Don Chisciotte

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Testo

DON CHISCIOTTE [El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha]. Capolavoro della letteratura mondiale, in prosa narrativa spagnola, di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), scritto probabilmente tra il 1598 e il 1604 e pubblicato a Madrid nel 1605. Dieci anni dopo, nel 1615, seguì una seconda parte, che sta alla prima come illustrazione, interpretazione e conclusione definitiva. Il primo intento del Cervantes, a quanto egli stesso ci dichiara nel Prologo alla prima parte, fu quello di scrivere un romanzo di cavalleria, che s'avvantaggiasse artisticamente su quelli generalmente diffusi tra il popolo: un romanzo dove fosse osservata la mimesi, come imitazione, per via di espressione, di una "forma"; metafisicamente intesa come principio di vita e di forza animale o principio di vita spirituale, di passione e di dolore; e sempre in modo da realizzare quella bellezza in sé, analogica e trascendentale, in cui ciascuno sa leggere e rispecchiarsi con diletto, secondo la sua capacità del momento, secondo la maturità della sua intelligenza o del suo giudizio o secondo la sua personale esperienza di vita e d'arte. Sul tradizionale esempio dei libri di cavalleria in voga, il romanzo del Cervantes si finge la traduzione di un originale arabo dovuto alla penna dello storico Cide Hamete Benengeli. Ed è infatti la storia di Alonso Chesciana: un immaginarlo nobiluomo ("hidalgo") di campagna, che, abbandonandosi alla lettura di romanzi cavallereschi, si coglie nelle proprie fondamentali tendenze: nei voli sfrenati della sua fantasia e nel commosso lirismo della sua anima semplice, candida e generosa. E tanto s'infervora in quella lettura da discuterne appassionatamente con i suoi amici, il Curato (v.) e il barbiere, come di cose veramente accadute. E tanto vi si sprofonda da far propri gl'ideali per cui i cavalieri erranti combattevano: ideali di pace e di giustizia e di giustizia con amore; sentendosi ormai chiamato a realizzarli in un mondo in travaglio, che l'aspetta e che gli darà fama e gloria. Riassettate le vecchie armi de'suoi avi e fattasi una visiera di cartone, Alonso Chesciana nobilita il suo magro cavallo chiamandolo Ronzinante, assume per sé come nome di battaglia quello di don Chisciotte della Mancia (v.), elegge a dama de'suoi pensieri una sua contadina, vagheggiandola col titolo di Dulcinea del Toboso (v.). E una mattina, sull'alba, senza esser visto da nessuno e senza avvertire nessuno, balzato a cavallo, imbracciato lo scudo e la lancia in pugno, per la porta segreta di un cortile della sua casa si mette in aperta campagna, all'avventura. Ma poiché, sventuratamente per lui, non era stato armato cavaliere, né poteva perciò esercitare di pieno diritto la sua professione, don Chisciotte decide di rimettersi, per questa formalità, al primo col quale si sarebbe imbattuto. Lasciandosi guidare da Ronzinante, ma già col pensiero idealizzandosi nel libro della sua storia futura, dopo una giornata di sole egli arriva affamato e stanco a una sperduta osteria di campagna. Don Chisciotte la scambia per un castello; le ragazze da trivio che vi stanno sulla porta, egli le saluta come nobili donzelle e le esalta, mentre l'aiutano a spogliarsi e a mettersi a tavola. Non appena saziata la fame, nella stalla dell'osteria si getta in ginocchio ai piedi dell'oste, una canaglia esperta di tutte le astuzie della mala vita, e lo prega di armarlo cavaliere. L'oste, sentendo che don Chisciotte non ha il becco di un quattrino, lo consiglia di rifornirsi d'ora in poi di danaro e di farsi uno scudiero per le necessità pratiche di una vita errabonda, e gli promette di armarlo cavaliere la mattina seguente, dopo la veglia delle armi nel cortile della locanda. I gravi incidenti a cui la veglia dà luogo per la pronta reazione di don Chisciotte alle burle di alcuni carrettieri, affrettano la funzione dell'investitura: padrino l'oste, che borbotta la formula rituale sul libro aperto dove sono i conti della biada, e madrine le due ragazze da trivio. Immesso così, legalmente, entro l'ordine della cavalleria errante, don Chisciotte riprende il suo cammino. Il primo atto di giustizia che compie è quello di impedire a un contadino di frustare a sangue un ragazzetto, suo pecoraio; ma ne lascia aggravata la triste sorte non appena si allontana. Ad alcuni mercanti toledani impone, con le armi in pugno, di dichiarare, senza vederla, la bellezza incomparabile della sua Dulcinea. Triste avventura: nell'assalto contro coloro che lo irridono don Chisciotte è travolto dal suo cavallo, ricevendo per sopraggiunta un flagello di legnate sul groppone. Un suo paesano lo ritrova tutto pesto e ferito; ne ascolta le frasi smozzicate, lo crede impazzito e sul suo asino lo riconduce a casa, dove la nipote e la governante, il curato e il barbiere lo aspettavano con ansia disperata. Della follia cavalleresca di don Chisciotte, nata dal suo cuore buono, generoso, ma sognante tutti costoro incolpano "i libri innocenti" che si trovano nella sua biblioteca, e contro di essi il curato e il barbiere iniziano il processo, salvando o tentando di salvale dal fuoco quelli in cui ciascuno dei due si rispecchia con le proprie tendenze, con la propria educazione, con la propria cultura. Si condannano i libri; e intanto don Chisciotte è di nuovo in movimento. Fedele ai consigli dell'oste, egli si sceglie a scudiero un rozzo contadino del suo borgo: Sancio Panza (v.), legandolo a sé con la promessa di ricco guadagno e col lontano miraggio di un'isola da governare. Ed eccoli ora insieme, cavaliere e scudiero, per le vie solitarie di Castiglia: l'uno, di color ulivigno, alto e secco allampanato, a cavallo di Ronzinante; l'altro, rubicondo, tondo e tozzo, in groppa al suo somaro. Don Chisciotte: un'attività incessante, che egli stesso si è data, determinandosi spontaneamente per conoscenza e volontà, verso un ideale che risponde alle tendenze e alle esigenze della sua natura. Sancio: lo scudiero fedele che non sa nulla della cavalleria errante, ma che osserverà da lontano e in luogo sicuro i pericoli che il suo padrone vorrà affrontare, per lanciarsi su ciò che gli parrà utile preda. La loro prima avventura è quella dei mulini a vento, che si presentano a don Chisciotte in figura di giganti smisurati. Invano Sancio lo richiama all'osservazione attenta. L'immagine prima che egli si è data e mediante la quale scopre il suo sentimento basta a don Chisciotte per assicurarlo del vero: "io penso e così è" ("yo pienso y es así"). Il suo soggettivismo è così assoluto, tanto nell'ordine del conoscere quanto nell'ordine dell'agire, che qualsiasi esperienza negativa non basta a infrangerlo. Don Chisciotte non ritorna mai al magistero dei sensi, poiché si giustifica sempre e tutto giustifica, ricorrendo all'influsso di incantatori invidiosi della sua gloria. Benché travolto dai mulini a vento, don Chisciotte è pronto a una nuova avventura. Due frati di san Benedetto s'avanzano per la strada, casualmente vicini a una dama biscaglina avviata verso Siviglia. Per don Chisciotte i due frati "devono essere e sono" ("deben de ser y son") due incantatori che rapiscono, una principessa; e si scaglia a tutta forza contro di loro. Sancio corre per spogliare l'uno dei frati colpito e buttato a terra, ma dai servi sopravvenuti in aiuto del loro padrone è percosso e malmenato. Don Chisciotte si profonde in omaggi verso la dama e, venuto a singolar tenzone con un valletto di lei, se la cava alla meno peggio. Necessari dolori e inevitabili conseguenze che trae con sé l'azione d'ogni cavaliere errante! Per loro fortuna don Chisciotte e il suo scudiero incontrano verso sera un gruppo di pastori, che li ospitano cordialmente. E lì, a cena, tra la meraviglia e l'attenzione di tutti, mentre Sancio insacca di cibo lo stomaco vuoto, don Chisciotte si esalta nel suo ideale di pace, esaltando la bella età dell'oro e suo stato felice. Un'immagine lirica, che traduce un ideale concreto, profondamente radicato in ogni cuore umano: un ideale di tutti i tempi e di tutti i luoghi, poiché scaturisce dalle viscere stesse della storia e ne spiega il dinamismo interno e ne impronta, variamente trascolorato, il suo perpetuo divenire. Don Chisciotte lo assevera con religioso fervore e con pieno convincimento, sì che guardiamo a lui con simpatia che non muta; ma non possiamo trattenerci dal sorriso quando egli dichiara indispensabili a questo scopo le armi della cavalleria errante. Un motivo lirico, di natura universale, ma che s'individua e si particolarizza in ogni creatura come spontanea richiesta di vita felice, don Chisciotte si sforza di calarlo nella realtà con l'arte appresa dai libri di cavalleria: l'arte di un sogno che si svolge fuori della storia, in un mondo fantastico: puro sentimento che si rispecchia nelle proprie immagini, dove si riconosce e si ama. La trama del romanzo cervantino si disnoda ormai su due piani che s'intersecano continuamente tra loro. Sul primo piano operano don Chisciotte e Sancio, che si mettono progressivamente in luce, restando immobili sul loro atteggiamento iniziale: l'uno come tendenza o amore dell'onesto e l'altro come tendenza o amore dell'utile: due princìpi d'intelligibilità, due princìpi in sé, che dànno ragione dell'attività propria al cavaliere e dell'attività propria allo scudiero. Mimesi perfetta, così come la intendeva il Cervantes. Sull'altro piano, che è quello della realtà di ogni giorno, si presentano in mobili teorie, numerose creature che anelano alla felicità in virtù di una tendenza o inclinazione di natura che le volge verso la bellezza di ciò che è, con una forza di gran lunga superiore a quella della ragione umana. Di questa tendenza, che è appetito, desiderio, amore, don Chisciotte intende parlare tra i pastori, che gli raccontano la morte di Grisostomo, uccisosi per Marcella. A sua volta Marcella interviene a ribattere le accuse di crudeltà che le sono mosse, proclamando in amore la libertà di scelta. E don Chisciotte è per lei. Di questa tendenza il cavaliere e lo scudiero avvertono la presenza e la realtà quando sono bastonati dai yanguesi a causa di Ronzinante, che s'era avviato trotterellando, con bramosia di gioia, verso le loro belle cavalle. Malconci e feriti, don Chisciotte e Sancio arrivano a una seconda osteria - il loro secondo castello - dove sono curati e assistiti con premure gentili. Ma durante la notte i furtivi amori della serva Maritornes con un carrettiere, disturbati da don Chisciotte, generano un subbuglio e nuovi guai per gli ospiti malcapitati; i quali fanno per andarsene senza pagare, secondo le leggi della cavalleria. Sancio è preso e, sballottato su una coperta, paga di persona. L'astratto amore dell'onesto e l'astratto amore dell'utile, impersonati l'uno, come puro sentimento, in don Chisciotte e l'altro, come puro istinto, in Sancio, vengono continuamente in urto con quell'amore concreto, che nella vita di ogni giorno si realizza come naturale tendenza alla bellezza, all'utilità e alla giustizia. Le avventure ricominciano sul solito ritmo: branchi di pecore e di montoni sono scambiati per eserciti nemici; un notturno accompagnamento funebre, per il trafugamento di un cavaliere ferito; i fragori di una gualchiera, tra le tenebre, impennano l'ali al sogno eroico di don Chisciotte e fanno tremare Sancio di paura; una catinella da barbiere sul capo del proprietario, che si difende così contro la pioggia, diventa il rutilante elmo di Mambrino. In fine don Chisciotte s'aderge volontario difensore di un gruppo di condannati alla galera e, in nome della libertà, nel senso particolare di assenza di ogni costrizione, li strappa dalle mani della giustizia. Se non che egli stesso deve soffrire maltrattamenti e spogliazioni, perché i galeotti liberati da lui si ribellano, sdegnosamente irritati, alle sue sciocche imposizioni cavalleresche. Con felice astuzia, spronato da Sancio che sente già alle calcagna gli sgherri della giustizia del re, don Chisciotte si caccia per i meandri boscosi della Sierra Morena; e li si scontra e viene in urto violento, per un futile motivo cavalleresco, con il misero Cardenio, impazzito per amore di Lucinda, dalla quale si crede tradito. Follia contro follia. Anche don Chisciotte decide di impazzire, volontariamente, senza alcun motivo, e di far penitenza tra i boschi, a imitazione di Amadigi (v.) disdegnato da Oriana. Prima però egli invia a Dulcinea del Toboso un nome nel quale coglie il suo ideale di bellezza femminile - una lettera d'amore, affidandola a Sancio, il messaggero già compensato in promesse, che gliela smarrisce. Sancio ritorna all'osteria dai tristi ricordi e vi incontra il curato e il barbiere; ai quali svela, dietro promessa di un nuovo premio, dove si trova don Chisciotte e si fa loro guida. Lungo il cammino tra le selve della Sierra Morena, essi s'imbattono in Dorotea, una giovine donna, bella e intelligente, in angosciosa traccia di Fernando, il suo amante perduto. Il curato e il barbiere s'accordano con lei, che si fingerà una principessa bisognosa di aiuto, per piegare la volontà di don Chisciotte e ricondurlo a casa. E così avviene, perché don Chisciotte si assoggetta spontaneamente solo alle sue belle fantasie cavalleresche. Lieto di poter usare le sue armi in favore della bella principessa, ma più lieto in cuor suo di sapere da Sancio che Dulcinea è in possesso della sua lettera, don Chisciotte si lascia condurre all'osteria, che diventa veramente per tutti un castello incantato. È un centro di azione che si fa sempre più tumultuoso; perché li si sciolgono i nodi di tutte le avventure che formano la trama del romanzo. Di fronte all'amore cavalleresco di don Chisciotte, il cui sentimento, in obliosa solitudine e fuori del tempo, si effonde in immagini a sua propria gioia, il Cervantes pone, sul piano dell'attività morale, l'amore illusorio e doloroso e fatale di Anselmo che ama in Camilla solamente se stesso - novella dell'"Indagatore malaccorto" ("El curioso impertinente") -; ma per esaltare quel vero amore, che è sorgente perenne di vita e di gioia, e la cui ragione infinita ciascuno la invera passando attraverso il mondo dell'esperienza e la conosce ineffabile nell'atto stesso che la vive. Ritrovamenti felici e armonie raggiunte: si ricompongono le coppie di Cardenio e Lucinda, di Fernando e Dorotea; dopo lunghe vicende un capitano fuggito dalla schiavitù s'incontra col fratello in partenza per l'America; sognano il loro amore due giovanetti, Clara e Luigi. Solo don Chisciotte è lì, fra tanta gioia, la causa di nuovi tumulti, fortunatamente a lieto fine; perché tutti lo considerano un pazzo e lo giustificano come tale. Con l'arte stessa dei fantastici libri di cavalleria, il curato e il barbiere lo persuadono ch'egli è incantato e riescono a ricondurlo a casa su un carro da buoi, non senza che commetta ancora qualche altra pazzia. Questo è, nella schematica semplicità delle sue linee e nel pensiero che vi sta a fondamento, la trama del Chisciotte (prima parte). Il romanzo è nato da una prima ispirazione polemica contro i libri di cavalleria, sui quali doveva avvantaggiarsi soltanto come mimesi, nel senso platonico-agostiniano cui si è già accennato: ma è riuscito la schietta e poetica rappresentazione di un mondo sempre più vasto e complesso, nel quale opera dal profondo una tendenza di natura universale, analoga a quella che dà ragione della vita individuale e della vita universale, della storia umana e del suo perpetuo divenire. Questa tendenza il Cervantes la individua sotto tre aspetti, che sono le facce di un medesimo prisma: amore sentimentale dell'onesto, don Chisciotte, amore istintivo dell'utile, Sancio, e amore di quella bellezza che essenzialmente ci diletta e per la quale ciascuno di noi, fermo sulla sostanziale identità del proprio essere, si mette progressivamente in luce con l'arte o virtù intellettuale (ingegno) di cui è capace. Il sentimento del Cervantes di fronte a questo mondo poetico, che la sua fantasia colloca nell'esistente, prismatizzando il motivo iniziale in una concorde e discorde pluralità di riflessi, è un sentimento di carità che consente e indulge benevola a tutte le forme in cui si realizza l'amore: ispirazione d'ordine naturale, che trascina dietro di sé, con le sue immagini di bene, ogni essere creato. Don Chisciotte è l'eroe che vive sognando e opera sognando, immutabilmente fisso, nella sua fretta angosciosa, alla pace contemplativa del proprio verbo interiore. Ma tutti, in grazia sua, entrano nella scia luminosa delle sue incredibili avventure; e tutti, insieme con lui, sono avvolti da un sorriso immateriale e trasparente, che lascia scorgere nel suo fondo segreto una ricchezza inesauribile di umanità e di esperienze vissute. La virtù di questo sorriso, che fa del romanzo, entro il puro ritmo di una realizzazione fantastica trasparente in se stessa, un'opera originalissima a ricamo leggero e saldamente unitaria, assicurò al Cervantes un successo trionfale. E questo gli diè animo per riprendere la penna contro i dotti critici della negazione o del frammento, della bellezza ideale o della bellezza corpulenta, per giustificare, analizzare e interpretare il suo proprio capolavoro. È la terza cavalcata di don Chisciotte. Egli ha appreso da Sancio e dal baccelliere Sansone Carrasco (v.) che il libro delle sue gesta già corre per il mondo, ed è, senza ammanto di lusinghe, la nuda storia delle solenni bastonature da lui ricevute e delle buffe disgrazie del suo scudiero. Tutti ne ridono. Ma la vita del suo sentimento - una vita tutta protesa con eroico sforzo verso l'ideale che lo innamora - nessuno l'ha conosciuta; e don Chisciotte se ne addolora. E sente il bisogno di doverla riaffermare nella sua pienezza, esaltandola contro le obiezioni della nipote e della governante. E di nuovo trova consenziente il suo fedele Sancio, che, inebriato dalla fama inaspettata, tenta invano di concretarla in un anticipo di compenso sulle sue prestazioni. Don Chisciotte s'avvia al Toboso per prendere gli auspici da Dulcinea, già in possesso della sua lettera d'amore che Sancio gli ha assicurato d'averle consegnata direttamente. Ma Dulcinea è il verbo mentale di don Chisciotte: è l'ideale bellezza femminile in cui il suo sentimento si rispecchia e si compiace: e perciò Sancio non può trovarla al Toboso. Per levarsi d'impaccio e coprire la sua menzogna egli identifica quella bellezza ideale con la prima contadina che trova e l'addita al suo padrone. Don Chisciotte, s'addolora: quella non è ciò che il suo sentimento vagheggia. Per lui la spregevole attuale realtà di Dulcinea è certo dovuta a un incantamento diabolico che bisogna disfare. Sul cammino di Saragozza egli passa attraverso la sassaiola di una brigata di guitti da lui disturbata e vince, in singolar tenzone, il Cavaliere degli Specchi; il baccelliere Carrasco, che così travestito intendeva per forza d'armi ricondurlo a casa. S'incontra quindi col cavaliere don Diego de Miranda, pacifico gentiluomo dalla ragione ragionante, che subito ammira in don Chisciotte l'equilibrata assennatezza dei giudizi; ma poi lo vede far cose da pazzo, affrontando con eroico furore un leone in gabbia. Ma chi è dunque questo cavaliere don Chisciotte? Parole e opere in opposizione stridente tra loro: un enigma vivente, che nella sua indissolubile unità di contrasti resta insoluto anche per il dialettico figlio di don Diego, nella cui casa don Chisciotte viene ospitato. Ma l'atto vitale del puro sentimento, che si vuol realizzare come infinità entro le immagini in cui si riconosce e si ama, non si afferra con la fredda ragione perché va interpretato. E il Cervantes ora interpreta il proprio capolavoro e si fa guida ai critici. Don Chisciotte e Sancio assistono alle nozze che si dovevano celebrare tra il ricco Camaccio e la bella Chiteria; ma questa è felice di essere rapita, all'ultimo momento, dal suo fedele Basilio, che ella sposerà quantunque povero e bisognoso. Sancio rimpiange le opulente mense imbandite; don Chisciotte si fa paladino del puro sentimento che trionfa. Per desiderio di misteriose avventure don Chisciotte discende nella caverna di Montesino, dove s'addormenta e sogna un incontro con gli antichi paladini e con Dulcinea incantata. Il suo racconto fiabesco è motivo di dubbiose questioni per Sancio e fonte di preziose notizie per un dotto erudito che li accompagna, e che scambia un sogno, un vissuto abbandono al puro sentimento, per un documento sul quale si possa fare opera di scienza. Dovunque passano, il cavaliere e lo scudiero affermano se stessi: sentimento che vibrando si coglie nelle proprie immagini, e istinto che s'aggrappa empiricamente alle cose: fuga dinanzi al contadino eccitato dai ragli di Sancio; impeto guerresco di don Chisciotte durante una rappresentazione di burattini; viaggio disastroso sull'Ebro sognando di essere su una nave incantata. Finalmente, ecco, la realtà storica sembra adeguarsi al sogno Con la finta inscenatura di un'accoglienza trionfale, don Chisciotte e Sancio sono ospitati in un castello, dove tosto diventano lo zimbello del duca e della duchessa, delle damigelle e dei servi. Tutti, senza distinzione di qualità, appigliandosi alle vuote forme dei romanzi cavallereschi, si trovano associati nel volgare e ignobile intento di fare dei due ospiti un oggetto d'irrisione e di scherno. Ma essi irridono soltanto ciò che in quelle forme ci hanno messo di proprio: cioè il loro proprio sentimento e la loro propria intelligenza; e non sfiorano la persona di don Chisciotte, che si rivela nella sua ingenua bontà, nella sua fede candida e nella sua vera nobiltà spirituale. Perfino Sancio, creato per burla governatore dell'isola di Barattaria, si conquista l'ammirazione, perché dispiega brillantemente nel suo nuovo ufficio quel senso realisticamente pratico che lo caratterizza: istinto dell'utile che è connaturale a ogni uomo. Meglio di così il Cervantes non avrebbe potuto dar ragione de'suoi due personaggi come mimesi: come imitazione, per via di espressione, di due segreti princìpi d'intelligibilità: il puro sentimento che s'ispira a tutto che è nobile, decoroso e onesto, e il puro istinto dell'utile: due tendenze essenziali, del composto umano: due attività che, realizzandosi sul piano dell'esperienza d'ogni giorno, s'accordano nello stesso atto di vita concreta: vita di una ragione che dà un volto allo spirito e ne fa una persona morale. Preso congedo dai duchi, don Chisciotte s'avvia verso Barcellona con la gioia della libertà conquistata; ma di quella libertà astratta che non giunge mai al sentimento dell'alterità e della distinzione. Egli incappa tra l'altro nei banditi di Rocco Guinart (v.): un cuore generoso, che s'è posto fuori legge abbandonandosi per un istante alla travolgente follia del sentimento. Rocco, un vero cavaliere errante perseguitato dalla legge comune, lascia liberi don Chisciotte e Sancio e li raccomanda a'suoi amici di Barcellona; i quali a lor volta, con ostentata festosità, si burlano dell'uno e dell'altro. Intanto giunge Sanson Carrasco, che, sotto veste del Cavaliere dalla Bianca Luna, riesce questa volta a scavalcare don Chisciotte, obbligandolo con giuramento a ritornare a casa. Rinserrato ormai entro la cerchia delle sue stesse immagini cavalleresche, tutto ciò che in don Chisciotte era tendenza, movimento, anelito verso una maggiore perfezione, si fa ora motivo di dolore e di rimpianto. Egli è fuori del circolo vivente della sua vita profonda, reale e dialettica. Il puro sentimento - poesia eterna che sgorga da ogni cuore umano - non appena è costretto a straniarsi dalle sue care immagini, si ripiega nostalgicamente su se stesso e scopre attorno a sé una realtà disincantata e triste. Dinanzi a essa don Chisciotte si sente morire. E muore; ma sulle soglie dell'eterno il dolore eleva provvidenzialmente in lui il certo al vero. Sancio no, non muore; perché l'istinto vuol vivere, riconoscendo nella vita che esso vive un valore assoluto. Ma Sancio, senza la luce di, don Chisciotte, precipita inesorabilmente nell'ombra. Per mezzo di immagini intelligibili in se stesse e collegate tra loro con prodigiosa abilità costruttiva, il Cervantes illumina e chiarisce il pensiero che nella prima parte del suo capolavoro era stato tutto risolto in pura rappresentazione fantastica, senza residui. Ma l'ordito intellettuale di cui si trama questa seconda parte, nel suo tono qualche volta apertamente polemico, rallenta o distrae quell'affiato lirico, che tra brevi soste e riposi, sempre uguale a se stesso e costante, è proprio della primitiva ispirazione. L'interesse del Cervantes si trasferisce sui personaggi che don Chisciotte, col peso della sua gloria, incontra sul proprio cammino. Tutti costoro lo giudicano empiricamente - al modo stesso di Sancio - senza poter attingere, con un atto d'intelligenza e d'amore, le intenzioni di verità che orientano la sua anima e che sono infinitamente superiori alla materialità dei fatti, in cui esse si fanno manifeste. Alle illusioni generose del puro sentimento il Cervantes contrappone ora le illusioni della pura intelligenza, che giunge inconsapevolmente alla crudeltà e allo scherno, perché impotente a trasferirsi nell'oggetto e a riconoscerlo dall'interno. Così il sentimento che domina l'artista in questa seconda parte della sua opera si fa il sorriso di una saggezza che si è riconosciuta nella lunga esperienza delle cose; e che guarda a tutte le illusioni - ma specialmente a quelle dell'intelligenza incapace di uscire da se stessa - con animo sereno e serenante, non ripudiandone nessuna, perché tutte sono proprie dell'uomo. Solamente per sé il Cervantes serberà il suo verace don Chisciotte ("mi verdadero don Quijote"); libera vita del suo sentimento, che si è messa per le vie del mondo con le armi della cavalleria errante; mentre dentro di sé, in solitudine conchiusa, scandiva musicalmente il proprio sogno d'amore e di giustizia e di pace, sul ritmo aereo della parola alata. Gli echi e le risonanze, le ispirazioni nuove e le imitazioni, le critiche e le interpretazioni a cui diede luogo attraverso i secoli, in patria e fuori di patria, un'opera divenuta l'insegna spiritualmente più alta di tutte le genti di lingua spagnola, hanno larga documentazione in L. Rius, Bibliografia critica de las obras de M. de Cervantes (1895-1904); J.-J. Bertrand, Cervantes et le romantisme allemand (1914); M. Bardon, Don Quichotte en France au XVII et au XVIII siècle (1931). E per un'interpretazione consona al realismo cristiano del Cervantes e alla sua estetica, che è poi quella di Dante nella Divina Commedia (v.), si veda M. Casella, Cervantes. Il Chisciotte (1938). Tradd. di Luigi Franciosini (1622), Bartolomeo Gamba (1818), Alfredo Giannini (1923), Ferdinando Carlesi (1935) e Gherardo Marone, parziale (Napoli 1924), integrale (Torino, in corso). M.Ca.
A poeti quest'anno non si sta bene... nessuno ce n'è così cattivo quanto il Cervantes, né così stolto che possa lodare il Don Chisciotte. (Lope de Vega).
Il nuovo Amadiqi volto in ridicolo. (Quevedo).
Il poeta che abolisce le leggi della fredda ragione e ci precipita nel caos della natura. (A.W. Schlegel).
Cervantes fu un poeta cattolico e a ciò deve forse quella grande serenità epica che come cielo di cristallo copre e circonda il mondo variopinto delle sue creature: non mai il crepaccio del dubbio. (Heine).
Cervantes era un cavaliere e amava la nobiltà e l'idea cavalleresca; ne sentiva però la follia e la volle umiliata sotto le percosse de'villani, tra meschine disavventure. (Taine).
Quello che v'è di prodigioso nel Don Chisciotte è l'assenza di arte e la perpetua fusione dell'illusione e della realtà, che fa di questo un libro tanto comico e tanto poetico. (Flaubert).
L'opera di Cervantes non fu di antitesi, né di arida e prosaica negazione, ma di purificazione e di complemento. Non venne a uccidere un ideale, ma a trasfigurarlo e innalzarlo. Quanto vi era di poetico, nobile e umano nella cavalleria, s'incorporò nella nuova opera con più alto senso. Quello che vi era di chimerico, immorale e falso, non precisamente nell'ideale cavalleresco, ma nelle sue degenerazioni, si dissipò d'incanto davanti alla classica serenità e alla benevola ironia del più sano ed equilibrato ingegno del Rinascimento. Il Chisciotte in questo modo fu l'ultimo libro di cavalleria, il definitivo e il perfetto, quello che concentrò in un foco luminoso la materia poetica diffusa, mentre elevando nello stesso tempo i casi della vita familiare alla dignità dell'epopea, diede il primo e non superato modello del romanzo realistico moderno. (Menéndez y Pelavo).
Il Cervantes scrisse, senza averne coscienza, la più gran satira umana contro l'umano entusiasmo. (Carducci).
Don Chisciotte è qualche cosa di più e di meno che un simbolo. È una creatura d'arte perfetta, che ha tutta la profondità e il rilievo della vita reale. (Savj-Lopez).
La prosa di Cervantes - in qualche magnifico salto lo rivela - è puledro di puro sangue. (E. D'Ors).
Il simbolismo del Quijote non sta nel suo interno, ma è costruito da noi, dal di fuori, riflettendo sulla nostra lettura del libro. (J. Ortega y Gasset).
Nel 1614, mentre Cervantes componeva la seconda parte del suo romanzo, ne apparve una continuazione apocrifa col titolo Secondo volume dell'ingegnoso dialogo Don Chisciotte della Mancia [Segundo tomo del ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha]. L'autore, che si nasconde sotto il nome del "licenciado" Alonso Fernández de Avellaneda da Tordesilla, è stato identificato variamente: tra gli altri, perfino con Lope de Vega, Ruiz de Alarcón, Tirso de Molina ecc., ma alla fine rimane anonimo. Lo pseudo Avellaneda, fingendo di continuare la narrazione interrotta dal Cervantes alla fine, della prima parte del suo Don Chisciotte della Mancia, presenta l'estroso cavaliere tornato in pieno possesso delle sue facoltà mentali e vegetante nella pace della sua casa, fino al momento in cui Sancio Panza parlandogli di un nuovo romanzo cavalleresco non riesce a ridestare nella mente del cavaliere l'antica fissazione. Attribuendosi l'epiteto di "Il Cavaliere disamorato" ["El caballero desamorado"], don Chisciotte riparte in caccia di avventure e ne trova una serqua sul tipo di quelle narrate nella prima parte del romanzo autentico; è rispettato dallo pseudo Avellaneda lo strano delirio d'interpretazione del personaggio cervantino, ma la fantasia è il più delle volte sostituita da immaginazione combinatoria e l'umore risulta troppo spesso pesante e grottesco. La mistificazione, come è noto, rafforzò nel Cervantes il desiderio di portare a compimento la seconda parte del proprio capolavoro, ma non è questo il solo merito del curioso tentativo dell'Avellaneda, che fu ristampato parecchie volte fino ai nostri giorni e che fu anche liberamente tradotto in francese dal Lesage (1704): l'ignoto scrittore aragonese (questo è uno dei punti su cui i critici si sono messi d'accordo) è tutt'altro che uno scrittore da strapazzo e, se il confronto tra le due opere risulta com'è naturale schiacciantemente favorevole per l'opera cervantina, il Don Chisciotte apocrifo costituisce tuttavia un romanzo di grande interesse letterario e dimostra che sulla falsariga di un uomo di genio qualche volta riesce a brillare anche un uomo di talento. A.R.F.
Oltre l'imitazione dell'Avellaneda numerose furono nello stesso "siglo de oro" le opere ispirate alla figura di don Chisciotte o ai vari episodi e personaggi del romanzo. Fra le più note sono le commedie di Guillén de Castro (1569-1631) Don Quijote de la Mancha e El curioso impertinente, che drammatizza la novella omonima inserita nel romanzo. A tale novella è ispirata anche la commedia di Juan Mato Fragoso (1608-1689): El yerro del entendido. Alle avventure di Cardenio (parte prima, cap. 23-27) si devono riportare la perduta commedia Cardenno, rappresentata a Londra (1613) dalla compagnia di Shakespeare, e The History of Cardenio di Fletcher e di Shakespeare, inclusa nell'edizione londinese (1653) di alcune commedie di Shakespeare. Fra le moltissime altre imitazioni spagnole sono notevoli il Quijote de los teatros di Càndido Maria Trigueros; Vida y empresas literarias de D. Quijote de la Manchuela di Cristóbal de Anzarena; Adiciones a la historia del ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha (1786) di Jacinto, Marfa Belgado; El Quijote del siglo XVIII di F. Siñériz; Semblanzas Caballerescas, pubblicata anonima all'Avana: e soprattutto i Capìtulos que se le olvidaron a Cervantes (1882 del sudamericano Juan Montalvo che riuscì a imitare spirito e forme date dell'originale. *
In Italia va ricordato il poema in dodici canti, in dialetto siciliano Don Chisciotti e Sanciu Panza, di Giovanni Meli (1740-1815), composto, pare, in soli due anni (1785-1786). Il poema non doveva essere, nell'intenzione dell'autore come in fondo non fu, una diretta imitazione del celebre romanzo spagnolo, sebbene qua e là vi si trovino parecchi episodi di pura derivazione cervantina, ma modificati e trasformati in modo che acquistano una relativa originalità. Nel suo don Chisciotte il Meli intese ritrarre due suoi amici, uomini dotti, ma che vivevano di fantastici miraggi, fuori della realtà, e in Sancio Panza se stesso, con le sue comuni aspirazioni e con quel suo comunissimo buon senso che, secondo lui, dovrebbe essere la mèta principale degli uomini, quando vogliono passarsela alla meno peggio in questo mondo. Essendo, quindi, il poema, l'apologia larvata di codesto buon senso, è naturale che, in esso, Sancio abbia una parte preponderante e ne sia quasi il vero protagonista. Ma egli (il Meli non fu mai un creatore di caratteri) finisce con l'essere un altro portavoce del poeta, non una figura realmente viva, come risulta chiaro non solo dagli ideali ch'egli vagheggia e dal modo idilliaco con cui vede la vita e gli uomini, ma dal farsi, a un tratto, l'espositore e l'interprete del pensiero del poeta, tale e quale quest'ultimo ebbe a esporlo, dopo, nelle incisive Riflessioni sullo stato presente del Regno di Sicilia intorno all'agricoltura e alla pastorizia (1801); in esse il Meli, aprendo finalmente gli occhi nei suoi ultimi anni davanti alla dura realtà, ci dà un quadro raccapricciante della misera vita dei contadini e dei pastori siciliani di quel tempo, quasi a contrapporre queste lugubri pagine, in un improvviso impeto di acerbo rimorso, alla beata rappresentazione arcadica che, in giovinezza, aveva dato nella Buccolica (v.). Anche questo poema è ricco di interessanti episodi, ma manca d'un vigoroso assieme, senza dire che il dialetto siculo-toscano, adoperato in esso dal Meli, sa fin troppo di lucerna. A.D.Gl.
Moltissime anche le opere musicali. Nel sec. XVII apparve in Inghilterra La storia comica di don Chisciotte [The Comical History of Don Quixote], trilogia di Thomas D'Urfey, musicata negli anni 1694-1695 da Henry Purcell (1658?-1695) con la collaborazione di Courteville, Eccles, Pack e Morgan. Numerose altre composizioni apparvero nei secoli seguenti: l'opera Don Chisciotte in Sierra Morena di Francesco Bartolomeo Conti (1682-1732), l'ouverture Don Quichotte di Georg Philipp Telemann (1681-1767); l'opera Don Chisciotte (1727) di Giovanni Alberto Ristori (1692-1753); il ballo Don Quichotte (1743) di Joséph Bodin Boismortier (1691-1765); l'opera omonima di Daniel Treu (1695-1749); le opere Don Chisciotte della Mancia di Giovanni Paisiello (1740-1816), rappresentata a Modena nel 1769, di Nicola Piccinni (1728-1800), Napoli 1770, e di Antonio Salieri (1750-1825), Vienna 1771; il melodramma Don Quixote di Franz Spindler (1759-1819), Breslau 1797; le opere di Angelo Tarchi (1760-1814), Parigi 1791; di Ditters von Dittersdorff (1739-1799), Oels 1795; il balletto di Wenzel Gährich (1794-1864); anche Saverio Mercadante (1795-1870) scrisse un'opera Don Chisciotte rappresentata a Lisbona nel 1829. Seguirono l'opera di Alberto Mazzuccato (1813-1877); Nowry Don Quixote di Stanislaw Moniuszko (1819-1872); l'opera buffa in un atto Don Quichotte di Émile Passard (1843-1917), Parigi, nel 1874; l'operetta Don Quixote di Max Weinzierl (1841-1898), Vienna, 1879, e il pezzo caratteristico Don Quixote, op. 87 di Anton Rubinstein (1829-1894).
Tra le opere più recenti, e forse l'unica che abbia ancora qualche interesse, è Don Quichotte di Jules Émile Massenet (1843-1912), musicata su un libretto che il Cain trasse da una trama di J. Le Lorrain. Nel suo lavoro il Lorrain aveva mutato Dulcinea in una cameriera, il Cavaliere in un grandiloquente predicatore, e il saggio Sancio in una specie di propagandista del socialismo. Il libretto non ha alcun valore; anche la musica è assai povera, nettamente inferiore alla celebrità del suo autore.
Nel 1898 Richard Strauss (1864-1949) compose un poema sinfonico per grande orchestra intitolato Don Quixote: esso si compone di un'introduzione, di dieci variazioni in cui sono ricordati episodi del romanzo, alcuni vagamente, altri con tutte le suggestioni veriste e imitative dell'orchestra, e di un finale.
Tra le altre ricordiamo ancora l'operetta Don Quixote di Reginald de Koven (1859-1920), Boston, 1889; l'opera omonima di Anton Beer Walbrunn (n. 1864), Monaco, 1908; la trilogia Faust, Don Chisciotte e Francesco d'Assisi di Charles Tournemire (1870-1939), l'opera Don Kijote (1917), di Emil Abranyi (n. 1882), e l'opera buffa Mademoiselle Don Quichote di Paul Pierné (1874-1952).
La figura di don Chisciotte ispirò anche molti pittori: tra le opere più notevoli sono la tela di Rodriguez de Miranda (Prado), le illustrazioni di Gustave Doré, e alcune acqueforti, quadri e disegni di Honoré Daumier

Esempio



  


  1. Giorgia

    Sto cercando appunti sul Don Quijote perchè devo sostenere un esame di letteratura spagnola all'Università di Genova, e vorrei approfondire l'argomento.