Ulisse nel tempo

Materie:Tesina
Categoria:Letteratura Italiana

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Testo

ULISSE NEL TEMPO
Il personaggio di Ulisse rappresenta la figura mitica più affascinante dell'antichità: navigatore intrepido e ingegnoso, "homo faber", abile retore ed astuto imbroglione, inesauribile narratore orale, guerriero invincibile, affascinante amatore.
Dalla letteratura greca arcaica al romanzo di Joyce, il mito di Odisseo si è prestato a rappresentare sotto vari aspetti una caratteristica costante della cultura europea: la ricchezza della personalità umana che si rinnova continuamente attraverso varie esperienze, arricchendosi e trasformandosi, in un'irrequietudine perennemente insoddisfatta e desiderosa d'altro.
L'EROE SCALTRO E SAGGIO
Omero -- Odissea
I poemi omerici presentano Ulisse come un eroe scaltro e saggio. I due termini non sono antitetici nell'ambito di una cultura arcaica per la quale l'astuzia e l'inganno non sono in contrasto con la pietà religiosa.
Con la sua astuzia riesce a prevalere sia sulla seduzione di Circe e di Calipso, sia sulla forza bruta di Polifemo. Si dimostra invece un eroe pio quando si adegua ai suggerimenti degli dei, trasmessigli da Atena.
Il proemio
" Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus. "
Omero, nell’incipit del suo testo più famoso, l’Odissea, affronta già tutti i temi che poi svilupperà più ampiamente nell’arco dei XXIV libri di cui quest’opera è composta.
Nel primo verso troviamo l’aggettivo multiforme, traduzione dell’ambiguo aggettivo greco polytropon, significa ingegnoso, dai molti espedienti, astuto, ma anche che ha molto viaggiato.Fin da subito il protagonista si caratterizza dunque come eroe della conoscenza, acquisita attraverso l’esperienza.
Sempre in questi primi dieci versi, Omero introduce anche il naufragio dell’eroe e dei suoi compagni, per poi parlare del tema del ritorno, ostacolato dagli dei.
Questi, insieme ad altri trattati da autori seguenti, saranno i temi di cui si parlerà in epoche più tarde; all’eroe impavido dall’arguta intelligenza si andranno poi ad aggiungere quello fragile, quello desideroso di libertà, il superuomo ma anche l’antieroe.
L'EROE PERFIDO, SPIETATO E INGRATO
I miti dell'epos furono alla base del teatro greco, che li sviluppò, trasformandoli, in relazione alla pluralità dei punti di vista che si affrontavano nell'ambito della polis. In questo quadro i personaggi dell'epos mutano spesso le loro caratteristiche. Odisseo conserva caratteri positivi solo nell'Aiace di Sofocle.
Nel Filottete di Sofocle e nell'Ecuba di Euripide, invece, la sua astuzia è presentata negativamente come cinica mancanza di valori morali.
Nell'Eneide, concepita dal punto di vista dei Troiani, incontriamo una rappresentazione di Ulisse che aggrava i caratteri negativi del Filottete e di Ecuba.
Nel secondo libro, alla mensa di Didone, Enea rievoca l'inganno del cavallo e la dolorosa ultima notte di Troia. Di Ulisse sentiamo parlare soprattutto nel racconto di Sinone, un greco istruito da Ulisse per convincere i Troiani a introdurre il cavallo in città.
Per Ulisse Virgilio ha scelto un aggettivo che ritorna costante, dirus Ulixes, "lo spietato Ulisse", come Enea è il pius Aenaes.
L'EROE DELLA CONOSCENZA
Omero era stato per secoli il termine di riferimento per tutto ciò che per i Greci significava valore: modello di poesia perfetta, di moralità, di qualsiasi forma di comportamento. Quando Platone, quattro secoli dopo Omero, volle costituire su basi filosofiche una nuova moralità, doveva inevitabilmente rimuovere dalla coscienza dei Greci il modello omerico: per questo nella Repubblica egli criticò a fondo l'immoralità dei miti che presentavano gli dei come violenti, adulteri ed ingannatori e attaccò i fondamenti stessi della poesia che allontana gli uomini dalla verità e li corrompe proponendo falsi modelli di comportamento.
Nel secolo succcessivo, tuttavia, gli Stoici riabilitarono la figura del poeta, suggerendo che i poemi dovessero essere letti in chiave allegorica, come rappresentazione dei vizi e delle virtù umane. Questa interpretazione fu accreditata dalla scuola filologica di Pergamo, di chiara ispirazione stoica, e per questo tramite giunse a Roma. A quell'insegnamento si richiamò con tutta evidenza Orazio, indicando in Paride, Achille ed Agamennone i prototipi della passione edonistica, della soggezione all'ira e al desiderio amoroso. In opposizione ad essi Ulisse deve essere per noi un utile exemplar di ciò che possa virtù e sapienza.
Così nel De finibus ciceroniano egli rappresenta la vittoria della razionalità sulla seduzione dei sensi.
Prendendo a modello gli autori latini, Dante fa di Ulisse l'eroe della conoscenza per antonomasia.
Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
La punta più alta dell'antica fiamma
cominciò a scuotersi mormorando,
proprio come quella fiamma che il vento agita;
quindi, scuotendo la cima di qua e di là,
come se fosse la lingua che parlasse,
tirò fuori la voce e disse: "Quando
me ne andai via da Circe, che mi costrinse
più di un anno a Gaeta,
prima che Enea la chiamasse così,
nè la tenerezza per mio figlio, nè il rispetto
verso il mio vecchio padre, nè l'amore dovuto,
il quale doveva far felice Penelope,
riuscirono a vincere dentro di me il desiderio
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
che io ebbi di diventare esperto del mondo
e dei vizi e delle virtù degli uomini;
ma mi misi in viaggio per il profondo mare aperto
solo con una nave e con quella piccola compagnia
dalla quale non ero stato abbandonato.
Vidi l'una e l'altra sponda fino alla Spagna,
fino al Marocco e la Sardegna,
e le altre isole bagnate da quel mare.
Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti
quando giungemmo a quello stretto punto di passaggio dove Ercole pose i suoi confini,
affinché nessuno andasse oltre;
mi lasciai a destra Siviglia,
dall'altra parte mi aveva già lasciato Ceuta.
"O compagni" dissi "che per numerosi pericoli siete giunti all'occidente,
a questa tanto piccola veglia
dei nostri sensi che ci rimane
non negate la conoscenza,
del mondo disabitato che sta dietro al sole.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso
Considerate la vostra origine:
non foste creati per vivere come bestie,
ma per comportarsi virtuosamente e ed inseguire la conoscenza".
Io resi i miei compagni così desiderosi,
con questa orazione spicciola, del viaggio,
che dopo li avrei trattenuti a fatica;
e rivolta la nostra poppa verso oriente,
facemmo dei remi le ali per il volo folle,
procedendo sempre più a sinistra.
Già tutte le stelle dell'altro polo
si vedevano di notte, e il nostro era tanto basso,
che non emergeva dalla superficie del mare.
La luce della faccia inferiore della luna si era accesa cinque volte e spenta altrettante
da quando avevamo oltrepassato il difficile stretto,
quando ci apparve una montagna, oscura
per la distanza, e mi sembrò tanto alta
come non avevo mai vista alcuna.
Noi ci rallegrammo, ma presto la nostra gioia fu tramutata in pianto, poiché dalla terra nuova sorse un turbine e colpì la parte davanti della nave.
Il turbine la fece girare insieme alle acque per tre volte;alla quarta fece alzar la poppa in su
e la prua in giù, come sembrò giusto ad altri,
fino a che il mare fu richiuso sopra di noi"
Il tema del naufragio, della sfida intellettuale e dell’irrefrenabile brama di esperienza – uniti all’abilità oratoria – si congiungono nella figura di Ulisse che Dante traccia nel canto XXVI dell’Inferno (vv. 85-142). L’eroe greco rappresenta colui che ha fallito perché ha usato in modo negativo la propria curiosità e intelligenza: egli ha cercato di opporsi al volere divino e ha sfidato Dio tentando di superare i limiti imposti. Il passaggio delle Colonne d’Ercole con il gruppo di compagni che lo seguì nella sua bramosia di conoscenza rappresenta infatti il superamento di un confine che all’uomo era proibito oltrepassare. Il racconto che Ulisse fa a Dante e Virgilio mette via via in evidenza che le forze su cui egli pretese di contare erano assolutamente inadatte all’impresa: una sola era la nave di fronte all’immensità del mare; piccola (e per giunta composta da vecchi) era la compagnia di uomini che si convinsero a seguirlo grazie a un discorso che rappresenta un piccolo capolavoro di arte oratoria.
Tuttavia lo stesso Dante, che conferisce alla vicenda di Ulisse la funzione simbolica del "naufragio" come sconfitta di coloro che usano l’ingegno per compiere una grande impresa senza la virtù sorretta dalla fede, riconosce che l’uomo si distingue da ogni altro essere vivente proprio per il desiderio di conoscenza. Del resto anche Dante compie un viaggio oltre i limiti dell’umano, nell’oltretomba. L’errore, dunque, non è nella brama di conoscenza ma nel seguire questo ardore senza la guida divina, anzi in aperta ribellione a essa. Tale ribellione – dice Dante – porta con sé un gioia di breve durata.
L'EROE INQUIETO ED EMARGINATO
Nel mondo moderno, a partire dall'Ottocento, la figura di Odisseo ritorna, per incarnare l'inquietudine dell'individuo di fronte al dramma dell'esistenza: in Foscolo il mito è funzionale ad esprimere la passione dell'esule che spera di ripercorrere il nostos dell'eroe antico, in Tennyson esprime la ricerca insaziabile di nuove esperienze di vita oltre che di sapere. Il clima insicuro e tormentato della fine dell'Ottocento e dell'inizio del secolo successivo proietta nel mito di Odisseo i suoi tormenti e i suoi turbamenti, attraverso la rievocazione dei Poemi conviviali di Pascoli e la trasformazione dannunziana che nelle Laudi vede in Ulisse la prefigurazione del superuomo. Altre forme della moderna polytropia di questo eroe greco sono espresse nello sradicamento dell'Ulisse di Saba e nella frammentazione di quello di Joyce, mentre Kavafis e Levi ne traggono motivo per affrontare con consapevolezza gli sconvolgimenti storici e sociali che hanno tormentato l'Europa nel corso del secolo.
U.FOSCOLO -- A ZACINTO
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
Nel sonetto foscoliano il legame fra il poeta e Ulisse è costituito dal tema dell'esilio. Entrambi sono esuli e costretti a peregrinare e a sospirare per la patria lontana. Foscolo evoca la figura di Ulisse per sottolineare la propria sofferenza per la lontananza della natìa Zacinto.
Il rapporto tra i due ha, però, una connotazione fortemente contrastiva: mentre l'eroe omerico riuscì ad approdare alla sua petrosa Itaca, Foscolo, invece, è consapevole dell'impossibilità del ritorno, presagio della sua morte in terra straniera senza il conforto delle lacrime dei suoi cari. Rimane come unico risarcimento il canto poetico.
A.TENNYSON -- ULISSE
Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi conosce.
Starmi non posso dall’errar mio: vuò bere la vita
sino alla feccia.Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Iadi piovorne travagliano il mare velato di brume.
Nome acquistai, ché sempre errando con avido cuore
molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.
Ciò che incontrai nella mia strada,ora ne sono una parte.
Pur,ciò ch’io vidi è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.
Stupida cosa il fermarsi,il conoscersi un fine, il restare
sotto la ruggine opachi nè splendere più nell’attrito.
Come se il vivere sia quest’alito!vita su vita
poco sarebbe,ed a me d’una, ora,un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
porta con sè nuove opere, e indegna sarebbe,per qualche
due o tre anni,riporre me stesso con l’anima esperta
ch’arde e desìa di seguir conoscenza:la stella che cade
oltre il confine del cielo,di là dell’umano pensiero.
Ecco mio figlio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro
lascio; che molto io amo; ceh sa quest’opera, accorto,
compiere; mansuefare una gente selvatica, adagio,
dolce, e così via via sottometterla all’inutile e al bene.
Irreprensibile egli è, ben nel mezzo ai doveri,
pio, che non mai mancherà nelle tenere usanze, e nel dare
il convenevole culto agli dei della nostra famiglia,
quando non sia qui io: il suo compito e’ compie; io, il mio.
Eccolo il porto, laggiù: nel vascello si gonfia la vela:
ampio nell’oscurità si rammarica il mare. Compagni
cuori ch’avete con me tollerato, penato, pensato,
voi che accoglieste, ogni ora, con gaio ed uguale saluto
tanto la folgore, quanto il sereno, che liberi cuori,
liberi fronti opponeste: oh! Noi siam vecchi, conpagni;
pur la vecchiezza anch’ella ha il pregio, ha il compito: tutto
chiude la Morte; ma può qualche opera compiersi prima
D’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi!
Già da’ tuguri sui picchi le luci balenano: il lungo
giorno dilegua, al luna insensibile monta; l’abisso
geme e sussurra all’intorno le mille sue luci. Venite:
tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.
Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori
via percotete: ho fermo nel cuore passare il tramonto
ed il lavacro degli astri di là: fin ch’abbia la morte.
Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino; forse,
nostro destino è toccar quelle isole della Fortuna,
dove vedremo l’a noi già noto, magnanimo Achille.
Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
più che nei giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempera d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.
Da G. Pascoli, Traduzioni e riduzioni, Mondadori, Milano.
Qui l'eroe omerico e dantesco diviene un re disgustato dalla noiosa normalità della propria famiglia e della gestione dello Stato.Il componimento è un monologo drammatico nel quale Ulisse, ritornato in patria da anni e ormai vecchio, afferma di voler nuovamente salpare per un ultimo grande viaggio verso occidente. Sovrano apparentemente stanco di regnare, accompagnato da una consorte anch'essa ormai vecchia, egli si sente inattivo e inutile.
Come l'Ulisse supera vecchio e tardo le Colonne d'Ercole, l'estremo confine del mondo conosciuto, così l'Ulisse di Tennyson ormai giunto vicino al termine della propria vita decide di riprendere il largo, di abbandonare la vita tranquilla per andare.
Il personaggio dell'Ulisse di Tennyson è polisenso:
• È l'alter ego del poeta:
• È metafora del'esistenza umana, nella quale anche la più ottimistica visione del mondo non è mai separata dal malinconico rimpianto per il destino di declino e morte, connaturato all'uomo.
G.PASCOLI -- ULTIMO VIAGGIO DI ULISSE
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sè miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
"Son io! Son io, che torno per sapere!
Chè molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?"
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
"Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma,
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!"
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi delle due Sirene.
"Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io, chi ero!"
E tra i due scogli si spezzò la nave.
[...]
(G. Pascoli, Poemi Conviviali, canto XIII)
Il tema principale di questo componimento si basa sulla ricerca della vita perduta, della propria identità. Dopo anni di prosperità e di serenità domestica, l'eroe ormai vecchio e stanco e dominato dai sogni del proprio passato, decide di partire da Itaca. Lasciata la moglie e il figlio, Odisseo si reca dai vecchi compagni e li incita a partecipare alla sua impresa e a riprendere con lui il largo. Il suo non sarà un "volo" ispirato dal desiderio di conoscere: la finalità del viaggio è piuttosto quella di rivivere ciò che è stato, di ripercorrere la vita trascorsa per trovare nel passato un valore che non muore con l’andare del tempo. Preso il largo, Odisseo e i compagni giungono innanzitutto all’isola di Circe dove l’Eroe non trova né la dea, né i suoi leoni né la sua casa. La spelonca di Polifemo non è più abitata dal terribile ciclope, le Sirene si rivelano essere altro che due scogli, niente accade tra Scilla e Cariddi. Odisseo, sempre più triste per il fallimento della sua impresa, giunge all’amara conclusione che "Il mio sogno non era altro che sogno e vento e fumo": per uno scherzo della sorte egli è divenuto veramente Nessuno. La nave, sospinta da una "tacita" corrente, fa miseramente naufragio. Dunque il viaggio alla ricerca del proprio passato si chiude con una terribile sconfitta: il passato non riserva niente se non sogni e l’unica realtà umana è la perenne attualità del morire per mai più ritrovarsi, fino a essere annullati per sempre nel silenzio della morte.
G.D'ANNUNZIO -- L'INCONTRO DI ULISSE
Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l’isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d’ argentea cintura
precinto.Lui vedemmo
su la nave incavata.E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili venti,
silenzioso;e il pileo
èstile dei marinai
coprivagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo,la palpebra alquanto
l’occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l’ infaticata
possa del magnanimo cuore.
E non i tripodi massicci,
non i lebeti rotondi
sotto i banchi del legno
luceano,i bei doni
d’ Alcinoo re dei Feaci,
né la veste né il manto
distesi ove colcarsi
e dormir potesse l’Eroe;
ma solo ei tolto s’avea l’arco
dall’allegra vendetta, l’arco
di vaste corna e di nervo
duro che teso stridette
come la rondine nunzia
del di,quando ei scelse il quadrello
a fieder la strozza del proco.
Sol con quell’arco e con la nera
sua nave,lungi dalla casa
d’alto colmigno sonora
d’industri telai, proseguiva
il suo necessario travaglio
contra l’implacabile Mare.
- O Laertiade- gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell’Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
- O Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte
e sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancora.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!-
Non pur degnò volgere il capo.
Come a schiamazzo di vani
fanciulli, non volsa egli il capo
canuto; e l’aletta vermiglia
el pileo gli palpitava
al vento su l’arida gota
che il tempo e il dolore
solcato avean di solchi
venerandi. –Odimi- io gridai
sul clamor dei cari compagni
-odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi a prova. E, se tendo
l’arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco
ma, s’io nol tendo, ignudo
tu configgimi alla tua prua-.
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il folgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.
Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.
Ma il cuor mio dai cari compagni
partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. Io tacqui
in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d’un cuore
possente. E ame solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell’Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell’incude!
(G.D’annunzio, Maia, canto IV, in Opere, Milano, Mondadori, 1990)
A differenza di Pascoli, che si assimila a Odisseo nell’estrema sconfitta dell’uomo, Gabriele D’Annunzio vede nell’eroe omerico il modello supremo che egli stesso vorrebbe incarnare. Come Odisseo egli mira a ricongiungersi all’Universo, vincendo tutte le forze della natura. L’eroe greco appare dominato da un’energia indomabile. Di fronte a un tale desiderio di potenza, ogni altra presenza, persino la moglie Penelope, non può aver alcuno spazio. Nei versi a lei dedicati, la sua fedeltà e la sua costanza non sono servite a nulla: l’uomo dalle mille vie, riconosce come sua casa solo la sua nave. E quando il poeta, desideroso di cogliere la Vita oltre la vita, chiede di essere partecipe del viaggio, Odisseo si rivolge a lui con sguardo disdegnoso, e riprende il suo navigare senza fine, verso la pienezza radiosa della Vita.
C.KAVAFIS -- ITACA
Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Posidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l'emozione che ti tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.
Fa voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d'estate
che ti vedano entrare ( e con che gioia
allegra!) in porti sconosciuti prima.
Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d'ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi.
Rècati in molte città dell'Egitto,
a imparare imparare dai sapienti.
Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna quell'approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all'isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t'ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non t'ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un'Itaca.
In questo componimeto il viaggio verso l’isola di Odisseo, Itaca, alla quale l’eroe fa ritorno dopo tante traversie è una metafora della vita umana. Nascendo, metaforicamente partendo da Itaca, ciascun essere umano ha dato inizio al suo viaggio, è entrato nella vita, e morendo, tornando a Itaca, la abbandonerà. Per giungere esperto e saggio (v. 35) al termine del viaggio, è fondamentale cercare di scoprire i segreti di ogni attimo vissuto, senza paura di delusioni e dolori, paura e angoscia. L’approdo a Itaca, la morte, dovrà rappresentare per ogni essere umano uno sprone per gustare tutto ciò che si è incontrato e serbarlo come un importante arricchimento.
G.GOZZANO -- ULISSE NAUFRAGA…A BORDO D'UN YACHT
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes.
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né la pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
-Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza!-
Vïaggïa vïaggïa viaggia
v ïaggïa nel folle volo:
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo...
Vïaggïa vïaggia vïaggïa
vïaggïa per l’alto mare:
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Pirgatorio
che trasse la nave all’in giù.
E il mare sovra la prora
si fu richiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora...
Il testo è una parodia dell’Ulisse omerico, dantesco e d’annunziano.
Gozzano ricorda le imprese eroiche compiute da Ulisse ridicolizzandole. La nave di quest’ultimo, infatti, è diventata – con un errore di cronologia – uno yatch; Calipso e Circe si sono trasformate in allegre donnine, i suoi marinai in "allegre brigate"; le sue eroiche traversate sono diventate futili viaggetti di piacere verso località esotiche.
Ulisse, ormai vecchio, ha deciso di tornare da Penelope, sua consorte fedele, ma il soggiorno è breve perché egli parte alla ricerca di fortuna in America. Il viaggio è lungo e periglioso e si conclude con il naufragio e la cacciata di Ulisse negli Inferi. Ulisse non è più "Il Re di Tempeste" omerico, nè l’uomo assetato di conoscenza di ascendenza dantesca, né il superuomo d’annunziano, ma un mediocre uomediocre uomo qualunque avido di beni materiali.
Nel testo – la cui struttura metrica è costituita in prevalenza da versi novenari e ottonari a rima incrociata (secondo lo schema A-B-B-A) -, sono evidetni, nella scelta lessicale, i riferimenti al testo dantesco: "dolcezza di figlio", "pietà del padre", "debito amore", "considerate la vostra semenza", "folle volo", "stelle dell’altro polo", "un’alta montagna", "la prora".
U.SABA -- ULISSE
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
L’Ulisse di Umberto Saba rappresenta invece, in tredici versi e attraverso un’atmosfera quasi da fiaba, un personale percorso di vita. Per il poeta l’essere sempre in viaggio non costituisce una scelta di vita, ma una condizione inevitabile. Se altri possono trovare pace in un "porto", in un rifugio sicuro, egli, come Ulisse, è spinto sempre "al largo", mosso da un’insopprimibile inquietudine.
Consapevole della propria natura, il poeta riconosce che solo in questo andare senza sosta egli può assaporare appieno la vita. E, non a caso, l’ultimo verso è l’unico, dell’intera poesia, che non sia legato da enjambement al precedente: il lettore è portato a isolarlo e a interpretarlo come una riflessione conclusiva del poeta sulla propria esistenza.
J.JOYCE -- L'ULISSE
L’Ulisse di Joyce è un testo la cui struttura narrativa è particolarmente complessa e pertanto difficile da riassumere. Edmund Wilson ne ha fatto una sintesi di poche pagine, giudicata ormai un classico della letteratura moderna.L’opera di Joyce è comunque ritenuta molto simile sia per forma che per contenuto all’Odissea classica, come si evince dalla seguente tabella:
Personaggi:
Stephen Dedalus, in cerca di suo padre, è il Telemaco della situazione.
Buck Malligan è l’amico con il quale vive Stephen, in cui si riconosce il personaggio Antinoo dell’Odissea classica.
Mr Bloom ovvero Ulisse, ebreo dublinese, si sente ancora uno straniero tra gli irlandesi. Sposato da sedici anni con una donna infedele, è l’Ulisse senza Telemaco, separato dalla sua Penelope.
Infine c’è Mrs Bloom che evoca il personaggio omerico di Penelope.
L’incipit del romanzo:
"Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio.
Una vestaglia gialla, discinta, gli era sorretta delicatamente sul dietro della mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:
-Introibo ad altare Dei.
Fermatosi, scrutò la buia scala a chiocciola e chiamò berciando:
-Vieni su, Kinch. Vieni su, pauroso gesuita.
Mestosamente avanzò e ascese la rotonda piazzuola di tiro. Fece dietrofront e con gravità benedisse tre volte la torre, la campagna circostante e i monti che si destavano. Poi, avvedutosi di Stephen Dedalus, si chinò verso di lui e tracciò rapide croci nell’aria, gorgogliando di gola e tentennando di capo. Stephen Dedalus, contrariato e sonnolente, appoggiò i gomiti sul sommo della scala e guardò con freddezza la tentennante gorgogliante faccia che lo benediceva, cavallina nella lunghezza e i chiari capelli senza tonsura, ma marezzati color quercia chiaro."(…)
Analisi del romanzo:
L’Odissea eroicomica ridimensiona tempo e spazio: le peregrinazioni di Ulisse in mari e terre lontani divengono i movimenti di Bloom per le strade e nei bar di Dublino dalle otto del mattino alle ore piccole di un’unica giornata.
.Al di là della folla dei personaggi minori, la struttura fondamentale del romanzo è riassunta nei tre protagonisti: Leopold Bloom-Ulisse, Stephen Dedalus-Telemaco, Molly Bloom-Penelope.
Bloom è l’uomo medio, sensuale, positivo e inefficiente, curioso di nuove esperienze ma timido e cauto, alla ricerca di concretezze scientifiche e di rapporti umani che, le une e gli altri, non gli riesce di trovare. Stephen è l’idealista alla ricerca di valori spirituali, che si ribella alla quotidianità dell’esistenza nel tentativo di trovare una sua coerenza intellettuale.
Mentre Bloom, ebreo per giunta non credente o praticante, nasce già nella condizione di esule, Stephen fa di tale condizione una scelta deliberata: egli ha in comune con Bloom la stessa inefficienza e incapacità di realizzare le aspirazioni più sentite. L’uno e l’altro rimangono nella condizione di ricerca, e sono, quindi, personaggi complementari. Sul piano narrativo questa complementarietà si manifesta nel fatto che Bloom ha perduto l’unico suo figlio naturale, morto nell’infanzia, e la sua aspirazione è quella di trovare un nuovo figlio; Stephen a sua volta ha rifiutato il suo padre naturale e la sua stessa aspirazione, la sua ricerca è quella di una figura paterna che prenda il suo posto.
Sia Leopold Bloom che Stephen Dedalus sono proiezioni di Joyce in due età diverse
La terza protagonista, la moglie infedele di Leopold, è intesa a riassumere nel suo monologo finale tutte le donne che compaiono nel libro e le loro controparti mitiche: è non solo Penelope, ma anche la ninfa Calipso (4° episodio), e si riflette in Nausica-Gerty McDowell (13° episodio) e in Circe-Bella Cohen (15° episodio). Molly è l’essenza della natura femminile, espressione della fisicità più assoluta, e della accettazione incondizionata ma non passiva della condizione umana.
P.LEVI -- SE QUESTO E' UN UOMO
Primo Levi cerca di ricordare il canto di Ulisse e lo recita a Pikolo . Cercare di ricordare la Divina Commedia ha il senso di continuare ad essere uomini, come sottolinea il canto XXVI dell’Inferno dantesco ed in particolare la terzina in cui Ulisse rivolge la sua "orazion picciola" ai suoi compagni:
"Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza"
(Inf. XXVI, vv. 118–120)
Questa terzina assume un valore terribilmente attuale per Primo Levi e per Pikolo, perché in Lager si vive come "bruti", la "semenza" umana è calpestata, la virtù e la conoscenza sono allontanate dall’urgenza della sopravvivenza.
Anche la punizione di Ulisse (il naufragio), voluta da un Dio che lui non conosceva ma di cui aveva sfidato la volontà andando con la sua nave oltre le colonne d’Ercole, ricorda il destino dei prigionieri per essersi opposti all’ordine fascista in Europa, e in particolare il destino degli ebrei: fra le ragioni dell’antisemitismo tedesco c’erano, infatti, l’odio e il timore per l’acutezza intellettuale degli ebrei, un’acutezza che li avvicina all’Ulisse dantesco e che è sentita dai tedeschi come pericolosa. Ulisse rende "acuti" anche i suoi compagni con la sua "orazion picciola". Il "folle volo" di Ulisse, infine, ricorda anche un altro folle volo, cioè il tentativo di sollevarsi per un momento al di sopra della condizione disumana del Lager con lo sforzo di ricordare la Divina Commedia .
Durante i bombardamenti, cominciati nell’estate del 1944, il Block privo di luce sembra una bolgia buia ed urlante.
Nella turba dei nudi spaventati, che affrontano la selezione facendo di corsa i pochi passi tra la porta del Tagesraum e quella del dormitorio, c’è una reminiscenza dei versi danteschi:
"correan genti nude e spaventate
sanza sperar pertugio o elitropia"
(Inf. XXIV, vv. 92–93)
BIBLIOGRAFIA
Vittorio Citti, Claudia Casali Antologia di autori greci 1 Zanichelli 2001
Siti web:
http://www.treccani.it/iteronline2002/itinerari_antologici/archivio/20-12-02/
www.liberliber.it/biblioteca/g/ gozzano/tutte_le_poesie/html/
http://www.comune.bologna.it/iperbole/llgalv/iperte/ulisse/ulisse/ulisses.htm
http://digilander.libero.it/francomartino/levi/inferno.htm
http://members.xoom.virgilio.it/genreideas/proemio.htm
http://ulisse.provincia.parma.it/scuola/progetti2000/www-latino/virgilio/index-virgilio.htm

Esempio



  


  1. MARIO DE CLACUS

    il naufragio ODISSEA PARAFRASI

  2. lucacrem

    la sete intellettuale come spinta di progresso nell'arte