Promessi sposi: personaggi

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura Italiana

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Testo

DON ABBONDIO
Don Abbondio non era nato con un cuore di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato".
"... non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto... d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro".
Don Abbondio è senz'altro il personaggio più popolare dei Promessi Sposi. E' la figura con cui il Manzoni ha dispiegato, nelle forme più varie, tutta la sua virtù comica, la sua capacità ritrattistica, le sue doti fantastiche ed umane.Trovatosi a vivere in una società retta da prepotenti, don Abbondio si è fatto prete senza riflettere sugli obblighi e sugli scopi della missione sacerdotale, badando soltanto a procurarsi una vita agiata e tranquilla.
Ciò che governa la sua condotta è la paura, che, unita alla coscienza della propria debolezza e ad un morboso attaccamento alla vita, lo rende egoista ed irragionevole. Per la paura non vede più la luce della verità, non ode più la voce del cuore e della mente, non segue la via del dovere.
Uomo angusto, soggiogato dal terrore e dal sospetto, vive schiavo delle minuzie della vita; privo di volontà, cede a tutti, dopo breve resistenza; incapace per natura a compiere il male, per viltà si fa complice e strumento dei violenti. E' privo di cultura, è attaccato al denaro, è diffidente di tutti.....
Eppure, da questo spirito così meschino, il Manzoni ha ricavato il suo personaggio più attraente. Il ritratto sapiente ed arguto è splendido di note fisiche e spirituali, di colori etici e storici, sicchè, per mezzo di don Abbondio, non solo l'autore delinea con profonda psicologia una figura eterna di uomo, ma penetra ad indagare gli aspetti più vari di un'età perversa e violenta.
RENZO
Renzo "era, fin dall'adolescenza, rimasto privo de' parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta"; possedeva inoltre "un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato".
"Era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni insidia; ma, in que' momenti, si figurava di prendere il suo schioppo, d'appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai don Rodrigo venisse a passar solo".

Anima semplice ed ottimista, Renzo conosce il male del mondo nei soprusi degli uomini potenti, ma non è disposto a lasciarsi piegare da loro. Di fronte alle sopraffazioni e alle violenze, il suo animo pacifico non pensa che alla vendetta e all'omicidio.
Ma da questo lo terranno sempre lontano la sua innata onestà ed il forte sentimento religioso. Anch'egli, infatti, come Lucia, trova nella fede la guida della vita ed il conforto della sventura.
Renzo è un ingenuo che conosce poco del mondo e quindi facile ad esser preso dagli avvenimenti esterni, ma nello stesso tempo è abbastanza accorto ed intelligente per cavarsi d'impaccio o mettersi in salvo.
Ma ciò che colpisce è la sua bontà e la sua generosità. Egli, infatti, si commuove davanti ai poveri e dà loro quello che ha; si commuove e prega di fronte alla madre di Cecilia e davanti a don Rodrigo agonizzante, perdonandogli tutto il male ricevuto.
Magistralmente Renzo è anche ritratto nel suo amore per Lucia, a cui è legato da una fedeltà assoluta, da una dedizione totale. E proprio nel dipingere quest'amore, il Manzoni raggiunge alcune delle espressioni più alte della sua poesia. L'autore ama il suo Renzo, si immedesima in lui e ne fa una delle creazioni più grandi della nostra letteratura per il candore e la fede, per la semplicità e la bontà, per il cuore giovanile e ardente.
LUCIA
"Lucia s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi neri sopraccigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso".

Oltre all'ornamento particolare del giorno delle nozze, "Lucia aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevato allora e accresciuto dalle varie affezioni che le si dipingevano sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quando in quando sul volto della sposa, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare":
Lucia è il personaggio più amato dal Manzoni, quello per cui l'autore dice di sentire "un po' di affetto e di reverenza". Una creatura, quindi, che il poeta ha voluto presentarci sotto una luce ideale, pur mantenendola nella realtà dei sentimenti e degli atteggiamenti di una giovane contadina, semplice ed intelligente, religiosa ed innamorata.
Il lavoro, la preghiera ed il pianto sono gli atteggiamenti più poetici di Lucia. Lavora nel suo paese, lavora nel monastero a Monza, lavora nel palazzo di donna Prassede.
Prega assiduamente ed intensamente, quando ogni speranza terrena sembra crollare, ogni aiuto umano scomparire; la preghiera è il porto sicuro, è la riconquista della calma e della fiducia.
Piange, ed il pianto è la sua arma, e le sue lacrime sono più eloquenti di ogni parola.
C'è in Lucia anche un altro motivo stupendamente umano e poetico: la lotta, o meglio l'accordo, fra il dovere religioso ed il legittimo sentimento d'amore. Ella ama il suo promesso sposo con amore intenso, vivissimo. Un amore che dopo il voto si rivela ancor più insopprimibile, quando la volontà vorrebbe dimenticare ed il cuore corre alla persona amata.
PERPETUA
"Era Perpetua la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolio e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerare le proprie, che divenivano di giorno in giorno più frequenti.
Aveva da tempo passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche".

Perpetua rappresenta un complemento indispensabile del più attraente dei personaggi maggiori: don Abbondio. Perpetua, la governante, è davvero la protettrice del curato.
Quanto più egli rivela la sua nullità, tanto più pronta, decisa, sicura è lei.
Ma la serva non è solo il sostegno morale del suo padrone. Lo è anche artisticamente, perchè le tonalità della figura di don Abbondio sono sempre sottolineate, accentuate dall'ombra costante, dall'antitesi sicura di Perpetua: lui discute e lei agisce; lui non sa a che santo rivolgersi e lei ha pronti i suoi pareri; lui è sempre disposto alla soggezione e lei, nel buon senso di popolana, è ribelle, energica, sbrigativa

AGNESE
"Agnese, co' i suoi difettucci, era una gran brava donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell'unica figlia, Lucia, in cui aveva riposta la sua compiacenza".
Al nome riverito del Padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. "Hai fatto bene", disse, "ma perchè non raccontar tutto anche a tua madre?"
Lucia aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare nè spaventare la buona donna...; l'altra, di non mettere a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta".


Agnese viene rappresentata dal Manzoni come un'esperta conoscitrice del mondo e del genere umano. E' lei, infatti, che escogita alcune delle soluzioni più ingegnose, come quella di mandare Renzo da Azzeccagarbugli, o di celebrare il matrimonio clandestino.
Accorta e giudiziosa, pronta e sicura, sa dare giuste risposte a tutti.
Agnese è ben lontana dai sentimenti delicati e dalla rettitudine della figlia, ed il Manzoni è attento ed abilissimo nel creare giochi di contrasto fra la madre impulsiva e pratica e la figlia delicata e piena di timor di Dio.
Eppure sono quegli umani difetti che fanno Agnese vicina a noi, attraente e simpatica: la sua incapacità di tacere, la superficialità di certe valutazioni morali, l'impulsività nel risentimento e nella stizza, la vanità e la testardaggine.
E' un personaggio amabile proprio perchè ritratta dal Manzoni con i colori più attraenti e simpatici nella sua spontaneità comaresca e popolana.
DON RODRIGO
"Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, don Rodrigo uscì, e andò passeggiando verso Lecco.
I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva".


Don Rodrigo è il tipo comune del signorotto prepotente e spregiudicato che, pur di soddisfare puntigli e passioni, si considera padrone di far tutto ciò che vuole e giudica tutti a sè sottoposti.
Un tipo di uomo di ogni tempo, ma che in quel secolo, quando la legge era incapace di proteggere l'oppresso e di colpire l'oppressore, circondato di bravi, adulato e riverito da coloro che avrebbero dovuto essere i naturali esecutori della legge, cinico e volgare, privo di ogni freno morale e religioso, poteva commettere le violenze che voleva.
Ha gli stessi difetti della gente del suo rango: l'orgoglio smisurato, l'ozio, la mania dei banchetti, della caccia e delle passeggiate, il gusto delle avventure galanti, preferibilmente nel proprio ambiente, ma con qualche escursione nell'ambiente plebeo, per ammazzare la noia.
Tuttavia il comportamento di don Rodrigo, se può trovare una giustificazione storica, non merita nessuna scusa sul piano morale.
Eppure, forse per i buoni sentimenti che esistono naturalmente in ogni uomo e che, nel caso del signorotto, erano sedimentati nel fondo della sua coscienza, quando è colpito a morte dalla peste, il Manzoni lo fa ricoverare sotto le grandi ali del perdono di Dio, perdonato da Renzo e assolto da chi era stato da lui chiamato "villano temerario, poltrone incappucciato".
PADRE CRISTOFORO
"Il Padre Cristoforo era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni.
Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava attorno, secondo il rito cappuccino, s'alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d'altero e d'inquieto; e subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà".


Padre Cristoforo è la figura che personifica l'ideale cristiano della carità e del sacrificio.
Tutta la sua esistenza è dominata dall'amore, che lo fa sollecito verso gli umili, ardimentoso di fronte ai violenti, vedendo, negli uni e negli altri, creature da avviare a vita eterna dopo il breve cammino terreno.
Per il trionfo della giustizia, Padre Cristoforo non si limita a dare consigli, ma agisce continuamente. Per questo motivo è uno dei personaggi più ricchi di vicende e di atteggiamenti.
Dal duello alla conversione, dalla protezione di Lucia all'affronto di don Rodrigo, dall'ubbidienza ai superiori alla missione nel lazzaretto, fra Cristoforo è al centro del grande motivo della lotta fra il bene e il male, e più di ogni altro agisce per avviarlo a soluzione.
Il messaggio di perdono e di amore del cristianesimo, accompagnato dalla fede nell'opera assidua della Provvidenza, non poteva trovare banditore più eloquente, convincente ed efficace.
GERTRUDE
"Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita, direi quasi scomposta...
Due occhi neri... si fissavano talora in viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveteraro e compresso".


Gertrude è vista dal Manzoni in un'acuta indagine psicologica, che penetra nelle pieghe più segrete del cuore, con profondo e pensoso atteggiamento morale, sdegnoso di fronte alla violenza compiuta sui diritti della natura e sulla fragilità di una creatura umana.
La cupa realtà del maggiorasco, l'insensibilità degli uomini di fronte all'interesse della classe, l'assolutismo di un padre sordo alle voci più umane, la debolezza di una creatura incapace di affermare fino al sacrificio l'inviolabilità dei suoi diritti e dei suoi doveri, sono tratteggiati con sapienza profonda di psicologo e mano leggera d'artista.
Nata per la libertà, per l'amore, per la gioia di vivere, Gertrude viene costretta a chiudersi in un mondo che è l'opposto di quello sognato, con un rancore che si fa odio verso tutti, con un rimpianto che diviene assillante tormento, con un cuore refrattario ad ogni voce di rassegnazione e di benefica fede.
IL DOTTOR AZZECAGARBUGLI
"Non facciam niente", rispose il dottore, scotendo il capo".
"Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle".


Il dottor Azzeccagarbugli è un uomo servile, corrotto, ipocrita, "è la mente che serve di potere" a don Rodrigo e ai suoi bravi.
Il suo studio è una cornice degna del decadimento fisico e morale del personaggio: è uno stanzone, su tre pareti del quale sono appesi i ritratti dei dodici Cesari, tutti rappresentanti del potere assoluto, considerato sacro e inviolabile nel '600; sulla quarta parete è appoggiato un grande scaffale di libri vecchi e polverosi; nel mezzo è una tavole gremita di carte alla rinfusa, con tre o quattro seggiole all'intorno, e da una parte un soggiolone a braccioli piuttosto malandato.
Esaminando il comportamento del dottore nell'esercizio della sua professione, si ha ben chiara l'idea di come funzionava la giustizia nel '600, in pieno regime feudale. Le "gride" erano tante e tutte comminavano pene severissime, per qualsiasi infrazione.
Ma esse valevano per i poveri diavoli, senza protettore. I signorotti e gli uomini a loro servizio potevano "ridersi" delle leggi, perchè, col terrore o la corruzione, e con l'aiuto di avvocati senza scrupoli al loro servizio, riuscivano ad eluderle e a farla franca.
L’INNOMINATO
Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de' sessant'anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de' lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d'animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine".


Fin dalla sua prima presentazione, l'Innominato appare subito come una figura misteriosa.Temperamento volitivo fin dall'adolescenza, con l'ansia di esser superiore a tutti d'ardire e di costanza, le parole e le frasi che ne ritraggono l'esistenza hanno tutte una forza e un colorito fantastico particolare.
Nel momento in cui fa rapire Lucia, egli attraversa una profonda crisi interiore. Disgustato dai passati delitti, incerto del futuro, comincia a porsi delle domande sul giudizio divino.
Al vedere la carrozza che trasporta la ragazza rapita mentre sale verso il castello, avverte un oscuro presentimento, quasi una premonizione. Il suo bravo più spietato poi, gli rivela di aver avuto compassione della rapita, ed il fatto gli pare strano, incredibile.Ma l'Innominato è curioso di vedere la giovane in grado di suscitare tali sentimenti.
Le parole sulla misericordia divina che la prigioniera gli dice rimangono impresse nella sua memoria. Trascorre la notte nel tormento, angosciato dal male fatto, dall'idea del suicidio, dal timore di essere giudicato da Dio, poi l'alba lo trova affacciato alla finestra, a guardare il risvegliarsi della gente...
Egli scende in paese solo e disarmato e si reca alla canonica, dove è ricevuto con timore e titubanza, poi avviene l'incontro memorabile che vede la conversione del potente signore.
Sono queste le pagine del romanzo in cui la poesia dell'anima, segnata in tutte le sue sfumature, raggiunge l'espressione più alta. E' il motivo della voce del bene che parla nel cuore dell'uomo.L'Innominato sarà forte e determinato nella sua vita di benefattore come lo è stato nei suoi trascorsi di criminale.
IL CARDINALE FEDERIGO BORROMEO
"Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu uno degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, va limpido a gettarsi nel fiume".

Il Cardinale Federigo Borromeo è l'uomo che la Provvidenza ha scelto per avviare a lieta conclusione le vicende del romanzo e per portare ovunque il calore di un mondo migliore.
Sullo sfondo di una umanità perversa e meschina, Federigo si eleva con la calma che nasce dalla consapevolezza dell'unica vera norma della vita e con la risolutezza dell'uomo che intende veramente lo scopo della sua esistenza.
La sua condotta è sempre determinata dalla carità, che lo fa franco nell'azione, eloquente nella parola, grave nell'ammonimento, umano nella comprensione.


IL GRISO
"L'uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de' bravi, quello a cui si imponevano le imprese più rischiose e più inique, il fidatissimo del padrone, l'uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse".


Il Griso è uno dei personaggi più spietati dell'opera. A lui don Rodrigo ordina di rapire Lucia, ed è su di lui che si riversa la furia del signorotto quando la carrozza torna senza la ragazza.
Altezzoso e spavaldo, ha solo un attimo di debolezza: quando il suo padrone gli ordina di recarsi a Monza dove è ricercato dalla giustizia.
La sua crudeltà viene particolarmente evidenziata dal Manzoni verso la fine del romanzo, quando si accorge che don Rodrigo ha contratto la peste e, anzichè recarsi con urgenza da un medico, corre invece dai monatti. Non contento, alla presenza del padrone febbricitante si fa aiutare da uno di questi a scassinare lo scrigno e trae dalla tasca del signorotto, che ormai ritiene spacciato, anche gli ultimi spiccioli.
Ma la giustizia divina si abbatte su questo personaggio tanto oscuro: anch'egli colpito dalla peste morirà il giorno seguente.

IL NIBBIO
"Ma... dico il vero, che avrei avuto piú piacere che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso."
"Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M'ha fatto troppa compassione."
"Non l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è piú uomo."


Il Nibbio è il bravo di fiducia dell'Innominato.
Uomo crudele e votato al compimento di misfatti, dopo il rapimento di Lucia non ha l'aria trionfale delle altre volte, è turbato, nientemeno ha avuto compassione. Lui, l'uomo delle mille imprese spietate questa volta ha avuto compassione, ed egli stesso dice che la compassione è come la paura: quando si impadronisce di un uomo, uno non è più un uomo.
Il Nibbio, pertanto, contribuisce con le sue parole a demolire l'estrema ostinazione del suo signore, ponendo le basi per la sua conversione.

LA MADRE DI CECILIA
"Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio".
"No!" disse: "Non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete." Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: "Promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così."


La madre di Cecilia è un personaggio ricco di spiritualità, che la sventura ha separato dalla sua bambina.
La sua bellezza velata ed offuscata, l'andatura stanca, gli occhi che non danno più lacrime, ma dimostrano di averne sparse tante; e quella bambina sorretta, seduta sulle braccia, con la manina bianca che penzola ed il capo posato sull'omero della mamma: sono questi tratti, accuratamente dipinti dal Manzoni, a fare in modo che la figura della donna si imprima indelebilmente nella nostra mente.
Pur fra gli orrori della peste, l'autore riesce a comunicare un senso di armoniosa, composta e spirituale bellezza.
DONNA PRASSEDE
Aveva cinque figlie. Tre eran monache, due maritate; e si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: l'impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da altre monache, non volevano accettare la sua soprintendenza".


Donna Prassede, una nobildonna d'alto affare, viene presentata dal Manzoni come una donna invadente, che vuol fare del bene ad ogni costo, senza discernimento, senza umiltà, con la gretta presunzione dell'infallibilità: il tipo eterno della filantropa per ozio e per professione, la donna dal cervello limitato e dalla caparbietà opprimente.
Il suo carattere presuntuoso ed opprimente si rivela soprattutto quando ritiene di far del bene a Lucia non soltanto ospitandola, ma quando intende "di raddrizzare un cervello, di metter sulla buona strada che n'aveva gran bisogno".
Feroce, infine, è la commemorazione che l'autore fa a proposito della morte della donna: "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto".

DON FERRANTE
"Uomo di studio, non gli piaceva nè di comandare nè di ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no....
Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato".


Don Ferrante, marito di Donna Prassede, può definirsi un "addottrinato" in molte scienze e addirittura "professore" nella scienza cavalleresca.
La sua biblioteca è vista dal Manzoni nelle varie materie che la compongono, nei diversi volumi che rappresentano quelle materie: i volumi sono osservati, i nomi degli autori e i titoli sono letti, le loro pagine sono sfogliate; e ne vien fuori l'immagine di una cultura particolare, della parte deteriore della cultura di un secolo, con accanto, quale interprete, don Ferrante, che è soltanto un letterato, tutto lettura e scrittura, tutto libri.
Eppure da questo ironico quadro non manca di sprigionarsi un fascino segreto, il fascino di un ambiente raccolto, arredato di libri, immerso nel silenzio, segnato dal trascorrere di lunghe ore di studio.

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