Claustrophobia di Lev Dodin

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura

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Testo

Claustrophobia

Claustrophobia di Lev Dodin è un testo teatrale degli anni Ottanta basato su testi scritti, come le opere di scrittori russi contemporanei, (Erofeev e Sorokin), e sulle improvvisazioni degli stessi attori del Maly Teatr. La rappresentazione descrive le disillusioni della Russia all’epoca della perestrojka attraverso cinque macro-sequenze, che sfumano l’una nell’altra senza interruzioni, delineando, attraverso diverse tematiche, la vita quotidiana di una collettività posta davanti ad un passaggio cruciale.
La prima parte è una sorta di rievocazione della giovinezza, con i ricordi della scuola, la professoressa di chimica, il turbinio degli amori e la musica rock.
La seconda scena dipinge invece una quotidianità fatta di lunghe file davanti a negozi semivuoti, di dormitori affollati, in cui scambiarsi le poche speranze e le innumerevoli delusioni, e infine di folte schiere di mendicanti aggrappati alla fede in un Dio imperscrutabile.
La terza sequenza è una riflessione tragicomica sulla morte: un gruppo di dottori intorno alla salma di Lenin, il lamento di quest’ultimo che chiede alla moglie perché non sia stato sepolto, la danza della Morte avvolta in un sudario bianco, mentre intorno un gruppo di giovani discute di una libertà forse a portata di mano oppure destinata a rivelarsi l’ennesima illusione (“La libertà? È un sogno anche lì in America, solo che ci sono abituati e non se ne accorgono”).
La quarta parte è il ritratto di un interno domestico, l’apparente normalità di una coppia sotto cui si nasconde il dramma dell’alcol (problema sociale in verità accennato anche nelle altre scene).
Infine la sequenza finale ci presenta un concerto di musicisti senza strumenti capitanati da una cantante muta: l’impietoso ritratto di una società orfana d’ideali, per cui forse si prepara un futuro riscatto rappresentato dall’ascensione della cantante stessa?
Filo comune che unisce le cinque sequenze è il senso di soffocamento che attanaglia una società ormai insofferente alla forzata chiusura e avviata verso un processo di apertura ormai irreversibile. Tutta la rappresentazione, infatti, si svolge nello spazio chiuso di una scuola di danza: la sbarra a destra, due porte in fondo e cinque finestre a sinistra. La scena è quindi un’asettica scatola bianca, sulle cui pareti la professoressa scrive le formule di chimica, in cui si apre una voragine mentre gli attori ballano il rock. La stanza è perciò un simbolo di oppressione, di un ordine di costrizioni, pertanto destinata a sgretolarsi. Ad ogni particolare descritto, come si è visto, corrisponde una forma, la quale rimanda ad un senso.
La luce riempie lo spazio della rappresentazione, si attenua e si fa accecante dando la scansione delle sequenze, il buio cala completamente solo dopo la danza della Morte e nella scena finale. Sullo schermo bianco che forma la sala da ballo si staglia il grigiore dei costumi degli attori. Nelle scene iniziali due figure, vestite di rosa scuro, si distinguono nettamente dal coro danzante: sono l’una l’opposto dell’altra, da una parte un uomo magrissimo si muove con grazia femminea, dall’altra una donna obesa entra in scena marciando militarmente. È tale contrapposizione a rilevare l’ambiguo rapporto tra verità e falsità, tra ciò che è e ciò che viene lasciato credere ed è questo concitato dibattito tra sogno e realtà che fornisce il ritmo a tutto il dramma.
Tra gli elementi visivi della rappresentazione, la danza ha fin dall’inizio un ruolo preponderante: alcune attrici entrano danzando in scena da una delle porte in fondo, si mettono a fare esercizi alla sbarra, per poi appostarsi in posa di cariatidi accanto alle finestre sulla sinistra mentre inizia il primo dialogo. Quindi il corpo dell’attore diventa elemento scenico, attraverso i suoi movimenti prendono forma i sogni e i ricordi del passato che ritornano attraverso le porte o le finestre della stanza. Grazie alla danza il mondo del pensiero si materializza accanto a quello della realtà. Essa può diventare così l’espressione del non-detto, come ad esempio il mimo che fa da alter ego della casalinga sottomessa ad un marito violento ed ubriaco, rivelandone la reale disperazione e umiliazione.
Ma la rappresentazione, oltre a quello visivo, offre un elemento “uditivo”. Mentre il testo verbale è ridotto all’essenziale e presenta risvolti grotteschi, sono il canto e la musica ad avere un ruolo di primo piano: quello di esprimere l’interiorità. Diventano cioè una sorta di strumento per esteriorizzare la consapevolezza del proprio Io. Ad esempio, quando entra in scena, la mendicante sola e impaurita è la voce flebile e lamentosa di un violino che il suono prepotente degli altri strumenti tentano di scacciare; la mendicante più esperta invece, nel raccontare la presa di coscienza di sé e del senso della propria condizione, inizia recitando e finisce col cantare. Alla luce di questa interpretazione, la sequenza finale, che mette in scena un’orchestra muta, è la rappresentazione della nuova Russia ormai privata delle sue ideologie, che ha perso la propria identità e non sa crearsi nuovi ideali se non una sorta di “nazionalismo dell’anima”, di un egoismo che rende le persone mute, malate e crudeli. Si delinea così forse un male non esclusivamente russo ma una dimensione che pervade tutta l’umanità contemporanea.
Per concludere è utile riportare i punti che confermano la teatralità di “Claustrophobia” e che si articolano in quattro piani comunicativi.
A livello di genere teatrale Claustrophobia è difficile da inquadrare in quanto è un collage di comico e tragico, ironico e grottesco, che pone la realtà umana al centro di tutto e che gioca sui momenti concreti del vivere russo.
Dal punto di vista psicodinamico, lo spettacolo soddisfa perfettamente la sua funzione di mettere in relazione attori con attori, ma anche attori con il pubblico per mezzo di codici, illustrati precedentemente, che inducono lo spettatore alla riflessione ed all’interpretazione dei simboli audio-visivi, con cui sono stati messi in contatto.
Dal punto di vista semiologico, con la sua varietà di piani e scene dentro la scena, lo spettacolo offre allo spettatore infinite varianti di regia, che spesso costringono lo spettatore a perdersi nella rappresentazione e nell’incapacità di afferrarne tutte le sue parti.
Dal punto di vista sociologico e antropologico l’opera è un evento a cui il pubblico è chiamato a partecipare, poiché apre uno squarcio sulla realtà amara della Perestrojka.
Il fatto che molti giovani riempiano le sale, dove la rappresentazione prende atto, mostra il forte senso di partecipazione e condivisione dei caratteri ideologici dello spettacolo. Tutto questo fa della messa in scena un momento di richiamo, un gesto associativo e meditativo sull’identità del gruppo.
Dal punto di vista gnoseologico, Claustrophobia è il simbolo della partecipazione di corpo e psiche (forse inconsapevoli l’uno della verità dell’altro) alla conoscenza della realtà in tutta la sua ambiguità.

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