Profilo della storia e della letteratura latina

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Testo

PROFILO DI STORIA DELLA LETTERATURA LATINA
264-241 PRIMA GUERRA PUNICA
La letteratura latina sorge quasi d’un tratto verso la metà del terzo secolo a.C. (240: esordisce Livio Andronico), dopo che Roma in breve tempo ha conquistato e unificato tutta la penisola italica e, vincendo la 1° guerra punica, si è affermata come potenza mondiale; l’avere una letteratura propria diventa necessario per il prestigio di una grande potenza egemonica.
Le forme letterarie sono desunte dai Greci, cioè dall’unico popolo che nel bacino mediterraneo aveva una cultura valida e universalmente diffusa; ma queste forme, trapiantate in Roma, si permeano dello spirito, del costume e delle antiche tradizioni preletterarie delle popolazioni latine e italiche. Del resto fra la civiltà romana in rapida ascesa e quella greca ormai in declino, vi era necessariamente una sfasatura, per cui l’imitazione non fu pedissequa e si ebbero profonde differenze nello spirito della produzione artistica.
L E T T E R A T U R A
ricco di energie vitali, e le forme letterarie e il costume di vita più raffinato del mondo ellenistico.
Plauto sembra apparentemente estraneo ai grandi avvenimenti di politica interna ed estera del suo tempo, ma in realtà la freschezza dell’invenzione, il gioioso ottimismo, la straripante fantasia alacre e grottesca delle sue commedie, sono il prodotto di una società in rapida espansione, che si affaccia a nuovi orizzonti di vita e di costume.

Dopo Plauto, la letteratura latina perde il contatto diretto con il popolo e gradualmente si pone al servizio dell’aristocrazia e dei suoi ideali, adempiendo ad una funzione politica e sociale ispirata dalle classi dirigenti. La letteratura di ispirazione aristocratica da un lato celebra le imprese dei grandi personaggi politici e le storie di Roma, dall’altro mira alla diffusione di un tipo di cultura raffinata di derivazione ellenistica.
Questa duplice tenenza è rappresentata in modo eminente da Ennio (239-169), che riveste la cultura nazionale aristocratica delle forme più evolute dell’ellenismo (vedi anche l’introduzione dello esametro omerico nell’epica latina: Annales).

Nel corso del secondo secolo questi princìpi sono ulteriormente sviluppati dal circolo degli Scipioni, che adatta gli ideali della filosofia greca alle esigenze dell’imperialismo romano, dandogli una giustificazione illuministica, i nome dei principi di umanità, filantropia pacificazione delle genti.
N.B. Il principale teorico del circolo degli Scipioni fu Panezio di Rodi, secondo il quale l’ideale stoico della repubblica universale, fondato sul principio che tutti gli uomini sono uguali per natura, si realizza nell’impero universale di Roma, che non è puro dominio imperialistico, ma protettorato, da parte del popolo che ha doti politiche superiori, sulle altre genti incapaci di governarsi sag-giamente da sole. (Adattamento della filosofia dell’uomo” universale al civis Romanus, che è anche miles e conquistatore).

Accanto a questo aspetto più strettamente politico dell’ideale di humanitas, nel campo morale, sociale e individuale Panezio dice che fra i doveri inerenti alla natura umana, oltre a quelli comunitari, vi è quello di sviluppare liberamente la propria natura individuale, dedicandosi quindi anche a una vita di puro studio se questa si confà ai gusti.

Sul piano del costume di vita e dell’arte, i nuovi ideali sono rappresentati da Terenzio (195 ca. – 159), che alla vivacità comica e plebea di Plauto sostituisce un’arte delicata e aristocratica, portatrice di precetti di comprensione umana, di gentilezza, di cortesia. Il suo spirito universale di umanità supera largamente per profondità e commozione di sentimenti i modelli greci, ed apre la via a quella poesia dell’intimità e dell’introspezione che sarà una delle caratteristiche più originali della letteratura latina.

Mentre l’arte di Terenzio era ancora legata strettamente ai problemi del costume ed aveva una sua funzione civile, a poco a poco, dagli stessi ideali del circolo degli Scipioni, che pongono l’accento sui valori dell’individuo ed accolgono dall’ellenismo l’amore della cultura in sé stessa (vedi quanto detto di Panezio) – e contro i quali era rimasta senza successo anche l’opposizione di Catone, che alla fine della sua lunga esistenza (234 – 149) fu indotto ad una parziale conversione verso la cultura e il costume ellenizzante in Roma – nasce una trasformazione nella concezione dell’arte.

S T O R I A L E T T E R A T U R A
La trasformazione si svolge parallelamente alla evoluzione della vita e delle consuetudini materiali e morali della classe dirigente romana: le occupazioni politiche e militari non assorbono più totalmente l’individuo, cresce l’amore per gli agi e per i piaceri del corpo e dello spirito, per l’otium; il costume tra-dizionale entra in crisi.
Mentre da un lato matura uno spirito critico spregiudicato, che cerca forme d’arte più schiette e libere dal conformismo (vedi l’individualismo e la satira demistificatrice di Lucilio, il primo cittadino delle classi Alte che trascura dedicarsi alla letteratura), dall’altro la carriera politica per il riconosci-mento del valore autonomo della cultura e dell’arte conduce al distacco delle lettere dalla vita della comunità e dal contatto col popolo; l’autore non soltanto mira ad affermare liberamente nell’arte la propria personalità e i propri sentimenti, com’è il caso di Lucilio, ma finisce coll’isolarsi completa-mente dalla vita sociale, concependo la poesia come divertimento dello spirito ed espressione di dottrina raffinata come sarà il caso di Lutezio Catulo e dei poeti lirici del suo circolo, complessivamente privo di profondi ideali e di energie creatrici originali.
La crisi in cui viene a trovarsi la classe dirigente, dalle cui file provengono nella massima parte i let-terati, si riflette drammaticamente nella letteratura dell’epoca. Ma è crisi che favorisce il sorgere di grandi e originali geni e l’affermarsi di nuove forme letterarie: la lirica soggettiva d’amore (Catullo), il poema scientifico (Lucrezio), il dialogo filosofico (Cicerone), e l’epistolario intimo (Cicerone).
Si potrà dire che questi generi derivano dalla letteratura greca, ma i porti dell’età di Cesare e i pensatori e gli storiografi acquistano un timbro e una
voce nuovi e raggiungono una profondità e dramma-ticità sconosciuta ai Greci.
I poeti dell’età augustea raggiungeranno un mag-gior grado di equilibrio e di perfezione formale, ma i poeti dell’età di Cesare esprimono più imme- diatamente e in forma più vibrata il grido e l’appello della propria anima: la passione, la sofferenza e la ansia di Catullo e di Lucrezio sono vicine all’anima moderna.
Cicerone cerca di contemperare le contrastanti ten-denze dell’epoca col suo ideale dell’humanitas, che
è incontro della cura dello stato e del-l’attività politica con l’attività intellettuale e culturale, per formare l’uomo completo. Tuttavia, nonostante il suo sforzo di con-ciliazione, Cicerone lascia nella sua opera e ci propone nella sua persona e nei suoi errori storici e politici i segni delle con-traddizioni e delle incertezze del suo tem-po.
Solo Cesare sembra immune da incer-tezze nelle sue scelte politiche e nei suoi Commentarii; mentre Sallustio, seguace di Cesare, nonostante la notevole penetra-zione dei fenomeni storici nell’acuta analisi delle cause politiche e sociali della crisi, è dibattuto fra aspirazioni mistico-morali-stiche e passione per la vita politica.
E T A’ D I C E S A R E
La poetica dei “poetae novi” o “neoteroi” (alla greca)
Il gruppo degli intellettuali di avanguardia che, nell’età di Cesare, si appartano dalla vita politica e si dedicano al culto della raffinata poesia alessandrina, è denominato “poetae novi” perché così li definì Cicerone, che nel 45 li chiamerà addirittura con disprezzo cantores Euphorionis (Euforione = poeta greco ellenistico in cui prevale la ricerca di dottrina mitologica e di erudizione preziosa).
Fra tutti o su tutti spicca la figura di Catullo.

POETICA dei Poetae novi:
Gli ideali letterari a cui i poetae novi ( o poeti neoterici) si ispirano sono sostanzialmente quelli di Callimaco e dei poeti alessandrini del terzo secolo a.C. Eccoli:
1. ripudio della poesia epica, e in genere della poesia solenne,gonfia, prolissa
2. gusto della poesia breve e raffinata, di argomento tenue, delicata e ironica quindi, composi-zione di brevia carmina: epigrammi, epilli (epigramma = componimento assai breve, che esige intensità di sentimento e acutezza di concetti, di argomento vario e soprattutto amoroso. All’epigramma viene affidata l’espres-sione di sentimenti personali, ed è quindi la forma più soggettiva che sia giunta a Roma dal-la poesia alessandrina. Ma solo in Catullo diventerà veramente l’espressione dei moti dell’a-nima.) ( epillio = poemetto di soggetto mitico, che del mito sceglie aspetti non eroici, episodi se-condari e poco noti, vicende patetiche o idilliche).
3. tendenza ad esprimere, o direttamente o sotto il velo del racconto mitologico, i propri senti-menti specialmente amorosi. (In questo senso Quintiliano aveva ragione di dire: “Nella ele- gia sfidiamo i Greci.” Infatti già nel poetae novi l’elegia alessandrina, che era la narrazione di una vicenda mitolo- gica di soggetto amoroso e passionale, ma era solo narrativa (anche quando l’elegia era de-dicata alla donna amata dal poeta, l’espressione di sentimenti personali d’amore trovava po-co posto), diventa opera soggettiva e nei poeti elegiaci dell’età augustea sarà riservata alla effusione lirica del sentimento amoroso).
4. sfoggio dell’erudizione e cura scrupolosa della tecnica metrica e dell’eloquio ( il poeta no- vus dev’essere doctus, cioè ricco di dottrina letteraria e mitologica, e capace di elaborare squisitamente la forma dei versi e del linguaggio .
5. mentre la poesia arcaica aveva tenuto d’occhio principalmente i grandi modelli della poesia greca classica, i neoteroi introducono definitivamente in Roma il culto della poesia elleni-stica. E, nella loro ansia di amalgamare la cultura dell’oriente ellenizzato, benché fossero in politica anticesariani e conservatori, demolivano tuttavia le tradizioni morali e letterarie del partito conservatore (da qui l’antipatia di Cicerone per loto).
6. Gusto per quello che di stringato, puntuale, sobrio, offriva Callimaco: quindi ripudio degli effetti vistosi e barocchi. E’ il corrispondente, in poesia, dell’atticismo della prosa d’arte: non per nulla Licinio Cal-vo, poeta novus e amico di Catullo, nella sua attività di oratore fu uno dei principali rappre-sentanti dell’atticismo.
7. Gusto per la parola antica, rara, ben scelta: come una gemma preziosa incastonata nel-l’eloquio moderno.
8. Edonismo: ispirato dalla loro giovinezza, più che per una precisa scelta filosofica di tipo epicureo. Il carattere del coetus (gruppo) dei neoteroi era quello della spontanea spensieratezza e del- la vigoria latina.
N.B. I poeti neoterici esercitavano un influsso duraturo sulla poesia augustea e postaugustea: i poeti del circolo di Mecenate, sebbene biasimassero i neoteroi, impararono da loro la diversa maniera di rivivere i classici della grecità (si pensi a Virgilio, allo stesso Orazio, che pur vantandosi di aver trasferito nella lingua latina i metri dei greci, deve moltissimo a Catullo nel campo della metrica, anche se nella metrica catulliana c’è ancora qualche impaccio strutturale; si pensi agli elegiaci dell’età augustea); e nel periodo imperiale, quando si torna agli ideali di una cultura romana ellenizzata, in superficie si rivendicano Virgilio e Orazio, ma in realtà l’occhio va al gusto, allo stile, all’esperienza dei neoteroi

C I C E R O N E O R A T O R E (106-43 A.c.)

Cicerone fu un grande oratore, anzi il più grande del mondo romano, non solo perché fu un signore della parola e seppe crearsi una maniera di esprimersi tutta sua in un periodo ampio, solenne, musicale ma anche perché seppe dare all’eloquenza sostanza dottrinale e disciplina metodologica (=arte retorica).
Cioè, Cicerone fu grande oratore perché fu grandissimo rètore. Perciò è necessario vedere quale fu la preparazione retorica di Cicerone.
L’eloquenza in Roma
E’ proprio Cicerone nel Brutus a darci un’analisi minuta dell’oratoria del tempo.
Risalendo al 2° secolo a.C. troviamo i nomi di Emilio Paolo (il vincitore di Pidna nel 168 a.C. e padre di Scipione Emiliano), di Scipione Emiliano, di Lelio, (da cui Cicerone sottolinea l’eloquenza posata e garbata), di Servio Sulpicio Galba (appassionato e di grande effetto), di Caio Tizio (autore anche di tragedie, oratore di notevole arguzia, di vivacità narrativa, di limpida perspicuità.
E sempre in quel secolo, verso la fine, nell’età graccana, incontriamo negli oratori una maggior ricchezza di toni, un pathos più vibrante.
Pare che l’eloquenza di Tiberio Gracco fosse pacata, riflessiva, mentre quella di Caio era travol-gente, spontanea e insieme esperta dei più efficaci artifizi della retorica.
Nell’età di Mario si scontrarono, nell’oratoria, tendenze diverse, rappresentate specialmente da Marco Antonio e Lucio Licino Crasso, che Cicerone, cogliendo felicemente il carattere delle idee dei due rivali, scelse a protagonisti della sua più vasta opera retorica, il De Oratore, facendo sostenere al primo la sua tesi della inutilità della cultura e della necessità, invece, dell’inventio, e affidando a Crasso il compito di esporre la sua convinzione circa la necessità, per essere buon oratore, della cultura, oltre ai doni di natura.
L. Licino Crasso coltivava infatti un genere di eloquenza sostenuto da una ricca cultura generale (filosofica,letteraria, giuridica, scientifica) e garbato, fine, ricco di arguzia, accuratissimo nella espressione, perfettamente asiano nella brevità concettosa del periodo.
GLI STILI
Infatti nell’età mariana e negli anni della prima giovinezza di Cicerone, vigeva in Roma un tipo di eloquenza che gli oratori romani del 1° secolo, fautori dell’opposto indirizzo, denominarono asiana.
Ma non si deve credere che l’Asianesimo fosse un indirizzo unitario:
1 - accanto all’asianesimo di Egésia di Mileto (oratore asiatico del 3° sec. a.C.) che consisteva nello spezzettare il periodo, quindi nel gusto per le punte brillanti, per l’ingegnosità e i concetti (e che vedemmo caro a Licino Crasso e vedremo ripreso nell’età imperiale)
2 – vi era anche un altro tipo di asianesimo che, proprio nell’età di Cicerone, con Eschilo di Chido ed Eschine di Mileto si orientò verso la scelta dei vocaboli poetici e l’ampollosità patetica.
Questo secondo tipo fu coltivato da Quinto Orternsio Ortalo (nel 95 a.C. inizia l’attività forense; battuto da Cicerone esordiente, ne diventa poi amico e muore nel 50).
E proprio di Ortalo, Cicerone subì, nella sua formazione all’oratoria, la suggestione e il fascino ed imitò lo stile nelle prime due cause cui prese parte e nelle quali sconfisse Ortalo usando le sue stesse armi, cioè quelle dei periodi sonori, degli ornamenti barocchi, della gonfiezza e dell’enfasi.
Per colpa di Cicerone si suole parlare, già per gli anni della sua giovinezza, della presenza di tre stili nell’oratoria: Asiano, Attivista e Rodiese (che sarebbe una via di mezzo fra il primo e il secondo). Ma in realtà l’Atticismo in Grecia non era esistito: o nasceva verso gli anni 50 a.C. in Roma come rivendicazione di purismo arcaistico.
Uno stile Rodiese non aveva dunque motivo di essere come stile “mediano” negli anni 80, quando non c’era ancora il 2° termine di confronto.
In fondo Cicerone ci presentò questa scuola Rodiese solo perché voleva dare autorevolezza e importanza alla formula da lui conquistata riconducendola ai due rétori Apollonio Màlaco e Apollonio Molone, che tennero scuola a Rodi, insegnando a mitigare l’esuberanza degli ornamenti asiani e a rifuggire dall’énfasi, richiamandosi ai modelli dei grandi oratori attici (=greci) dell’Attica) Eschine e Demostene. Cicerone ascoltò Molone a Roma nel’87 e poi a Rodi nel 78 a.C.
Sulla base delle indicazioni Ciceroniane si suole considerare l’incontro di Cicerone a Rodi con il retore Apollonio Molone come il momento dell’orientamento di Cicerone verso un tipo di oratoria più sobrio quanto ad artifici espressivi e concettuali e più ricco di articolazioni e di raccordi nel congegno sintattico della frase. In realtà Cicerone ha sempre teso all’effetto ed ha sempre modulato l’oratoria secondo le diverse esigenze dell’argomento e dell’uditorio, con fiuto finissimo di parlamentare e di avvocato.
L’Atticismo, coltivato da Licinio Calvo, Bruto, e, sotto certi aspetti da Cesare, quindi nell’età della maturità di Cicerone, propugnò la più assoluta semplicità e stringatezza, il ritorno agli oratori romani del periodo arcaico, ma solo in apparenza, perché di fatto anche gli attivisti furono influenzati dal neo-purismo ormai imposto per sempre alla prova oratoria latina ( = evitare vocaboli e frasi troppo vicini al sermo vulgaris, cioè alla parlata del popolo).
Gli attivisti rimproveravano a Cicerone la sua sovrabbondanza di argomentazioni e di parole (che è l’insopprimibile eredità asiana della sua eloquenza, benché egli avesse creduto di rinnegare
l’asianesimo sostituendo all’ eccesso di confettini e giochi dialettici l’ eccesso di parole e giri di
frase).
Cicerone dal canto suo contrattaccò gli attivisti rimproverando loro la ieiunitas, la povertà dei mezzi espressivi.

Di fatto, la fluidità armonica di Cicerone, con un gusto spiccato per la costruzione simmetrica (concinnitas), contrastava sia con l’andamento stringato e scarno degli attivisti, sia con l’andamento altrettanto stringato e spesso affannoso dell’oratoria egesiana (cioè asiana del 1° tipo, quello caro a Licinio Crasso).
Cicerone era quel che si dice un oratore di razza.
L’unico che, a detta di Quintiliano, fosse capace di contrastare la preminenza di Cicerone, era Cesare, lodato dallo stesso Cicerone e poi, oltre che a Quintilliano, da Tacito (dial. de oratoribus), da Frontone e da Marco Aurelio. Però non ci sono pervenuti documenti diretti dell’oratoria cesariana per poter instaurare dei confronti.
Lo si è ritenuto volgarmente atticista; ma per Cesare l’uso del vocabolo appropriato era una seconda natura ( basta leggere i suoi diari di guerra); e d’altra parte un dominatore di folle non poteva lasciarsi imprigionare da un’oratoria che riponeva tutta la sua cura nella scelta dei vocaboli e nella stringatezza programmatica; ma doveva aggiungere calore e pathos e implacabile rigore argomentativi e dialettico.
N.B. Dopo queste note che ti devono aver orientato con abbondanza di rilievi, vedi la vita di Cicerone, leggi quanto il testo dice delle opere retoriche e studia bene il paragrafo delle orazioni con particolare riguardo alle catilinarie e alle filippiche. Ricorsa che la 1° e la 4° catilinaria furono pronunciate in senato, la 2° e la 3° al popolo, e che le date sono 7 novembre, 8 novembre, 3 dicembre e 5 dicembre del 63 a.C.
E ricorda che proprio le catilinarie segnano l’inizio della piena maturità dell’oratoria ciceroniana. Per le filippiche devi sapere anche perché Cicerone chiamò con questo nome le sue 14 orazioni contro Antonio.
(per la disputa fra asiani e attivisti, ricorda il fatto curioso che sia Egèsia di Mileto, esponente dell’asianesimo, quanto gli attivisti romani del 1° secolo si proposero come ideale di eloquenza le orazioni scritte da Lisia, il quale fu scrittore di orazioni (greco, originario di Siracusa). Nato verso il 445 e vissuto soprattutto ad Atene, Lisia adottò una prosa nuda e disadorna, ma per questo precisa ed efficace, ed usò la lingua attica spoglia sia di qualsiasi influenza lessicale esterna, sia delle forme proprie del linguaggio comune ateniese).
S T O R I A L E T T E R A T U R A

Le dissonanze e i dissidi che contrassegnano le grandi
personalità dell’età di Cesare si vanno attenuando con l’avvento della pace augustea che si riflette in una maggiore armonia degli spiriti, in un più sereno equili- brio interiore.
Tuttavia il passaggio avviene gradualmente, ed i maggiori poeti dell’età augustea, Virgilio e o Orazio, risentono ancora delle drammatiche esperienze sofferte nella giovinezza, e da queste ricavano la profondità della loro meditazione sulla condizione umana.
Augusto intendeva valersi della cultura e dei letterati
in appoggio al suo programma di restaurazione dei valori morali e religiosi della tradizione romana e italica; e i letterati, almeno in una prima fase, diedero un’ adesione non servile a questo programma, in quanto esso si accordava con la loro sincera aspirazione alla pace (vedi Virgilio, Orazio. Non possiamo dire altrettanto di Properzio, che, pur essendo del circolo di Mecenate, è rimasto legato ai temi erotici della sua elegia – apertamente ispirata a modelli ellenistici, nonostante la tendenza esplicita al classicismo degli altri poeti del circolo – e solo dopo molte riluttanze si piegò ad accontentare Mecenate cantando, un po’ a modo suo, argomenti civili e dedicando qua e là qualche nota svagata e svogliata alla celebrazione delle gesta di Augusto.)
C I R C O L I D I O P P O S I Z I O N E
1) – Il circolo di Asinio Pollione.Pollione, che da giovanissimo deve aver partecipato al cenacolo dei poetae novi e lì deve aver conosciuto Virgilio più giovane di lui di solo sei anni, attivista, uomo politico, deluso alla fine nelle sue ambizioni politiche, inaugurò una specie di circolo lettera- rio dove diede inizio alle recitationes pubbliche di opere poetiche, e si sfogò un po’ contro tutti sia politici che letterati con la malignità dell’uomo deluso.
2) – Il circolo di Marco Valerio Messala Corvino, tipico rappresentante di quell’aristocrazia re-pubblicana riconciliatasi poi con Augusto, ma nel cui fondo sussisteva una segreta avversione al nuovo ordine di cose. Da qui il disimpegno politico degli artisti del suo cenacolo, fra cui Tibullo e, nei suoi primi esercizi poetici, Ovidio. Poesia erotica, frivola, lasciva, edonismo sottilmente corrosivo. Però Tibullo ha un messaggio più ricco e sincero.
E T A’ A U G U S T E A
Tito Livio, l’unico grande prosatore di questa età, è anche l’unico letterato che ponga realmente al centro della sua arte gli ideali della romanità.
I poeti invece non pongono i temi politici al centro della loro poesia, anche se non li ignorano: essi dell’ideologia augustea accolgono e propagandano quasi esclusivamente il concetto della missione universale di Roma, cui spetta di assicurare giustizia, pace, ordine sociale a tutte le genti.
Perciò da questo particolare momento storico i poeti traggono l’inclinazione a inserire le loro espe-rienze personali in un quadro più vasto di meditazione sull’universale sorte dagli uomini.
Caratteri dell’arte nell’età augustea:
classicità = equilibrio formale, senso della misura, dignità di stile derivanti dalla riconquistata ar-
monia spirituale.
Il grande celebratore banditore del classicismo sarà Orazio
Classicismo = ritorno ai modelli classici, scavalcando – almeno apparentemente – l’esperienza neoterica, che si era ispirata ai poeti alessandrini del periodo ellenistico.
Ma questa è più una professione a parole che una realizzazione di fatto, in quanto su Virgilio agì profondamente e durevolmente la giovanile esperienza neoterica, e lo stesso Orazio insieme alle suggestioni poetiche di Lucrezio ha sentito anche quelle di Catullo se non altro nel campo – molto importante in Orazio – della metrica:
infatti, pur essendo poeta riflessivo ed equilibrato, Orazio ha prediletto i metri di Alceo e Saf-
fo, usati dai due poeti di Lesbo per esprimere ”l’immediatezza dei loro sentimenti e delle loro passioni “.
Perchè questo? Proprio perché tra i poeti di Lesbo e Orazio c’era stata l’esperienza alessan-drina; e Orazio, pur avendo spregiato i neoteroi, ha raffinatamente sfruttato la sapienza dei poeti alessandrini nel riprodurre con accorta elegante pacatezza i modi della grande poesia melica dell’età classica greca: ma poiché ai poeti alessandrini si erano ispirati i neoteroi, è vero quanto abbiamo anticipato a pag. 5/6: i modi nuovi di rivivere i classici della grecità, i poeti augustei li hanno imparati attraverso la mediazione dei poetae novi!

Questa tendenza al classicismo è tanto meno evidente nei poeti dei “circoli” dissidenti. Si veda ad esempio Tibullo che, sviluppando la tendenza già implicita nei neòteroi e le premesse di Cornelio Gallo, rese soggettiva l’elegia alessandrina;
Properzio. addirittura, pur essendo del circolo di Mecenate, rivendicò a sé il merito di aver recato in primo piano l’elegia erotica nelle derivazioni da Callimaco e da Filita (alessandrini!) dai quali mutua anche il gusto delle favole mitologiche d’amore.
(N.B. Invece la mitologia manca totalmente in Tibullo)
universalità
nei poeti maggiori: Virgilio e Orazio
interiorizzazione dell’elegia alessandrina
nella poesia soggettiva d’amore di Tibullo e Properzio.
E T A’ A U G U S T E A
Virgilio
Vedi il testo della letteratura latina.
Ricorda: nei primi anni a Roma Virgilio entra in contatto con il circolo neoterico e in amicizia con Asinio Pollione e Cornelio Gallo.
L’incontro con i poetae novi e con la filosofia Epicurea, insieme con l’amarezza per le lotte civili e la vicenda della confisca dei beni sono alla base delle sue Egloghe (Bucoliche):
Nelle Bucoliche cogliamo:
- l’influsso di Teocrito (poeta ellenistico)
- l’influsso dell’epicureismo: nella fuga dalla realtà travagliata delle guerre civili per rifugiarsi nel sogno dell’Arcadia pastorale.
- il sentimento del dolore presente nell’uomo e nel mondo e quindi una nota elegiaca, che attenua e sfuma di malinconia la serenità del mondo pastorale
Le Georgiche segnano la graduale conversione agli ideali di rinnovamento morale presenti nel programma augusteo:
- viene riconosciuto, sia pure fra molte oscillazioni, il valore morale della sofferenza e della fatica
- in esse l’amore virgiliano per la terra e per la vita degli umili si innesta, in coincidenza col programma d’ Augusto, sulla celebrazione dell’antica Italia agreste.
- influssi della poesia lucreziana
- genere letterario: poema didascalico
ma, per il dono di poesia che è proprio di Virgilio, tutta la materia è trasfigurata dalla poesia, dal sentimento personale del poeta cioè dalla sua visione della natura: della vita agreste, legata a certi valori morali: il lavoro è liberazione dal bisogno e redenzione morale. Il tutto sostenuto da un’arte perfetta, imparata a contatto con i neoteroi
- visione del mondo: dalla trattazione dell’argomento il poeta si leva alla visione generale universale dei problemi.
- Secondo la tradizione, nella prima stesura il IV libro chiudeva con le lodi di Cornelio Gallo, che poi sarebbero state sostituite dall’epistilio di Aristeo (il doppio epillio squisitamente alessandrino che parla della discesa del pastore Aristeo negli abissi marini per interrogare la madre Cirene sul modo di riavere le api distrutte, e della discesa di Orfeo nell’Ade per ricondurre sulla terra Euridice) per ordine di Augusto quando C. Gallo cadde in disgrazia dell’imperatore e si tolse la vita (26 a.C.) Nell’Eneide, al di là e prima dell’intento di lodare Augusto, c’è la volontà di cantare non solo Roma, ma tutta l’Italia,(Pallante, Lauso, Camilla, Turno, sono eroi italici, come italico di Mantova era Virgilio) e le tradizioni agresti dell’antico Lazio (vedi l’incontro con Evandro nel libro VIII).
Nell’Eneide le guerre e le sofferenze appaiono dettate da un disegno provvidenziale, che mira ad assicurare pace e civiltà alle genti mediante la fondazione di Roma (e qui s’incontrano l’ideale di Panezio – vedi pag. 2 – e il programma politico Augusteo).
Tuttavia il sentimento poetico dominante di Virgilio rimane sempre la pietà per il dolore umano; e il volere della Provvidenza rimane avvolto dall’ombra del mistero e del dubbio, con una visione tragica ed elegiaca che non riesce a giungere all’ottimismo.
O R A Z I O
Anche Orazio attraverso un’evoluzione per certi aspetti analoga a quella di Virgilio (nel passaggio dai travagli dell’età di Cesare e del 2° triunvirato alle speranze dell’età di Augusto), ma la profonda differenza di temperamento lo portò a soluzioni diverse.
Dopo aver partecipato nella giovinezza alle guerre civili ed aver provato delusioni ed amarezze, che trovano espressione nelle poesie giovanili, gradualmente si ritrasse in se stesso mirando al perfezionamento morale e al raggiungimento dell’equilibrio inte-riore, secondo i dettami della filosofia epicurea.
A differenza di Virgilio, egli rinuncia ad affrontare il problema di Dio e della sorte dell’uomo, e nella sua poesia lirica uno dei temi dominanti è proprio l’invito a questa rinuncia. Ciononostante il tema della rinuncia e dell’invito a chiudersi in se stessi è pur sempre collegato ai grandi temi della morte, del tempo, del destino, dai quali la poesia di Orazio, in apparenza superficiale, riceve solennità e profondità di vibrazioni. (1)
Il freno dell’ironia e della perfetta misura formale è l’arma di cui Orazio si vale per difendersi dall’emozione sentimentale troppo forte e dall’urgere dei problemi dell’e-sistenza.
Egli riesce sempre a mantenere il dominio di sé, vincendo i segni dell’inquietudine, che affiorano specialmente nelle Epistole. La celebrazione del principato augusteo, per quanto sincera la si, voglia considerare, rimane un aspetto marginale della poesia oraziana, che ha il suo centro nella meditazione lirica e nella riflessione intima delle Odi e delle Epistole (specie Libro 1°)
N.B. Vedi testo di Letteratura e leggi le introduzioni alle Odi, alla satira e all’epistola che abbiamo tradotto.

(1)come vedi, anche in Orazio troviamo il carattere dell’universalità, anche se in
chiave diversa che in Virgilio.
Ricorda:
- Gli Epodi e alcune satire del libro I (come la II,VII,VIII) riflettono il mondo inquieto della poesia giovanile di Orazio: imitazione dei giambi di Archiloco e Ipponatte, poeti greci celebri per la violenza di gran parte della loro produzione poetica (appunto in giambi)
Corrispondono al periodo della ribellione titanica, quasi romantica di Orazio;
vi cogliamo: fede epicurea più battagliera (orizzonti poetici meno vasti, però di quelli dell’epicureo Lucrezio!); eccessiva prevalenza dei motivi pratici, del moralismo declamatorio; ricchezza di fermenti, colori cupi, concitazione…tutte cose, specie queste ultime, che il sorvegliatissimo Orazio della maturità lascerà cadere.
Ma già qui, specie nelle satire, si preannuncia l’Orazio classicista e si coglie un sempre più accentuato e graduale passaggio ad un carattere di universalità.
(N.B. il classicismo negli epodi si coglie specialmente nel risalire direttamente ad Archiloco e Ippomatte, senza passare attraverso la meditazione dei poetae novi e, quindi, degli alessandrini).
- Nelle satire composte dopo il 38 (anno in cui Virgilio e Varo lo presentano a Mece-nate) si fa gradualmente presente la riacquistata fiducia in sé e nelle sorti dell’Urbe (da allora Orazio non ricadde più in crisi di sconforto): incomincia il periodo dell’equilibrio e della sorridente saggezza del poeta.
- Le Odi segnano il momento lirico del poeta. In esse si nota una oscillazione continua fra lo slancio e l’abbandono del vero poeta e l’inesorabile severità dal critico d’arte che gli raggelava l’estro.
Gli abbandoni più schietti se li concedeva nei levia carmina (scherzose poesie d’a-more), dove il gioco d’amore si smaterializza quasi sempre fino a così aerea levità di tono che tutte le donne e tutti i nomi di donna finiscono per diventare puri pretesti per un leggiadro arabesco poetico.
Nelle odi che proclamano il suo ideale del limite, dell’accontentarsi, troviamo toni di sobria franchezza che ben si accorda con la sostanza cantata, la moderazione, e ci dà forse le odi più perfette, proprio perché non c’è contrasto fra l’estro poetico e il raffinatore senso critico.
Perfetti anche quei carmi dove, al di là della grazia ellenistica del particolare, sembra tralucere un riflesso della poesia agreste di Virgilio per il quale la campagna è modello e fonte di vita morale, di superiore idealità.
La lirica civile è un’indiscutibile e duratura creazione oraziana; tuttavia spesso in essa si sostituisce alla vera poesia la grande eloquenza dell’oratoria commossa e trascinante.
- Epistole. Già nel I libro (dedicato a Mecenate) si coglie un senso di raccoglimento, di rinuncia e addio ai sogni e alla poesia: rispunta insieme alla riflessione intima, la voglia di fare il moralista.
Nel 2° libro si accentra la tendenza alla regolarità e alla pedagogia (fino a cadere nella retorica pedagogica)
ETA’ AUGUSTEA

T I T O L I VI O (vedi il testo di letteratura latina)
Ricorda:
- Livio fa degli ideali della romanità il centro della sua arte: per lui la storia di Roma è come una storia sacra che sottolinea momento per momento il patto che vinvolava la divinità al popolo eletto: nel libro 1° fa dire da Romolo riapparso dall’Olimpo sulla terra: “va’, annunzia ai Romani che così vogliono gli dei: che la mia Roma sia caput orbis terrarum”
- Sotto l’aspetto politico è il più tradizionalista fra tutti gli scrittori dell’età augustea (Augusto lo chiamava scherzosamente pompeianus per il suo acceso repubblicane-simo).
- L’unico punto di contatto con la sua età e col rigido moralismo di Augusto e con la sua tendenza a restaurare i riti tradizionali: non per nulla Livio nomina Augusto
sempre in legame con costumanze religiose.
- Come storiografo è indietro di una ventina d’anni: infatti i suoi gusti letterari sono più vicini a quelli dell’età di Cesare: è vicino al colorismo sallustiano, anche se un po’ più moderato; da Sallustio mutua lo spirito della monografia (infatti divide la storia in blocchi: le decadi; e, avvicinandosi a parlare di fatti meno antichi, approfondisce la psicologia dei singoli personaggi, come Sallustio aveva schizzato il ritratto fisico e morale dei suoi; pone anche lui i discorsi in bocca a insigni personaggi)
Nello stile dipende evidentemente da Cicerone, in contrasto con l’atticismo di moda al suo tempo, anzi disobbedisce ai canoni dello stesso Cicerone per non rinunciare al colorismo poetico, adatto al suo innato senso del drammatico e del patetico.
- L’arte. L’eterna grandezza di Livio sta nell’aver infuso agli eventi storici il palpito di un’arte potente: quadri mossi, drammatici, rappresentati con scorsi potenti o raccon-tati con uno stile frondoso, quasi di fiume in piena (lactea ubertas chiamerà Quintiliano questa frondosità dello stile).
- Limiti. Fu accusato di provincialismo linguistico (la patavinitas di cui lo riprende Asinio Pollione)
La sua è più epopea che storia, cioè dal punto di vista storico è poco attendibile, perché Livio non ha vagliato criticamente le fonti: infatti, se dove vi era discrepanza evidente tra le fonti egli l’annotava senza prendere una sua decisione, il più delle volte fondeva le varie fonti benché poco coerenti fra loro. E’ inesatto quindi il detto dantesco: “Livio che non erra”
N.B. D’altra parte per gli antichi la storiografia era soprattutto opera d’arte (vedi l’analogo concetto della storiografia nel nostro umanesimo)
Fra il Virgilio dell’Eneide e Livio v’è qualcosa di simile, specie nella ricerca di salda-
re il passato di Roma col presente, ma in Livio vi è minor ricchezza di valori umani (l ‘attenzione è prevalentemente volta alle virtù civili)
- Data la mole dell’opera, non mancano momenti di stanchezza opaca
E T A’ A U G U S T E A
Il fervore intellettuale ed artisticocce aveva caratterizzato la prima fase dell’età di Augusto, si va gradatamente spegnendo quando, secondo la logica storica, il principato liberale si rivela in sostanza come un assolutismo mascherato. L’assenza di una vera libertà politica e il controllo che il principe esercita sulle lettere portano alla decadenza dei grandi ideali e la letteratura tende a diventare accademia e divertimento da salotto (ricorda le recitationes inaugurate da Asinio Pollione)
OVIDIO è colui che annuncia sul piano letterario la decadenza spirituale e morale.
La sua arte brillante e colorita manca di un fondo di solidi ideali e rispecchia la società frivola che si forma alla corte di Augusto e nelle alte classi della capitale: l’arte diventa virtuosismo/stilistico e sfoggio di bravura retorica.
Ma in Ovidio esistono anche aspetti originali e positivi, che troveranno sviluppo nella letteratura del periodo imperiale:
- l’analisi sottile del sentimento erotico e della passione
- la rappresentazione del favoloso e del meraviglioso
- la raffinatezza della musicalità del verso (o musica verbale)
(vedi il testo della letteratura latina)
Proprio nell’età di Augusto ebbe la sua lunga incubazione il torbido arianesimo della letteratura fiorita sotto la dinastia Giulio-Claudia.
Infatti l’atticismo era diventato programmatico nei letterati fedeli all’ideale augusteo, e quindi i nostalgici del regime repubblicano, per opposizione, non seguirono l’atticismo (benché fosse stato lo stile dei repubblicani d’età cesariana: Calvo, Bruto, ecc..) anzi la loro tendenza fu quella di ritornare all’asianesimo. Si andò formando a poco a poco una letteratura viva nei suoi aneliti – anche se un po’ retorica nello stile – che mirava a scuotere dalle fondamenta l’edificio della romanità trionfante costruito dalla prima generazione augustea.
D’altra parte l’atticismo augusteo non rifuggiva da effetti patetici.
Ne venne, negli oppositori, un ritorno all’asianesimo, ma ad un arianesimo particolare, a metà fra quello brillante, preziosistico, spezzettato nelle frasi di Egèsia e quello ricco di più gonfia pateticità di Eschilo Conidio.
Tale indirizzo finì per istillare il gusto degli effetti vistosi, dello sfoggio di artifici oratori, delle coloriture snodate; ma ebbe anche il merito di aver raccolto un cospicuo materiale di analisi psicologica (infatti si prediligevano, per le esercitazioni nelle scuole di retorica, i casi patetici e paradossali) che influì sui passi migliori di Seneca, Petronio, Giovenale, Tacito, nel quale ultimo cogliamoi più profondi succhi dell’asianesimo d’età augustea e post-augustea.
E T A’ I M P E R I A L E
S T O R I A L E T T E R A T U R A
Dopo la morte di Augusto, il conformismo e il vuoto degli ideali deprimo la vita letteraria.
Sotto Tiberio e Caligola soltanto la erudizione e la scienza offrono rifugio agli spiriti colti e trovano possibilità di sviluppo.
In quest’epoca dominata dall’adulazione emerge la voce indipendente dell’umile Fedro, che sotto la ve-ste della favola animalesca leva la sua protesta contro l’ingiustizia che regna nel mondo, contro la sopraffazione dei potenti a danno dei deboli.
Nell’ultima parte dell’impero di Claudio e sotto Nerone si ha un risveglio della letteratura, che solo in minima parte si spiega con la relativa maggior libertà lasciata dagli imperatori ai letterati. Per lo più i letterati di questa poca sono legati ai circoli aristocratici di opposizione al regime dispotico, quindi predomina un atteggiamento di reazione alla nuova realtà dell’impero, e l’arte dell’epoca nero-niana nasce da uno stato di rottura fra il letterato e la società. Da queste condizioni, diverse da quelle dei letterati della prima età augustea, sorge un’arte quasi opposta a quella che si suole definire classica: è un’arte tormentata e convulsa, incline alle tinte cupe e ai violenti contrasti di luce e ombra, barocca nelle immagini e nello stile.
Comunque essa è nettamente ORIGINALE e tenta vie nuove sia esplorando nuovi contenuti, sia inno-vando il linguaggio e lo stile.

La figura principale di quest’epoca è SENECA
E T A’ I M P E R I A L E

Dinastia Giulio – Claudia (14-68 d.C.)
FEDRO - nato in Turchia; liberto di Augusto. Scrisse i primi libri sotto Tiberio. Uscito indenne o quasi dal processo intentatagli da Seiano per il sospetto che nelle sue favole ci fossero malevoli allusioni ai potenti del tempo, continuò a scrivere fino sotto Claudio (uno degli ultimi componimenti è indirizzato a Fileto, liberto di Claudio).
E’ il primo autore della poesia latina che abbia fatto della favola la sua unica forma d’arte.
Nei poemi Fedro manifesta un singolare prurito della rinomanza letteraria, nella semplicistica illusione di giungere alla gloria coltivando un genere di poesia quasi irrimediabilmente condannato ad un inevitabile schematismo e ad una inevitabile monotonia e monocromia, per cui sotto l’attraente scorrevolezza e la sapida brevità dei componimenti, la sua arte non giunge a farci vivere effettivamente un personaggio e neanche un tipo
Opera: in 5 libri (ce ne dà la sicurezza Aviano, un favolista in versi vissuto forse nel IV secolo d.C.)
Stile: di gusto alessandrino:
- sorvegliata brevità delle favole
- ogni vocabolo soppesato e collegato al giusto posto
- raffinatezza della tecnica metrica
- densità epigrammatica della morale
Seneca ignorò volutamente Fedro.
Marziale è l’unico degli autori illustri che lo abbia ricordato.
L’opera di Fedro ci è giunta probabilmente incompleta. Forse le favole a noi giunte son quelle che entrarono presto nelle scuole e dalle scuole furono raccolte e conservate.
Il Medioevo non conobbe direttamente le favole di Fedro, ma esse furono certamente alla base di quella raccolta di favole in prosa che va sotto il nome di Romulus o Aesopus latinus.
Nel sec. XV Niccolò Perotto raccolse non si sa da quale fonte 30 o 31 favole di Fedro fin allora sconosciute che vanno sotto il nome di Appendix Perottina. Non sappiamo quante in essa siano di Fedro, quante di Aviano, quante dello stesso Perotto.
PERSIO – (34-62 d.C.) Aulo Persio Flavio appartiene alla generazione che trascorse e bruciò la sua giovinezza nella età Neroniana. Nato a Volterra nel 34 d.C.; a 6 anni perdette il padre; a 12 andò ad abitare a Roma. Visse sempre all’ombra della madre, della sorella, degli austeri maestri (grammatici, retori, filosofi stoici) eppure, inesperto come era della vita, volle atteggiarsi a maestro di vita. Ne nacquero 6 satire (era lento a scrivere) che tradiscono la formazione tutta e solo libresca: in esse Persio ammassa tutti i luoghi comuni diatribici più vieti, in un linguaggio fra i più oscuri e faticosi della latinità. Persio trovò nell’acre satira luciliana, meno umanamente comprensiva di quella di Orazio, il modello più congeniale, tuttavia è indubbio che egli ricalcò non solo Lucilio ma anche Orazio. Ricchissimo, si diede a voler imitare il tono della predica cinica!
Stile: Lo stile di Persio costituisce un isolato esempio di ricercato arianesimo mascherato da atticismo. Ebbe il torto di avviare nella satira di tipo graziano la tradizione dello stile oscuro, da cui neppure G. Giovenale, poi, seppe liberarsi.
(segue)
E T A’ I M P E R I A L E
DINASTIA GIULIO – CLAUDIA (14-68 d.C.)
SENECA
Nella sua visione politica egli rimane sempre coerente, perciò già nel 39 d.C. per un suo discorso pronunciato alla presenza di Caligola, incorse nell’ira dell’imperatore che gli risparmiò la pena ca-
pitale solo perché una sua favorita gli fece osservare che Seneca sarebbe morto tra breve per consumazione.
Dal 41 al 49 fu in esilio in Corsica per essere stato coinvolto in un processo intentato da Messalina contro Livella (sorella di Caligola) della cui bellezza era gelosa.
Nel 49 fu richiamato a Roma da Agrippina perché educasse Domizio (Nerone), il futuro imperatore.
Seneca, il cui ideale politico era quello di un principato rispettoso delle pubbliche libertà, pretese creare in Nerone il modello dell’imperatore filosofo e determinò alcuni atti significativi della politica neroniana (un provvedimento per lenire la condizione degli schiavi, un progetto di riforma fiscale – bocciato dal Senato che si sentiva leso nei suoi interessi privati.)
Quando Nerone, dopo 5 anni di governo, inizia apertamente una politica da rigido autocrate, Seneca cade in una crisi di disgusto e di sconforto e nel 62, morto Burro, si decide al ritiro.
Seneca dunque fu dibattuto fra l’ideale filosofico della vita ritirata ed ascetica e l’anelito a giovare agli altri uomini partecipando alla vita attiva.
Suoi maestri: stoici, cinici e neopitagorici, ma specialmente Papirio Fabiano, retore e filosofo stoico: da lui e dal padre Seneca ricevette l’amore alla retorica e divenne così, ancor più di Cice-rone, l’oratore della filosofia, di una filosofia stoica con preponderanti interessi morali.
Dante giustamente lo chiamò “Seneca morale”.
Oratoria In Seneca l’oratoria è più sottile, quasi più insidiosa di quella di Cicerone: fine sprezza- tura, moderna vivacità e varietà di raccordi, sapienza di scorci ed effetti improvvisi, sfaccettamente d’un’idea in modo da renderla sempre nuova, da far penetrare nel vivo di un pensiero, il suo pensiero, che è sofferenza, coscienza tormentosa di tutte le infinite contraddizioni della vita e dell’anima umana.
Da qui la cronica asistematicità ed empiricità del suo pensiero!
Seneca non ci dà un “sistema” filosofico, non ha preoccupazioni gnoseologiche: il problema morale assilla Seneca. ma un problema che è immanentistico e perciò Seneca non può essere avvicinato a S. Paolo! Immanentismo, cioè Dio è nel sacrario dell’umana personalità, nella ragione intensa non come indagatrice dei massimi problemi dell’universo (anche se ha scritto il De providenzia e le Naturales quaestiones), ma come illuminatrice dei recessi umani secondo il principio dell’esame di coscienza.
Ricorda: i caratteri della filosofia Senecana su esposti donde scatturisce la constatazione che egli porta avanti il processo dell’interiorizzazione;
i caratteri della sua prosa, del suo stile nervoso e vibrante; aggiungi l’esasperazione delle passio-ni e il gusto delle scene atroci e macabre nelle tragedie, segno evidente dell’epoca di rottura e di crisi in cui furono scritte e annuncio di una moda letteraria che sarà seguita da molti scrittori e poeti dell’età imperiale.
E vedi bene tutto il testo.
E T A’ I M P E R I A L E
DINASTIA GIULIO – CLAUDIA (Neroniana)
PETRONIO
L’aura di modernità che lo stile e il decadentismo di Seneca (e di Lucano) ci hanno fatto intravedere nella Roma neroniana, raggiunge nell’opera di Petronio la sua più ampia e cristallina espansione:
- nello stile
- nel genere letterario
- nell’atteggiamento spregiudicato di rottura nei confronti della tradizione letteraria e dell’ambiente socio-politico-culturale dell’epoca.
Stile. Nonostante le sue esplicite simpatie per Virgilio e Orazio, e nonostante critichi i gusti stilistici della sua epoca (vedi la parodia dello stile lucaneo della Pharsalia nel “pezzo” in versi che introduce sotto il titolo De Bello Civili), si professi cioè contrario alle tendenze dell’asianesimo contemporaneo, lo stesso Petronio è, forse inconsciamente, asiano per il tono saltellante, vivido, irto di punte e di frizzi; anzi egli rappresenta dell’asianesimo, come di tutta l’arte d’età neroniana, il culmine e la purificazione. Ma egli piega questo arianesimo al suo genio:
la spinta verso il nuovo, che ora insita nel gusto asiano, viene da lui adattate alle esigenze della sua creazione, con l’introduzione, nella cena di Trimalcione e nei passi più audacemente veristici, di solecismi (1) della plebe e di barbarismi: quando occorre, Petronio si mette a parlare il linguaggio delle cortigiane d’infimo rango, dei tavernieri, dei liberti ignoranti.
Genere letterario. Si può dire che il Satyricon, misto di prosa e di versi, sia una Menippea che presenta però la novità di essere gigantesca e divisa in libri.
(Le Satire Menippee sono l’opera più schiettamente letteraria di un grande erudito dell’età di Cesare: Varrone Reatino, quello che nel De comoediis Plautinis determinò quali commedie di Plauto dovessero ritenersi sicuramente autentiche. Il titolo Satire Menippee ci riporta da un lato a Lucilio (Satira) e dall’altro a Menippo di Gàdara, il filosofo cinico greco che aveva iniziato una forma originale di satira del costume che mirava, con linguaggio popolaresco e vivacità di spirito e d’invenzione grottesca, a riformare la società umana mettendone in ridi-colo vizi ed errori. L’aspetto più evidente, formalmente, dell’opera di Menippo era la me-scolanza di prosa e versi.
Varrone lo seguì in questa mescolanza, cioè nella forma; ma nei contenuti, più che a riformare il presente, Varrone mirò a celebrare nostalgicamente il buon tempo antico, contrapposto alla corruzione presente. Tuttavia ci sono anche in Varrone trovate grottesche, battute spiritose, immagini comiche di sapore italico, mescolanza di linguaggio popolaresco e di linguaggio solenne usato a scopo parodistico… ma dai frammenti superstiti pare che manchino origi-nalità e unità stilistica. Anche Seneca ci diede una menippea nel Ludus de morte Claudi o Apokolokyntosis.)
Forse fu il Ludus di Seneca a suggerire a Petronio di dare forma di Menippea al Satyricon –che è in verità un romanzo -, per dare ad un genere ancora disprezzato come quello del ro- manzo maggior dignità letteraria e avere la possibilità di inserire nel racconto tutte le di-gressioni suggeritegli dalla fantasia, non esclusi i “pezzi” poetici che gli servivano per la paro-dia letteraria.
Quindi possiamo definire l’opera di Petronio “romanzo”, anzi, romanzo erotico” ma “parodistico” (e qui ritroviamo l’aggancio alla satira menippea).
Abbiamo detto parodia del romanzo erotico perché l’opera è fondamentalmente modellata sul romanzo erotico in voga, ma con una grossa novità: la coppia è una coppia maschile, nelle cui vi-cissitudini entrano scene sentimentali, tradimenti, riconciliazioni, effusioni patetiche o disperate, tentativi di suicidio. Non mancano nel Satyricon gli altri ingredienti del romanzo erotico: naufragi, processi, colpi di scena…
Ma accanto alla parodia del romanzo erotico ellenistico, troviamo anche la satira letteraria, abbiamo visto, e la satira del costume. Ma non possiamo attribuire all’opera intenti moralistici!
L’unico giudizio che Petronio formula sulla materia trattata, è un giudizio di gusto: egli cioè mette in caricatura il cattivo gusto imperante in arte e nella vita (vedi la cena di Trimalcione).
Dunque non condanna morale, ma condanna estetica!
Al di sopra della materia opprimente (ambienti chiusi, racconti di magia, sfarzo eccessivo che diventa pesante, elementi funebri e macabri inseriti nel grottesco… tutte cose che concorrono alla
impressione di soffocamento), al di sopra della società di cui fa specchio il romanzo, si leva Petro-
(1) solecismi = sgrammaticature
nio non solo col suo spirito brillantissimo e vivacissimo, ma anche l’ironia distaccata e con la sua superiore capacità artistica:
il vasto repertorio della materia, che avrebbe potuto restare amorfo e sbiadito, diventa, sotto la penna di Petronio una narrazione coerente e piena di vita:
c’è una grande coerenza di tono, una stretta aderenza a una visione realistica del mondo evocato, e una immediata e felice potenza di caratterizzazione: tutti i personaggi e tipi vivono ciascuno di vita propria, colmi di sangue e di linfa, schizzati con due o tre tocchi che ce li rendono subito indimenticabili (vedi la moglie di Trimalchione)
POSSIAMO DIRE CHE IL SATYRICON E’ ANCHE LA PRIMA GENUINA E GRANDE OPERA VERISTICA DELLA LETTERATURA MONDIALE.
Atteggiamento di rottura. Troviamo, nell’opera di Petronio, spregiudicatezza riguardo ai canoni della letteratura aulica; audacia nell’aderire a un mondo precluso quasi interamente all’interesse dei letterati;
modernità, felicità e immediatezza di creazione in un campo in cui non vi erano precedenti se non episodici o occasionali.
Petronio fu, nella letteratura della sua età, irregolare di genio che diede di quell’età la sintesi più felice con sopraffino disinteresse artistico.
Se non fosse sopravvenuta la stroncatura classicistica dell’età flaviana, forse questa prorompente modernità avrebbe avuto seguito in altri autori.
VEDI TESTO E ANTOLOGIA
E T A’ I M P E R I A L E

S T O R I A L E T T E R A T U R A
Alla fioritura dell’età neroniana succede nell’età dei Flavi un nuovo irrigidimento in forme accademi-che: gli imperatori esercitano un pesante controllo sulla cultura, e favoriscono il classicismo (modelli dell’età augustea), che è sempre ben visto dai go-verni autoritari.
Il teorico dell’imitazione classicheggiante è Quintiliano (35-96), sostenitore d’un’educazione retorica e formalistica e nemico dello stile moderno di Sene-ca.
Ovviamente l’erudizione e la cultura scientifica trovano un clima favorevole, come ci viene testimo-niato dall’enciclopedia scientifica di Plinio il Vec-chio, importante più per l’abbondanza di materiali raccolti che per la capacità di approfondimento e di sintesi.
Nell’età dei Flavi quasi tutti i poeti si riducono alla fredda imitazione del poema epico di tipo virgiliano: Silio (25-101); Stazio (40- 96?), il poeta incontrato da Dante in Purgatorio, che oltre alla prolissa Tebaide e alla non finita Achilleide, coltivò però anche il genere lirico nelle Silvae.
Al di fuori della cultura accademica si pone delibe- ratamente il poeta satirico Marziale (40-104):
MARZIALE ripudia le forme retoriche e solenni e scrive epigrammi scherzosi che riflettono schiettamente la debolezza morale della società romana del tempo. Alla vivacità comica e allo spirito pungente di Marziale manca una robustezza di coscienza che gli permetta di levarsi al di sopra della materia, spesso bassa e lubrica, e l’apparente realismo viene costretto in schemi carica- turali che molto concedono alle esigenze commerciali.
Da questi schemi Marziale si libera quando esprime la sua sincera aspirazione alla campagna e all’evasione.
Della prima età flavia dev’essere la Praetexta OCTAVIA , pervenutaci fra le tragedie di Seneca.
QUINTILIANO (35-96 d.C.)
vedi il testo e l’antologia
Ricorda:
- il De causis corruptae eloquentiae, (che non ci è giunto), dove egli esprimeva la sua avversione allo stile di Seneca.
- i discepoli raccolsero 2 libri artis rhetoricae e li pubblicarono senza l’autorizzazione del maestro e alcuni stenografi raccolsero e pubblicarono a fini di guadagno alcune orazioni, ma egli non ne fu contento, perché amava il labor limae che in quei testi così raccolti non poteva esserci.
- L’Inst.Orat. fu scritta nel periodo del collocamento a riposo
- Fu il primo maestro di retorica stipendiato dall’imperatore. In questo gesto di Vespasiano bisogna vedere la volontà politica, in quanto appoggiando le idee lette-rarie di Quintiliano, che proclamava il culto di quell’età d’Augusto a cui ora guar-davano le forze politiche tradizionaliste, vittoriose nella nuova alleanza tra imperatore e Senato costituitasi all’avvento di Vespasiano, Vespasiano veniva ad appoggiare la sua politica tradizionalista (non di-menticare che l’età dei Flavi può dirsi, con Vespasiano e Tito, la fase di maggior splendore dell’impero nel periodo del definitivo rassodamento del medesimo: questa età fu una restaurazione politica e spirituale dell’età augustea).
Da allora Quintiliano fu l’arbitro di ogni giudizio e d’ogni indirizzo letterario della capi- tale.
- Fu anche avvocato.
- L’Institutio Oratoria è l’esposizione della formazione del perfetto oratore dalla puerizia fino alla sua affermazione, ma è anche, nel suo sviluppo, una celebrazione di Cicerone come mae- stro di eloquenza e di stile.
Eppure l’Institutio, così come la possediamo, è di stile asiano:
(Se il “dialogus de oratoribus”, attribuito a Tacito, è di un suo scolaro, certamente lo scolaro ha superato il maestro in una più fedele imitazione dei modi ciceroniani!)
Troviamo, nella prosa di Quintiliano, i modi spigliati, sbrigativi ed ellittici (cioè dove certi passaggi sono sottintesi), che sono propri dell’asianesimo. Forse l’opera fu compiuta di getto e mancò poi all’autore il tempo di “rivestirla”, di tornirla secondo il periodare ciceronico: Certo però che allora il suo sarebbe stato un ben povero ciceronianesimo, ridotto ad un involucro esterno!
- Contenuti dell’Inst. Orat.:
- l’arte del dire è ancora considerata, tradizionalmente, il centro degli interessi spirituali della romanità (=pensiero di Cic.)
- il faro di luce è la latinità ciceroniana e la spiritualità tradizionalista, quindi
- l’oratore deve più che mai essere non solo dicendi peritus, ma anche e specialmente vir bonus e la purezza dei suoi costumi deve essere uno dei cardini della sua formazione.
- Quintiliano ebbe persistente fortuna dall’umanesimo in poi, perché la sua concezione classicistica sta alla radice dell’umanesimo formalistico tanto caro al tipo più rigido ed
antiquato di educazione classica
- Ancora viva e interessante la parte pedagogica.
E T A’ I M P E R I A L E - IMPERATORI ADOTTIVI
S T O R I A L E T T E R A T U R A

L’avvento al trono di Nerva e di Traiano, i quali consentono maggior libertà ai letterati e svolgono una politica di restaurazione morale, favorisce il rifiorire della letteratura.
Ma, mentre Plinio il Giovane nel suo tranquillo e sere-no ottimismo, mostra di essersi adattato al-l’assolutismo imperiale, così come in generale sembra sia gradualmente caduta la vecchia op-posizione repubblicana col graduale estinguersi delle vecchie famiglie patrizie e col sostituirsi di una classe senatoriale composta in gran parte di uomini nuovi e di provinciali, questo ottimismo manca nelle opere di Giovenale e di Tacito, che pure sembrano accontentarsi del nuovo principato moderato e liberale

PLINIO IL GIOVANE (61-113)
Autore di un Epistolario e del Panegirico a Traiano, è il testimone della felicitass temporum. L’epistolario ci conserva anche un carteggio fra lui, allora governatore in Bitinia, e Traiano, che risponde sicuro e conciso alle lettere lunghe, tortuose e piene di dubbio di Plinio.
Egli ci dà l’immagine, contenta del principato, delle classi alte e medie; ce le presenta dedite ad opere di bene ed amanti dei trattenimenti culturali. Ma rivela altresì a sua insaputa, sotto la veste esteriore di una civiltà amante del benessere e ispirata da sentimenti filantropici; si cela una povertà di vita spirituale che preannuncia la crisi politica ed economica dell’impero nei secoli successivi.
GIOVENALE (55 ca. –130 ca. d.C.)
D’origine plebea, scontento delle sperequazioni sociali, odia i nuovi ricchi venuti dal basso e dalle genti non italiche (egli era italico d’Aquino). Scrisse 16 satire divise in 5 libri. Più violente e personali le prime (“indignatio facit versus”), le ultime svolgono temi moralistici più generici, con tono più pacato dove il sarcasmo ha ceduto il passo all’ironia. Forse ciò si deve all’invecchiamento del poeta più che a una sua conversione dal pessimismo.
L’impronta fortemente pessimistica si deve al fatto che Giovenale non crede che le condizioni politiche e sociali siano radicalmente cambiate: l’autorità effettiva era più che mai concentrata nelle mani dell’imperatore e della sua burocrazia e non si poteva parlare di un ritorno alle libertà poli-tiche, né di un rinnovamento radicale dei costumi, come se potessero essere bonificati ipso facto dal cambio degli imperatori.
Arte agghiacciante, cupa, fosca, con notturni, brividi d’orrore, ecc.
E T A’ I M P E R I A L E IMPERATORI ADOTTIVI – NERVA E TRAIANO
TACITO ( vedi testo, anche per la discussa paternità del Dialogus de oratoribus)
Dial. de Orat. Lo stile è profondamente diverso da quello delle altre opere tacitiane, però vi si possono scorgere alcune particolarità sintattiche che preludono allo stile del Tacito maggiore. Marco Apeo difende ed esalta l’eloquenza moderna, le idee di Vistano Messala riecheggiano quelle di Quintilliano, di cui Tacito sarebbe stato scolaro, e sostengono il decadimento dell’eloquenza. Cu-riazio Materno addita le cause del corrompersi dell’eloquenza nelle cambiate condizioni politiche (probabilmente è questa l’opinione di Tacito).
La virile requisitoria contro l’immorale educaz. dei giovani nel tempo in cui appare svolgersi il dia-logo (primi anni del regno di Vespasiano, quindi riferimenti alla società formatasi sotto Nerone) ha tutto il tono dello spirito di Tacito.
Agricola. Il tono oratorio ci dà un’idea di quel che doveva essere l’oratoria tacitiana: agitata dalla medesima veemenza di quella di tutti i retori asianeggianti, ma un po’ più carezzata e rotonda, con quella particolare cura del vocabolo che in qualche modo preannuncia il risorgente atticismo.
Emerge l’elemento narrativo e si affaccia uno dei due motivi fondamentali dell’arte Tacitiana: le grandi scene di massa.
Germania. Attira l’attenzione dei Romani sul pericolo rappresentato dalle popolazioni germaniche, così valide, frugali e guerriere. Forse c’è anche l’intento di contrapporre alla degenerazione morale dei Romani la strenua semplicità dei Germani e la loro vigoria fisica e morale.
Historiae. Visione meno pessimistica che negli Annales: segno che Tacito non mette ancora in discussione, a questo tempo, la legittimità del potere imperiale. Anzi aveva concepito l’opera proprio come historia, come ricerca del modo con cui l’impero, attraverso le tempeste dell’anno dell’anarchia (68-69 d.C.), attraverso la mite restaurazione Flaviana (Vespasiano e Tito) e attra-verso la reazione autocratica del regno di Domiziano, fosse pervenuto alla definitiva tranquillità e dignità del regime di Nerva e Traiano.
Nelle Historiae non c’è nessuna profonda ispirazione filosofica: gli basta attenersi ad una scrupolosa forma annalistica della narrazione e porre il meglio di sé nel rielaborare artisticamente il materiale già elaborato dalle fonti a cui attinge.
Prevale il primo dei due motivi dell’arte tacitiana: le descrizioni piene di pathos e le grandi dram-matiche scene di massa (ereditate dall’ellenismo e da Sallustio): descrizioni e scene di massa rese con colorismo suggestivo, e dove per la prima volta il paesaggio diventa stato d’animo.
Ma è già presente anche il secondo motivo: lo studio della psiche dei personaggi. Però le individualità nelle Historiae non riescono mai a stagliarsi per lungo tratto sullo sfondo, ma balzano fuori e poi sono subito riassorbite nel vortice della concitata narrazione: tutto si risolve in chiave di coralità.
Il linguaggio tacitiano è già formato, ma ogni tanto l’espressione si adagia ancora in pause più mollemente scandite.
Il grande Tacito sarà negli Annales.
Annales. Sono la massima espressione del genio tacitiano.
- lo stile assume la sua precisa individualità e forme,
- prevale con strapotente suggestione l’analisi di grandi individualità, tutte segnate
dal stigma del male:
Egli ne fruga tutte le pieghe più tenebrose attraverso il racconto stesso dei loro atti, la notazione mi-nuta dei loro pensieri, delle loro reazioni sentimentali, a piccoli colpi di sonda.
Le scene di massa si ritirano sullo sfondo e sono riservate alla politica estera (il trionfo dell’Impero sui nemici esterni) e si restringono in scorci fulminei spesso conclusi da una lapidaria conclusione morale dell’autore. Ma nei fatti interni grandeggia la penetrazione nella psiche dei personaggi.
Questa analisi psicologica, già presente nella storiografia ellenistica e passata di là nell’opera di Sallustio, viene raccolta come eredità da Tacito che la porta al culmine della sua espressione con l’acutezza e il severo moralismo che gli sono propri.
Per questo lo stile si consolida e rimane costante nell’applicazione delle caratteristiche che lo co-stituiscono: gravità austera e solenne, assoluta mancanza di concinnitas, brevità, scorci, omissioni, asindeti, concentrazione.
Il mezzo stilistico gli consente di dare rilievo alle sozzure in cui sprofonda la vita interna della capi-tale e di segnale, insieme, col marchio del suo giudizio morale severo; inoltre gli consente di presentare la psiche dei suoi personaggi in rapide vibranti registrazioni.
Tono dell’opera: decisamente pessimistico. Ne viene fuori una storia della dinastia Giulio-Claudia palesemente truccata (anche perché attinse a fonti spesso ribellistiche e ferocemente anti imperiali).
Il pessimismo deve essergli derivato dalla graduale consapevolezza che Traiano, pur simulando deferenza per i poteri tradizionali, aveva compiuto l’opera di Caligola, Nerone, Domiziano; cioè la definitiva instaurazione del principato autoritario.
Può anche darsi che la vecchiaia abbia contribuito a renderlo pessimista o che egli si sia lasciato trascinare dal suo gusto del tragico e del tenebroso.
Tacito si mostra assillato dal problema della decadenza morale e politica di Roma e della sua classe dirigente; il mostruoso dispotismo degli imperatori, il servilismo e l’inettitudine dell’aristocrazia senatoria, sono i due aspetti essenziali della decadenza, rinchiudendosi in un amaro e scettico fatalismo.
D’altra parte, Tacito non poteva dare spiegazioni e suggerire rimedi, perché gli mancò un chiaro ideale etico-poilitico fondato su rigorose premesse filosofiche. E neppure ebbe una visione religiosa coerente delle vicende umane.
Inoltre ebbe fortissimo il sentimento di casta (la sua casta senatoria) e lo manifestò col profondo disprezzo per la gente salita dal basso.
Tacito non vede con simpatia l’impero che ha livellato le classi sociali e condotto al cosmo-politismo, facendo sì che gli italici non si distinguano più dai provinciali. Non vede per il futuro un sistema politico migliore di quello esistente, ma vede l’impero come portatore del peggior male: quello di aver posto fine alla libertà politica, conducendo così all’infiacchimento delle coscienze e al servilismo: senza libertà politica è difficile conservare dignità morale e altezza d’animo.
La conciliazione raggiunta fra imperatori e aristo-crazia senatoria, e le condizioni generali di pace interna ed esterna, sotto Adriano e gli Antonini; assicurano all’impero un grande benessere este-riore, ma la stasi sociale di questo periodo si ri-percuote negativamente sulla cultura, dominata dal formalismo, dalla pedanteria, e dall’erudi-zione.
Le lettere apparentemente tornano a fiorire.
L’ellenizzante Adriano favorisce l’incontro di Ro-ma con la cultura ellenistico-orientale, per cui a Roma nasce e si diffonde la Seconda Sofistica, che tende a mitigare l’esuberanza del neo-asiane-simo del 1° secolo dell’impero, con un ritorno a una forma di atticismo moderato, inteso però co-me ritorno alle cadenze espressive e al lessico de-
gli scrittori arcaici. E’ l’arcaismo di Frontone, maestro alle nuove generazioni romane e allo stesso Marco Aurelio. Si diffonde anche la fami- liarizzazione con la lingua greca: gli arcaismi parlano indifferentemente latino e greco.
E’ quest’ultimo effetto del cosmopolitismo, che fa perdere a Roma e all’Italia il primato egemonico.
Alcuni nomi:
SVETONIO, erudito, arcaizzante, bibliotecario e segretario di Adriano, coltivò il genere biogra-fico. Raccolse molte notizie su poeti, oratori, storici, filosofi, retori, ma di quest’opera che era intitolata De Viris illustribus ci è giunta solo la sezione De grammaticis et rheroribus; e dalla sezione De poetis, solo le vite di Terenzio, Orazio, Virgilio, Lucano. Ci è giunta intera l’opera in 8 libri De vita Caesarum da Cesare a Domiziano. (E’ pettegolo: gli piace raccogliere e raccontare gli episodi piccanti)
AULO GELLIO, autore di una miscellanea enciclopedica, le Notes Atticae.
APULEIO, africano. E’ interessante sia perché la sua Metamorfosi (o Asino d’oro) sono l’unico romanzo latino che possediamo integralmente, sia per lo stile e per il contenuto dell’opera.
Stile: è un prestigioso impasto di correnti e di gusti: attinge all’arcaismo frontoniano, al preziosismo asiano, allo spregiudicato modernismo della retorica africana e fonde tutte queste tendenze in una festevolezza spigliata e tesa, in un’opulenza barocca che alla fine stanca, perché all’abilità stilistica non si accompagna pari vigoria nel creare realisticamente (come invece aveva saputo fare Petronio) le situazioni e i personaggi.
Contenuto: fiaba, dramma, magia, misticismo: Lucio trasformato in asino per magia ridiventa uo-mo per opera di Iside, di cui diventerà devoto fedele. L’atmosfera è torbida; Apuleio tende al magico e all’irrazionale (Favola di Amore e Psiche). Profondamente originale e nuova, quindi l’ispirazione di Apuleio.
E T A’ I M P E R I A L E III SECOLO
S T O R I A L E T T E R A T U R A
Nel terzo secolo la crisi politica e sociale dello impero, l’anarchia militare e l’emergere ai posti di comando di elementi delle province meno civi-lizzate, causano una completa decadenza della let-teratura latina pagana.
La grande poesia aveva già taciuto nel secolo precedente (l’ultima voce personale era stata di Giovenale morto intorno al 130-140).
L’imperatore Adriano aveva avviato un tipo di versificazione scherzosa e svagata di gusto arcaizzante. Verso la fine del secondo secolo era fiorita la scuola dei poetae novelli, che adattarono argomenti solenni in versi popolareschi costruiti però secondo le regole di una metrica raffinata: bambolegggiamenti di una poesia minore di tipo arcadico.
(vedi testo p.381)
Da collocare forse agli inizi del iii secole è il Pervigilium Veneris, che è da ascrivere anch’esso al gusto della poesia arcaizzante e popolaresca dei poetae novelli. (N.B. Per il Perv.Veneris vedi testo a pag. 382)
Nel 3° secolo, accanto ai motivi arcadici dei poetae novelli troviamo temi civili esprimenti la speranza di un ritorno all’età dell’oro per Roma e per il suo impero, e parallelamente si ha un ritor- no al classicismo (=imitazione virgiliana).
Nella prosa troviamo solo eruditi di scarso ri- lievo.
* * * *
Mentre la letteratura latina pagana decade, sorge, apportatrice di nuovi contenuti, la LETTERATU- RA LATINA CRISTIANA, i cui primi scrittori, gli apologisti, pur accogliendo la tecnica letteraria e la retorica della civiltà pagana, rifiutano la con- cezione pagana della vita. (v.pag. 432-33 e 400).
(Per il significato do apologia, vedi un dizionario italiano e quanto ci dice a pag. 446 del testo di Lett. lat. a proposito dell’Apologetium e Scritti apologetici di Tertulliano)

LA LETTERATURA CRISTIANA DEL III SECOLO
E’ incerto se venga prima Minucio Felice o Tertulliano.
Sta di fatto che l’opera dei due presenta indiscutibili interdipendenze, per cui l’uno ha imitato certi passi dell’altro.
Tuttavia tra i due c’è diverso atteggiamento:

MINUCIO FELICE: Il suo decalogo, Octavius, imita la forma del dialogo filosofico Ciceroniano e, prima che apologia, è presentazione della fede cristiana da parte di un cristiano Ottavio al pagano Cecilio. C’è quindi tutta una parte positiva, senza diatriba. Poi naturalmente viene anche la critica dei vari culti superstiziosi e della religione di stato romana, in nome della quale i conqui- statori fecero violenze e saccheggi.
Segue l’apologia vera e propria, cioè vengono respinte le varie accuse di immoralità rivolte ai cristiani. Si conclude con l’esaltazione delle virtù dei cristiani: purezza e semplicità di vita, precetto della carità, interiorità del sentimento religioso, significato del simbolo della croce, fede dei martiri nel premio eterno….
E il dialogo chiude con la conversione di Cecilio!
TERTULLIANO non ha nessun atteggiamento conciliante verso la cultura classica.
Africano: ebbe dalla sua terra il “fuoco” dell’intelligenza, della volontà, del carattere, dello spirito.
Fu un “lottatore” che non conobbe soste né ostacoli, sostenuto sempre da una forza interiore incrollabile e sicura, da un’audacia d’azione che rasenta la temerità, da una tenacia di propositi che lo fanno apparire orgoglioso e sprezzante.
Lati discutibili della personalità di Tertullian :
- inflessibilità dura del carattere
- ansia tesa ad una vagheggiata “perfezione” di vita
- insoddisfazione di ogni meta raggiunta
- Quindi, asprezza, inquietudine, durezza con sé e con gli altri
- mancanza di freno nel misurare il valore reale dei fatti umani e nell’adeguare i principi etici alle
esigenze pratiche della vita cristiana.
Meriti della sua personalità:
- coerenza
- ingegno possente, dialettica formidabile, aggressività, mordacità.
- Fu acerrimo difensore del diritto divino e naturale contro la forza e la violenza dei persecutori.
- fu indomabile combattente della fede, della verità, della libertà religiosa contro ogni calunnia e
sopraffazione.
Stile Veniva dalla cultura classica e, se la rinnegò e la combatté. (infatti, a differenza di Minucio Felice, rifiutò polemicamente tutto il mondo classico per finalità inconfessabili), non riuscì però mai a liberarsene del tutto. Col passare degli anni, arricchendo la sua eloquenza anche di echi biblici e caricandola di tensione mistica, egli, che era stilista capace di forte originalità, arrivò a conquistare una netta indipendenza da tutto ciò che era schema, regola fissa.
Egli fu veramente il creatore della lingua teologica latina.
Opere più di 30, raccoglibili in 4 gruppi: apologetiche; - di lotta contro l’eresia (quindi rivolte non a pagani ma a cristiani eretici e perciò si chiamano controversie); - do contenuto morale e ascetico; - di disciplina sacramentale.
Vedi testo
E T A’ I M P E R I A L E III E IV SECOLO
S T O R I A L E T T E R A T U R A DEL IV SECOLO
268-270 Claudio II. Rafforza il potere cen- trale e pone fine all’anarchia.
E’ il primo degli imperatori ILLIRICI, così definiti perché provenienti dalla Illiria (vanno dal 268 al 284, anno in cui diventa imperatore il più grande, anch’esso il lirico: Diocleziano)
270-275 Aureliano
275-284 Sei imperatori il lirici
284-305 Diocleziano. Inaugura una nuova formula di successione: la tetrarchia. Riafferma il principio di autorità: non è più il primo cittadino, ma il signore assoluto del mondo romano. Inaugura una monarchia di tipo orientale.
Perfeziona la burocrazia per accentra-re meglio l’amministrazione. Opera ri- forme sociali ed economiche.
E’ l’ultimo imperatore che tenta di sterminare i cristiani con una persecu- zione sistematica.
306-312 Prima fase della guerra civile scop- piata quando Diocleziano si ritira a vita privata (infatti la successione te- drastica non funziona).
312 Dopo la Battaglia di Ponte Milvio, in cui Costantino batte Massenzio, i com-petitori si riducono a due: Costantino in Occid. e Licinio in Oriente.
313 Editto di Milano: è data libertà di culto ai Cristiani
324 Costantino sopraffa Licinio e diventa unico imperatore
324-337 Costantino unico imperatore s’in-teressa di politica religiosa, porta la capitale a Costantinopoli, riforma l’or-dinamento amministrativo delle pro-vince.
E T A’ I M P E R I AL E - II° metà IV secolo –inizio V secolo
S T O R I A L E T T E R A T U R A
337-363 Dinastia costantiniana: Costantino II, Costanzo e Costante, e poi Giuliano l’Apostata (361-363) ammiratore entu- siasta del mondo ellenico e del pensiero pagano
363/4 Gioviano
364-393 Dinasta valentiniana:
Valentino I in Occ. (364-375 Valente in Oriente (364-378)
I barbari rompono definitivamente gli argini: cominciano le grandi invasioni.
Graziano in Occ. (375-383) Teodosio in Oriente (379-393)
Nel 388 Teodosio sconfigge Magno Mas- simo che aveva travolto con una rivo-luzione militare Valentiniano II e ricon- ferma sul trono di Occid. quest’ultimo, che era succeduto a Graziano nel 383.
393 Valentiniano II viene ucciso da ribelli.
393-395 Teodosio unico imperatore
N.B. Nel 380 con l’editto di Tessalonica aveva proclamato il cristianesimo unica religione ufficialmente riconosciuta dallo Stato e messo al bando il paganesimo (fa le persecuzioni a rovescio).
395-455 Dinastia Teodosiana:
Onorio in Occid. (395-423)
Inetto, si sbarazza del generale Silicone, che aveva fermato Visigoti e Unni. Così Roma nel 410 verrà saccheggiata dai Visigoti di Alarico che poi scendono a sud ( tra i prigionieri anche Galla Placi-dia, sorella di Onorio, che sposerà Ataul-fo , fratello di Alarico)
Morto Alarico a Cosenza e sepolto nel-l’alveo del Busento, i Visigoti si disper-dono. Galla Placidia sposa Flavio Co-stanzo e genera il futuro Valentiniano III.
Arcadio in Oriente (395-408) indi Teo-dosio II e Marciano e tutta la serie degli imperatori orientali (fino al 1453 quando i Turchi arriveranno a Bisanzio e anche lo impero romano d’oriente cadrà.

E T A’ I M P E R I A L E V secolo d.C.
S T O R I A L E T T E R A T U R A
423 sgg Reggenza di Galla Placidia per il pic- colo Valentiniano III
424-455 Valentiniano III
430 Ormai tutte le province dell’Occ. sono staccate dall’impero e costituiscono i premi regni barbarici. All’impero rimane poco più che l’Italia .
451 Invasione degli Unni guidati da Attila. Lo ferma Ezio, ultimo dei grandi generali romani, in Gallia; ma poi Attila penetra lo stesso in Italia: lo allontana la forza morale di Papa Leone I.
455 Ezio è ucciso da Valentiniano III e Valen-tiniano III è ucciso da due soldati di Ezio per vendetta.
455 Il senatore Petronio Massimo sposa con la forza Eudossia vedova di Valentiniano III e si fa imperatore. Si dice che la stessa im-peratrice Eudossia, per vendicarsi della violenza usatale, chiamasse Genserico.
455 Genserico con i suoi Vandali si reca via mare dall’Africa Occ. ai lidi del Tevere e sottopone Roma a un terribile saccheggio. Fra i prigionieri, Eudossia e le due figlie.
N.B. Onorio aveva portato la capitale da Roma a Ravenna. Con Petronio Massimo la capitale era tornata a Roma.
455-475 Otto imperatori si susseguono dopo Pe- tronio Massimo, ma di fatto comanda Rici-mero un barbaro Svevo elevato al coman- do supremo dell’esercito, col titolo di “patrizio”
475-Oreste succede a Ricimero come “patrizio”: si ribella all’imperatore Giulio Nipote, lo costringe ad abdicare e pone sul trono il proprio figlio Romolo che fu denominato Augustolo.
476 Odoacre pone fine all’impero d’Occidente. Col crollo dell’impero tramonta anche la
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E T A’ I M P E R I A L E - FINE IV SECOLO – PRIMA META’ V SECOLO
SCRITTORI CRISTIANI
S. AGOSTINO
Mentre in Ambrogio e in Girolamo il problema di adeguare allo spirito cristiano la cultura e lo stile letterario non riceve una vera soluzione, perché l’uno e l’altro accettano sostanzialmente le forme retoriche della tradizione classica, Agostino invece, che interpreta il Verbo di Cristo nella forma più radicalmente rivoluzionaria, adegua l’arte e lo stile alla originalità del pensiero, e rinnega i principi stessi dell’educazione retorica classica (Tertulliano non vi era riuscito del tutto neppure lui):
- nega che la cultura retorica possa essere ricercata come un valore autonomo (quindi condanna il formalismo classicista e umanistico)
- in ogni caso la cultura retorica può essere solo un mezzo per consentire un fine soprannaturale
- anzi la retorica non è indispensabile per la formazione letteraria o artistica del cristiano: al cristiano basta la lettura della Bibbia e dei migliori autori cristiani I testi sacri cristiani sono al tempo stesso sorgente di verità e modello di stile letterario. Egli vede la Bibbia adorna di bellezze artistiche e attinge largamente allo stile biblico per la creazione di un nuovo stile cristiano.
VEDI IL TESTO
Ricorda: i Soliloquia, dove si annuncia, e il De vera religione, dove viene approfondito il tema del colloquio interiore alla ricerca di Dio, che sarà il motivo più costante della meditazione agostiniana.
Fra le molte opere antimanichee, il Contra Faustum Manichaeum, in 33 libri, in cui sostiene che il male non è un principio sostanziale contrapposto a Dio, ma una deficienza di essere, una defezione della volontà.
Fra gli scritti antipelagiani, il De natura et gratia.
Ricorda il De magistero dove studia, il rapporto alla scienza, il vero valore del linguaggio.
Soprattutto, ricorda le Confessioni e il De Civitate Dei (vedi testo) .
Stile delle confessioni, l’opera che il santo ricorda con maggiore calore e orgoglio nelle Re-tractationes (“recensioni” critiche della sua molteplice e multiforme opera, di cui rettifica e critica le posizioni che non gli sembrano più accettabili).
Anzitutto è opera originale, (le Confessioni), senza precedenti nella letteratura classica questa storia spirituale di un’anima, che, se in certa misura rientra nel solco della spiritualità latina (Ca-tullo, Lucrezio, Orazio, Virgilio, Seneca), rimane tuttavia inconcepibile senza lo spirito del cri-stianesimo che ha fornito all’approfondimento psicologico forme prima impensate.
Originalità dello stile: rompe con la tradizione classicheggiante, diventa del tutto intimo; anche le numerose immagini sono di natura spirituale e mistica, ricche di emozioni interiori, rarefatte,
prive di corposità.
Prevalentemente le immagini son volte a esprimere l’infinità dello spazio, lo scorrere del tempo, l’immensità dell’eterno, l’altezza imperscrutabile dell’essenza divina; o a conferire una vita meta-forica all’anima.
All’euritmia e alla musicalità del periodare classico sottentra una sintassi faticosa che segue l’or-dine e la successione dei sentimenti, raggiungendo un’efficacia espressiva e un’incisività straor-dinarie.
Prevale la disposizione paratattica (poche subordinate, molte coordinazioni), con un incalzare di frasi brevi e di interrogazioni affannose, con un giro serrato di parallelismi, di antitesi, di giochi di parole spesso paradossali.
Si potrebbe pensare allo stile asiano, ma non è; Perché Agostino non si abbandona mai al gioco intellettualistico e letterario. Le antitesi e i giochi di parole esprimono la sorpresa di scoprire celata nell’interno dell’anima una realtà opposta all’apparenza, di scoprire insomma il mistero paradossale dell’anima umana.
Se un influsso stilistico c’è, è quello della Bibbia.
La lettura non dà monotonia, perché il sottile gioco del ragionamento si alterna col lirismo della preghiera e con la sublimità della visione mistica, e talvolta il racconto dei fatti in forma semplice e popolare, si avvicina alla drammatica essenzialità dei testi evangelici.
Le Confessioni sono un’opera non mai priva di senso d’arte e di dignità stilistica.
Il De Civitate Dei, dopo i primi dieci libri di carattere apologetico (non è vero che il cristianesimo è causa della rovina dell’impero) allarga il suo disegno e diventa una storia universale dell’umanità da un punto di vista religioso e provvidenziale.
il genere umano appare ad Agostino diviso in due classi di individui:
- quelli viventi secondo il mondo “Città terrestre”, e
- quelli viventi secondo Dio, “Città celeste”.
Le due “Città” compiono il loro processo storico, l’una accanto all’altra, dalla loro remota origine, che risale alla caduta degli Angeli, sino alla fine del mondo, implicante la discriminazione defi-nitiva con il Giudizio Universale.
Con quest’opera Agostino si afferma come il fondatore della scuola “storica” della Provvidenza. Il De Civitate Dei è anche un’enciclopedia cristiana del sapere.
E’ filosofia o teologia della storia? Meglio vedere nel De Civitate Dei una filosofia e una teologia, cioè l’interpretazione più profonda possibile della storia umana nella sua gènesi, nella sua vitalità, nelle sue finalità divine.
A quest’opera s’ispireranno le speculazioni storiche del Medioevo; quest’opera ispirerà il sublime “Discorso sulla storia universale” del Bossuet (teologo e oratore francese del primo 1600).
Stile del De Civitate Lo stile si adegua all’opera. Essa è simile ad una cattedrale gotica adorna di una folla disordinata di pinnacoli e di guglie e tutta tesa verso il cielo. Lo stile non è più spezzettato in brevi frasi paratattiche, ma organizzato in ampi periodi. Ma non si avvicina lo stesso allo stile ci-ceroniano, perché non ricerca l’armonia della sintassi e del suono: le frasi si accumulano apparen-temente disordinate e accozzate a caso. In realtà si tratta anche qui di un’arte cosciente e padrona dei mezzi, che segue l’ordine e lo slancio del pensiero rifiutando gli strumenti retorici tradizionali.
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