la possibilità di un parallelo tra il linguaggio della follia e quello del sogno: (ma il sogno, l’insensato, l’irragionevole possono insinuarsi in questo eccesso di significato. Le figure simboliche si tramutano facilmente in profili d’incubo(; (Questa saggezza simbolica è prigioniera delle follie del sogno( (cfr. Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 34-36, corsivo mio).
253 Anche queste coordinate tipiche della ragione metafisica vengono a perdere ogni senso. Mentre la coscienza critico-analitica non fa che approfondire nel suo agire il dogma della sua totale esternità rispetto all’oggetto di cui è coscienza, nel topos proprio dell’esperienza cosmico-tragica tale dogma non trova più posto. Lo stesso movimento di quest’esperienza si realizza in un annullamento di ciò che è interno e di ciò che è esterno, i quali hanno ragion d’essere solo in riferimento a un soggetto, che rappresenta il ‘punto fermo’ da cui operare e legittimare la de-finizione di ciò che è interno e di ciò che è esterno.
254 I divini doni della pazzia è il titolo che apre il terzo capitolo del suo famosissimo saggio, I greci e l’irrazionale, trad. it. di Vacca de Bosis V., La Nuova Italia, Firenze, 1959. È questa una ‘svolta’ a prima vista alquanto singolare. La stranezza non risiede nel fatto che il testo foucaultiano non la solleciti: la riflessione del filosofo francese per quanto riguarda l’esperienza cosmico-tragica insiste nel periodo rinascimentale, ma non afferma mai, in nessun luogo, che essa sia frutto esclusivo dell’episteme rinascimentale. Anzi, essa viene riconosciuta come prolungantesi ben oltre tale epoca, sino a giungere a Nietsche, ad Artaud. Non riesco dunque a vedere nulla di men che legittimo nell’estendere la ricerca anche al di qua del mondo rinascimentale, nell’intento di rintracciare le medesime presenze e, in questo modo, chiarirle ulteriormente. Più strano è forse il fatto che per tale ‘svolta’ non ci si affidi a un filosofo, ma piuttosto a uno storico: qui nascono le difficoltà. Le pagine che il Dodds dedica alla follia a più riprese rivelano nel loro sottofondo un modo di considerare la storia di stampo decisamente hegeliano, e questo senza che l’autore se ne avveda sino in fondo. Una delle sue preoccupazioni, dichiarate, è chiedersi: (fino a che punto gli stati mentali che Platone chiama furore (profetico( e (rituale( possono ritenersi identici a stati conosciuti dalla psicologia e dall’antropologia del nostro tempo? ( (ibidem, p. 76). Implicito è il presupposto, agli antipodi di quelli che sorreggono quest’indagine, che il modo moderno di pensare la follia, in particolare nelle sue declinazioni medico-patologiche, sia lo sviluppo, il divenir-vero del modo arcaico di pensare la stessa. S’impone così automaticamente la ricerca del futuro nel passato, un passato che dunque già contiene il futuro, come sua meta, come suo destino: le forme arcaiche di pensare la follia, maturate nel contesto cosmico-tragico, divengono così le immagine archetipiche degli oggetti con cui dialogherà la scienza medica odierna, frutto maturo della coscienza critico-analitica. Tale convincimento guida dal profondo la ricognizione del Dodds, profondità che rimane, nelle sue pagine, sempre cieca, mai problematizzata.
In questo consiste la singolarità della ‘svolta’: rendere indipendenti i risultati della sua indagine da questa filosofia della storia di confusa ascendenza hegeliana; utilizzare questi risultati per marcare ulteriormente l’irriducibilità, l’incompatibilità tra esperienza cosmico-tragica ed esperienza critico-analitica.
255 Fedro, 244a. La traduzione proposta è di Martini E., contenuta in Platone, Tutte le opere, a cura di Pugliese Caratelli G., Sansoni, Firenze, 1974, p. 477.
256 Sulla lezione di Erodoto ed Empedocle cfr. Dodds E.R., I greci..., cit., p. 77.
257 Nel tentativo di chiarire come tale credenza sia potuta sorgere e su quali basi noi, oggi, in assenza di documentazione scritta, possiamo legittimamente delineare l’ipotesi di questa credenza, il Dodds argomenta: (Mi sembra che essa sia stata originata e convalidata dalle affermazioni dei malati stessi. Oggi uno dei sintomi più comuni della sindrome paranoide è la convinzione del malato di essere in relazione (o addirittura di identificarsi con esseri o forze soprannaturali, e possiamo ritenere che lo stesso avvenisse nell’antichità(. Poco oltre, dopo aver precisato che l’idea della possessione non si trova esplicitamente in Omero, leggendo tra le righe del testo omerico, riesce comunque a concludere che (si può dire con una certa sicurezza che l’origine soprannaturale delle malattie mentali fosse un luogo comune del pensiero popolare al tempo di Omero, e probabilmente molto prima, quantunque i poeti epici non si interessassero troppo all’idea e non volessero pronunciarsi sulla sua verità( (cfr. ibidem, pp. 77-81).
258 Come certifica appunto il teatro di Aristofane (cfr. ibidem, p.82, in part. nota 1 e 2).
259 Questa la tradizione di pensiero che Platone raccoglie nel Timeo quando (ricorda la malattia fra le condizioni che favoriscono il manifestarsi di poteri soprannaturali(. Il luogo platonico in questione, riportato da Dodds, è Timeo, 71e (cfr. ibidem, p. 83).
260 Fedro, 244a, trad. it. Martini E., cit., p. 477. Poco oltre Socrate evocherà all’interno di questo scenario anche la figura della Sibilla. Tuttavia non si deve ritenere che questa particolare espressione del furore, non essendo collettiva, fosse prerogativa di pochissimi, o che si esprimesse solo ufficialmente, attraverso figure ufficiali. Il Dodds ci tiene a precisarlo: (La possessione profetica non era limitata agli organi ufficiali. [...] Platone spesso allude ai profeti ispirati come a figure familiari nel mondo contemporaneo. In particolare nell’età classica [...] una sorta di medianità privata venne praticata da parte di persone chiamate (ventriloqui( e più tardi (pitoni(( (cfr. Dodds E.R., I greci..., pp. 89-90).
261 Ibidem, p. 88, inciso mio.
262 Ibidem, p. 88. Questa spiegazione dei poteri della Pizia, in quanto risultanti dall’esercizio di una facoltà innata, piuttosto che dall’intervento diretto del divino (compare soltanto come teoria dotta, dovuta alla riflessione filosofica e teologica; non si può dubitare che le doti della Pizia fossero originariamente attribuite alla possessione, e che questa rimanesse l’opinione corrente durante tutta l’antichità, tant’è vero che neppure i Padri della Chiesa ebbero occasione di metterla in dubbio( (ibidem, pp. 88-89). Certo è comunque il fatto, qualunque origine si scelga per il furor, umana o divina, che il cerchio dei fenomeni in cui si realizza rimane il medesimo: fuoriuscita da sé, scomparsa dell’io, estasi.
263 Ibidem, p. 101, inciso mio.
264 Il Dodds chiarisce bene il contenuto e i motivi di questa liberazione promossa dal culto dionisiaco. La ragione profonda della sua vasta popolarità in età arcaica non dev’essere ricercata tanto nel fatto che (allora la vita era tale che spesso si doveva desiderare l’evasione, ma più specificamente perchè l’individuo, così come lo intendiamo al giorno d’oggi, incominciò per la prima volta in quell’età a svincolarsi dai legami dell’antica solidarietà familiare, e si sentì oppresso dall’inconsueto fardello della responsabilità personale( (cfr. ibidem, pp.102-103). Il fatto che l’estasi dionisiaca non si realizzi tanto in solitudine quanto piuttosto nella dimensione della massa, suggerisce un’interessante parallelo con quanto scrive Elias Canetti (Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981) sull’evento costitutivo della massa, quell’evento cardine della scarica attraverso il quale una pluralità d’individui divengono finalmente massa. D’Alessandro, nel riprendere la tesi di Canetti, precisava come (nella densità della massa [...] tutto quello che viene affermato a vantaggio e a sostegno del singolo è negato: (lo stesso uomo singolo ha la sensazione di oltrepassare nella massa i confini della propria persona. Egli prova sollievo(. L’atto stesso di costituzione della massa e il suo tipico movimento giungono a trovare il proprio fondamento in questo evento di espropriazione e estraneazione dell’individuo da se stesso (cfr. D’Alessandro P., Il gioco inconscio della storia, Franco Angeli, Milano, 1988, pp. 113-115).
265 Le Muse, figlie della Memoria, comunicano al poeta l’accadere di battaglie importanti, le gesta degli eroi. (Una volta, nell’invocazione più complessa ed elaborata, egli (il poeta omerico) chiede che gli sia comunicato per ispirazione il Catalogo delle truppe (giacché voi siete dee, presenti dovunque, e tutto sapete, mentre noi non udiamo che la fama e niente sappiamo(( (cfr. Dodds E.R., I greci..., cit., p. 113, inciso mio).
266 La capacità di parlare secondo verità discende dunque dalle Muse, è uno dei loro doni. Il Dodds, parlando a proposito della passione di Esiodo per i nomi delle divinità, osserva che (quando ne pensava uno nuovo, non lo considerava inventato da lui in quel momento(. E nel fare questo (Esiodo interpretava, secondo un tradizionale schema di credenze, un’impressione condivisa da molti scrittori posteriori, che cioè il pensiero creativo non è opera dell’io(. Su questa scia Dodds pone l’affermazione di Goethe, (I canti hanno fatto me, no io i canti(, di Lamartine, (Non sono io che penso, sono le mie idee a pensare per me(. Naturalmente l’impianto stesso del discorso del Dodds, riluttante ad approfondimenti filosofici, non riesce a scorgere la portata filosofica del suo stesso detto: il fatto che l’estasi si trovi profondamente innestata nel processo del pensiero, anche di quello filosofico e scientifico, che ritiene di dover localizzare se stesso in un luogo assolutamente altro rispetto a quello dell’estasi. Ora, il riconoscimento del fatto che l’io (la coscienza, il pensiero cosciente) non eserciti un ruolo centrale nella gestione e nel movimento di produzione delle conoscenze, ben lungi dall’essere una semplice sopravvivenza di una convinzione arcaica, di origine magico religiosa, costituisce piuttosto uno dei punti d’arrivo della speculazione filosofica contemporanea. La lettura althusseriana del testo marxiano porterà in luce come l’autore della ricerca scientifica non è una ‘persona’, un ‘io’, ma il luogo che vede la maturazione di determinati processi. Del resto, motivi analoghi sono facilmente rintracciabili anche altrove. Si pensi all’affermazione di Schopenhauer (Parerga e Paralipomena): (I pensieri non vengono quando noi vogliamo, bensì quando loro vogliono(; alla convinzione cui approdava il Nietzsche di Al di là del bene e del male: (un pensiero viene quando è ‘lui’ a volerlo, e non quando ‘io’ lo voglio [...]. Esso pensa(. La rete dei riferimenti può essere estesa agevolmente anche ad Heidegger, il cui Brief über den ‘Humanismus’ ruota interamente intorno all’idea centrale che è l’essere (soggetto) a determinare e sostenere l’in-essere dell’uomo (oggetto).
Per la funzione esercitata dal soggetto nel processo di produzione del pensiero si leggano di Paolo D’alessandro le pagine dedicate al Processo senza soggetto in Darstellung e soggettività, La Nuova Italia, Firenze, 1980, pp. 169-219; un’ulteriore approfondimento anche in Id., Il gioco..., cit., pp. 127-163.
267 Mi pare interessante come Dodds concluda questo rilievo su Democrito, scopritore del fondamento estatico della poesia: (Come hanno rilevato studiosi recenti, spetta a Democrito, piuttosto che a Platone, il dubbio onore di aver introdotto nella teorica letteraria l’idea del poeta separato dall’umanità comune in seguito a straordinarie esperienze interiori, nonché l’idea della poesia come rivelazione estranea e superiore alla ragione. In realtà Platone mantenne verso questo concetto un atteggiamento spiccatamente critico( (Dodds E.R., I greci…, cit., p. 117).
268 Per l’Enciclopedista la follia, in tutte le sue varie forme risulta riducibile a un écartement dalla ragione (cfr. più sopra pp. 84-86).
269 Si potrebbe pensare a una manifestazione del divino nell’uomo, nel soggetto umano, ma così non è, se è vero che l’entusiasmo è insieme liberazione dai confini del corpo, messa in parentesi della potenza inibitoria della ragione.
270 Questo linguaggio non comunicante mi pare possa trovare le sue immagini archetipiche nella figura dell’indemoniato di Gerasa, di cui parla il Vangelo di Marco, nella sua voce a più voci (cfr. più sopra pp. 19-24).
271 L’intera discussione, che in questa sede è possibile solo ripercorrere per sommi capi e nella misura in cui serve allo scopo dell’indagine in corso, si trova in D’Alessandro P., Il gioco..., cit., 103-109.
272 Teeteto, 155d, trad. it. Martini E., cit., p.182.
273 D’Alessandro P., Il gioco..., cit., p. 105.
274 Ibidem, p. 104. In questo modo, ritengo, diviene possibile intendere l’esperienza di pensiero come esperienza cosmico-tragica, centrate entrambe non sull’Io, sulla coscienza, sul soggetto, ma piuttosto sull’estasi, sulla fascinazione, sull’entusiasmo.
275 Ibidem, p. 106. L’intera meditazione di D’Alessandro ruota sul parallelo thaumázein-mania poetica. Quest’indagine ha voluto estendere il parallelo all’intero universo del furor, nella convinzione, maturata nella lettura del testo di Dodds, che la messa in parentesi dell’Io, della coscienza, del soggetto, sia cosa comune, essenziale a tutti i divini doni.
276 Ibidem, p. 105.
277 Ibidem, p. 107.
278 Così, solo (molto impropriamente( si potrebbe parlare (di una sorta di passività che caratterizza lo status dello stupore. [...] (Molto impropriamente(, perché il concetto di passività, proprio perché antitetico rispetto a quello di attività, è a esso relativo: l’uno nasce, cioè, solo quando e perché acquista senso e rilievo l’altro. Ora, se è vero che l’attività è legata al soggetto e che nel thaumázein soggetto e attività non sono ancora in gioco, è anche vero, data l’interconnessione e il reciproco rinviarsi di attività e di passività, che non si può nemmeno parlare propriamente di passività( (cfr. ibidem, pp. 106-107, in part. nota 104).
279 Ibidem, p. 101, inciso mio. In queste stesse pagine l’autore, sempre leggendo il testo heideggeriano, arriva a sottolinare come il provar-stupore (thaumázein) possa essere considerato, (al pari dell’angoscia, ‘dis-posizione fondamentale’( e, in quanto tale dunque (all’origine di ogni altra dis-posizione in cui l’esserci viene a trovarsi di fronte all’ente( (cfr. ibidem, pp. 99-103).
280 Nella Lettera sull’(Umanismo( Heidegger osservava: ((Soggetto( e (Oggetto( sono infatti denominazioni improprie della metafisica (improprie in quanto inadeguate al pensiero che intende prendersi cura dell’essere), la quale fin dall’inizio si è impossessata dell’interpretazione del linguaggio nella forma della (logica( e della (grammatica( occidentali. Che cosa si celi in questo accadimento, oggi lo possiamo soltanto sospettare(. L’apertura del pensiero all’essere piuttosto che all’ente è in uno con un linguaggio liberato dalle coordinate logiche e grammaticali: (la liberazione del linguaggio dalla grammatica per inserirlo in una struttura essenziale più originaria tocca al pensare e al poetare(, alla pietas del pensiero poetante (Heidegger M., Lettera sull’(Umanismo(, trad. it. Volpi F., Adelphi, Milano, 1995, p. 32, inciso mio).
281 Un’interessante rilettura dell’opera schopenhaueriana al di fuori delle tradizionali coordinate offerte dalla critica manualistica è quella offerta da Giuseppe Riconda nel suo Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, Milano 1969. Una rapida sintesi della questione si può trovare anche nel saggio di D’Alessandro, che ha il merito di sottolineare l’importanza che riveste il trentaseiesimo capitolo del terzo libro del Mondo all’interno di una riflessione generale sulla follia (cfr. D’Alessandro P., Il gioco..., cit., pp. 127-162).
282 Schopenhauer A., Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di N. Palanga, introd. di G. Riconda, Mursia, Milano, 1969, p. 216. Nel testo tedesco, più sinteticamente: ( also nicht mehr das Wo, das Wann, das Warum und das Wozu an den Dingen betrachtet; sondern einzig und allein das Was( (Schopenhauer A., Die Welt als Wille und Worstellung, contenuto in Sämtliche Werke, F. A. Brodhaus, Wiesbaden, 1972, vol. I, p. 210). Sulla base del testo appena citato si è inteso qui riproporre nelle sue linee essenziali il reticolo terminologico tedesco, nella misura in cui questo è risultato di un qualche interesse per la corrente indagine sulla follia.
283 Schopenhauer A., Il mondo…, cit., p. 216. Per divenire ‘soggetto conoscente puro’ è necessario dunque liberarsi dell’individualità, tutt’uno col Dienst alla volontà individuale. Il momento negativo che precede, se non temporalmente almeno logicamente, l’atto dell’intuizione dell’idea, viene significativamente espresso dal gesto dell’aufhören, dal suo movimento, che se da un lato designa l’azione del (finire(, del (cessare(, del (tacere(, dall’altro allude nello stesso tempo all’azione dell’(ascoltare attentamente(. Non è dunque solo e soltanto un momento negativo: è già un dis-porsi alla contemplazione (attenta(, un mettersi nelle condizioni del suo effettivo esercizio.
284 Ibidem, p. 216.
285 Schopenhauer insiste particolarmente su questo punto: (nessuna verità (die Wahreit) è dunque più certa, più assoluta, più lampante di questa: tutto ciò che esiste per la conoscenza (die Erkenntnis), e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto (in Beziehung) al soggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola rappresentazione (die Vorstellung). [...] Tutto quanto il mondo include o può includere è inevitabilmente dipendente dal soggetto, e non esiste che per il soggetto. Il mondo è rappresentazione( (ibidem, p. 39).
286 E non si tratta di soggetto collettivo, ma assolutamente individuale. Il soggetto di cui si parla è la singola persona. Infatti, precisa Schopenhauer, (anche uno solo di questi esseri, insieme con l’oggetto, basta a costituire (ergänzen) il mondo come rappresentazione con la stessa completezza di milioni d’esseri esistenti; lo svanire invece di quest’unico soggetto porterebbe con sé lo svanire del mondo come rappresentazione( (ibidem, p. 41). L’utilizzo di un verbo come ergänzen (completare, finire, perfezionare, portare a termine) già chiarisce come anche un solo individuo, (insieme con l’oggetto(, sia in grado di costruire il mondo, nella dimensione della Vorstellung, come qualcosa di finito, di completo, come una totalità coerente e di senso compiuto.
287 Ibidem, p. 218.
288 Ibidem, p. 217.
289 Ibidem, p. 216-217.
290 Schopenhauer sottolinea che questo modo d’intendere la conoscenza intuitiva delle idee, anche nel suo essere momento di oltrepassamento della conoscenza comune, trova un suo antecedente nella riflessione spinoziana, nella cognitio tertii generis, sive intuitiva. (Non diverso(, assicura Schopenhauer, (era il pensiero di Spinoza, quando scriveva: (Mens aeterna est, quatenus res sub aeternitatis specie concipit( (Eth. V. pr. 31, schol.)( (ibidem, p. 217 e nota 1). D’Alessandro, sulla scorta di un’ampia documentazione, ricorda come Schopenhauer nel caratterizzare il suo (soggetto conoscente puro( abbia attinto suggerimenti anche da Schelling, dal modo in cui quest’ultimo, negli scritti facenti capo alla cosidetta ‘filosofia della libertà’, aveva definito il suo ‘soggetto assoluto’ (cfr. D’Alessandro P., Il gioco..., cit., pp. 118-133).
291 In nota il traduttore, Palanga, propone la traduzione: (Non sono i monti, i flutti e i cieli una parte di me e dell’anima mia, com’io di loro?( (Schopenhauer A., Il mondo..., cit., p. 219 e nota).
292 Cfr. ibidem, p. 219-220. La filosofia platonica, in tutta l’opera di Schopenhauer e non solo nel Mondo, assurge a immagine paradigmatica dell’esercizio di quello che è il suo stesso metodo filosofico, come esercizio di genialità, trascendente il principio di ragione, teso unicamente all’intuizione e all’elaborazione concettuale dell’idea. Riconda aggiunge che quando Schopenhauer (pone la sua filosofia sul prolungamento di queste due (quella platonica e kantiana), non intende solamente porla come la ripresa di un metodo, ma anche come la ripresa di certi risultati( (Riconda G., Schopenhauer..., cit., p. 114, inciso mio). Tra le numerose citazioni prodotte a sostegno di quest’ipotesi interpretativa, Riconda richiama l’attenzione su un paragrafo dei Parerga (dedicato espressamente a Platone, dove l’esortazione platonica a separare la conoscenza, a tenerla lontana da ogni comunione con i sensi e l’intuizione, viene assunta come presagio della dottrina schopenhaueriana, (secondo cui solamente la conoscenza purificata da ogni comunione con la volontà, pur rimanendo intuitiva, raggiunge l’obiettività e quindi la compiutezza più alte(( (ibidem, p. 119).
293 Schopenhauer A., Il mondo..., cit., p. 220.
294 Ibidem, p. 220
295 Ibidem, p. 220.
296 Si tenga presente che il sostantivo Erscheinung, comunemente tradotto con (fenomeno(, accoglie nella sua area semantica anche altri significati, quali (comparsa(, (apparizione(, (visione(, (fantasma(, i quali delimitano e chiariscono i singolari rapporti che l’Erscheinung intrattiene con il reale. Erscheinung è ciò che ha la (non) sostanza di un fantasma, la (non) continuità di una comparsa, di un’apparizione, la (non) concretezza di una visione, di un’allucinazione.
297 Ibidem, p. 221.
298 Ibidem, p. 221.
299 Sull’idea della storia quale grande commedia, sullo scarto che qui Schopenhauer segna rispetto alla tradizione metafisica, insiste in modo particolare D’Alessandro, precisando tra l’altro come l’uso della metafora teatrale, proprio in riferimento all’accadere storico, fosse già stato utilizzato da Schelling (nelle Lezioni di Stoccarda) e come ancora ritorni, in tempi più recenti e sotto altri indici, nella riflessione althusseriana: (non si tratterebbe dunque di un’espressione filosofica ‘tecnica’, ma di una metafora teatrale, che, come mostra Louis Althusser, facendo riferimento alla marxiana ‘scienza della storia’, è indice del superamento della prospettiva metafisica, in nome di una ‘ragione-altra’. Secondo tale indicazione la storia potrebbe allora essere intesa come la messa-in-scena (Darstellung) di un ‘teatro senza Autore’( (cfr. D’Alessandro P., Il gioco..., cit., pp. 143-147).
300 Schopenhauer A., Il mondo..., cit., p. 223.
301 Ibidem, p. 226.
302 Precisa Schopenhauer: (in altre parole, bisogna perdere affatto di vista il proprio interesse, la propria volontà, i propri fini; bisogna per un certo tempo estraniarsi (entäußern) completamente dalla propria personalità, per non restare che puro soggetto conoscente (rein erkennendes Subject) e limpido occhio del mondo( (ibidem, p. 224).
303 Ibidem, p. 224. Entrare nello spazio estatico dell’intuizione pare richiedere una potenza intellettuale fuori dalla norma, in quanto richede l’affrancamento dal servizio alla volontà individuale, condizione imprescindibile per divenire ‘limpido specchio dell’oggetto’. (In tal modo si spiega la vivacità che si incontra negli uomini di genio, e che talvolta rasenta la turbolenza( (ibidem, p. 224).
304 Ibidem, p. 226.
305 Schopenhauer riassume: (Siccome la conoscenza geniale, o conoscenza delle idee, non obbedisce al principio di ragione, mentre quella che si conforma a tale principio dà la prudenza e la saggezza pratica e crea le scienze; ne risulta che gli uomini geniali avranno quelle manchevolezze che porta seco l’oblío della seconda specie di conoscenza( (ibidem, p. 227). Si tenga anche presente che già nelle Sacre Scritture l’imprudentia era una forma della follia, del suo declinarsi nel mondo (cfr. più sopra p. 11-18).
306 Schopenhauer A., Il mondo..., cit., p. 227.
307 Cfr. ibidem, pp. 227-228. È un ricordare, dal momento che una tale ripugnanza è già ovvia e implicita nella posizione (di estraneità) che il genio assume nei confronti del principio di ragione. Si potrebbe insinuare l’ipotesi che questo ‘ricordare’, questa ripetizione, obbedisca alla precisa strategia retorica di sottolineare tutti quegli elementi che conducono la genialità alla follia. Proprio sullo sfondo di questi elementi il lettore sarà portato, senza quasi che se ne avveda, al parallelo conclusivo.
308 Ibidem, p. 229, corsivo mio.
309 Ibidem, p. 229.
310 La complessità e la vastita degli argomenti con cui Schopenhauer, prima di parlare della follia, legittima il rapporto genio-follia, derivano forse dalla consapevole paradossalità dello stesso rapporto. È innegabile che accostare ciò che vuole presentarsi come uno dei vertici dell’agire umano nel mondo, la genialità, ad una condizione come la follia, nella quale l’uomo sembra addirittura perdere i connotati minimi dell’umanità, sia cosa quanto mai paradossale.
311 Se si tiene conto che la citazione letteraria, per quanto moltiplicata all’infinito, non può certo costituire prova esaustiva della continuità genio-follia (e questo agli occhi dello stesso Schopenhauer, che poco oltre si sforzerà d’indagare sulla natura della follia in ben altri termini), allora la quantità di citazioni risulta quanto meno eccessiva. Se è giusta la lettura che quest’indagine propone, si potrebbe ipotizzare che l’eccesso di citazioni sia anche un tentativo di smorzare il senso di paradossalità che il rapporto genio-follia produce.
312 Ibidem, p. 230. Irren significa (errare(, (prendere una falsa via(, (smarrirsi(, (sbagliarsi(. Da qui Irrenhaus e Irrenstalt, (manicomio(, (casa di alienati(.
313 Ibidem, p. 230. Schopenhauer aveva già chiarito come una potenza intellettuale superiore alla norma fosse essenziale per affacciarsi al luogo in cui accade l’intuizione dell’idea.
314 Ibidem, p. 230. È un passo senz’altro famoso, anche per l’attenzione che vi ha dedicato Freud nella sua Storia del movimento psicoanalitico. Per le simpatie freudiane nei confronti di Schopenhauer si può leggere le pagine che vi dedica D’Alessandro in Il gioco..., cit., p. 127-128. Il fatto poi che i precedenti argomenti, letterari e personali, non vengano esauriti fin nelle loro ultime conseguenze, potrebbe costituire prova ulteriore del loro carattere puramente retorico, non dimostrativo.
315 Schopenhauer A., Il mondo..., cit., pp. 230-231.
316 Ibidem, p. 231.
317 La particolare natura della finzione dà luogo, volta a volta a differenti patologie: (queste finzioni, o sono sempre le stesse e divengono idee fisse, oppure si modificano ogni volta come accidentalità momentanee; si ha nel primo caso la monomania, la melanconia; nel secondo la demenza, o fatuitas. Ecco perché è così difficile, quando un pazzo (der Wahnsinnig) entra la prima volta in una casa di alienati (die Irrenhaus), interrogarlo sulla sua vita precedente( (ibidem, p. 231).
318 Ibidem, p.227-228.
319 Qui prolungo le linee schopenhaueriane utilizzando le sue stesse coordinate letterarie di riferimento. Poco prima infatti, lo si è visto, la genialità veniva ricondotta al cerchio dell’esperienza cosmico-tragica.
320 Ibidem, p.231, inciso mio.
321 (La natura [...] ricorre alla follia come all’unico mezzo che le resta per salvare la vita; lo spirito torturato rompe, per così dire, il filo della sua memoria, colma le lacune con finzioni, e trova in tal modo nella follia un asilo di salvezza contro il dolore morale che oltrepassa le sue forze( (ibidem, p. 232) Sulla legittimità di accostare queste riflessioni schopenhaueriane alla teoria psicoanalitica della rimozione è d’accordo anche D’Alessandro (cfr. D’Alessandro P., Il gioco..., cit., p. 127).
322 Il percepire del folle certo non giunge al traguardo della verità. Si tenga presente comunque che anche la percezione della figura attuata nell’assoluto rispetto delle coordinate dettate dal principio di ragione, che siamo soliti (oggi non meno di ieri) ritenere ‘percezione sana’, ‘percezione vera’, proprio in quanto rappresentazione, in quanto fonda la conoscenza comune e la razionalità scientifica, non è in grado, secondo Schopenhauer, di attingere alla verità dell’idea, (oggettità immediata della volontà(. La ‘percezione sana’ ci pone di fronte ai fenomeni, (oggettità mediata della volontà(, ombre inessenziali ed evanescenti della verità, Erscheinungen.
323 Qui, al termine del trentaseiesimo capitolo, Schopenhauer non fa che raccogliere in estrema sintesi il senso di tutta l’argomentazione: (Anche il genio, infatti trascura la conoscenza delle relazioni fondate sul principio di ragione; non vede, non cerca nelle cose che le loro idee; afferra la loro essenza propria [...]; l’oggetto singolo contemplato, e il presente fissato con vivacità eccessiva, brillano per lui di luce così sovrana che gli altri anelli della catena di cui fan parte rientrano per ciò stesso nell’ombra, il che appunto dà luogo a fenomeni (die Phänomene) la cui somiglianza con la follia venne da lungo tempo riconosciuta( (Schopenhauer A., Il mondo..., cit., p. 232-233).
324 Ibidem, p. 233.
325 Cfr. Riconda G., Schopenhauer..., cit., pp. 24-25.
326 È interessante, ma non è solo una curiosità, che uno dei grandi maestri del sospetto affidi proprio a un folle la rivelazione della ‘morte di Dio’, che apre al destino di buona parte del pensiero filosofico contemporaneo, il quale si muove spesso (e consapevolmente) nel luogo in cui si consumano le conseguenze del (Dio è morto( nietzschiano. Sull’importanza del frammento 125 della Gaia scienza rimando a D’Alessandro P., Il gioco..., cit., passim.
327 L’intervento foucaultiano intende ripercorrere in sintesi l’intero arco storico e teorico della riflessione compiuta. Prosegue infatti: ((la follia) perde la funzione di manifestazione, di rivelazione che aveva avuto all’epoca di Shakespeare e di Cervantes – ad esempio, Lady Macbeth comincia a dire la verità quando diventa pazza –, e diviene ridicola e illusoria. Il ventesimo secolo, infine, addomestica la follia, la riduce a un fenomeno naturale legato alla verità del mondo. Da questa espropriazione positivista derivano sia l’eccesso di filantropia che tutta la psichiatria dimostra nei confronti del folle, sia la protesta lirica presente nella poesia, da Nerval ad Artaud, che è un tentativo di restituire all’esperienza della follia la profondità e il potere di rivelazione annientati dalla reclusione( (Miller J., La passione…, cit., pp.111-112, incisi miei). La citazione riportata dal biografo proviene da La folie n’existe que dans une société, intervista rilasciata al giornale Le Monde il 22 luglio 1961.
328 Paragonabile, per fare un esempio, alla ricerca di Dodds sui divini doni della follia, nella quale si presuppone una determinata comprensione dell’accadere storico, una determinata filosofia della storia che sorregge e ‘valuta’ gli stessi risultati a cui la ricerca approda (cfr. più sopra, pp. 142-149, in part. nota 26).
329 Riguardo all’annosa fatica che sta alle spalle della pubblicazione dell’Histoire appare ben documentato Miller (cfr. Miller J., La passione..., cit., pp. 109-111).
330 Anche se non esplicitamente, anche Miller lo ammette. Quando tenta uno sguardo d’insieme sull’intera opera arriva a sottolineare che (Foucault doveva scegliere le parole con cura, perché esse sarebbero servite a diversi scopi simultaneamente(. Precisando lo sforzo foucaultiano di agire sul lettore, giustamente osserva che (le sue (di Foucault) convinzioni sono insinuate, più che discusse, da una manciata d’immagini indimenticabili il cui impatto è più efficace di quello prodotto da pagine e pagine di dettagliata e spesso intricata documentazione storica( (Miller J., La passione..., cit., p. 111, inciso mio). Questo sforzo retorico, per altro sotteso all’intera scrittura dell’opera, appare in tutta la sua evidenza in modo particolare nel primo capitolo.
331 Miller legge in maniera assolutamente diversa la portata di queste pagine d’apertura al secondo capitolo dell’Histoire foucaultiana. Là dove introduce la polemica che Derrida aveva innestato con la sua conferenza del 1963, Cogito e storia della follia, arriva a precisare che Derrida (prese di mira un brano che a prima vista pareva marginale alla disquisizione, cioè la breve discussione di Foucault di un piccolo passo delle Meditazioni di Cartesio(. Il piccolo passo di cui parla Miller è niente meno che il cuore della Prima Meditazione, luogo essenziale del pensiero cartesiano. Inoltre, stando ferma la lettura del biografo americano, sorgerebbero interrogativi di difficile soluzione, che per altro Miller non esplicita e meno che mai risolve. Primo interrogativo: perché Derrida concentrò i suoi attacchi su questo luogo insignificante dell’Histoire e non su un’altro luogo? Secondo interrogativo: perché Foucault reagì con grande impegno e dispendio di forze alla sollecitazione derridiana, se è vero che essa investiva un luogo del tutto (marginale alla discussione(? Evidentemente erano in gioco interessi ben più che marginali (cfr. ibidem, cit., p. 137, corsivo mio).
332 Le pagine sul Grande internamento, che occupano il secondo capitolo dell’Histoire, si aprono con una formula sintetica che intende cogliere il senso ultimo dell’esperienza classica e il destino a cui andrà incontro l’esperienza propria del Rinascimento: (L’età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la Follia, le cui voci erano appena state liberate dalla Renaissance, ma la cui violenza era già stata dominata( (Foucault M., Storia della follia..., cit., p. 67). Il testo francese recita: (La Folie dont la Renaissance vient de libérer les voix, mais dont elle a maîtrisé déjà la violence, l’âge classique va la réduire au silence par un étrange coup de force( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 67). Questa pagina dell’Histoire propone tra l’altro un singolare accostamento tra quelle che sono le due fondamentali presenze dell’esperienza classica della follia. Da un lato la riflessione sul testo cartesiano, che esplicita la ‘teoria’ di questa esperienza; dall’altro, nella citazione posta a esergo dell’intero capitolo, il simbolo stesso della ‘pratica’ dell’internamento: quel compelle intrare che era spesso inciso sui portoni delle petits maisons e leggendo il quale il folle faceva il suo ingresso nel territorio dell’esclusione.
333 Foucault M., Storia della follia..., cit., p. 68. Il testo francese recita: (On ne peut [...] supposer, même par la pensée, qu’on est fou, car la folie justement est condition d’impossibilité de la pensée( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 68).
334 Foucault M., Storia della follia..., cit., p. 70. Il testo francese recita: (Entre Montaigne et Descartes un événement s’est passé: quelque chose qui concerne l’avènement d’une ratio( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 70)
335 Foucault M., Storia della follia..., cit., p. 69. Il testo francese recita: (Le péril de la folie a disparu de l’exercice même de la Raison. Celle-ci est retranchée dans une pleine possession de soi où elle ne peut rencontrer d’autres pièges que l’erreur, d’autres dangers que l’illusion( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 69).
336 Foucault M., Storia della follia..., cit., p. 70, corsivo mio. Il testo francese recita: (exercice de la souveraineté d’un sujet qui se met en devoir de percevoir le vrai, ne peut pas être insensée( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 70).
337 Foucault M., Storia della follia..., cit., p. 70, inciso mio. Il testo francese recita: (Elle (la storia di questa ratio) est faite, pour une part aussi grande, même si elle est plus secrète, de ce mouvement par lequel la Déraison s’est enfoncée dans notre sol, pour y disparaître, sans doute, mais y prendre racine( (Foucault M., Histoire de la folie..., cit., p. 70, inciso mio).
338 Foucault M, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, in appendice a Storia della follia..., cit., p. 639, inciso mio.
339 Sugli estremi di tale dibattito, sui testi interessati, sulle date e sui luoghi, quest’indagine ha già prodotto un’esaustivo chiarimento (cfr. più sopra p. 129, nota 1).
340 Del resto questo dibattito sulla Prima Meditazione, innescato dalla recente filosofia francese, ancor prima di essere una problematizzazione dei rapporti ragione-follia, rappresenta un tentativo d’interpretare il testo cartesiano. Le diverse letture che vengono proposte nel corso dell’annosa discussione non fanno altro che confermare ciò che è ormai un ‘luogo comune’ nel contesto della storia della critica a Descartes, ovvero l’esistenza di una (pluralità di Descartes(, (curiosamente differenti gli uni dagli altri(. P. Valéry, inaugurando un convegno di studi su Descartes nel 1937, sottolineava quello che è un dato di fatto: (Descartes. […] Mais depuis trois siècles que sa pensée est repensée par tant d’hommes du premier ordre; détaillée, commentée par tant d’éxégètes laborieux; résumée par tant de maîtres pour tant d’écoliers – où est Descartes? Je n’oserai vous dire qu’il y a une infinité de Descartes possibles; mais vous savez mieux que moi qu’il s’en compte plus d’un, tous fort bien attestés, textes en main, et curieusement différents les uns des autres. La pluralité des Descartes plausibles est un fait. Qu’il s’agisse de la Méthode ou des développements métaphysique qui s’ensuivirent, la diversité des jugements et la divergence des avis existe et étonne. Et Descartes est cependant un auteur clair, par définition( (cfr. Crapulli G., Introduzione a Descartes, Laterza, Roma-Bari, 1996, I ed. 1988, pp. 229-243).
341 Nelle pagine che le Lezioni dedicano all’esame della filosofia moderna, dopo essersi occupato di Bacone e di Böhme, iniziando la Seconda Sezione, Hegel scrive: (Soltanto con Cartesio […] perveniamo propriamente a una filosofia autonoma, consapevole di derivare in modo indipendente dalla ragione, consapevole che l’autoscoscienza è momento essenziale del vero. […] Ormai possiamo dire di trovarci in essa proprio a casa nostra e, come il navigatore dopo lungo errare sul pelago infuriato, possiamo gridar (terra!(; a Cartesio difatti mette capo veramente la cultura dell’età moderna, il pensiero della filosofia moderna, dopo che a lungo si era andati avanti sulla vecchia via( (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. di Codignola E. e Sanna G., La Nuova Italia, Firenze, 1967, vol. III, p. 66). Il riferimento a questo giudizio hegeliano, e un commento ad esso, si può trovare in Deregibus A., Introduzione, contenuto in Cartesio, Meditazioni metafisiche, con estratti dalle Obbiezioni e risposte, trad. it., intr. e note di A. Deregibus, La scuola, Brescia, 1974, p. XIII-XVI.
342 Descartes R., Meditationes de prima philosophia, in Oeuvres des Descartes, publiées par Charles Adam et Paul Tannery, Cerf, Paris, 1904, vol. VII, p. 7. Per la traduzione italiana ho seguito quella di Deregibus: (Già per l’addietro mi sono un po’ occupato delle questioni di Dio e dello spirito umano nel Discorso sul metodo […], pubblicato in lingua francese nel 1637, non certo per trattarvi con cura tali questioni, ma soltanto per farne un assaggio, e per apprendere dai giudizi dei lettori con quale criterio si dovessero in seguito trattare( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 13). L’invito a utilizzare, e a porre in primo piano, il testo latino proviene da Derrida, che in Cogito et histoire de la folie criticava Foucault di aver condotto la sua lettura unicamente sul testo francese. Del resto lo stesso Descartes nella Praefactio precisa di aver preferito affidare la stesura dell’opera alla lingua latina piuttosto che a quella francese, (nel timore che anche agli ingegni più deboli fosse possibile credere che pur essi potessero affrontarla( (ibidem, p. 13). Il testo latino recita: (ne debiliora etiam ingenia credere possent eam sibi esse ingrediendam( (Descartes R., Meditationes…, cit., p.7).
343 Si pensi al sottotitolo con il quale le Meditationes si consegnavano al lettore nell’edizione del 1641: (in quibus (meditationibus) Dei existentia et animae a corpore distinctio demonstratur( (ibidem, p. 17, inciso mio).
344 Scrivendo a Burman, Descartes ribadiva in sintesi lo stesso concetto: (Nel Metodo vi è un riassunto di queste Meditazioni che deve essere svolto e chiarito per mezzo di queste( (cfr. Crapulli G., Introduzione a…, pp 101-103, in part. nota 2). Nella Lettera dell’autore, preposta alla versione francese dei Principia del 1647, Descartes tornava a precisare: (Ho diviso il libro in quattro parti, la prima delle quali contiene i princípi della conoscenza, che sono ciò che si può chiamare la prima filosofia, ovvero la metafisica: per questo, al fine di ben comprenderla, è opportuno leggere prima le meditazioni che ho scritto sullo stesso argomento( (Descartes R., I principi della filosofia, trad. it. e note di P. Cristofolini, Boringhieri, Torino, 1967, p. 65).

345Nel testo del 1641: (Vidi quidem praetera duo quaedam scripta satis longa, sed quibus non tam meae his de rebus rationes quam conclusiones argumentis ex Atheorum locis communibus impugnabatur( (Descartes R., Meditationes…, cit., pp. 8-9, corsivo mio). Nella traduzione italiana: (Ho visto inoltre, a dire il vero, due scritti piuttosto lunghi; con i quali però non tanto si combattevano le mie ragioni intorno a queste cose, quanto le conclusioni, e con argomenti mutuati dai luoghi comuni degli atei( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 15, corsivo mio).
346 Nelle stesse pagine Crapulli riporta anche in sintesi quello che era il punto di vista, decisamente antimetafisico, dei libertini. Lo studioso ricorda a tal riguardo le parole del cappuccino Yves de Paris: (non riconoscono altro principio al mondo che la natura, negano Dio, se la ridono della provvidenza e della sua giustizia, non credono all’immortalità dell’anima e dicono che il destino consiste nella successione concatenata delle cause che implica la necessità degli avvenimenti( (cfr. Crapulli G., Introduzione a …, cit., pp. 104-105).
347 Non è certo questa la sede per riportare, sia pure in estrema sintesi, la complessità del quadro che tale dialogare ha disegnato. Pare interessante ciò che sottolinea Deregibus, secondo il quale le Meditationes furono (proposte deliberatamente dal suo Autore perché si collocassero al centro di un pubblico, ma ristretto e qualificato, dibattito, e pertanto concepite quale premessa di possibili, inevitabili chiarimenti e sviluppi anche polemici. […] Le Obbiezioni anticipano moltissime, se non tutte (o quasi tutte), confutazioni o difficoltà, che la filosofia successiva e anche contemporanea non mancherà di volgere o sollevare contro Descartes( (cfr. Deregibus A., Introduzione, in Cartesio, Meditazioni…, cit., pp. XVIII-XIX). Una dettagliata ricognizione sull’intera questione si trova anche in Crapulli G., Introduzione a …, cit., pp. 112-115.
348 Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 13. Nel testo latino: (ne debiliora etiam ingenia possent eam sibi esse ingrediendam( (Descartes R., Meditationes…, cit., p. 7, corsivo mio). Se l’argomento annunciato è in grado di attirare le attenzioni di un vasto pubblico, l’esercizio attivo di meditazione che tale scritto intende innescare nel lettore è invece cosa di pochi. Descartes lo chiarirà tra breve e tuttavia già avverte sulle difficoltà, anzi: sulla fatica che il testo richiede. L’aggettivo debilis (da cui il comparativo debiliora), che definisce l’ingenium non abilitato alla lettura, insiste appunto sul motivo della debolezza, della fragilità. Occorre un ingegno saldo e forte per affrontare il travagliato percorso delle sei meditazioni.
349 Ibidem, p. 9, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (che potranno e vorranno meditare seriamente con me, e distogliere lo spirito dai sensi e insieme da tutti i pregiudizi, cioè a persone che so a sufficienza potersi trovare soltanto in numero molto piccolo( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 16).
350 Descartes R., Meditationes…, cit., pp. 9-10, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (Quanto poi a quelli che, per nulla interessati a comprendere la successione e il nesso dei miei ragionamenti, si preoccuperanno di dilettarsi e limitarsi a singole e staccate formule conclusive, com’è consuetudine di molti, non potranno conseguire grande frutto dalla lettura di questo scritto( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 16).
351 Per questa riflessione sull’ordre de raisons ho seguito e ripreso essenzialmente quanto a tal riguardo propone Crapulli, al quale si deve anche la sottolineatura dell’importanza che riveste questa lettera al Mersenne. Per l’intera questione si rimanda a Crapulli G., Introduzione a…, cit., pp. 117-120, corsivo mio).
352 È ancora una citazione dalla lettera a Mersenne del dicembre 1640, riportata da Crapulli (ibidem, p. 117).
353 Sempre dalla citata lettera a Mersenne (ibidem, p. 117).
354 Crapulli riporta a tal riguardo la conclusione di Geroult (Descartes selon l’ordre des raisons): (ogni obiezione che fa intervenire contro una delle verità già stabilite un elemento che non figura anteriormente come dimostrato in questa catena è per ipotesi nulla( (ibidem, p. 118).
355 L’ordo cognoscendi non coincide immediatamente e di per sé con l’ordo essendi, vale a dire con l’ordine delle relazioni di dipendenza del reale, ma non è per questo del tutto svincolato da esso e non si risolve certo nella costruzione di un universo puramente soggettivo, la cui unica realtà risiederebbe nella mente umana. Come bene chiarisce Crapulli, (il procedimento che si svolge seguendo la concatenazione delle ragioni è un iter metafisico, è un disvelamento graduale e parziale dell’essere le cui tappe sono segnate dalle esigenze conseguenziali della natura razionale del soggetto a partire dal primo risultato del superamento del dubbio metodico, dall’affermazione dell’esistenza dell’(io(, vero e proprio ancoraggio nell’essere, […] che in definitiva significa il riconoscimento della capacità della mente umana di cogliere la realtà delle cose( (ibidem, p. 119).
356 È l’espressione che userebbe Geroult (Descartes selon l’ordre des raisons), riportata da Crapulli (ibidem, p. 118).
357 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 17, inciso mio. Nella traduzione italiana: (stabilire nelle scienze qualcosa di fermo e di duraturo( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 29).
358 Cfr. Ibidem, pp. 29-30. Questo primo risultato era già stato indicato nel Discours alle cui pagine per altro lo stesso Descartes esplicitamente rinvia: (Ho già riconosciuto taluni anni addietro quanto numerose siano le cose false che fin dalla prima età ho accolte come vere( (ibidem, cit., p. 29). Nel testo del 1641: (Animadverti jam ante aliquot annos quam multa, ineunte aetate, falsa pro veris admiserim( (Descartes R., Meditationes…, cit., p. 17). È noto che nelle Meditazioni i rinvii al Discours sono numerosi e anche a volte essenziali per comprendere appieno il pensiero metafisico cartesiano. Tuttavia nel proseguio di quest’indagine tali rinvii, nella misura del conveniente, verranno omessi, non sottolineati, e non solo per ragioni di brevità, dal momento che le Meditazioni rappresentano, allo stesso giudizio cartesiano, un momento di approfondimento e precisazione ulteriore rispetto alle riflessioni metafisiche precedenti. Per l’intera questione, che qui non si ha modo di trattare, si rinvia a Crapulli G., Introduzione a…, cit., pp. 120-130).
359 Tali preliminari condizioni alla meditazione vengono sottolineate nel paragrafo d’apertura alla Meditatio Prima: (Opportune igitur hodie mentem curis omnibus exolvi, securum mihi otium procuravi, solus secedo, serio tandem et libere generali huic mearum opinionum eversioni vacabo( (Descartes R., Meditationes…, cit., pp. 17-18). Nella traduzione italiana: (Oggi quindi ho opportunamente liberato lo spirito da ogni altra preoccupazione, mi sono procurata una sicura tranquillità, mi apparto in solitudine e con serietà finalmente e liberamente mi dedicherò a questo generale sommovimento e rovesciamento delle mie opinioni( (Cartesio, Meditazioni…, cit., pp. 29-30).
360 Evertere, da cui eversio, indica l’atto dell’abbattere, dell’atterrare, del rovesciare (ad esempio, le colonne di un tempio), del distruggere interamente (l’intero tempio), dello sterminare, annientare (tutto ciò che è nel tempio), del cacciare e dell’espellere (dall’interno del tempio al suo esterno). L’eversor, il dubitante, giungerà a porre in atto tutte queste azioni estreme, nei confronti del ‘tempio’ (la sua coscienza) e di tutto ciò che il ‘tempio’ contiene (tutte le sue opinioni e conoscenze abituali).
361 Si è voluto riprendere qui la sistemazione offerta da Crapulli, il quale, dopo aver sottolineato la dimensione radicale-universale-iperbolica del dubbio, aggiunge: (Da rilevare inoltre un duplice cambiamento lungo il suo (del dubbio) decorso. […] Nella fase relativa alle rappresentazioni sensoriali è in questione la loro corrispondenza alla realtà esterna, in quella riguardante le conoscenze di ordine intellettivo, come quelle matematiche, è in gioco la loro validità oggettiva, a prescindere da alcun riscontro in natura. Inoltre si passa dalle ragioni di dubbio di ordine naturale, in cui si considerano direttamente le capacità conoscitive quali si rivelano nella loro attività, a quelle di ordine metafisico, sull’origine della natura umana e del suo autore( (cfr. Crapulli G., Introduzione a…, cit., pp. 122-124, inciso mio).
362 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 18. Nella traduzione italiana: (Sarà sufficiente, per respingerle tutte, se avrò scorto in una qualsiasi di esse una qualche ragione di dubbio( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 30).
363La dimensione iperbolico-normativa del dubbio, declinandosi nell’agire pratico, coincide con la prudentia: (hos autem interdum fallere deprehendi, ac prudentiae est numquam illis plane confidere qui nos vel semel deceperunt( (Descartes R, Meditationes…, cit., p. 18, corsivo mio). Nella traduzione italiana: (questi (i sensi), poi, ho trovato che talvolta sbagliano, ed è proprio della prudenza il non fidarsi mai completamente di coloro che anche una sola volta ci hanno ingannato( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 30, inciso mio).
364 Cfr. ibidem, pp. 30-31. Vale la pena di riportare per intero il passo come compariva nell’edizione del 1641: (Sed forte, quamvis interdum sensus circa minuta quaedam et remotiora nos fallant, pleraque tamen alia sunt de quibus dubitari plane non potest, quamvis ab iisdem hauriantur: ut jam me hic esse, foco assidere, hyemali toga esse indutum, chartam istam manibus contrectare, et similia( (Descartes R., Meditationes…, cit., p. 18).
365 Nell’arco di un solo periodo l’ipotesi-follia viene introdotta, vagliata ed esclusa, proprio in quanto non darebbe luogo a procedere nella meditazione: (Manus vero has ipsas, totumque hoc corpus meum esse, qua ratione posset negari? nisi me forte comparem nescio quibus inanis, quorum cerebella tam contumax vapor ex atra bile labefactat, ut constanter asseverent vel se esse reges, cum sunt pauperrimi, vel purpura indutos, cum sunt nudi, vel caput habere fictile, vel se totos esse cucurbitas, vel ex vitro conflatos; sed amentes sunt isti, nec minus ipse demens viderer, si quod ab iis exemplum ad me transferrem( (ibidem, pp. 18-19, corsivo mio). Più prolissamente nella traduzione di Deregibus: (Con quale ragione, invero, si potrebbe negare che queste stesse mani e tutto questo corpo non sono miei, se io forse non mi paragonassi a non so quali dissennati, i cui cervellini il vapore arrogante dell’atra bile tanto sconvolge e offusca, che asseverano continuamente o di essere re, quando invece sono poveri in canna, o vestiti di porpora, quando sono ignudi, o che hanno il capo d’argilla, o di essere tutte zucche, o fatti di vetro? Ma costoro sono pazzi, né io sembrerei meno demente, se qualche esempio da loro trasferissi a me( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 31).
366 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 19, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (È certo con molta chiarezza che non posso non considerare come io sia un uomo che è solito dormire di notte e subire nei sogni tutte quelle medesime cose, o talvolta quelle ancora meno verosimili, che codesti dissennati subiscono nelle loro veglie( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 31, corsivo mio).
367 Del resto la stessa struttura sintattica del periodo è illuminante. Il motivo della chiarezza, contrassegnando la proposizione principale, estende meccanicamente i suoi effetti anche alle proposizioni a lei subordinate.
368 Tra l’attimo in cui queste rappresentazioni si presentano al soggetto e l’attimo in cui il soggetto se le rappresenta come vere, non vi è un momento (almeno logicamente se non temporalmente) intermedio, un momento nel quale il soggetto valuta e giudica della verità o della falsità di ciò che si sta rappresentando: il momento – attivo – della consapevolezza razionale è del tutto assente in entrambe le condizioni. Significativamente la relazione tra il soggetto e la rappresentazione viene spiegata dal verbo patior (soffro, subisco, patisco, sono passivo di).
369 Nell’uomo sano, non-folle, la differenza tra il sonno e la veglia risiede proprio in questa capacità di attivare una valutazione, pertanto di raggiungere un punto di vista, quello del soggetto consapevole di sé, dal quale appunto giudicare della verosimiglianza di ciò che si presenta alla mente. Anche allo spirito del non-folle può affacciarsi una rappresentazione della propria identità assolutamente lontana dal vero, ma una tale rappresentazione, qualunque poi sia il suo destino, viene immediatamente valutata come falsa e non intacca quella che per il soggetto è la propria definizione della propria identità personale (e attuale). Ad esempio, la mia immaginazione ha capacità (memoria) sufficiente per costruire un’immagine di me del tutto diversa da quello che io effettivamente sono. Posso immaginarmi così energico e forte da poter rompere facilmente questa penna d’acciaio con la sola forza delle dita, posso immaginarmi di poter raggiungere in corsa la velocità del ghepardo, di essere come i gatti, capace di vedere al buio, potrei immaginare…, ma, mentre immagino tutto questo, so anche con perfetta certezza ed evidenza che sono debole, lento, che non sono un gatto. E ancora, questa certezza non m’impedisce di prolungare ulteriormente il gesto della mia immaginazione.
370 Descartes R., Meditationes…, cit., p.19. Nella traduzione italiana: (vedo […] chiaramente che non si può distinguere mediante indizi sicuri la veglia dal sonno( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 32).
371 Il movimento del dubbio, qualora fosse possibile distinguere certis indiciis lo stato di veglia da quello di sogno, subirebbe una battuta d’arresto: per la prima volta la traiettoria segnata dalla mearum opinionum eversio incontrerebbe un dato assolutamente certo e indubitabile, la rappresentazione della mia attualità, da porre a fondamento nella costituzione di ulteriori conoscenze. L’esercizio meditante prenderebbe in tal caso un’altra direzione, l’ordre des raisons si affaccierebbe a un diverso destino. Così, data l’importanza strategica che questa (ipotesi del sogno( riveste nello snodarsi della meditazione, non sorprende che essa abbia provocato notevoli critiche. John Cottingham nel suo studio su Descartes le raccoglie in due grandi gruppi. Alcuni hanno tentato d’invalidare l’(ipotesi( argomentando che (proprio la nostra capacità di domandarci in piena coscienza, se stiamo o no sognando […], dimostra che non stiamo affatto sognando(. Insomma, se penso, dubito, domando, significa che mi trovo in uno stato di coscienza, ergo: non sto dormendo. Quest’argomentazione sarebbe inattaccabile solo se si potesse dimostrare la totale impossibilità di compiere (sogni lucidi(, che implichino anche esperienze intellettuali come il pensare, il dubitare, il domandare. È un fatto, sottolinea Cottingham, che (la scienza moderna […] è stata in grado di fornire molti dati circa la frequenza e la durata di queste esperienze(. Quindi: (esiste la possibilità di fare un’esperienza onirica che include, a sua volta, l’esperienza di chiedersi se si sta sognando. Ne segue che il fatto che una persona dubiti di essere sveglia, non garantisce affatto che lo sia in realtà(.
Altri commentatori sostengono invece la sicura possibilità di reperire (segni( che permettano di distinguere la veglia dal sogno. Anche tali critiche sono da ritenersi insufficienti. (Benchè lo stesso Cartesio non la prenda in considerazione, esiste inoltre una obiezione di carattere generale nei confronti di ogni test T, che si suppone possa darci la certezza di essere svegli […], ovvero che sarà sempre concepibile che si possa sognare che il test è riuscito; ne segue che l’esperienza soggettiva di effettuare il test e trovarlo riuscito non è sufficiente a dissipare il dubbio( (cfr. Cottingham J., Cartesio, trad. it. di R. Scognamiglio, Il Mulino, Bologna, 1991, I ed. inglese 1986, pp. 47-48).
372 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 20, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (benché anche queste cose generali, gli occhi, il capo, le mani e cose simili, possano essere immaginarie, si deve tuttavia ammettere necessariamente almeno che sono vere talune altre cose ancor più semplici e universali, dalle quali si formano le immagini delle cose, come dai colori veri tutte quelle, sia vere sia false, che sono nel nostro pensiero. Sembrano essere di questo genere la natura corporea in generale, e la sua estensione; e la figura delle cose estese; e la quantità, ossia la loro grandezza e il loro numero; e il luogo nel quale esistono e il tempo per il quale durano, e cose simili( (Cartesio, Meditazioni…, cit., pp. 32-33).
373 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 20. Nella traduzione italiana: (Infatti, tanto che io sia sveglio quanto che dorma, due più tre fanno cinque, e il quadrato non ha un numero di lati maggiore di quattro( (cfr. Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 33).
374 Cfr. Descartes R., Meditationes…, cit., p. 21.
375 L’equazione che conclude l’ipotesi della ‘negazione di Dio’ è chiarissima: (quo minus potentem originis meae authorem assignabunt, eo probabilius erit me tam imperfectum esse ut semper fallar( (ibidem, p. 21). Nella traduzione italiana: (quanto meno potente considereranno l’autore della mia origine, tanto più probabile sarà che io sia così imperfetto da sbagliarmi sempre( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 34).
376 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 21, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (alla fine sono costretto a confessare che non v’è nulla, tra quelle cose che un tempo credevo vere, intorno a cui non sia legittimo il dubbio, e ciò non per superficialità o per leggerezza, ma per ragioni valide e meditate( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 34).
377 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 22, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (Supporrò quindi che non un ottimo Dio, fonte di verità, ma un qualche genio maligno, e inoltre sommamente astuto e potente, abbia posto tutta la sua attività nel fare in modo che io m’ingannassi( (Cartesio, Meditationes…, cit., p. 36).
378 Descartes R., Meditationes…, cit., pp. 22-23. Nella traduzione italiana: (considererò me stesso come privo di mani, di occhi, di carne, di sangue, di sensibilità, e di essere in errore quando io ritenga di possedere tutte queste cose( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 36).
379 L’espressione utilizzata nel testo, dubbio totale, è di Cottingham. Nel suo studio su Cartesio, l’autore struttura una sintesi della Prima Meditazione articolata in dodici fasi. Proprio nell’ultima di queste egli precisa che (la conclusione della Meditazione ci mostra una condizione di dubbio totale: nella metafora che apre la Seconda Meditazione, un vortice senza fondo di dubbio che tutto sommerge, finché Cartesio non riesce a trovare il suo primo saldo punto d’appoggio, la proposizione (io esisto(( (cfr. Cottingham J., Cartesio, cit., pp. 43-45, corsivo mio).. D’altra parte proprio questa condizione di dubbio totale, come si è ricordato, era l’obiettivo che Descartes stesso preliminarmente si poneva: (generali huic mearum opinionum eversioni vacabo( (cfr. più sopra p. 195, nota 33).
380 L’ordre des raison non può certo anticipare risultati, proprio perché non confida nella fiducia, né gli è sufficiente la semplice immagine della verità. Il punctum firmum deve essere motivato validis et meditatis rationibus. Tuttavia, in qualche modo, Descartes sembra voler rassicurare il lettore, imprigionato nel gorgo del dubbio, precisando che (magna quoque speranda sunt, si vel minimum quid invenero quod certum sit et inconcussum( (Descartes R., Meditationes…, cit., p. 24, corsivo mio). Nella traduzione italiana: (grandi cose si debbono pure sperare, se potrò trovare qualche pur minima cosa che sia certa e inconcussa((Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 40). L’inconcussum richiama a chiare lettere la metafora dell’evertere: indica ciò che non può essere atterrato, distrutto, sterminato, espulso fuori (cfr. più sopra p. 195, nota 34).
381 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 24.
382 Ibidem, p. 25, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (Mi sono convinto che non vi è affatto nulla nel mondo, né cielo, né terra, né spiriti, né corpi: forse che, quindi, non potrei non esserci neppure io? Nient’affatto, io ero di certo, se mi sono convinto di qualcosa. Ma vi è un non so qual ingannatore, sommamente potente, sommamente astuto, che attivamente m’inganna sempre. Senza dubbio, quindi, ci sono anch’io se mi inganna( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 40, corsivo mio).
383 Cfr. Crapulli G., Introduzione a…, cit., p. 129. Per quanto riguarda gli interessi perseguiti da questa indagine, lo ‘sguardo analitico’ sul testo cartesiano può concludere qui il suo lavoro, dal momento che sufficienti sono gli elementi raccolti per riflettere sul ruolo e sul posto della follia nel pensiero, nella meditatio cartesiana.
384 Per altro anche le pagine che Crapulli e Cottingham dedicano all’analisi della Prima Meditazione giungono solo a una superficiale menzione del problema (cfr. Crapulli G., Introduzione a…, cit., pp. 101-128, e Cottingham J., Cartesio, cit., pp. 43-51). Nella sintesi offerta da Deregibus addirittura il tragitto compiuto dalla Meditazione viene ripercorso tacendo del tutto il momento dedicato alla follia (cfr. Deregibus A., Introduzione, cit., pp. 31-35).
385 Si tratta di un paragrafo che già si è avuto modo di prendere in considerazione e di riportare per intero, tanto nella versione latina che in quella italiana (cfr. più sopra p. 199, in part. nota 39).
386 Cfr. più sopra p. 197, in part. nota 37.
387 È questa una domanda che ha un senso e una leggittimità, un’ambiente, solo nell’ottica della corrente indagine. Nel percorso meditativo delineato da Descartes è solo una fragile fantasticheria priva di senso, qualcosa di sostanzialmente improponibile, dal momento che l’imprudentia è, essenzialmente, il fuori-luogo.
388 La stultitia e l’imprudentia comparivano già negli scritti vetero testamentari a disegnare gli spazi nei quali la follia veniva pensata (cfr. più sopra pp. 11-18).
389 Si legga il passo per intero: (Atqui nunc certe vigilantibus oculis intueor hanc cartam, non sopitum est hoc caput quod commoveo, manum istam prudens et sciens extendo et sentio; non tam distincta contingerent dormienti( (Descartes R., Meditationes…, cit., p. 19). Nella traduzione italiana: (Eppure adesso con occhi certamente desti vedo questa carta, non è assopito questo capo che muovo, prudentemente e consapevolmente stendo e sento questa mano; non così distinte, tutte queste cose, accadrebbero a chi dormisse( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 31).
390 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 25. Nella traduzione italiana: (chi mai io sia, io che ormai necessariamente sono( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 41).
391 Descartes R., Meditationes…, p. 25, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (bisogna che mi guardi continuamente dal non assumere imprudentemente per caso qualche altra cosa in luogo di me, e così mi distragga anche in quella conoscenza, che io sostengo essere la più certa e la più evidente di tutte( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 41).
392 Non v’è dubbio che quando usiamo questo specifico ‘diminutivo’ non intendiamo tanto definire le effettive (fisiche) misure del cervello, quanto piuttosto sottolinearne la scarsa capacità di funzionamento.
393 Il termine può avere anche una significazione positiva, di lode. In tal senso è l’equivalente di ‘fiero’, ‘costante’, ‘fermo’, significati che tuttavia rimangono del tutto estranei all’intenzione dell’intero passo, quanto meno all’intenzione che quest’indagine sta ora facendo emergere.
394 È una precisione comunque che trova il suo fondamento nella tradizione più che nella ricerca scientifica (già Cicerone e Seneca, tra gli altri, parlavano di atra bilis quale causa del furor) e in queste pagine Descartes, quando si affaccia all’insensato, non produce mai uan chiarezza e una distinzione autenticamente scientifica. Vi è un luogo particolarmente significativo a riguardo. Dopo aver sottolineato l’impossibilità di reperire certis indiciis che distinguano allo stesso soggetto la veglia dal sogno, egli descrive lo stato a cui è approdato, in cui il dubbio metodico lo ha condotto, con il termine stupor: (tam plane video nunquam certis indiciis vigiliam a somno posse distingui, ut obstupescam, et fere hic ipse stupor mihi opinionem somni confirmet( (Descartes R., Meditationes…, cit., p. 19, corsivo mio). Nel testo italiano: (vedo tanto chiaramente che non si può mai distinguere mediante indizi sicuri la veglia dal sonno, da esserne stupito, e questo stesso stupore mi conferma a credere che io dorma( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 32). L’esortazione immediatamente seguente dell’Age sommniemus e la catena argomentativa che segue, si svolgono tutte nel luogo di questo stupor, che indubitabilmente appartiene al lessico familiare alla follia. Tuttavia questo termine pare assunto con grande leggerezza, senza precisione, senza coscienza di evocare in tal modo scenari molto prossimi a quelli dell’insensato. Si confrontino a questo proposito gli articoli che ne Le passioni dell’anima Descartes dedica allo stupore, che (è un eccesso di meraviglia che non può non essere se non cattivo(. In questa sede verranno smontati analiticamente quei meccanismi, anche fisiologici, che producono questa particolare degenerazione della meraviglia, passione di per sé indubbiamente positiva, (in quanto ci dispone all’acquisto delle scienze(. Tuttavia (a causa di questo (eccesso di meraviglia, stupore) l’uso della ragione può essere totalmente impedito o distorto( (cfr. Le passioni dell’anima, trad. it. di E. Garin, in Cartesio, Opere, Laterza, Bari, 1967, vol. II, pp. 442-446, inciso mio).
395 È una vera e propria sequenza ‘in crescendo’ di termini ed espressioni che squalificano l’insania nelle sue pretese a svolgere un ruolo all’interno del movimento dubitante: (nescio quibus insanis…cerebella…contumax…labefactat…amentes…dementes…(.
396 Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 32.
397 La tesi di un pre-giudizio di fondo sarebbe di per sé sollecitata anche dalle particolari scelte linguistiche che accompagnano in queste pagine la riflessione cartesiana sulla follia, scelte che mettono in scena una vera e propria denigrazione di essa, mai una sua spiegazione.
398 Descartes R., Meditationes…, cit., p. 22, corsivo mio. Nella traduzione italiana: (fingerò che esse (le mie opinioni abituali) siano assolutamente false e immaginarie, […]. So infatti che di qui non proverrà nulla, intanto, che sia pericoloso ed erroneo, […] poichè ora non mi occupo già di problemi pratici, ma soltanto di conoscitivi( (Cartesio, Meditazioni…, cit., p. 35, inciso mio).
399 Questa citazione si è già avuto modo di considerarla (cfr. più sopra p. 207, nota 52).
400 Questa impossibilità (impossibilità di fatto e di diritto) trova anzitutto riscontro nel fatto che il folle non è capace di ipotesi. Inoltre il suo agire è sempre, immediatamente, pratico, mentre l’idea di una ‘negazione totale’ è la stessa idea della negazione di qualsiasi prassi.
401 Sarebbe meglio dire: (all’interno dell’esperienza cosmico-tragica della follia e nei suoi immediati dintorni(. Si tenga anche in debito conto che se Descartes è, indiscutibilmente, voce autorevole del mondo classico e campione dell’esperienza critica nei confronti dell’insensato, il suo apparire sulla scena della storia non produce ipso facto la cancellazione automatica della ben più complessa esperienza cosmica. Il frammento 144 dei Pensées di Pascal è chiarissima testimonianza di una sopravvivenza di questa ‘complessità’, in un periodo nel quale la ‘semplicità’ cartesiana (e il suo dualismo non-dialettico di Ragione e follia) si era già di fatto imposta. Il frammento in questione è già stato citato e analizzato (cfr. più sopra pp. 56-57 e pp. 132-133).
402 Riguardo la Stulticia erasmiana e i problemi che giunge ad intercettare si legga più sopra pp. 42-58.
403 Ad evitare possibili fraintendimenti, sarà opportuno ricordare che la follia del bouffon, in quanto simulata e artificiale, non è per questo meno follia. Per noi che la osserviamo essa è assolutamente identica a quella spontanea e immediata. L’unica differenza, mai per altro visibile, risiede nel fatto che la follia del bouffon, pur esprimendosi alla luce del giorno, all’insegna della certezza e della totale assenza di dubbio, cela sotto di sé, nella coscienza segreta del folle-teatrante, un senso a volte anche tragico del dubbio, dell’incertezza. In questo senso il caso rappresentato dal Neveu è emblematico. Sulla possibilità di assumere la follia artificiale del bouffon nel più ampio discorso sulla follia, quest’indagine ha già a sufficienza concentrato i fuochi della sua attenzione (cfr. più sopra pp. 97-103).
404 Diderot D., Il nipote..., cit., p. 47. Il testo francese recita: (Celui qui serait sage n’aurait point de fou. Celui donc qui a un fou n’est pas sage; s’il n’est pas sage, il est fou( (Diderot D., Oeuvres, cit., p. 468).
405 Cfr. Miller J, La passione…, cit., p. 111. L’intuizione di cui si parla è quella sintetizzata da Foucault stesso nell’intervista rilasciata a Le Monde il 22 luglio 1961. A questo riguardo cfr. più sopra p. 177, nota 1.
406 Miller J. La passione…, cit., p. 137, inciso mio. Sorprende il fatto che Miller, dopo aver dato ampio resoconto dell’interesse e delle discussioni che l’Histoire generò in seno all’intera comunità scientifica, arrivando poi a presentare nello specifico la critica derridiana, focalizzi completamente negli effetti di quest’ultima la cancellazione della Préface, escludendo a priori e senza addurre alcuna giustificazione i possibili effetti che a questo riguardo avrebbero potuto generare le critiche di altra provenienza. Per l’intera questione cfr. ibidem, pp. 134-139.
Lo stesso impianto interpretativo viene riproposto nella sostanza anche da Pier Aldo Rovatti, il quale dedica largo spazio a chiarificare l’enigma dell’assenza della Préface nell’edizione del 1972. Pur senza arrischiarsi in una sistemazione definitiva del problema, è comunque del parere che il segreto di questa scomparsa vada cercato tra le pieghe del dibattito Foucault-Derrida e mai fuori di esso. (Perché Foucault le (le pagine della Préface) ha soppresse? Forse per porgere l’orecchio a Derrida? Per altri motivi di opportunità? In ogni caso (toglie( qualcosa al suo lavoro: ha bisogno di sottrargli qualcosa, di attutirne l’impatto. Forse la sensazione di aver detto precipitosamente, in quelle pagine, che cosa è per lui la follia, di essersi fatto sfuggire la mano( (cfr. Rovatti P.A., A cavallo di un muretto. Note su follia e filosofia, contenuto in Pensare la follia, (Aut Aut(, cit., pp. 6-14, inciso mio). Va riconosciuto comunque a Rovatti la precisa e mai smentita volontà di tenere la propria indagine distante dalle minuterie biografico-psicologiche.
407 Elisabeth Roudinesco nel suo intervento introduttivo al IX Colloque de la Société internationale d’histoire de la psychiatrie et de la psychanalyse, tenuto a Parigi il 23 novembre 1991, riflettendo sulle pagine derridiane di Cogito et histoire de la folie, precisava che (pour Derrida, l’exclusion est antérieure au Cogito et remonte à Socrate( (Lectures de l’Histoire de la folie: introduction, contenuto in Penser la folie. Essais sur Michel Foucault, con interventi di E. Roudinesco, G. Ganguilhem, J. Postel, F. Bing, C. Quétel, A. Pirella, A. Farge, R. Major, J. Derrida, pp. 33-34).
408 Analoga impostazione e analoga mancanza anche nel già citato saggio di Rovatti. Diversamente invece accade nella riflessione proposta da Mario Colucci, per il quale la soppressione della Préface è posta sullo sfondo del dibattito suscitato dall’Histoire nel corso dei suoi primi undici anni di vita e nel quale la presenza di Derrida, per quanto importante, non riveste una funzione sintetica, né privilegiata, né emblematica all’interno della totalità del dibattito stesso. Nel capitolo intitolato Storia della follia: destino di un’opera lo studioso precisa: ( Negli undici anni che seguono la pubblicazione, la fama di Foucault cresce immensamente: per questo non gli sarebbe difficile replicare, nella prefazione alla seconda edizione del 1972, tanto alle critiche ingenerose quanto agli entusiasmi facili che l’uscita del libro ha provocato. Ma, se si eccettua la durissima risposta alla critica di Derrida, Foucault si trattiene. Anzi, elimina la prefazione del 1961 e la sostituisce addirittura con una più breve, che sembra quasi scritta malvolentieri, e che in realtà appare consapevole degli avvenimenti di quegli undici anni e della ricchezza di studi e di pratiche che il libro ha suscitato(. Significativamente poi segue un’acuta riflessione sui contenuti della seconda prefazione, quella che effettivamente accompagnò l’edizione del 1972, sulla quale invece sia Miller, sia Rovatti, sia Roudinesco tacciono (cfr. Colucci M., Il vetro dell’acquario. Michel Foucault e le istituzioni della psichiatria, contenuto in Pensare la follia, (Aut Aut(, cit., pp. 75-77).
409 Intervista riportata da Miller J., La passione…, cit., p. 128.
410 Il testo francese recita: (les historiens de la psychopathologie voulaient et ne voulaient pas voir que le ciel leur tombait sur la tête( (Roudinesco E., Lectures de…, cit., p. 23, traduzione parziale mia).
411 Il testo francese recita: (Michel Foucault dénonçait tous les idéaux sur lesquels reposait leur savoir( (ibidem, p. 11, traduzione mia).
412 Il testo francese: (Georges Canguilhem […] comprit aussitôt qu’il s’agissait là d’une révision radicale de la manière psychiatrique de penser la folie(, (la remise en question du statut (scientifique( de la psychologie( (ibidem, p. 19, traduzioni mie).
413 Il testo francese recita: (Pourquoi cet élégant philosophe, fils de médicin, s’intéressait-il tant à la folie, alors même qu’il n’avait pas voulu s’orienter vers une carrière psychiatrique? Pourquoi tant de violence et tant de ribellion, pourquoi une telle transgression? N’était-il pas, cet homme, traversé par une expérience de la deviance qui le faisait s’identifier à les fous imaginaires pour mieux se déprendre d’une corporation dont il avait choisi de ne pas faire partie? On savait que Foucault avait voulu se suicider, on savait qu’il était homosexuel, on savait qu’il avait essayé pendant trois semaines de faire une analyse, on savait enfin qu’il avait fréquenté les fous à l’hôpital Sainte-Anne et qu’il avait suivi, pour son diplôme de psychopathologie, de nombreuses présentations de malades. On pensa donc que son livre était une autobiographie masquée( (ibidem, pp. 21-22, traduzione mia).
414 Si tratta ovviamente di un aggiustamento della nota espressione cartesiana contenuta nella Prima Meditazione. E in modo analogo a quanto accadeva nella pagina cartesiana, anche all’interno di questo contesto critico la scoperta di un coinvolgimento nel vissuto patologico della follia presenta l’utilità immediata di screditare la portata scientifica delle riflessioni di chiunque ne sia coinvolto.
415 Evitare la riflessione su quei pochi scampoli di vita vissuta che ci è dato conoscere dell’autore non significa affermare implicitamente (quasi si volessero porre le condizioni teoriche di questo abbandono) che un’opera letteraria, e prima ancora il pensiero che la sostanzia, siano del tutto sganciati e indipendenti dalle concrete esperienze di vita e dal modo in cui queste sono vissute e ricordate. Si vuole più semplicemente richiamare l’attenzione sul fatto che questi ‘frammenti’ di vita vissuta (e nel caso di Foucault in fondo non abbiamo altro che questi) possono essere letti nei modi più vari e che quindi, proprio nella loro generica semplicità, possono dire tutto e il contrario di tutto. Si pensi, per fare solo un esempio, alla breve esperienza di Foucault sul divano dello psicoanalista (accennata da Roudinesco, in Lectures de…, cit., p. 21: (on savait qu’il avait essayé pendant trois semaines de faire une analyse(). Certo, potrebbe essere la prova di un Foucault spaventato di fronte all’emergere, nel dialogo con lo psicoanalista, dei fiori della propria follia; di un Foucault incapace di reggere, nei fatti e non solo a parole, la sua volontà di sfidare la tradizione psicoanalitica; ma potrebbe essere anche la prova che il futuro ‘psichiatricida’, preso atto nei fatti e nelle parole della sostanziale impotenza della pratica psicoanalitica se ne allontana, senza traumi, semplicemente, con una banale scrollata di spalle. I significati che si aprono da questo nudo evento biografico potrebbero con facilità essere moltiplicati a piacere, ma mai nessuno di questi potrà esere verificato, o falsificato. Tutte queste minuterie biografico-psicologiche si prestano efficacemente, proprio nella loro estrema duttilità semantica, a costituire pezze d’appoggio a questa o a quella teoria interpretativa, ma solo con funzione retorica, a chiarimento ed esemplificazione di una tesi che ha le radici altrove, mai con funzione probante e fondante. Proprio per questi motivi la loro utilità in sede storiografica è sospetta.
416 Foucault M., L’archeologia del sapere, trad. it. di Bogliolo G., Rizzoli, Milano,1996, p. 25.
417 Cfr. Miller J., La passione…., cit., pp. 40-41. Anche Derrida, in apertura al suo intervento del 1991, ripropone in estrema sintesi le tappe biograficamente salienti del suo rapporto con Foucault (cfr. Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., pp. 23-24).
418 Ben prima della singolarità dei contenuti ciò che colpisce il lettore è l’estrema brevità di questa nuova Préface, un quarto circa della precedente. Per la traduzione italiana ho seguito quella già utilizzata di Franco Ferrucci, contenuta in Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 7-9. Le citazioni dal testo francese sono sempre tratte da Foucault M., Histoire…, cit., pp. 9-11.
419 Michel F., Storia della follia…, cit., p. 8, inciso mio. Nel testo francese: (Je suis le nom, la loi, l’âme, le secret, la balance de tous ces doubles(. La Prefazione viene così intesa quale legislazione che pone ordine e regola la vita di tutti quegli avvenimenti (significati) che muovono su e dalla superficie del testo scritto.
420 Vale la pena di citare per intero il passo: (e sforzatevi di capire la mia modestia: quando parlo dei limiti della mia impresa, intendo limitare la vostra libertà( (ibidem, p. 8). Nel testo francese: (entendez bien ma modestie: quand je parle des limites de mon entreprise, j’entends borner votre liberté(.
421 Ibidem, p. 8. Nel testo francese: (Je voudrais qu’un livre, au moins du côté de celui qui l’a écrit, ne soit rien d’autre que les phrases dont il est fait(
422 Anche Mario Colucci, nel suo intervento già citato, pare del medesimo avviso: (Foucault, convinto della necessità di eclissare la propria identità già acquisita sul palcoscenico della filosofia, presta attenzione a non disseccare con la sua autorità il fiume di interpretazioni intorno alla Storia della follia – molte delle quali anche distanti dalle intenzioni del testo – e a lasciare che esso viva di una sua vita propria, senza che l’autore vi eserciti la sua tirannia o vi imponga la sua legge( (Il vetro dell’acquario…, contenuto in Pensare la follia, (Aut Aut(, cit., p. 77)
423 Miller J., La passione…, cit., p. 117. Com’è noto Foucault sostenne la sua tesi di dottorato dal titolo Folie et déraison, histoire de la folie à l’âge classique il 20 maggio 1961, davanti a una giuria composta, tra gli altri, da Henri Gouhier nelle funzioni di presidente, da Georges Canguilhem in quelle di relatore, da Daniel Lagache. A questo riguardo si legga anche l’agile sintesi offerta da Roudinesco, Lectures de …, cit., pp. 11-12, nota 1.
424 Miller J., La passione di…, cit., p. 117.
425 Canguilhem, citato da Roudinesco, parla a questo proposito di una (remise en question du statut (scientifique( de la psychologie( (cfr. Roudinesco E., Lectures de…, cit., p. 19).
426 Miller J., La passione…, cit., p. 117.
427 Il punto di vista di Gouhier è riportato in sintesi da Miller: (Sono queste personificazioni (Re Lear, il Nipote di Rameau, …) […] che consentono una specie di incursione metafisica nella storia, e che in un certo senso trasformano la narrativa in epica e la storia in un dramma allegorico, dando vita a una filosofia( (ibidem, p. 118, inciso mio).
428 Un esempio recente di quest’intenzione critica è offerto da Claude Quétel (Faut-il critiquer Foucault, in Penser la folie…, cit., pp. 79-102), il cui intervento è esattamente mirato a mostrare l’infondatezza della ricostruzione foucaultiana della vicenda storica dell’internamento. Occorre tuttavia in primo luogo avere l’onestà di riconoscere che l’intensità di questi studi storici trova una delle sue fonti (perenni) di maggiore sollecitazione proprio nel pericolo rappresentato dalla riflessione di Foucault sull’insensato e, in secondo luogo, occorre chiedersi se queste critiche e ‘correzioni’ storico-quantitative siano, e in che misura, in grado d’intaccare l’Histoire nella sua natura di edificio filosofico, nelle sue istanze filosofiche di fondo.
429 L’intera questione è riportata da Roudinesco nel suo Lectures de…, cit., p. 15.
430 Ibidem, p. 16, traduzione mia. Il testo francese recita: (Les antipsychiatres partageaient avec Foucault l’idée que la folie devait être pensée comme une histoire dont les archives avaient été refoulées au prix d’une formidable conjuration: celle de l’aliénisme devenu psychiatrie, celle de la raison devenue oppression(.
431 Si tenga presente il fatto che, se fu sempre rara la partecipazione di Foucault alle discussioni con gli psichiatri, non si può dire la stessa cosa dei rapporti che lo legarono al mondo dell’antipsichiatria, a lui certo più congeniale. Si pensi a questo riguardo al riconoscimento di grande stima che Foucault stesso espresse a più riprese nei riguardi del movimento antipsichiatrico. Testo esemplare in tal senso, testo che qui non si avrà modo di ripercorre, neppure sinteticamente è La casa della follia (trad. it. di C. Tarroni, contenuto in Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, a cura di F. Basaglia e F. Basaglia Ongaro, Einaudi, Torino, 1975, con interventi e contributi di F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, V. Dedijer, M. Foucault, R. Castel, R. Lourau, V. Accattatis, E. Wulff, N. Chomsky, R. Laing, E. Gofmann, T.S. Szasz, S. Cohen, J. McKnight).
432 Roudinesco E., Lectures de…, cit., p 19, corsivo e traduzioni mie. Il testo francese recita:(d’expliquer la présence de la folie dans la nature humaine(; (cet arsenal s’est construit sur l’illusion rétroactive d’une folie déjà donnée dans la nature(.
433 Nel 1962, nel pubblicare il testo rimaneggiato di Maladie mentale et psychologie, Foucault ribadiva la medesima posizione. Su questi motivi si avrà modo di riflettere tra breve.
434 Roudinesco E., Lectures de…, cit., p. 21, traduzione mia. Il testo francese recita: (En quoi le fou ordinaire de l’asile ordinaire ressemblait-il à un Artaud, à un Van Gogh?(.
435 Già si è parlato di questa strategia (cfr. più sopra p. 234-235).
436 Il riferimento a questo testo e la delucidazione su suoi contenuti si trovano sempre nel saggio di Roudinesco, Lectures de…, cit., pp. 23-24.
437 Ibidem, p. 23, traduzione mia. Nel testo francese: (dans la diversité de ses manifestations culturelles. […] Elle existait bien depuis la nuit des temps mais n’était devenue compréhensible que du jour où l’homme avait pu l’appréhender, sous la forme d’une pensée magique ou d’une pensée rationnelle(.
438 La posizione di Swain e Gauchet e i loro rapporti con il testo foucaultiano sono chiariti da Roudinesco, Lectures de…, cit., pp. 25-32.
439 Tutti questi interventi, preceduti dal saggio di Roudinesco, sono contenuti in Penser la folie…, cit..
440 Foucault M., Storia della follia nell’età classica, trad. it. di Ferrucci F., Rizzoli, Milano, 1963, p. 9. Altra traduzione, che qui non è stata seguita, è quella di Gioia Costa, contenuta in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Vol. 1. 1961-1970 Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, pp. 49-58. Il testo francese recita: (tâcher de rejoindre, dans l’histoire, ce degré zéro de l’histoire de la folie( (per questa come per le altre citazioni dall’originale francese della Préface, si è sempre tenuto presente il testo contenuto in Foucault M., Folie et déraison, histoire de la folie a l’âge classique, Plon, Paris, 1961, pp. I-XI).
441 Foucault M., Storia della follia…, ed. 1963, cit., p. 9. Il testo francese recita: (choses désormais extérieures, sourdes à tout échange, et comme mortes l’une à l’autre, la Raison et la Folie(.
442 Queste considerazioni, sulle difficoltà di diritto di un’indagine psicologica sulla follia, sono in perfetta sintonia con il risultato cui approda la lunga riflessione depositata da Foucault in Malattia mentale e psicologia, testo indubbiamente connesso all’Histoire da una medesima intenzione, da un medesimo slancio teorico. Qui Foucault chiariva come la psicologia sia potuta sorgere e l’uomo divenire una (specie psicologizzabile( solo nel momento in cui l’uomo stesso è entrato in un determinato rapporto con la follia, (ossia da quando il suo rapporto con la follia si è definito secondo la dimensione esteriore dell’esclusione e del castigo e secondo la dimensione interiore dell’investimento morale e della colpa(. Con l’istituire tale particolare rapporto (e nel pensarsi in tale rapporto) con la follia, (l’uomo dell’inizio del XIX secolo rendeva possibile una presa sulla follia e, con ciò, una psicologia generale( (Foucault M., Malattia mentale e psicologia, trad. it. e introd. di F. Polidori, Cortina, Milano, 1997, p. 85). La Conclusione dello scritto giungeva poi a trarre le estreme conseguenze di tale stato di cose: (C’è una buona ragione per cui la psicologia non potrà mai dominare la follia: perché il nostro mondo ha reso possibile la psicologia solo dopo aver dominato la follia, dopo averla anzitempo esclusa dal dramma. E quando ricompare, come nei lampi e negli urli di Nerval e di Artaud, di Nietzsche o di Roussel, la psicologia tace, resta senza parole di fronte a quel linguaggio( (ibidem, pp. 100-101). Derrida, rileggendo quest’ultimo passo, ne portava in luce la logica nascosta: (ciò che è già stato padroneggiato non può più esserlo(; (la troppa padronanza (nelle forme dell’esclusione ma anche dell’oggettivazione) priva di padronanza (nella forma dell’accesso, della conoscenza, della competenza)( (Derrida J., (Essere giusti con Freud(.…, cit., p. 70). Il testo francese recita: (Le trop de maîtrise (sous la forme de l’exclusion mais aussi de l’objectivation) prive de la maîtrise (sous la forme de l’accès, de la connaissance, de la compétence)( (Derrida J., (Être juste avec Freud(.…, cit., p. 178).
443 Foucault M., Storia della follia…, ed. 1963, cit., p. 10, corsivo mio. Il testo francese recita: (Là, folie et non-folie, raison et non-raison sont confusément impliquées: inséparables du moment qu’elles n’existent pas encore, et existant l’une pour l’autre, l’une par rapport à l’autre, dans l’échange qui les sépare(.
444 Può essere interessante osservare che il termine ‘archeologia’, sul quale tanto insisteranno i commentatori di questa Préface, non escluso lo stesso Derrida, non ricorra nello scritto che questa sola volta. Senza dubbio le ragioni di una tale attenzione e sottolineatura possono essere facilmente rinvenute nell’importanza che il termine in questione assumerà negli scritti successivi all’Histoire, già a partire dalla Naissance de la clinique (1963), significativamente sottotitolata (une archéologie du regard médical(. Per quanto la Préface del 1961 possa essere considerata a questo riguardo come una significativa anticipazione, sarebbe tuttavia errato intendere l’archéologie della Préface secondo la griglia teorica offerta dagli scritti foucaultiani successivi. Tanto più che in queste stesse pagine sono presenti elementi sufficienti a chiarire che cosa Foucault avesse voluto intendere con l’espressione archéologie.
445 Cfr. ibidem, p. 16. Per Foucault due momenti precisi circoscrivono la svolta epocale: la creazione dell’Hôpital général nel 1657 e la liberazione degli incatenati di Bicêtre operata da Pinel nel 1794. Gioia Costa, nel presentare la sua traduzione di questo passo della Préface, annota a margine: (Abbiamo scelto di mantenere la dizione originale âge classique nel corso del testo, in quanto la traduzione italiana età classica rimanda immediatamente all’antichità greca o romana, mentre in francese si definisce classique il XVII secolo, in particolare dal 1660 in poi( (cfr. Archivio Foucault…, cit., p. 58, nota 1).
446 Il termine ‘connessione’ scelto da Ferrucci non rende piena giustizia alla complessità di significati che si muovono nell’area semantica segnata dall’affrontement, la quale non rimanda semplicemente all’idea di ‘accostamento’, ‘connessione’, ma anche a quella di ‘scontro’. La ‘connessione’ che insiste nelle verticalità sotterranee della storia, in quanto affrontement, è qualcosa di drammaticamente, di pericolosamente vitale: una connessione agitata, turbolenta. Si capisce in tal modo come il suo superamento conduca alla (calma razionale della storia(, come la dialettica socratica e più ancora la ragione classica possano accogliere in sé l’attributo di (rassicuranti(, proprio in quanto guadagnano un luogo di calma e serenità, rimuovendo nell’oblio la realtà originaria dello scontro.
447 Foucult M., Storia della follia…, ed. 1963, cit., p. 11. Il testo francese recita: (qui n’est ni l’histoire de la connaissance, ni l’histoire tout court, qui n’est commandée ni par la téléologie de la vérité, ni par l’enchaînement rationnel des causes, lesquels n’ont valeur et sens qu’au delà du partage(.
448 Ibidem, p. 11. Il testo francese recita: (On pourrait faire une histoire des limites, – de ces gestes obscures, nécessairement oubliés dès qu’accomplis, par lesquels une culture rejette quelque chose qui sera pour elle l’Extérieur(.
449 Il (gesto( in cui si consuma la separazione ragione-follia non rappresenta l’unica esperienza-limite costitutiva e fondante la storicità della cultura e della ragione occidentale. Altre esperienze-limite, anch’esse da sondare con attenzione archeologica, sono il rapporto con l’Oriente, il sogno, i tabù sessuali. Viene in tal modo a disegnarsi il progetto di uno studio archeologico di vasto e complesso respiro, del quale l’Histoire costituisce una prima tappa (cfr. ibidem, p. 13).
450 Ibidem, p. 13. Il testo francese recita: (quelques rides qui inquiètent peu, et n’altèrent pas le grand calme raisonnable de l’histoire(.
451 Ibidem, p. 13, corsivo mio. Il testo francese recita: (queque chose dans le devenir qui est irréparablement moins que l’histoire(.
452 Ibidem, p. 14. Il testo francese recita: (le temps historique impose silence à quelque chose que nous ne pouvons plus appréhender par la suite, que sous les espèces du vide, du vain, du rien(.
453 Ibidem, p. 14. Il testo francese recita: (le murmure ostiné d’un langage qui parlerait tout seul(. Nel momento in cui quest’indagine utilizza l’espressione ‘attenzione archeologica’, lo fa nella lettura e nella prosecuzione naturale di quest’immagine.
454 Ibidem, p. 15. Il testo francese recita: (ce fait général qu’il ne peut y avoir dans notre culture de raison sans folie(.
455 Ibidem, p. 15. Il testo francese recita: (dans le geste du partage qui déjà les dénonce et les maîtrise(.
456 Si è visto infatti come la logica sottesa al ‘linguaggio originario’, in cui accade la circolazione ragione-follia, non conosce il principio d’identità, non conosce le leggi del tempo, quelle di causa ed effetto, non conosce la distinzione soggetto-oggetto. In breve, è una logica altra rispetto a quella che struttura il linguaggio ordinario, il ‘grado attuale’. Proprio per questo ciò che accade al livello del (grado zero( non può venire tradotto nel linguaggio attuale, o meglio: tale traduzione è, di diritto, un tradimento.
457 Ibidem, p. 16, corsivo mio. Il testo francese recita: (une étude structurale de l’ensemble historique – notions, institutions,, mesures juridiques et policières, concepts scientifiques – qui tient captive une folie dont l’état sauvage ne peut jamais être restitué en lui-même(.
458 Quest’ultima puntualizzazione foucaultiana, che sgorga con la massima coerenza dalla macchina teorica appena definita, costituisce anche una replica anticipata a quei critici, come Gouhier, i quali rimproveravano a Foucault un rapporto troppo disinvolto e compiacente con i trucchi e gli illusionismi della retorica letteraria (cfr. più sopra pp. 242-243). Il rimprovero di eccessiva letterarietà, in uno con la severa sottolineatura di una fragile consistenza scientifica del lavoro, doveva trovare già in queste righe delle ragioni di perplessità, se non addirittura il dovere di tramutarsi in una lode: qui Foucault programmaticamente afferma la volontà, e prima ancora la necessità, di prendere le distanze dal logos proprio della scienza. E queste critiche, a modo loro, riconoscono il raggiungimento dell’obiettivo.
459 Derrida J., Cogito e storia …, cit., p. 39. Il testo francese recita: (ce dialogue risque d’être entendu – à tort – comme une contestation( (questa, come le altre citazioni dall’originale francese, sono tratte da Derrida J., Cogito et histoire de la folie, contenuto in L’écriture et la différence, éditions du Seuil, Paris, 1967, pp. 51-97). Significativamente, al termine della conferenza, Derrida precisava che il suo pensiero e la particolare (ingenua( lettura da lui offerta del testo cartesiano non fanno che colmare un (intervallo( (intervalle), un vuoto lasciato dallo stesso Foucault. Come dire: si tratta di un completamento, di un approfondimento, non di una negazione, di un rovesciamento, di una banale contestazione. Motivi del tutto analoghi si rintracciano anche nell’intervento derridiano del 1991 (cfr. Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., pp. 44-49), su cui si avrà modo di tornare diffusamente più avanti.
460 Derrida sembra comunque riconoscere una certa preminenza alla (rilettura del Cogito cartesiano( sulla base della quale (sarà possibile interrogare alcuni presupposti filosofici e metodologici di questa storia della follia( (Derrida J., Cogito e storia…, cit., p. 42). Il testo francese recita: (à la lumière de la relecture du Cogito cartésien […] sera […] possible d’interroger certaines présuppositions philosophiques et méthodologiques de cette histoire de la folie(. Questa è la via che viene suggerita al lettore-uditore, ma rimane vero che, di fatto, la discussione prende inizio con l’esame dei (presupposti filosofici e metodologici(.
Sui motivi che lo avrebbero condotto in Cogito et histoire de la folie a concentrare l’attenzione sulla riflessione cartesiana, Derrida ritornerà ancora nel suo intervento del 1991. La rimessa in causa di Descartes, si spiega qui, non dipese unicamente dall’importanza significativa e strategica che il passo delle Meditationes veniva ad assumere nell’Histoire, ma anche implicitamente dal peso (che il riferimento a un certo Descartes giocava nella riflessione di allora, all’inizio degli anni sessanta, in prossimità della psicoanalisi, in verità nell’elemento stesso di una certa psicoanalisi e della teoria lacaniana( (Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., p. 30). Il testo francese recita: (à cause du rôle que la référence à un certain Descartes jouait dans la réflexion d’alors, au début des annés soixante, au plus près de la psychanalyse, en vérité dans l’élément même d’une certaine psychanalyse et de la théorie lacanienne( (Derrida J., (Être jiuste avec Freud(…, cit., p. 146).
461 Derrida precisa: (soggetto in tutti i sensi di questa espressione: il tema del suo libro e il soggetto parlante, l’autore del suo libro, la follia che parla di sé( (Derrida J., Cogito e storia della follia, cit., p. 43). Il testo francese recita: (sujet à tous les sens de ce mot: le thème de son livre et le sujet parlant, l’auteur de son livre, la folie parlant de soi(.
462 Ibidem, p. 43. Il testo francese recita: (concepts qui ont été les instruments historiques d’une capture de la folie(.
463 Ibidem, p. 43. Il testo francese recita: (La volonté d’éviter ce piège est constante chez Foucault(.
464 Il lettore-uditore del resto era già stato preparato a questa paradossale sentenza. Poco prima, nell’enunciare il problema di fondo, Derrida aveva affermato: (Foucault ha voluto – e qui sta tutto il pregio ma anche l’impossibilità del suo libro – scrivere una storia della follia in se stessa( (ibidem, p. 43). Il testo francese recita: (Foucault a voulu – et c’est tout le prix mais aussi l’impossibilité même de son livre – écrire une histoire de la folie elle-même(.
465 Nel citare questo famoso passo della Préface del 1961, Derrida riscrive in corsivo la preposizione sopra, nella quale è inscritta tutta la vicenda di conquista, di vittoria e di annientamento compiuta dalla ragione nei riguardi della follia.
466 Sulla particolare natura del linguaggio dell’Histoire, cfr. più sopra p. 259.
467 Ibidem, p. 44. Il testo francese recita: (un langage organisé, un projet, un ordre, une phrase, une syntaxe, une (oeuvre((.
468 Ibidem, p. 45. Il testo francese recita: (se dégager totalement de la totalité du langage historique qui aurait opéré l’exil de la folie, s’en libérer pour écrire l’archeologie du silence, cela ne peut pas être tenté(.
469 Ibidem, p. 45. Il testo francese recita: (l’ordre alors est dénoncé dans l’ordre(.
470 Ovvio a questo punto il riferimento derridiano ad Hegel, in forza del quale lo sforzo archeologico promosso dall’Histoire viene a collocarsi interamente sotto la grande ombra del filosofo tedesco. Ma Foucault a tutto questo aveva già risposto. L’archeologia del silenzio indirizza la sua attenzione verso quella région incommode, che insiste verticalmente al di sotto della superficie del divenire storico e per la cui ricognizione la strumentazione teorica hegeliana è del tutto inadeguata. Infatti, la région incommode (non è né la storia della conoscenza, né semplicemente la storia, […] non è sorretta né dalla teleologia della verità, né dalla concatenazione razionale delle cause, le quali non hanno senso e valore se non al di là della separazione( (cfr. più sopra, pp. 254-255).
471 Ibidem, p. 46. Il testo francese recita: (On ne peut sans doute pas écrire une histoire, voire une archéologie contre la raison, car, malgré des apparences, le concept d’histoire a toujours été un concept rationnel. C’est la signification (histoire( ou (archie( qu’il eût peut-être questionner d’abord(.
472 Foucault M., Storia della follia…, ed. 1963, cit., p. 15, inciso mio. Il testo francese recita: (La perception qui cherche à les saisir à l’état sauvage appartient nécessairement à un monde qui les a déjà capturées( (Foucault M., Folie et déraison…, cit., p. VII).
473 (Voglio dire(, precisa Derrida, (che il silenzio della follia non è detto, non può essere detto nel logos di questo libro ma reso presente indirettamente, metaforicamente se posso dir così, nel pathos – e prendo questa parola nel suo senso migliore – di questo libro( (Derrida J., Cogito et storia della follia, cit., p. 47). Il testo francese recita: (Je veux dire que le silence de la folie n’est pas dit, ne peut pas être dit dans le logos de ce livre mais rendu présent indirectement, métaphoriquement, si je puis dire, dans le pathos – je prends ce mot dans son meilleur sens – de ce livre(.
474 Ibidem, p. 48. Il testo francese recita: (Il faut bien supposer […] qu’une certaine libération de la folie a commencé, que la psychiatrie s’est, si peu que ce soit, ouverte, que le concept de folie comme déraison, s’il a jamais eu une unité, s’est disloqué. Et que c’est dans l’ouverture de cette dislocation qu’un tel projet a pu trouver son origine et son passage historiques(.
475 Cfr. più sopra pp. 250-251 e nota 38.
476 Con questi termini Derrida spiega il senso del foucaultiano geste de coupure.
477 Per chiarire la natura della Décision Derrida afferma: (Vorrei dire piuttosto dissenso per sottolineare che si tratta di una divisione da sé, di una spartizione e di un tormento interiore del senso in generale, del logos in generale, […]. Come sempre, il dissenso è interno. L’esterno (è) l’interno, vi si incide e lo divide secondo la deiscenza della Entzweiung hegeliana( (ibidem, p. 49). Il testo francese recita: (Je dirais plutôt dissension pour bien marquer qu’il s’agit d’une division de soi, d’un partage et d’un tourment intérieur du sens en general, du logos en general, […]. Comme toujours, la dissension est interne. Le dehors (est) le dedans, s’y entame et le divise selon la déhiscence de l’Entzweiung hegelienne(. Si è già parlato della cautela con cui si dovrebbero adoperare strumenti teorici hegeliani per sondare i campi teorici posti in essere nell’Histoire, una cautela sollecitata dallo stesso Foucault della Préface del 1961.
478 Ibidem, p. 49. Il testo francese recita: ( Raison et folie à l’âge classique ont eu une racine commune(.
479 Ibidem, p. 51. Il testo francese recita: (la raison se rassurerait en excluant son autre, c’est-à-dire en constituant son contraire comme un objet pour s’en protéger et s’en défaire. Pour l’enfermer(.
480 Sarà opportuno rileggere, assieme a Derrida, il passo foucaultiano della Préface: (La necessità della follia nello svolgimento della storia dell’Occidente è collegata a questo gesto di decisione che permette di distinguere sul rumore di fondo e sulla sua monotonia continua, un linguaggio significativo che si trasmette e che si conclude nel tempo; in breve, essa è collegata alla possibilità della storia( (ibidem, p. 53). Il testo francese recita: (La nécessité de la folie, tout au long de l’histoire de l’Occident est liée à ce geste de décision qui détache du bruit du fond et de sa monotonie continue un langage significatif qui se transmet et s’achève dans le temps; en bref, elle est liée à la possibilité de l’histoire(.
481 Si tenga comunque presente, come già si è chiarito, che lo stesso Derrida intende il suo intervento nella logica dell’approfondimento e della problematizzazione e non in quella che vuole ed esige la cancellazione della posizione e del merito dell’antagonista (cfr. più sopra p. 260, nota 55).
482 Ibidem, p. 55. Il testo francese recita: (le passage consacré a Descartes ouvre précisément le chapitre sur Le grand renfermement. Il ouvre donc le livre lui-même(.
483Questo passo della Préface è già stato sottoposto ad analisi (cfr. più sopra p. 254, nota 43).
484 Derrida si chiedeva: (Questo (colpo di forza(, descritto nella dimensione del sapere teoretico e della metafisica, è un sintomo, una causa, un linguaggio?(. Utilizzando le coordinate teoriche della Préface, si giunge a negare la legittimità d’interrogare eziologicamente il renfermement philosophique attuato (espresso) da Descartes, e con questo si risponde contemporaneamente al successivo quesito derridiano: (Che cosa è necessario supporre o chiarire affinché questa interrogazione e questa dissociazione sia annullata nel suo senso?(. Infine, proponendo l’idea di un rapporto di solidarietà e ponendo l’interrogativo sul suo statuto, non si è fatto altro che seguire l’indicazione derridiana: (E se quel colpo di forza ha una solidarietà strutturale con la totalità del dramma, qual’è lo statuto di questa solidarietà?( (ibidem, p. 55). Il testo francese recita: (Ce (coup de force(, décrit dans la dimension du savoir théorétique et de la métaphysique, est-ce un symptôme, une cause, un langage? Que faut-il supposer ou élucider pour que cette question ou cette dissociation soit annulée dans son sens? Et si ce coup de force a une solidarité structurale avec la totalité du drame, quel est le statut de cette solidarité?(.
485 Poco prima di entrare nella puntuale lettura del testo cartesiano, Derrida sintetizza nuovamente il senso della question: (In particolare per quel che riguarda Descartes non si può dare una risposta ad alcuna interrogazione storica che lo riguardi – che riguardi il senso storico latente del suo pensiero, che riguardi la sua appartenenza ad una struttura storica totale – prima di aver analizzate nell’interno, rigorosamente e in modo esaustivo le sue intenzioni patenti, il senso patente del suo discorso filosofico( (ibidem, p. 56). Il testo francese recita: (En particulier en ce qui regarde Descartes, on ne peut répondre à aucune question historique le concernant – concernant le sens historique latent de son propos, concernant son appartenance à une structure totale – avant une analyse interne rigoreuse et exhaustive de ses intentions patents, du sens patent de son discours philosophique(.
486 Questa rapida e ordinata ricognizione delle intenzioni dell’intervento derridiano non fa che seguire da vicino le linee tracciate dallo stesso Derrida, in apertura al suo discorso (cfr. ibidem, pp. 40-42)
487 Ibidem, p. 59. Il testo francese recita: (dans l’analyse […] du rêve et de la sensibilité un noyau, un élément de proximité et de simplicité irréductible au doute(.
488 Foucault M., Storia della follia…, cit., pp. 68-69. Il testo francese recita: (Dans l’économie du doute, il y a un déséquilibre fondamental entre folie d’une part, rêve et erreur de l’autre. Leur situation est différent par rapport à la vérité et à celui qui la cherche; songes ou illusions sont surmontés dans la structure même de la vérité; mais la folie est exclue par le sujet qui doute. Comme bientôt sera exclu qu’il ne pense pas, et qu’il n’existe pas. Une certaine décision a été prise, depuis les Essais( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., pp. 68-69). Derrida ricorda come la lettura foucaultiana di questo passo delle Meditationes sia assolutamente nuova e originale: gli interpreti classici non avevano mai portato in luce questa dissociazione tra delirio e follia da un lato, e sensibilità e sogno dall’altro. Tornando a riproporre, e a riargomentare, le linee di una lettura canonica, ingenua, Derrida arriverà a mutare, ma non a cancellare, le ragioni dell’importanza fondamentale che le Meditationes rivestono in una riflessione, oggi, sulla follia. Sulla necessità di tornare a una lettura ingenua del testo cartesiano si insisterà ancora nel 1991 (cfr. Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., p. 28-30).
489 Derrida J., Cogito e storia della follia, cit., p. 60. Il testo francese recita: (il n’écarte à aucun moment la possibilitè de l’erreur totale pour toute connaissance qui a son origine dans les sens et dans la composition imaginative(.
490 Ibidem, p. 62. Il testo francese recita: (par une réduction continue découvrant enfin la résistance d’un noyau de certitude sensible ou imaginative. Il y a passage à un autre ordre et discontinuité(.
491 Ibidem, p. 63. Il testo francese recita: (Non, pas toutes les connaissances sensibles, sans quoi vous seriez fou et il serait déraisonnable de se régler sur les fous, de nous proposer un discours de fou(.
492 Di questo passo cartesiano si è già discusso nel capitolo precedente con ampiezza e in totale indipendenza dall’ombra derridiana (cfr. più sopra p. 200, nota 40).
493 Al non-filosofo mancherebbe insomma (il coraggio di seguire il filosofo quando quest’ultimo ammette di poter anche essere folle nel momento in cui parla( (ibidem, p. 64). Riportando l’intero passo francese: (C’est un exemple inefficace et malheureux dans l’ordre pédagogique car il rencontre la résistance du non-philosophe qui n’a pas l’audace de suivre le philosophe quand celui-ci admet qu’il pourrait bien être fou au moment où il parle(.
494 Su questi motivi si è già a lungo insistito nelle pagine dedicate a Descartes (cfr. più sopra pp. 190-196).
495 Ibidem, p. 65. Il testo francese recita: (La distinction réelle des substances expulse la folie dans les ténèbres extérieures au Cogito. […] Elle est l’autre du Cogito. Je ne peux pas être fou quand j’ai des idées claires et distinctes(.
496 Si tratta infatti di repliche ipotetiche in quanto non si trovano nel testo foucaultiano, ma sono bensì costruite e pensate sul prolungamento delle intuizioni di fondo rinvenibili nell’Histoire.
497 Ibidem, p. 66. Il testo francese recita: (une folie qui introduira la subversion dans la pensée pure, dans ses objets purement intelligibles, dans le champ des idées claires et distinctes, dans le domaine des vérités mathématiques qui échappaient au doute naturel(.
498 Ibidem, p. 68. Il testo francese recita: (à l’essence et au projet de tout langage en général; et même des plus fous en apparence(.
499 Questa è in fondo la posizione espressa nell’Histoire, per cui (io che penso non posso essere folle( (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 68). Il testo francese recita: (moi qui pense, je ne peux pas être fou( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 68).
500 Derrida J., Cogito e storia della follia, cit., p. 69. Il testo francese recita: (l’acte du Cogito vaut même si je suis fou, même si ma pensée est folle de part en part(.
501 Qui Derrida, rileggendo quanto già detto, ricorda che (Descartes non imprigiona mai la follia, né alla fase del dubbio naturale, né alla fase del dubbio metafisico. Fa soltanto finta di escluderla nella prima fase del primo stadio, nel momento non-iperbolico del dubbio naturale( (ibidem, pp. 69-70). Il testo francese recita: (Descartes ne renferme jamais la folie, ni à l’étape du doute naturel ni à l’étape du doute métaphysique. Il fait seulement semblant de l’exclure dans la première phase de la première étape, dans le moment non-hyperbolique du doute naturel(.
502 Con questo si risponde all’ultima delle ‘interrogazioni’ dichiarate all’inizio dell’intervento, là dove Derrida si chideva se la signification della pagina cartesiana fosse tutta e interamente historique (ibidem, p. 41).
503 Ibidem, p. 72. Il testo francese recita: (il faut n’être pas fou pour le réfléchir, le retenir, le communiquer, en communiquer le sens(.
504 In queste pagine la volontà derridiana di non porsi sic et simpliciter contra Foucault risulta ancora più netta che in Cogito et histoire de la folie e non si lascia riassumere all’interno di ragioni di ordine privato e personale. Dopo aver riconosciuto l’incontestabilità della (forza di apertura( (force de frayage) rappresentata dall’Histoire, ricorda la legge, altrettanto incontestabile, (secondo cui ogni apertura apre la via solo a un certo prezzo, cioè bloccando altri passaggi, legando, suturando o comprimendo o addirittura reprimendo, almeno provvisoriamente, altre vene( (Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., p. 27). In questo senso dovrà essere letta la parola derridiana. Il testo francese recita: (loi selon laquelle tout frayage n’ouvre la voie qu’à un certain prix, c’est-à-dire en verrouillant d’autres passages, en ligaturant, suturant ou comprimant, voire réprimant, au moins provisoirement, d’autres veines( (questa come le altre citazioni dall’originale francese sono sempre tratte da Derrida J., (Être juste avec Freud(…, cit., pp. 141-195).
505 Sul passo in questione si è già insistito a suo tempo (cfr. più sopra p. 266).
506 Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., p. 30. Il testo francese recita: (le site qui donne lieu aujourd’hui, la rendant ainsi possible, à une histoire de la folie(.
507 Ibidem, p. 32. Il testo francese recita: (le temps et les conditions historiques dans lesquels le livre s’enracine ou prend son départ et moins le temps ou les conditions historiques qu’il raconte et tente en quelque sorte d’objectiver(.
508 Nella preposizione sulla non si vuole qui sintetizzare nessun rapporto agonistico, di cattura e annientamento messo in atto dal pensiero nei confronti della follia. Si vuole esprimere piuttosto la (mai) tranquilla turbolenza di una comprensione teoretica che vuole solo (obiettivo minimo di gran prezzo) vedere, conoscere, dialogare e mai dominare, annientare, espellere, utilizzare.
509 È in tal senso che le riflessioni derridiane possono trovare legittimamente ospitalità all’interno di quest’indagine, che non rincorre tanto il traguardo storiografico di chiarire genesi e struttura dell’Histoire, o di qualsiasi altro scritto sulla follia, quanto piuttosto, muovendo anche dall’Histoire, si propone di focalizzare il problema teoretico di una pensabilità della follia.
510 Ibidem, p. 32. Il testo francese recita: (Or du côté où elle s’écrit, il y a un certain état de la psychiatrie, bien sûr – et la psychanalyse. Le projet de Foucault eût-il été possible sans la psychanalyse dont il est le contemporain et dont il parle peu et surtout de façon si équivoque ou si ambivalente dans le livre?(.
511 Infatti, precisa Derrida, (un bordo non è del resto propriamente un luogo. È sempre rischioso, in particolare per lo storico, assegnare a quanto vi succede, tra dei siti, l’aver luogo di un evento determinabile( (ibidem, p. 33). Il testo francese recita: (Une bordure n’est d’ailleurs pas proprement un lieu. Ce qui s’y passe, entre des sites, il est toujours risqué, en particulier pour l’historien, de lui assigner l’avoir-lieu d’un événement déterminable(.
512 Ibidem, p. 34. Il testo francese recita: (Car l’ambiguïté dont nous allons parler pourrait bien être du côté de la psychanalyse, du côté de l’événement de cette invention nommée psychanalyse(.
513 Ibidem, p. 36. Il testo francese recita: (Il monte la garde et introduit. Alternativement ou simultanément, il clôt une époque et en ouvre une autre(.
514 Derrida si sofferma anche a chiarire le potenzialità di quest’immagine, che qui non si ha modo di ripercorrere per intero. Per l’intera questione si rimanda a ibidem, p. 35.
515 Ibidem, p. 35. Il testo francese recita: (rejette ou accepte, exclut ou inclut, disqualifie ou légitime, maîtrise ou libère(.
516 Vale la pena di riportare quanto dice in conclusione Rovatti, prolungando derridianamente una felice immagine della Préface del 1961 all’Histoire: ((L’età della psicoanalisi( è anche quella stessa che ci permette di porgere l’orecchio per ascoltare le voci della follia( (cfr. Rovatti P.A., Introduzione, in Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., pp. 12-17).
517 Cfr. Foucault M., Storia della follia…, p. 377.
518 Ibidem, p. 378. Il testo francese recita: (Ce n’est point de psychologie qu’il s’agit dans la psychanalyse( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 428).
519 Con questo ammonimento, ripreso da Derrida nell’intitolazione del suo intervento, si chiude il capitolo intitolato Medici e malati (Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 378).
520 Ibidem, p. 378. Il testo francese recita: (il restituait, dans le pensée médicale, la possibilité d’un dialogue avec la déraison( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 428).
521 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 378. Il testo francese recita: (expérience de la déraison que la psychologie dans le monde moderne a eu pour sens de masquer( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., p. 428). Questo mascheramento sarebbe consistito nel dissociare un’originaria unità e compattezza della follia nella malattia da un lato, legata all’organico e che comunque rinviene il suo significato nei canoni nosografici, e la sragione dall’altro, ridotta a fenomeno di superficie e del tutto inessenziale alla verità della malattia. Detto diversamente, e con una certa disinvoltura: il momento in cui la sragione declina, si inabissa nell’insignificante e nello sragionevole, è quello stesso in cui inizia l’inclinazione a patologizzare la follia. (La psicoanalisi, al contrario, rompe con la psicologia parlando con la Sragione che parla nella follia, quindi facendo ritorno […] verso la vigilia dell’età classica( (Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., p. 40). Il testo francese recita: (La psychanalyse, au contraire, rompt avec la psychologie en parlant avec la Déraison qui parle dans la folie, donc en faisant retour […] vers la veille de l’âge classique(.
522 Ibidem, p. 41. Il testo francese recita: (dans la galerie de tous ceux qui, d’un bout à l’autre du livre, annoncent, tels des hérauts positifs, la possibilité même du livre(.
523 Ibidem, p. 49. Il testo francese recita: (elle menace la logique de la distinctionentre le ceci et le cela, la logique même de l’exclusion ou de la forclusion, tout comme l’histoire fondée sur cette logique et ses alternatives. Ce qui est exclu n’est évidemment jamais simplement exclu, par le Cogito ni par quoi que ce soit, sans que cela fasse retour, voilà ce qu’une certaine psychanalyse nous aura aussi aidé a comprendre(.
524 Ibidem, p. 53. Il testo francese recita: (toute la psychiatrie du XIX siècle converge réellement vers Freud(. Il passo citato da Derrida si trova in Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 580.
525 Ibidem, p. 576.
526 Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., p. 57. Il testo francese recita: (non, la psychanalyse ne se libérera jamais de l’héritage psychiatrique(.
527 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 579.
528 Derrida precisa anche come la finzione che istituisce e rende possibile il potere taumaturgico nella situazione analitica sia leggibile in analogia alla finzione-ipotesi del Genio Maligno. (E come l’autorità delle leggi di cui Montaigne e Pascal ricordano il (fondamento mistico(, quella dello psicoanalista-medico procede dalla finzione; procede, per traslazione, dal credito accordato a una finzione: e questa finzione sembra analoga a quella che, provvisoriamente, conferisce tutti i poteri e più sapere al Genio Maligno( (Derrida J., (Essere giusti con Freud(…, cit., p. 59. Il testo francese recita: (Et comme l’autorité des lois dont Montaigne et Pascal auront rappelé le (fondement mystique(, celle du psychanalyste-médicin procéde de la fiction; elle procéde, par transfert, du crédit accordé à une fiction; et cette fiction paraît analogue à celle qui, par provision, confère tous les pouvoirs et plus que le savoir au Malin Génie(.
529 Foucault M., Storia della follia…, cit., p. 581. Il testo francese recita: (la psychanalyse ne peut pas, ne pourra pas entendre les voix de la déraison, ni déchiffrer pour eux-mêmes les signes de l’insensé. La psychanalyse peut dénouer quelques-unes des formes de la folie; elle demeure étrangère au travail souverain de la déraison. Elle ne peut ni libérer ni transcrire, à plus forte raison expliquer ce qu’il y a d’essentiel dans ce labeur( (Foucault M., Histoire de la folie…, cit., pp. 631-632).
530 Su questi motivi insiste Derrida (cfr. (Essere giusti con Freud(…, cit., pp. 68-70).
531 Per il rinvenimento di questa ulteriore oscillazione si è seguita la lunga riflessione sulla pagina freudiana operata da Paolo D’Alessandro (Il gioco inconscio della storia, cit., pp. 163-215).
532 Ibidem, p. 177.
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