Il volgare

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La nascita del volgare

Il latino volgare, cioè nella forma non colta, evolvette gradualmente dando origine alle forme neolatine, fra le quali l'italiano. I primi documenti in volgare italiano sono: l'Indovinello veronese, il più antico, datato fra i secc. VIII e IX, rinvenuto nel 1924 in un codice della biblioteca capitolare di Verona; i Placiti campani (di Capua, Sessa Aurunca e Teano), datati 960-963 e costituiti da testimonianze rese davanti a un giudice e inserite nel verbale notarile scritto in latino; l'Iscrizione di San Clemente (XI sec.) e il Ritmo di Travale (testimonianza resa in un processo del 1158). I primi documenti letterari del nostro volgare sono il Ritmo laurenziano, un testo giullaresco databile fra il 1151 e il 1157, e, verso la fine del sec. XII, il Ritmo cassinese e il Ritmo di Sant'Alessio. Il più bello di tutti sarà il Cantico di Frate Sole, o Cantico delle creature, composto da san Francesco d'Assisi probabilmente intorno al 1225.
L'influenza franco-provenzale

Nei secoli XI e XII la Francia era il centro della civiltà europea: francesi sono i più antichi documenti letterari in una lingua romanza (come la Sequenza di Santa Eulalia, della fine del sec. IX; la Vita di Sant'Alessio, della prima metà del sec. XI). La letteratura italiana delle origini risentì molto dell'influenza francese, che si esprimeva nei suoi due ambiti linguistici, d'oïl e d'oc. A Nord, la letteratura di lingua d'öil era essenzialmente epica (le cosiddette "canzoni di gesta"), come la Chanson de Roland (databile a prima del 1100); da questa, intorno a metà XII sec., sarebbero nati il "romanzo cortese", di cui fu maestro indiscusso Chrétien de Troyes (circa 1130-1185), i lais, piccoli racconti in versi di un episodio amoroso, e il celebre romanzo Tristano e Isotta, nelle due redazioni dell'anglo-normanno Thomas e del normanno Béroul. A Sud, cioè in Provenza, si sviluppò invece la letteratura d'oc, che diede l'avvio a un'ampia produzione di poesia d'amore dei trovatori. Il massimo splendore fu raggiunto fra il 1140 e il 1150, con i poeti Arnaut Daniel, Jaufré Rudel, Bernart de Ventadorn, che furono un riferimento essenziale per la scuola lirica siciliana. Verso la fine del sec. XII si affermarono anche i fabliaux, brevi racconti in versi crudamente realistici e satirici, e la poesia allegorica, che trovò la massima espressione nel Roman de la Rose (Romanzo della rosa), scritto per la prima parte da Guillaume de Lorris (tra il 1225 e il 1240) e concluso in seguito (circa 1280) da Jean de Meung. Fra i vari trovatori italiani che scrissero in provenzale è Sordello da Goito (m. 1269), famoso per il Compianto in morte di Ser Blacatz (1236).

La scuola siciliana

La scuola poetica siciliana, sorta attorno al 1230 negli ambienti che gravitavano attorno all'imperatore e re di Sicilia Federico II di Svevia, produsse la prima lirica in volgare italiano. La sua attività durò circa un trentennio e si concluse con la fine, nella battaglia di Benevento (1266), di Manfredi, figlio di Federico e quindi con lo sgretolamento dell'ambiente di raffinata cultura che era stato tanto propizio al sorgere della scuola stessa.
Il quadro storico-culturale
Durante la prima metà del sec. XIII il regno di Sicilia comprendeva tutta l'Italia meridionale e godeva di un periodo di particolare equilibrio politico-amministrativo e prosperità economica per merito di Federico II. Iniziative politiche e culturali significative furono la fondazione dell'università di Napoli (1224) e le Costituzioni Melfitane (1231), in cui veniva ribadita l'autorità del sovrano rispetto ai potentati feudali. Nella sua corte a Palermo si raccolsero le figure più rappresentative dell'epoca e si svilupparono numerosi interessi culturali: venne dato un notevole impulso alle conoscenze tecnico-scientifiche e agli studi di magia (per opera principalmente di Michele Scoto), alla letteratura filosofica araba, alla letteratura greco-bizantina, alla poesia tedesca (soprattutto alla lirica cortese d'amore del Minnesang) e alla poesia provenzale in lingua d'oc. Proprio da questa tradizione ebbe origine la "scuola siciliana", come fu definita da Dante nel De vulgari eloquentia.
Tematiche, forme poetiche e lingua
Dominante in assoluto nei poeti siciliani la tematica d'amore sia dal punto di vista teorico (cos'è amore, come si manifesta, quali sono i suoi effetti), sia come omaggio "feudale" verso la donna amata, con la quale il poeta cerca di stabilire una comunicazione attraverso immagini e segnali che essa sola sa cogliere. Le forme tipiche di questa poesia sono la canzone, modellata sulla canso provenzale: essa è l'espressione "alta" della poesia siciliana ed è utilizzata soprattutto per composizioni di carattere teorico e dottrinale; la canzonetta, costituita da strofe di versi brevi, viene impiegata per testi più narrativi, come invocazioni d'amore, lamenti per l'amata lontana, manifestazioni della propria gioia e del proprio dolore; il sonetto è creazione autonoma e specifica della scuola ed è diventato il componimento lirico breve per eccellenza della poesia italiana.
La produzione poetica della scuola siciliana è pervenuta attraverso codici del Quattrocento e del Cinquecento, i cui estensori diedero ai testi un'impronta toscaneggiante che ha alterato l'originaria impostazione linguistica siciliana; essa comunque non riproduceva la lingua popolare, ma si basava su un lessico che si ispira ai modelli latini e provenzali.
I poeti siciliani
Lo stesso re Federico II e i suoi due figli Enzo e Manfredi si dedicarono all'attività poetica, pur senza raggiungere livelli di eccelsa qualità.
Il poeta sicuramente più significativo fu Iacopo da Lentini (circa 1210 - circa 1260), riconosciuto da Dante (Purgatorio, canto XXIV) come fondatore della scuola siciliana e al quale è probabilmente attribuita l'invenzione del sonetto. Scrisse uno dei più cospicui canzonieri dell'epoca, composto da circa 30 poesie, in cui una consumata perizia retorica è al servizio di una fervida originalità inventiva. A lui si deve la prima definizione dell'amore nella letteratura italiana: "Amor è uno desio che ven da core / per abondanza di gran piacimento". I temi più frequenti della sua lirica sono la contemplazione della bellezza, la creazione nel cuore di un'immagine della donna, verso la quale si indirizza il suo amore, il dono di sé fatto dall'innamorato all'amata.
Più scarna, ma notevolmente raffinata sul piano stilistico per la ricchezza di figure retoriche e per il sottile gioco analogico, è la produzione poetica di Guido delle Colonne (Messina, circa 1210 - circa 1280), del quale sono pervenute cinque canzoni.
Eternato da Dante nell'Inferno (canto XIII) fu Pier della Vigna (circa 1190-1249), di Capua, strettissimo collaboratore di Federico II, caduto poi in disgrazia e morto suicida. Per lui l'attività poetica fu senza dubbio di importanza relativa, ma è interessante ricordare che egli fu tra gli interlocutori di Iacopo da Lentini nella disputa sull'amore che probabilmente diede inizio alla scuola siciliana e che era stata iniziata da Iacopo Mostacci, rimatore aulico, imitatore piuttosto passivo di correnti provenzali.
Della scuola fecero anche parte Rinaldo d'Aquino, Giacomino Pugliese (che ha lasciato alcuni testi di tono popolareggiante), Stefano Protonotaro da Messina, a cui si deve l'unica composizione conservata nella lingua siciliana originale.
Tradizionalmente compreso nella scuola siciliana è anche Cielo d'Alcamo (probabile toscanizzazione del nome "Celi", diminutivo siciliano di Michele), autore del contrasto (dialogo) Rosa fresca aulentissima tra la donna, almeno inizialmente ritrosa, e l'innamorato, in cui sono presenti, sul piano stilistico, riferimenti a generi propri della letteratura provenzale, come la pastorella e il contrasto. Si alternano nella lingua termini e immagini della tradizione aulica e cortese con analoghi della tradizione popolare e dialettale.
Guittone d'Arezzo

Guittone d'Arezzo (circa 1230-1294) fu il principale esponente della corrente poetica siculo-toscana. Figlio del tesoriere del comune di Arezzo ed esponente di parte guelfa, a circa vent'anni andò in volontario esilio. Ebbe moglie e tre figli, ma verso il 1265, in seguito a una profonda crisi religiosa, entrò nell'ordine dei Cavalieri della Vergine. La sua produzione poetica, raccolta nelle Rime e composta da 50 canzoni e 239 sonetti, presenta un'evidente cesura: nella prima parte dominano i temi della poesia d'amore e i contenuti politici, nella seconda, dove l'autore si presenta come Fra Guittone, prevalgono gli insegnamenti morali e spirituali. Scrisse anche un Trattato d'Amore in dodici sonetti e le Lettere (circa una trentina, in prosa, tra cui la lettera-invettiva contro gli "infatuati miseri fiorentini"), nelle quali dimostra tutta la sua arte di cultore dell'ars dictandi (l'"arte del dettare" che raccoglieva le norme retoriche e oratorie del latino).
Guittone fu ritenuto maestro indiscusso di poesia nella Toscana settentrionale poco dopo la metà del secolo; esercitò un'influenza rilevante sui contemporanei sia per i contenuti sia per lo stile. Nella poesia d'amore si rifece ai moduli della scuola siciliana, insistendo più sui ragionamenti attorno all'amore che sulla sua rappresentazione. Per le canzoni politiche e morali trasse spunto dallo stile del trobar clus (il poetare difficile), proprio della poesia provenzale, che ricreò attraverso un uso estremamente denso, a volte oscuro, sempre molto ricercato, del volgare toscano. Il suo testo più celebre è la canzone politica Ahi lasso or è stagion di doler tanto, scritta dopo la sconfitta subita a Montaperti (1260) dai guelfi a opera dei ghibellini. La poesia è composta da numerose stanze caratterizzate ora dal dolore, ora dall'amaro sarcasmo; questa composizione è anche quella che segna maggiormente il distacco di Guittone dalla scuola siciliana, sia per il tema politico-morale, sia per la notevole varietà dei registri linguistici e stilistici. Altrettanto impegnative e spesso ricche di notevoli risultati poetici sono le canzoni a contenuto morale-religioso, tra le quali hanno un posto particolare le ballate-laude, un genere da lui inventato e poi ampiamente utilizzato in ambito toscano.
La scuola cortese toscana

Il poeta più interessante della cerchia di Guittone fu il notaio lucchese Bonaggiunta Orbicciani (circa 1220 - circa 1290). Dante, dopo averlo citato nel De vulgari eloquentia come esponente della scuola poetica siciliana, nel Purgatorio (canto XXV) gli affida il compito di definire come stilnovo la nuova maniera di poetare. Il suo canzoniere sviluppa i modi della scuola poetica siciliana, diffondendoli in Toscana. Il dettato poetico è vario, ricco a un tempo delle preziose raffinatezze della poesia cortese e delle forme più distese di quella popolareggiante. I temi sono quelli consueti, l'amore e l'invettiva politica. Vere e proprie scuole debitrici di Guittone, in modo più o meno rigoroso, furono presenti anche ad Arezzo, a Pistoia, a Pisa e Firenze. Qui solo Chiaro Davanzati (fine sec. XIII) mostrò maggiore originalità: nel suo canzoniere (61 canzoni e numerosi sonetti) si ritrovano motivi che anticipano lo stilnovo. Interessanti furono tuttavia anche il banchiere guelfo Monte Andrea (che scrisse il più alto trobar clus fiorentino, fitto di allusioni oscure) e Dante da Maiano, il cui canzoniere, oscillante tra stile siciliano e guittoniano, comprende anche una tenzone con Dante. A lungo discussa è stata la storicità della poetessa Compiuta Donzella (forse uno pseudonimo letterario), alla quale un solo codice attribuisce tre sonetti di accettabile qualità poetica.
La poesia comico-realista

Dalla metà del Duecento si diffuse in Toscana e in Umbria una poesia giocosa, di carattere realista. L'invettiva, la bestemmia, la ribellione, la comicità prendono il posto della bellezza ideale. Figura letteraria di un certo rilievo fu il fiorentino Rustico di Filippo (circa 1230-1300), che godette di grande fama e ha lasciato 58 sonetti nei quali sul motivo dell'amore è ancora preponderante la lezione siculo-guittoniana, mentre rispetto al genere comico si intravedono soluzioni originali. Altre figure di rilievo furono il senese Meo de' Tolomei (nato attorno al 1260), autore di sonetti dall'intenso gusto caricaturale; il giullare aretino Cenne della Chitarra (morto già nel 1336), che cantò e descrisse scene di vita rustica. Tuttavia i due poeti comico-realisti più grandi furono Folgore da San Gimignano e Cecco Angiolieri.
Folgore da San Gimignano
Folgore da San Gimignano (circa 1270 - circa 1330), pseudonimo di Giacomo di Michele, fu al servizio di Siena: per i meriti riportati in alcune campagne, come quella contro Pistoia (1305), ottenne l'investitura a cavaliere. Di lui rimangono circa una trentina di sonetti, in maggior parte raccolti in due "corone", una di otto composizioni dedicate ai giorni della settimana (Sonetti de la semana) e l'altra di quattordici, intitolata Sonetti de' mesi. Folgore riprende l'antica poetica provenzale, ma la inserisce in maniera gradevole e cordiale entro la cornice del mondo comunale toscano. La sua indole serena si manifesta nell'eleganza dei gesti, nella raffinatezza degli oggetti, nella ricerca di una condizione di vita piacevole per sé e per gli altri.
Cecco Angiolieri
Del senese Cecco Angiolieri (circa 1260 - morto prima del 1313) si conoscono solo pochi episodi marginali della vita, come le multe per infrazioni alla vita militare, la sua morte in miseria, il rifiuto da parte dei figli della sua eredità, perché condizionata da molti debiti. Queste le ragioni per cui la critica romantica ha dato una facile ed erronea interpretazione autobiografica della sua opera. Sono attribuiti ad Angiolieri 112 sonetti distinti a fatica dalle numerose imitazioni; rare sono le rime amorose secondo il gusto di Guittone d'Arezzo, mentre nel suo canzoniere domina il registro comico-realistico. La sua poesia è costruita sul rovesciamento del modello stilnovista e sulla raffinata parodia di molti generi cortesi: il plazer (elenco di cose desiderabili), l'enueg (elenco di sgradevolezze), il contrasto e così via. L'appassionato spirito invettivo, o addirittura aggressivo, non deve far dimenticare l'aspetto di gioco letterario: il romanzo d'amore tra Cecco e Becchina, che al poeta ha preferito un marito ricco, riprende in forma parodistica il genere del contrasto. A livello tematico, il suo universo poetico è organizzato intorno a un limitato numero di motivi emblematici, così riassunti dal poeta stesso: "la donna, la taverna e il dado". Quasi certamente "letterario" è l'autoritratto di personaggio maledetto che il poeta dà di sé nei suoi testi.
La poesia nell'Italia settentrionale

Di grande interesse è la letteratura volgare prodotta nell'Italia settentrionale, specie a Cremona e Milano. Con intenzione principalmente didattica, si ispirava sia alla tradizione provenzale (l'elencazione di tutto ciò che produce fastidio, l'enueg, e viceversa ciò che produce piacere, il plazer) sia alla tradizione biblico-apocalittica, cioè alla letteratura escatologica dei secc. XII e XIII.
Il primo rappresentante fu il notaio cremonese Gherardo Patecchio (forse primi decenni del XIII), autore di uno Splanamento de li proverbi de Salamone (poemetto che raccoglie ammaestramenti morali) e delle Noie, rassegna in decasillabi dei fastidi della vita.
Più complessa la figura di Uguccione da Lodi (fine sec. XII - inizio sec. XIII), autore di un Libro in lingua veneta e in lasse monorime di versi alessandrini e decasillabi epici, che svolge una riflessione edificante sul peccato e sulla morte, descritti con vivo realismo, in vista del giudizio divino.
Il contemporaneo frate minore Giacomino da Verona compose in dialetto veronose il poemetto in due parti De Ierusalem celesti e De Babilonia civitate infernali, che furono tra le fonti della Divina commedia dantesca.
Bonvesin de la Riva
Bonvesin de la Riva (circa 1240 - circa 1313) è il più importante scrittore in volgare lombardo del sec. XIII. La "Riva" è con ogni probabilità la Ripa di porta Ticinese a Milano, dove Bonvesin abitò almeno dal 1288 alla morte. Terziario dei frati umiliati e "doctor in gramatica", insegnò in una scuola privata di sua proprietà. La sua produzione poetica si colloca tra il 1270 e il 1290. Tra i suoi numerosi poemetti in volgare vanno ricordati il De vita scholastica e il trattato in prosa in lode di Milano De magnalibus urbis Mediolani (Le meraviglie della città di Milano, 1288). I suoi volgarizzamenti (i Disticha Catonis e vari poemetti agiografici) sono legati a esigenze didattiche. Alla produzione volgare, scritta quasi sempre in quartine monorime di alessandrini, appartengono contrasti di carattere allegorico: il più celebre è la Disputatio rosae cum viola (Disputa della rosa con la viola). Il Libro delle tre scritture (circa 1274), diviso in tre parti (scrittura nigra, rubra e aurea nera, rossa e dorata con tema rispettivamente l'Inferno, la Passione di Cristo e il Paradiso) è annoverato tra i precursori di Dante e rappresenta anche il primo testo letterario in volgare lombardo.
Poesia popolare e giullaresca

Specie nel Nord Italia nella seconda metà del Duecento si diffuse una letteratura in volgare prevalentemente anonima, in forma di ballata, prodotta perlopiù da cantori girovaghi (i "giullari") e costituita da canti nuziali, lamenti di giovani ragazze che desiderano sposarsi, lamenti di donne mal maritate. Da Mantova proviene un'anonima canzone per danza; mentre da Milano (o da Pavia) il Detto di Matazone da Caligano rappresentò il primo esempio in volgare della satira contro il villano. In ambiente veneto ebbe origine il Lamento della sposa padovana, mentre in Emilia e in Romagna si diffusero sirventesi (componimenti poetici popolareggianti di ispirazione morale-satirica) quali il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei (narrazione di faide tra guelfi e ghibellini) e il Serventese romagnolo, sempre di argomento e carattere politico-cittadino. In Toscana il giullare Ruggieri Apugliese, forse senese, lasciò una tenzone di argomento politico, una parodia della Passione e un sermone-epitaffio.
a poesia religiosa

Il più antico componimento in volgare italiano (quello umbro) è il Cantico di san Francesco d'Assisi. Tuttavia la vera nascita della lirica religiosa in volgare si colloca nel 1260, quando nacque il movimento dei Disciplinati (a Perugia, sotto la guida di Raniero Fasani), cioè una confraternita laica che usava la flagellazione pubblica come mezzo di espiazione. Il rito era accompagnato da canti corali che usavano come schema la canzone a ballo profana (ballata di ottonari). Le "laude" svolsero una vera e propria azione di propaganda che diffuse il movimento in tutta l'Italia del Nord. I laudari (ne restano circa 200) ebbero come centri di produzione soprattutto Perugia e Assisi. Le laude erano liriche e drammatiche, pasquali e passionali, secondo l'argomento religioso trattato. Solo con Iacopone, tuttavia, la lauda si elevò a dimensione artistica.
Francesco d'Assisi
Francesco d'Assisi (1182-1226), figlio del mercante Pietro Bernardone, ebbe una discreta formazione letteraria (conosceva sia il latino, sia le letterature francesi) prima di dedicarsi al commercio. Nel 1202-03 partecipò alla guerra tra Perugia e Assisi; nel 1204, durante una malattia, cominciò a realizzare un radicale cambiamento di vita che lo portò a rinunciare a ogni avere (1206) e a predicare il Vangelo assieme ad alcuni seguaci. Per l'ordine da lui fondato (1210) stese in latino la Regula prima (1221), poi rielaborata (Regula secunda). Questi testi, assieme ai postumi Testamentum e Admonitiones, costituiscono la sua produzione ufficiale in un latino ecclesiastico piuttosto rozzo. Ma l'opera che più fortemente rivela la sensibilità francescana è il Cantico di Frate Sole, o Cantico delle creature (Laudes creaturarum), una prosa ritmica in volgare umbro (il più antico componimento poetico in volgare italiano), vero inno di lode alla creazione, in cui Francesco riprese spunti biblici e liturgici per rielaborarli attraverso la propria spiritualità. Il testo rivela una concezione positiva della natura, capace di interagire con l'uomo come stimolo nel cammino verso la salvezza. La scelta delle parole, spesso semplici e collegate tra loro solo da una congiunzione, rivela il favore dell'autore per immagini di forte contenuto cromatico, capaci di parlare all'immaginazione, magari non educata sul piano culturale, ma vivida, come quella delle persone comuni.
Iacopone da Todi
Iacopo de' Benedetti (tra il 1230 e il 1236-1306), conosciuto come Iacopone da Todi, forse fu notaio, partecipò alla vita letteraria della sua città; i suoi testi fanno ipotizzare una conoscenza della produzione di Guittone d'Arezzo. Senza dubbio noto e benestante cittadino di Todi, nel 1268 cambiò completamente vita. Secondo la leggenda rimase intimamente colpito dal fatto che la giovane moglie, perita sotto un crollo, portasse nascostamente sotto le vesti lussuose un cilicio, strumento di penitenza. Per dieci anni si dedicò a opere di penitenza sempre più gravi e umilianti; nel 1278 entrò nell'ordine francescano come frate laico, schierandosi con gli "spirituali" e attaccando con intransigenza la ricchezza e la corruzione della Chiesa di Roma. L'elezione a papa dell'eremita Pier da Morrone (1294) con il nome di Celestino V, che approvò l'ordine degli spirituali, suscitò in lui qualche speranza, testimoniata dalla lauda Que farai, Pier dal Morrone. Quando venne eletto papa Bonifacio VIII, che revocò subito tale riconoscimento, Iacopone si schierò contro di lui. Scomunicato, fu fatto prigioniero nel 1298. Detenuto in condizioni durissime, non chiese mai la grazia, ma costantemente invocò invano la revoca della scomunica (O papa Bonifacio eo porto il tuo prefazio), che gli concesse, anche liberandolo, solo il successore Benedetto XI. Ormai malato, si ritirò nel convento di San Lorenzo di Collazzone, dove morì tre anni dopo.
La produzione poetica di Iacopone, costituita da 93 laude di sicura attribuzione e da altre più incerte, tra cui lo Stabat Mater, è caratterizzata da una religiosità ascetica, focosa. Egli si sofferma costantemente sulla negatività della vita e del mondo, segnato da una continua violenza, prodotta dal peccato, che si manifesta nel perpetuo processo di distruzione. In questa prospettiva Iacopone guarda alla vita quotidiana spesso con un realismo crudo e sarcastico: i suoi versi sono scritti in un volgare umbro di grande intensità, non ancora assoggettato alle norme della lingua letteraria, e talvolta arricchito da apporti del latino ecclesiastico e da invenzioni linguistiche e lessicali. L'atteggiamento pedagogico indusse Iacopone a drammatizzare lo strumento della lauda: nacquero così i contrasti, in cui più voci si alternano strofa per strofa; si tratta perlopiù della voce divina che cerca di scuotere l'anima dalla sua pigrizia spirituale, dall'attaccamento ai beni terreni. A tale atteggiamento Iacopone oppone con estrema forza il mistero dell'incarnazione e della passione di Cristo, viste come capovolgimento di tutti i valori che regolano le convenzioni della società umana. Su questo tema Iacopone scrisse i suoi versi più intensi e celebri, quelli del Pianto della Madonna che rappresenta i diversi momenti della Passione.
I primi prosatori in volgare

Fu il grammatico bolognese Guido Faba (1190-1243) il primo a fornire i nuovi modelli per il volgare. Dopo aver scritto numerosi manuali di retorica e di epistolografia latina (in particolare i Dictamina rhetorica, 1226-27 e la Summa dictaminis, 1229) propose modelli epistolari in volgare nella Gemma purpurea (1239) e nei Parlamenta et epistole (1242-43); in quest'ultima egli fornì modelli in volgare di lettere e discorsi accompagnati da tre traduzioni in latino per ogni testo. Faba ebbe il merito di aver compreso l'importanza che il volgare andava acquisendo sia nella pratica quotidiana sia nella vita politica dei Comuni italiani. Su questa via fu importante la volgarizzazione del Rhetorica ad Herennium (in quel tempo ritenuto di Cicerone) proposta dal bolognese fra Guidotto sotto il titolo Fiore di rettorica.
Il "Novellino"

Nel corso del sec. XIII si formò in Toscana il Novellino, una raccolta di novelle di autore anonimo (o di più autori), destinata a un pubblico borghese cittadino, al quale gli esempi narrati offrivano modelli di comportamento e di educazione raffinata. Ne sono giunte diverse redazioni, solo in parte convergenti tra loro. Il manoscritto più importante, che comprende 85 novelle, risale ai primi anni del sec. XIV ed è intitolato Libro di novelle e di bel parlar gentile, mentre la prima edizione a stampa, più ampia, si intitola Cento novelle (1523) e deriva da un manoscritto poi andato perduto. L'origine delle novelle è molto varia: non poche risalgono alla tradizione classica filtrata attraverso i moduli medievali, altre sono di origine mediolatina e francese e fanno riferimento ai temi dei romanzi cavallereschi. Particolare rilievo assumono gli exempla tratti dalla vita dei santi o da vicende miracolose; numerosissimi sono i riferimenti a temi feudali, e abbastanza frequenti i racconti che fanno riferimento a personaggi reali viventi all'epoca o morti da poco, come i regnanti svevi o angioini. Ne deriva un panorama molto vivace, in cui è avvertibile la tradizione orale. Le novelle sono solitamente brevi: esse tendono a mettere in evidenza il momento conclusivo della vicenda, senza preoccuparsi di dare particolari sviluppi della trama narrativa; sono scritte in volgare fiorentino, arricchito da termini e locuzioni derivanti dal francese e dal latino liturgico.
I volgarizzamenti

Tra il 1252 e il 1258 venne fatto il volgarizzamento in antico romanesco di una compilazione anonima latina, della prima metà del XII sec., sulle origini mitiche di Roma. Tale volgarizzamento prese il titolo di Storie di Troia e de Roma. Da fonti francesi furono poi derivati I fatti di Cesare, la Istorietta troiana e nell'ambito leggendario dell'epica cavalleresca il Tristano riccardiano e la Tavola ritonda (in cui la storia di Tristano e Isotta è congiunta al ciclo di Re Artù).
Salimbene da Parma
Salimbene da Parma (1221-1288), frate francescano, visse a Lucca (1239), Siena (1241), Pisa (1243) e Parma (1247) e infine in Francia, a Lione, dove conobbe dei seguaci di Gioacchino da Fiore, alla cui dottrina aderì fino al 1250. Delle sue numerose opere cronachistiche rimane solo la Chronica, giunta mutila, che racconta le sue tante esperienze: è una galleria colorita e spesso caricaturale di fatti e ritratti narrati in un latino a un tempo colto e popolare, che accoglie forme e termini del dialetto lombardo ed emiliano.
Iacopo da Varazze
Iacopo da Varazze (circa 1228-1298), frate domenicano, dal 1292 vescovo di Genova, deve la sua fama alla raccolta di vite di santi Legenda aurea o Legenda sanctorum (1255-66). Scritta in latino e diffusa in versioni volgarizzate, l'opera ebbe notevole influenza sulla successiva letteratura religiosa e costituì un importante repertorio iconografico per gli artisti. In latino compilò anche un Chronicon Ianuense (Cronaca genovese), storia di Genova dalle origini al 1297; in volgare scrisse Sermoni moraleggianti.
Brunetto Latini e Bono Giamboni

La figura principale fra i prosatori duecenteschi resta il fiorentino Brunetto Latini (circa 1220 - circa 1294). Notaio, divenne sindaco di Montevarchi nel 1260, quando si recò come ambasciatore dei guelfi di Firenze in Castiglia. Esiliato in Francia per sei anni in seguito alla sconfitta di Montaperti, si dedicò alla professione notarile e all'attività letteraria. Tornato in patria, riprese la vita politica, divenendo priore di Firenze (1287). In lingua d'oïl compose il Tesoro (Li livres dou Trésor), un testo enciclopedico in 3 volumi che tratta ogni branca del sapere: teologia, storia, fisica, geografia, agricoltura, etica, economia, retorica e politica. L'opera attinge a fonti classiche e medievali, fra cui la Bibbia, gli scrittori latino-cristiani Isidoro di Siviglia e Orosio, il padre della Chiesa Ambrogio e il filosofo latino Boezio. Tradotto in volgare, il Tesoro ebbe due versioni poetiche e godette di ampia diffusione. Dante la considerò una fonte preziosa per la Commedia e riconobbe nel suo autore un suo maestro ideale (Inferno, canto XV). La stessa materia è alla base del Tesoretto (circa 1262), poema allegorico didascalico incompiuto che ricalca il modello del Roman de la rose. Contributi importanti allo sviluppo della prosa aulica vennero dalla Rettorica, volgarizzazione e rielaborazione di una parte del De inventione di Cicerone, e dalla traduzione di tre orazioni dell'oratore latino.
Bono Giamboni (circa 1240 - circa 1292), fiorentino, giudice di professione, fu un pregevole volgarizzatore dell'Arte della guerra di Vegezio e delle Storie contro i pagani di Paolo Orosio. Opera originale è invece la compilazione allegorico-didascalica Libro de' vizi e delle virtudi (circa 1270), in cui egli riuscì ad armonizzare gli elementi etico-filosofici con quelli allegorico-narrativi e a creare dunque la prima opera dottrinale autonoma.
Origini e concetti guida

La nascita della nuova poetica ebbe luogo a Bologna, sede di un prestigioso Studio universitario, dove si coltivavano le tendenze più radicalmente innovative della filosofia e della medicina. Il nome della scuola poetica derivava da alcuni versi del Purgatorio dantesco (XXIV, 55-57) in cui il poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani esprime il proprio riconoscimento della superiorità della nuova scuola: "O frate, issa vegg'io diss'elli il nodo / che il Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!". È sempre Dante, nella Commedia e nel De vulgari eloquentia, a fornire la genealogia e anche lo sviluppo dello stilnovo, indicando Guinizelli come l'iniziatore della nuova maniera, poi superato da Cavalcanti e dallo stesso Dante.
La tematica dello stilnovo si ricollega a tutta la tradizione poetica duecentesca, a partire dalla grande lirica provenzale; sono indiscutibili i debiti verso la scuola siciliana e verso Guittone d'Arezzo. Decisivo, a favore dello stilnovo, è il rapporto tra profondità speculativa e qualità formale: la sintassi dei testi stilnovisti è complessa e costruita, scandita secondo precisi canoni retorici, ben lontani dall'oscurità dei testi siculo-toscani; il lessico è organizzato secondo precise partiture foniche, in modo da assorbire nel flusso musicale le affermazioni concettuali spesso dense e difficili.
Guido Guinizelli
L'ambiente dotto di Bologna offrì al giudice Guido Guinizelli (circa 1235-1276) della fazione dei Lambertazzi una ricca formazione di tipo filosofico, grazie alla quale il poeta rinnovò gli stereotipi della tradizione lirica e trasformò i modi della poesia. Di questo cambiamento è testimonianza la canzone Al cor gentil rempaira sempre Amore, considerata il manifesto teorico dello stilnovo. Essa si apre con l'enunciazione programmatica dell'identità tra amore e "cor gentile". Poi, mediante una rigorosa concatenazione razionale, in un crescendo di argomenti arricchiti da immagini tratte dal mondo sensibile, che preparano la visione celeste delle ultime due stanze, il poeta si sforza di definire amore, gentilezza e la particolare funzione salvifica della "bella donna". La concezione dell'Amore, nel suo valore assoluto, è rigorosamente aristocratica, ma la gentilezza non appartiene alla nobiltà di sangue, bensì a chi possiede determinate qualità d'animo, che il poeta indica con il termine "coraggio" di origine provenzale. Accanto a queste componenti, fondamentale è l'uso di un linguaggio dolce, definito da Dante come prerogativa essenziale dello stilnovo guinizelliano. Esso mira, attraverso una selezione severa del lessico e un rigoroso controllo stilistico, a rendere nel dettato poetico il sentimento interiore provocato dall'amore. Di Guinizelli sono pervenuti cinque canzoni e quindici sonetti, tramandati da due canzonieri: alcuni di questi testi esprimono anche altra ispirazione stilistica, assumendo toni comico-realistici della contemporanea poesia borghese toscana.
Guido Cavalcanti

Guido Cavalcanti (circa 1259-1300) è l'esponente più significativo dello stilnovo. Con Dante e tutti i poeti stilnovisti, la sua poesia, per originalità lirica e intensità espressiva, influenzò manifestamente Petrarca e tutto il petrarchismo.
La vita
Fiorentino di una potente famiglia di guelfi bianchi, sostenne la fazione dei Cerchi contro quella dei Donati, guelfi neri, e nel 1267 si fidanzò con Bice, figlia di Farinata degli Uberti. Fu coinvolto precocemente nelle lotte politiche della città. Nel 1280 fu tra i garanti di parte guelfa alla pace stipulata tra guelfi e ghibellini, e nel 1284 partecipò ai lavori del Consiglio Generale del Comune, insieme a B. Latini e a D. Compagni. In seguito a una disposizione emanata nel 1293 da Giano della Bella, a Cavalcanti venne vietata la partecipazione alla vita politica. Il provvedimento di ordine pubblico, volto a placare le continue liti tra fazioni rivali, non fu sufficiente. Nuovi violenti disordini cittadini costrinsero nel 1300 i Priori del Comune (fra i quali si trovava Dante, che pure considerava Cavalcanti "primo dei suoi amici") ad allontanare da Firenze i rappresentanti più turbolenti delle fazioni: Cavalcanti venne così esiliato a Sarzana, allora insalubre zona di confino. Nello stesso anno la condanna fu revocata, ma Cavalcanti rientrò a Firenze ormai ammalato e morì subito, probabilmente per febbri malariche.
Il canzoniere
Il suo canzoniere è composto di 52 testi (sonetti, canzoni e ballate) da cui non si possono ricavare indicazioni cronologiche utili per stabilire la data di composizione. Intorno al 1283 il nome di Cavalcanti doveva essere assai noto tra i poeti stilnovisti: nella Vita nuova, infatti, Dante lo considera uno dei più "famosi trovatori in quello tempo". Il tema largamente dominante del suo canzoniere è Amore, inteso come passione irrazionale che allontana l'uomo dalla conoscenza e dalla felicità speculativa, conducendolo a una "morte" che è a un tempo morale e fisica. I trattati di medicina medievale (derivati da testi arabi) ritenevano che la "malattia d'amore" (l'amor heroicus) potesse avere anche esito mortale. Nutrito di letture filosofiche e in contatto con gli ambienti averroisti di Bologna, Cavalcanti procede nei suoi testi a un'indagine sull'origine, la natura e gli effetti che la passione amorosa produce nell'uomo: programmatica in tal senso è la sua canzone dottrinale Donna me prega. Provenienti dagli ambiti della "filosofia naturale" (fisica, astrologia, medicina e "psicologia" nel senso di "scienza dell'anima") e applicate alla passione amorosa, le sue ampie metafore (quali la battaglia d'amore, con ferite, "sbigottimenti", intervento degli spiriti vitali, paure, fughe, distruzione e morte) prendono vita in un linguaggio drammatico e lirico che lascia nel lettore un senso di malinconia e fatalità. L'enfasi drammatica della poesia di Cavalcanti è però stemperata e controbilanciata da un senso di stupore malinconico nei confronti di un realtà interiore che sempre trascende il soggetto e la sua sofferenza. Nei suoi testi ciò si realizza con sapienti tecniche, quali la distanza dell'io poetico dal proprio discorso, l'ironia implicita nei frequenti diminutivi, un lessico concettuale e filosofico arduo, un sistema di immagini e paragoni.
Gli stilnovisti minori

Fra le altre figure minori dello stilnovismo fiorentino emergono Lapo Gianni, amico di Dante e autore di rarefatte e sognanti Rime, e Dino Frescobaldi (1271-1316), la cui produzione ruota attorno al tema della "donna sdegnosa".
Cino da Pistoia
Un rilievo a parte merita invece Cino da Pistoia, nome con cui è noto Guittoncino dei Sighibuldi, (circa 1270-1336 o 1337). Dopo gli studi di diritto a Bologna e a Orléans, insegnò legge nelle università di Siena, Perugia, Napoli e, forse, Firenze. Tra il 1303 e il 1306 fu esiliato come guelfo di parte nera. Tra i suoi scritti latini, d'argomento giuridico, è degna di menzione la Lectura super codicem (1314). In volgare, invece, resta un canzoniere composto da più di 160 poesie. Stimato da Dante e Petrarca, che misero in evidenza la "dolcezza" evocativa e musicale della sua poesia, Cino da Pistoia appartiene solo parzialmente all'esperienza stilnovista: la critica ha infatti riscontrato nei suoi testi (oltre alla presenza di materiali siciliani e siculo-toscani) temi e motivi poetici fortemente personali. Infatti egli rielaborò gli spunti dello stilnovo fiorentino in una poetica ispirata al tema dominante del ricordo, che oppone l'amaro del presente alla dolcezza del passato. Per questo e per la musicalità del verso, Cino viene spesso indicato come il tramite fra lo stilnovo e la successiva esperienza poetica petrarchesca.

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