Adone

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura

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Testo

L’Adone

I canti VI-VIII dell’Adone sono dedicati alla descrizione del Palazzo di Venere e del Giardino del Piacere. Si tratta in realtà di una descrizione allegorica, in quanto il Marino vuole rappresentare la gerarchia dei nostri sensi e il significato della conoscenza sensitiva. In questa prospettiva, la straordinaria ricchezza del poema non sarebbe dovuta soltanto ad una tendenza ad accumulare un materiale disparato in un infinito «catalogo» d’oggetti (Praz) o in una «enciclopedia» dello scibile (Getto) che mira a raccogliere tutte le parole e gli oggetti conoscibili e nominabili, secondo le modalità suggerite dalla viva e spontanea sensibilità dell’autore. La direzione accumulativa che il genere esameronico incarna è imboccata dal Marino con una risolutezza che applica alla lettera il precetto dell’eeeeeeeeeeeedell’«evidenza che non tralascia alcun particolare, che non taglia fuori niente e nulla omette». Il «particolareggiamento» che il Tasso aveva posto a servizio dell’azione e della discesa nella psicologia dei personaggi si proietta nel Marino orizzontalmente, in direzione della raccolta, della catalogazione e del dispiegamento, sicché l’Adone si sostanzia di quell’abbandono dell’azione e del combattimento in cui l’anonimo del Sublime vedeva il sintomo di senilità emergente dall’Odissea di Omero.
La “raccolta” messa in atto da Marino seguirebbe un filo logico di natura filosofica e il poema si configurerebbe allora come consapevole proposta di una nuova “teoria della conoscenza”, basata sull’esperienza della sensazione piuttosto che sui presupposti della scienza e della teologia tradizionali. Le modalità compositive dei singoli brani (associazione di realtà diverse tramite l’analogia, creazione di coppie oppositive, sdoppiamento delle immagini, ecc…) si proietterebbero così sull’organizzazione generale dell’opera, che apparirebbe quindi basata sullo stesso procedimento di associazione con cui le singole sensazioni si collegano l’una all’altra nell’esperienza comune dell’uomo, in una catena incessante di associazioni per somiglianza o contrasto all’interno di un flusso continuo di esperienze.
Molto vivo è l’interesse per l’anatomia e le funzioni dei singoli organi, che mostra la sua capacità di recezione dei temi e del linguaggio scientifico, naturalmente rielaborato e trascritto metaforicamente (nella descrizione dell’occhio –IV 32 e 33- il Marino riprende la nuova terminologia scientifica proposta nei trattati dell’Acquapendente e del Casseri: la tunica aranea, la tunica uvea, la tunica cornea, l’humor albugineus, sono ridotti ad aragne, corno, acqua e albume, con un procedimento che ripristina metaforicamente gli oggetti cui i nomisti avevano fatto riferimento analogicamente per via di aggettivazione). Il canto VI è dedicato alla descrizione di vista e odorato, il VII di udito e gusto, l’VIII del tatto (a cui viene attribuito fra i sensi il primato, probabilmente sotto l’influsso della teoria epicure della conoscenza). Nel canto VII, a partire dall’ottava XVIII, il Marino descrive gli uccelli e le piante del Giardino del Piacere, catalogandoli «con dovizia e ricercatezza per esprimere nella forma più vistosa possibile la sua volontà di nuovamente ordinare e selezionare la flora e la fauna del creato ai fini della fastosa azione che viene narrando» (Guglielminetti).
Il precedente immediato di questa descrizione è offerto dal canto XVI della Gerusalemme Liberata, nelle ottave dedicate al giardino di Armida; ma qui l’atmosfera è di maggiore ricercatezza e preziosità. Per esempio gli uccelli che nel Tasso erano semplicemente i vezzosi augelli, sono descritti qui, ognuno, con estrema ricchezza e varietà.
…I vezzosi augelli della maga tassiana sembrano infantili trastulli di fronte a quelli variopinti e sgargianti posti dal Marino nel Giardino del Piacere. In realtà differente è la vicenda umana a cui i due giardini prestano lo sfondo. Il palazzo e il giardino di Armida sono l’emblema più caro alla fantasia del Tasso della sua costante ricerca d’un mondo di perduta felicità primitiva: sono l’ideale «porto del mondo», ove placare «le noie» dell’esistenza nel culto dell’amore segreto e romito, modulato su una dolcissima e prolungata estasi sensuale. Intensa suggestione simbolica possiede l’immagine del labirinto: con l’intersecarsi tortuoso dei suoi cammini diviene l’emblema fisico dello smarrirsi della ragione nella pluralità degli impulsi che vengono dal profondo e che, allontanando dal “centro”, inducono alla devianza. L’eroe, infatti, si è smarrito in quel labirinto abbandonandosi ai sensi, e ne è rimasto prigioniero. Un significato analogo al labirinto assume il giardino che si estende al suo centro. Con il suo proliferare lussureggiante di vegetazione rappresenta gli abissi della coscienza in cui si annidano gli istinti pagani, peccaminosi, che si sottraggono alla forza della ragione cristiana. La descrizione riprende un motivo caro alla letteratura rinascimentale, che ama proiettare nell’immagine del giardino ameno una visione edonistica della vita: si possono ricordare il giardino di Venere nelle Stanze di Poliziano, i tanti giardini incantati del Boiardo, il giardino di Alcina in Ariosto. Legami molto stretti vi sono anche con la letteratura idillico-pastorale, che esprime un analogo abbandono ad un sonno voluttuoso (Tasso stesso vi si era cimentato con l’Aminta), e, più indietro con le rappresentazioni dell’età dell’oro nei poeti classici. Ricorrono nella descrizione del giardino di Armida i motivi obbligati del locus amoenus, ricca vegetazione, acque limpide, canto di uccelli; ma il giardino tassesco si caratterizza per una più accentuata sensuosità proprio perché si carica di una serie di significati simbolici e moralistici e diviene il luogo per eccellenza dello sviamento dell’eroe. (TASSO: GIARDINO=RAPPRESENTAZIONE SIMBOLICA DELLO SVIAMENTO MORALE; modello: Eden cristiano, mondo bucolico, scenario primaverile della poesia profana, letteratura rinascimentale che esalta il paesaggio naturale come oblio dalle fatiche o immagine della felicità.)
Il palazzo di Venere ed il Giardino del Piacere sono, invece, l’emblema più caro alla fantasia del Marino della possibilità di piegare la natura alle esigenze mondane e civili della vita del tempo: sono luoghi frequentati e popolati da una elegante società di uomini, che trovano nella presenza di Venere e di Adone l’espressione compiuta dei loro desideri di vita lussuosa e lussuriosa. Alcuni elementi contenutistici del poema sembrano confermare l’emergere in Marino dell’ambizione di teorizzare la superiorità dell’esperienza sensuale su ogni altra forma di conoscenza: l’associazione del «dilettoso loco» a una definizione impegnativa come quella di Paradiso e di felicità, suggerisce un capovolgimento radicale di valori. Agli angeli che intrecciano voli di lode e di gloria attorno al trono di Dio, Marino sostituisce la danza delle immagini di lascivia che riempiono il panorama ( lo sferico teatro, il teatro del mondo) al centro del quale egli pone il bellissimo eroe destinato al massimo dei piaceri, alla conoscenza piena e diretta della più bella e desiderabile entità del mondo: Venere appunto. Lo schema della Divina Commedia verrebbe così piegato ai nuovi fini, radicalmente eversivi. L’insegnamento che Mercurio trasmette all’allievo è opposto a quello che Virgilio lascia a Dante nel momento della separazione tra guida e discepolo nel Purgatorio dantesco. Il fatto è che non esiste altro paradiso al di fuori di quello terrestre, in cui Adone è già entrato: il cammino successivo porterà al pieno godimento di questa felicità, che può essere conquistata solo attraverso il più completo degli strumenti conoscitivi di cui l’uomo dispone: il senso del tatto.
Fu piuttosto Ariosto con la descrizione della corte della maga Alcina, a suggerire al Marino lo spunto per la sontuosa celebrazione dei divertimenti mondani come parte integrante della sua aspirazione. E infatti il fugace cenno del poeta rinascimentale ai passatempi dei «gioveni» e delle «donne» al servizio di Alcina si trasforma nel Giardino del Piacere in una rassegna di giochi di società e di danze, la più esauriente e soddisfacente possibile. Compare infatti in Ariosto un motivo caro alla letteratura rinascimentale, quello del giardino delle delizie: vi si esprime il compiacimento edonistico, il vagheggiamento di belle forme di vita, vi si proietta cioè il sogno idillico della civiltà cortigiana del Rinascimento, che si protende verso un’immagine di esistenza serena e gioiosa, dedita ai piaceri più squisiti, in una sfera separata dalla vita comune, immune dagli urti della realtà. È il sogno evasivo di un’élite raffinata e colta, che abbiamo già incontrato nella letteratura del tardo Quattrocento: e difatti questo palazzo di Alcina riprende vari spunti dalla rappresentazione del regno di venere nelle Stanze del Poliziano.
Marino scopertamente rifiuta l’impianto pastorale dell’Aminta e del Pastor Fido, cioè quel tipo fortunato di rappresentazione, che saliva in su fino al Sannazaro. Il registro del suo vivere piacevole è di altro tipo, è la galanteria dei balli e dei giochi di società, delle cacce e delle pallacorde nel cui contesto la favola mitologica correva come pretesto erotico nel genere appunto dell’idillico e come pretesto di spettacolo nel genere del balletto, non a caso presente nell’Adone.
Il Venturi rileva come il giardino allegorico del barocco Marino recuperi la «visione onirica e pietrificata di certe descrizioni polifilesche» trasferendo nel durevole della pietra l’effimero del giardino: la rosa e il rubino, il giglio e il diamante, la viola e lo zaffiro, il papavero e il topazio, e via dicendo. Il giardino pietrificato è un giardino dove si baratta la perdita della vita con la durata, la morte con l’immagine di una preziosità che trasforma la nostalgia del paradiso in un colossale ex voto. La realtà fisica è affetta dal peccato; solo la parola che costruisce allegorie può creare un nuovo paradiso, davvero il paradiso artificiale della fantasia. «Se l’intenzione allegorica nel rapporto con il mondo creaturale delle cose si dirige su quello inerte e al massimo su quello semivivente, l’uomo non entra sul suo campo di visuale. Se si attiene unicamente agli emblemi, il mutamento repentino, la salvezza non sono impensabili. Ma è possibile che, irridendo a tutti i travestimenti emblematici, davanti agli occhi di chi coltiva l’allegoria dal seno della terra, irrompa trionfalmente, vivo e nudo il ghigno inconfondibile del demonio».

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